“I disciplinari del vino? Sono dei limiti. E chi segue i disciplinari finisce per diventare vittima degli stessi. Il vino è libertà”. Un sillogismo anarco insurrezionalista meditato, enunciato e sottoscritto a lettere cubitali quello con cui Fausto De Andreis t’accoglie a Rocche del Gatto. La sua piccola, grande Christiania. Siamo a Salea, frazione del Comune di Albenga, provincia di Savona. Riviera Ligure di Ponente, of course. L’appuntamento è nei pressi dello svincolo autostradale, più a valle. Cinture allacciate e giù il pedale dell’acceleratore, in fretta. Stare dietro a De Andreis è già un’impresa, tra le curve in salita e in discesa che conducono al suo quartier generale. Roba che potevi – anzi dovevi – aspettarti da uno che produce Pigato anarchico e lo chiama Spigau. Con la “s” di “sfida” davanti, giocando coll’accezione dialettale ligure “pigau”. Se non segui le regole del vino e produci vino, perché badare al codice della strada quando sei al volante di un’auto? Il punto è proprio questo. Il vignaiolo Fausto De Andreis guida come fa il vino. Senza freni. Senza badare a cartelli stradali o limiti di velocità. Così capisci che Rocche del Gatto è la Livigno savonese: la zona franca del vino libero. Kryptonite per i “burocrati” dei Consorzi. E allo stesso tempo baccanale per gli amanti delle macerazioni spinte. Un viaggio del corpo e dell’anima sul fiume Acheronte. Presi per mano e trascinati nella voluttuosa, anarchica corrente dal figlio dell’Erebo e della Notte: Fausto De Andreis.
LA CROCIATA SPIGAU “Si sono inventati l’alcol test per fare cassa, quando fior di professori hanno dimostrato che l’etilometro è una truffa”. Una stretta di mano veloce, quasi timida. Poi cominci a pensare che sia incazzato col mondo, l’anarchico del vino ligure, quando inizia a sentenziare contro il “sistema Italia”. Ma il tono è sommesso. Quasi un mormorio. Le parole scandite senza foga. Quella di Fausto De Andreis non è rabbia. Ma il principio di un’enunciazione filosofica, forse un po’ prolissa, che porterà, con impressionante coerenza, al dunque: il suo vino. “Hanno trasformato in un inferno il mestiere più bello del mondo”, commenta il viticoltore. “Quest’anno sono ormai alla mia 63a vendemmia – aggiunge – dato che a novembre compirò 70 anni. Ma non avrei immagino che le cose potessero finire così”. Tecnico elettronico, De Andreis negli anni ’80 lavora all’Olivetti di Ivrea, ramo ingegneria di produzione. Nel 1982 la svolta. “Mi sono chiesto: perché aspettare la pensione per fare esclusivamente quello che voglio fare nella vita? Così ho dato vita a Le Rocche del Gatto, nome scelto in onore di mia moglie Caterina, sempre circondata da una marea di gatti che sfama come figli, forse per farmi perdonare il fatto che ci siamo sposati troppo presto, all’età di 51 anni…”. Oggi l’azienda agricola di Salea d’Albenga produce 75 mila bottiglie l’anno. Il bruco diventa farfalla nel 1995. Anno in cui De Andreis vede respinta la classificazione Doc per il suo Pigato. Che diventa così Spigau, arricchendosi di un altro nome di fantasia: “Crociata”. Un vino incazzato. Un vino anarchico. Di carattere. Ma soprattutto un capolavoro d’enologia. Una mela perfetta. Anche senza il “bollino”.
Da uno che fermenta a freddo pure il Nostralino, il vino della tradizione contadina ligure, “per esaltarne l’eleganza”, ci si può aspettare di tutto. Anche per il Pigato. Di fatto, è grazie allo Spigau che Fausto De Andreis entra nell’olimpo dei vignaioli indipendenti italiani, alla stregua dei Walter Massa, per intenderci. Dalla bocciatura della Doc, ha saputo trarre il meglio: raccogliendo il successo della perseveranza. Del coraggio. Della follia. “E’ solo grazie alla memoria storica che si riesce a rendere attuale l’etica”, spara dritto al cuore De Andreis, mentre spilla dalla vasca d’acciaio dei Vermentino e dei Pigato memorabili. “Fino al 2010 mi spingevo fino a 10 giorni di macerazione sulle bucce – spiega il vignaiolo ligure – poi ho deciso di arrivare fino a 21 giorni. I vini bianchi, così, hanno un grosso vantaggio: guadagnano in complessità ma non coprono il piatto, a differenza dei rossi. Troppi bianchi, anche in Liguria, rispondono a un gusto comune, risultando ‘bananalizzati’, ovvero resi banali e standardizzati da sentori come quello di banana, che piacciono tanto al grande pubblico”.
I vini di Rocche del Gatto, invece, paiono tutti austeri, gastronomici, complessi. Utilizzo “giusto” di solforosa e concentrazione assoluta di aromi evoluti sconosciuti al gusto ligure, riscontrabili piuttosto nei canoni stilistici di aree vinicole come la Mosella. E dunque nettari che arrivano ad assumere colori dorati, regalando al naso gas, idrocarburi. Ma anche burro e tostature. Il tutto in un quadro che mantiene comunque tinte fruttate di pesca e albicocca, capaci di vestirsi pure d’agrumi (buccia di cedro). O dar vita a richiami vegetali tipici della macchia mediterranea (rosmarino, alloro) e balsamici (mentuccia). Fino ad arrivare all’apice dell’anarchia: uno Spigau 2005, che equivale ad Armagnac puro. Il tutto, classificato a livello legislativo come “vino da tavola”. Vini infiniti, insomma. Immortali. Vini gloriosi, come la fama che merita Fausto De Andreis. L’anarchico di Albenga.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Grasso che cola. E per una volta non è quello dell’unico lardo a Denominazione d’origine protetta d’Italia. Ad Arnad, villaggio di 1.300 anime della bassa Valle D’Aosta, protetta da una gincana di stradine strette che conducono sulla riva di un torrente, opera la società cooperativa La Kiuva. Frazione Pied de Ville, civico 42, per i pignoli. Trecentosessantuno metri sul livello del mare, per i curiosi. E uno Chardonnay da far invidia alle più prestigiose case vitivinicole italiane, per chi mastica pane e vino. Sabrina Salerno e Jo Squillo per la colonna sonora: qui, ad Arnad, canterebbero che “oltre al lardo c’è di più”. Lo sa bene Ivo Joly, 43 anni, il dinamico presidente de La Kiuva. Una cooperativa che, oltre a competere con le prestigiose realtà private del vino valdostano, si è ormai inserita nel business della ristorazione, servendo menu a base di prodotti tipici proprio sopra i locali adibiti a cantina. Per trovare l’eccellenza vera, basta spostarsi nell’ampio wine store dotato di un moderno bancone per la degustazione dei vini. E chiedere uno Chardonnay. Anzi, due. La Kiuva produce infatti uno Chardonnay “base”, che definire “base” non si può. E un secondo, affinato in barriques: altro calice con cui varrebbe la pena di fissare un tête-à-tête. Prima o poi, nella vita.
Di colore giallo paglierino mediamente carico, lo Chardonnay La Kiuva presenta al naso note di frutta fresca a polpa bianca e gialla. Il caratteristico richiamo esotico all’ananas fa spazio con l’ossigenazione a sentori grassi, tipici del burro di montagna spalmato sul pane croccante. Una sorta di contrasto dolce-salato che si fa solido nel suo materializzarsi concreto. Preannunciando una beva di grande mineralità, struttura e persistenza. Per una “base” che “base” non è, come annunciato. Ed è questo il punto di partenza (d’eccezione) dell’altro capolavoro della cooperativa: lo Chardonnay barrique La Kiuva. Con la sua beva sapida e minerale resa ancora più morbida e rotonda dal legno cui è affidato l’affinamento del prezioso nettare, in grado di conferirgli inoltre un’apprezzabilissima vena balsamica. Vini che, bevuti giovani o più maturi (il barrique è un vendemmia 2011 perfettamente in auge), offrono il meglio dell’accoppiata costituita da terroir ed escursione termica, in questo angolo di Valle d’Aosta reso grande da Madre Natura. Lo stesso si può dire del Muller Thurgau, che sfodera senza ritegno una spalla acida invidiabilissima e una mineralità accentuata, ben calibrata con la piacevolezza delle note fruttate fresche. Meno significativi Pinot Gris e Petite Arvine, proposti in apertura di degustazione. Nettari comunque in grado di comunicare, seppur in maniera più soffusa, le peculiarità del marchio La Kiuva.
SPUMANTI E VINI ROSSI
Non mancano, per gli amanti delle bollicine, due metodo classico come il Seigneurs de Vallaise – 40% Chardonnay, 30% Pinot Noir e 30% Pinot Gris – dal perlage accattivante al palato e dal buon corpo (forse un po’ a discapito delle note fruttate) e l’ancora più interessante Traverse La Kiuva, spumante ottenuto al 100% da uve Nebbiolo. Quaranta mesi minimo di permanenza sui lieviti che conferiscono a questo “rosè” sentori di agrumi e crosta di pane, oltre agli accenni immancabili a piccoli frutti a bacca rossa. In bocca colpisce la gran sapidità, che gioca sottile su note eleganti di lime e pompelmo, nonché su una linea (rieccola) vagamente balsamica che richiama la mentuccia. Un corpo e una sostanza diversa da quella dei Nebbiolo rosé prodotti nel vicino Piemonte (per esempio nella zona di Ghemme, Novara), forse per quel calore nella beva espresso dai 13,5 gradi di percentuale d’alcol in volume. Capitolo rossi della Cooperativa La Kiuva di Arnad? A spiccare su tutti, ma agli antipodi tra loro, sono il Nebbiolo Picotendro e l’Arnad Montjovet Superior. Un Nebbiolo da assaporare giovane, il primo, che nel calice si mostra d’un rosso rubino intenso e che al naso evidenzia note di lamponi, fragoline di bosco e more mature. Corrispondente al palato, risulta morbido e avvolgente e dal tannino delicato, che ha comunque bisogno di qualche minuto per slegarsi completamente e conferire una dignitosissima eleganza alla beva. Ma se il Picotendro della Cooperativa La Kiuva è ottenuto mediante macerazione prefermentativa a freddo di 3-4 giorni e fermentazione a 30-32°, con macerazione delle bucce per 5/7 giorni e svinatura dolce, più complessa è l’elaborazione del Valle d’Aosta Doc Arnad Montjovet Superior. Vino rosso top di gamma de La Kiuva, è costituito da un 70% minimo di Nebbiolo, cui vengono aggiunti Gros Vien, Neyret, Cornalin e Fumin. La vinificazione è tradizionale, a cappello emerso, con lunga macerazione delle vinacce: sino a 15-20 giorni, a temperatura controllata, variabile tra i 28 e i 30 gradi. Fondamentale l’affinamento in legno per un periodo tra i 10 e i 12 mesi, cui vanno a sommarsi altri 6 mesi di maturazione in bottiglia, prima della commercializzazione. Un vino che nel calice si mostra d’un rosso rubino con riflessi granati, dal quale si sprigionano eleganti note fruttate (confettura), balsamiche e speziate. In bocca esprime tutta la potenza elegante del Nebbiolo: misurate ma intense le note balsamiche e speziate che ritornano anche al palato. E di nuovo un’accentuata sapidità, che chiama il sorso successivo. Solo cinquecento le bottiglie prodotte mediamente ogni annata, numero che sale a 5 mila per la “base” (che “base” non è).
“VIGNAIOLI PER PASSIONE” Curioso scoprire dopo la degustazione che La Kiuva, nonostante il buon livello dei vini prodotti, costituisca l’attività “secondaria” dei quaranta soci della Cooperativa. “La maggior parte di noi – spiega il presidente Ivo Joly (nella foto) – non è dedita alla produzione di vino a tempo pieno. Si tratta di un’attività collaterale, affiancata a quella principale che può essere nel ramo dell’agricoltura o dell’artigianato. La sede principale è stata edificata nel 1975, una delle prime cantine concepite dalla Regione Autonoma Valle d’Aosta. I primi conferimenti di uve e dunque la prima vinificazione risalgono al 1979″. Dal 2008, anno nel quale La Kiuva ha deciso di produrre lo spumante metodo classico 100% Nebbiolo, la coop ha ridato vita ad alcune cantine storiche dislocate sul territorio di Arnad, oggi utilizzate principalmente come luogo per lo stoccaggio del vino in maturazione. “La sfida per il futuro – dichiara ancora il presidente Ivo Joly – è quella di offrire un prodotto che risulti concorrenziale sul mercato. Abbiamo prodotti di nicchia dei quali vantarci, capaci di conquistare anche mercati diversi da quello italiano. Esportiamo già negli Usa 20 mila bottiglie delle 100 mila prodotte complessivamente. L’interesse è crescente all’estero, sia sui vini da tavola sia sul nostro Picotendro. Sarebbe interessante, quindi, riuscire a consolidare ulteriormente la nostra presenza in Italia. Magari puntando tutto sul nostro Traverse. Superficie e potenzialità per incrementare ulteriormente la produzione ci sono – conclude Joly – ma dobbiamo innanzitutto tener conto della nostra realtà, tutto sommato giovane e costituita, appunto, da vignaioli per passione, più che per professione”. Basti pensare che, fino a 10 anni fa, i vigneti che conferivano alla Kiuva erano ancora a pergola. Oggi solamente filari. Splendidi. Pronti a perdersi, a vista d’occhio, con le montagne a fare da sfondo. O magari all’ombra del Forte di Bard. Tra i 13 ettari vitati che vanno da Hone a Montjovet.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Dormire “in cantina” e puntare la sveglia “ogni due-tre ore”, per controllare “il colore del rosato” ottenuto da uve Rossese. Che non dev’essere “né troppo rosso, né d’un rosso scialbo”. Problemi con cui solo un viticoltore ligure deve fare i conti. Problemi, per fare i nomi, di viticoltori di Liguria come Luigi Anfossi, trentacinque anni. Rappresentante della quarta generazione di una famiglia d’origine genovese – con influenze inglesi – che nel quartier generale di Bastia d’Albenga, Savona, produce basilico atto a divenire pesto destinato alla grande distribuzione italiana (Unilever). E vini (Vermentino, Pigato, Rossese Riviera Ligure di Ponente Doc e rosato) reperibili sugli scaffali di Esselunga e Carrefour. Un’impresa a conduzione famigliare che può annoverare tra i propri clienti la nota “John Frog”, nome col quale Luigi Anfossi ama chiamare la Giovanni Rana. Ma se è vero che il basilico rappresenta il core business dell’Azienda agraria Anfossi (10 gli ettari coltivati), degna di nota è anche la produzione di vini liguri, ottenuti grazie all’allevamento di 5 ettari di terreno vitato e dalle uve di alcuni conferitori della zona. Per una produzione annuale complessiva che si assesta sulle 70 mila bottiglie.
Un’azienda fondata nel 1919, che si appresta a spegnere entro breve le (prime) cento candeline. Una storia lunga un secolo che vede il suo momento chiave negli anni Ottanta, quando l’impresa agricola viene rilanciata sul mercato italiano ed europeo da Mario Anfossi con la collaborazione del socio piemontese Paolo Grossi. Al figlio Luigi il compito di occuparsi delle sorti del settore vitivinicolo. Diplomato in agraria dopo aver iniziato gli studi al Liceo Classico, Luigi sogna per la propria azienda e per il settore vitivinicolo ligure un futuro luminoso. “La Liguria ha grandissime potenzialità inespresse in questo settore – commenta Luigi Anfossi -. Potenzialità che potremmo alimentare innanzitutto iniziando a valorizzare a livello locale i nostri vini, ottenuti da vitigni autoctoni come il Pigato. Capisco che in un mondo globalizzato come il nostro sia corretto trovare anche in Liguria una selezione sterminata di Gewurztraminer. Ma se si puntasse di più sulla promozione dei vini locali, raccontandone la storia anche ai turisti nelle varie attività del lungomare, sono sicuro che ne trarrebbe grande beneficio tutta l’economia locale”. D’altronde “quanti liguri sanno come mai il Pigato si chiama così?”, chiede ironicamente Luigi Anfossi, alludendo alle “macchie” presenti sull’acino di questa straordinaria varietà autoctona della Liguria.
LA DEGUSTAZIONE Il Pigato dell’Azienda agraria Anfossi, esprime tutta la ‘semplice complessità’ dei vini liguri. Di facile beva per i suoi richiami fruttati freschi, eppure tutto sommato ‘impegnativo’ per il suo corpo e la sua struttura, tutt’altro che banale. Morbido al palato, è capace di sorprendere con quella punta amara che risveglia i sensi, in un finale sapido che preclude un retrogusto amarognolo, stuzzicante, da sgranocchiare come le nocciole tostate. Un vino dall’ottimo rapporto qualità prezzo, insomma, da pescare tra le corsie degli store del marchio Caprotti a una cifra che si aggira solitamente attorno agli 8 euro. Non presente in Esselunga, ma comunque apprezzabilissimo, il Vermentino ligure di Anfossi. Meno impegnativo del Pigato, ancora più soave nei richiami fruttati, strizza l’occhio a un consumatore meno esigente di quello che preferisce il Pigato. Un Vermentino da regalarsi nelle giornate di sole, da abbinare a piatti di pesce o di carne bianca non troppo elaborati. Meno profumato, invece, il naso del rosato Paraxo 2015 Anfossi: classificato come vino da tavola, ottenuto come anticipato da uve Rossese rimaste a contatto con le bucce non oltre le 24 ore, soddisfa nell’abbinamento con piatti della tradizione come il coniglio alla ligure. Al palato sfodera infatti la buona struttura del Rossese e una complessità aromatica non banale (13% di alcol in volume). La degustazione si chiude con l’ottimo Rossese in purezza, l’unico vino rosso prodotto dall’Azienda agraria Anfossi di Bastia di Albenga. Uno di quei rossi non convenzionali, capaci di esprimere il meglio della terra di provenienza. Il Rossese Anfossi parla infatti – al naso – di resine di macchia mediterranea, in un concerto di piccoli frutti a bacca rossa. Corrispondente al palato, non manca un finale di buona persistenza. Un vino da assaporare sia con il pesce (provare per credere, per esempio con un piatto di tonno in crosta di pistacchio) sia con la carne (ben cotta). Il segreto dei vini Anfossi? Lo spiega Luigi. “Non possiamo contare su terreni in altura – commenta – ma abbiamo la fortuna di avere una grande vigna in prossimità del fiume Centa, qui ad Albenga. Viene così assicurata una buona escursione termica. In futuro mi piacerebbe comunque sperimentare qualcosa di nuovo, magari attraverso macerazioni prolungate delle uve per ottenere vini più longevi”. Segreti e progetti per il futuro di un viticoltore ligure pieno di idee. Una storia, quella di Anfossi, destinata a continuare a lungo.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
E’ una salita fra gli alti cipressi, tanto ripida quanto romantica, a condurre all’azienda agricola Col di Bacche. Siamo a Magliano in Toscana, piccolo comune in provincia di Grosseto. E quell’irto, faticoso cammino, che conduce al punto più alto di strada di Cupi, nella piccola frazione di Montiano, è il simbolo più fulgido dell’avventura di Alberto Carnasciali e Franca Buzzegoli. Marito e moglie, uniti anche nella cantina fondata nel 1998. Anno in cui Alberto Carnasciali si sfila di dosso l’abito da imprenditore edile e decide di sognare ad occhi aperti. Dando vita a Col di Bacche. La prima vendemmia, nel cuore delle terre del Morellino di Scansano, risale al 2001. Sono passati 15 anni, ormai. Quindici anni che hanno incoronato Col di Bacche tra le cantine dell’Olimpo Toscano del vino. Ne è consapevole Franca Buzzegoli, che ci accoglie in cantina con la fierezza di chi sa d’aver svoltato. Non solo nella vita. “Noi siamo di origine chiantigiana – spiega – nati e vissuti nel Chianti fino alla fine degli anni Novanta, quando abbiamo deciso di cominciare questa avventura in Maremma. Mio marito era titolare di un’impresa edile e, anche per questo, sapevamo che intraprendere un’attività nel settore vitivinicolo nella nostra zona era molto complicato. Ma abbiamo sempre bazzicato in Maremma. Quando siamo arrivati qui, non c’era niente. O meglio: c’era un poggio vuoto, che faceva parte di un podere. Ci piacque tantissimo questa location e così l’acquistammo. Nel ’98 impiantammo i primi vigneti. Poi – prosegue Franca Buzzegoli – costruimmo l’annesso agricolo che oggi ospita la prima cantina. Nel 2001 gli ultimi vigneti, che hanno subito reso troppo piccoli i locali per la vinificazione. Diciamo che ci siamo fatti prendere un po’ la mano! E così, tra il 2004 e il 2005, abbiamo realizzato la cantina attuale, trasformando la prima cantina in sala per le degustazioni e adattandola ad altre funzioni”. Sessantanni lui, cinquantadue lei. L’età giusta per sognare, ancora. Sin dagli albori, Col di Bacche si avvale dell’esperienza dell’enologo Lorenzo Landi, che assieme ad Alberto Carnasciali, sommelier Ais, impianta ad uno ad uno quattordici ettari totali di terreno. Si tratta principalmente di Sangiovese. Ma anche di Syrah e Cabernet Sauvignon. Nella parte bassa dell’azienda, dove il Sangiovese non maturerebbe bene, i coniugi Carnasciali decidono di allevare Merlot. Una scelta più che mai azzeccata. Il riscontro di critica e mercato di Cupinero, Merlot Igt Maremma Toscana, è sin da subito eccezionale. Il vero e proprio fiore all’occhiello dell’azienda agricola Col di Bacche. Un Merlot impiantato a cordone speronato alto, con sistema fogliario libero di crescere sulla ‘testa’ del grappolo. Accorgimenti che evitano a un vitigno precoce nella maturazione di assumere sentori di confettura che poco avrebbero a che fare con la ricerca di eleganza e finezza di Cupinero. Ma il vero segreto della ‘chicca’ di casa Col di Bacche è il ruscello che scorre a pochi metri dal Merlot. Garantendo un’efficace e benevola escursione termica.
LA FILOSOFIA Terreni ricchi di scheletro e sabbiosi, situati dai 120 ai 230 metri sul livello del mare, sono l’habitat dei vini di quest’azienda agricola toscana che fa della riduzione delle rese del vigneto un vero dogma. “Prendiamo ad esempio il Morellino di Scansano – commenta Franca Buzzegoli -. Il disciplinare ci consentirebbe una resa di 90 quintali per ettaro, mentre noi lo produciamo a 60-70. I nostri sono vini territoriali che aspirano a dimostrare come in Maremma si possano ottenere produzioni molto interessanti, pur non essendo la zona nota al grande pubblico, come quella del Chianti. In Toscana ci sono denominazioni più prestigiose rispetto a quelle maremmane, ma non è detto che tutte le aziende che operano in contesti prestigiosi lavorino secondo il principio della qualità. Quello che noi cerchiamo invece di fare quotidianamente”. Ogni anno, Col di Bacche sforna dai suoi 14 ettari di vigneti circa 60 mila bottiglie annue. Il Morellino ‘base’ costituisce il cuore della produzione, assestandosi sul 40%. Seguono Morellino Riserva, Merlot e, da quattro anni, Vermentino di Toscana. Prodotto inizialmente acquistando uve da terzi, Col di Bacche si è resa nel tempo autosufficiente, impiantando appositi vigneti: neppure un ettaro, che garantisce una produzione di circa 5.500 bottiglie l’anno. “Un bianco che sta andando molto bene – evidenzia Franca Buzzegoli – ottenuto da due particelle che non sono esattamente adiacenti al resto dell’azienda agricola, ma che si trovano in un’ottima posizione, con un’ottima esposizione”. Il mercato di Col di Bacche si svolge per il 65% in Italia. Il business funziona, ma Franca Buzzegoli non risparmia qualche stoccata al ‘sistema’. “In questa zona – evidenzia la ‘donna del vino’ – lottiamo con il fatto che quella del Morellino di Scansano è una denominazione che si è un po’ fermata negli ultimi anni. Grandi aziende sono venute qui a investire da tutta Italia, ma gli sforzi economici compiuti non sono affatto ricaduti sul territorio, o sulla valorizzazione della denominazione di origine controllata e garantita. I prezzi, anche a causa dell’arrivo di questi colossi, sono al ribasso. E non è facile competere. Fare vino in Toscana è un privilegio, pone in una situazione di intrinseca superiorità rispetto ad altre regioni italiane – ammette Franca Buzzegoli – soprattutto quando si va a proporre i propri vini nel mondo. Ma a livello di Consorzio si potrebbe fare ancora di più, soprattutto nelle politiche che riguardano gli imbottigliatori. Così come si potrebbe fare di più a livello di promozione del territorio, che è basata principalmente su pochi eventi, tutti molto costosi per le aziende e, per questo, sempre appannaggio dei soliti pochi noti”. Il futuro di Col di Bacche è comunque luminoso, con il figlio 24enne, laureando in Storia dell’Arte, pronto a rimboccarsi le maniche in un settore diverso da quello degli studi. Eppure così affine: un buon vino, non è forse un’opera d’arte?
LA PRODUZIONE COL DI BACCHE La degustazione, guidata da Franca Buzzegoli, inizia come si consueto bianco. In questo caso con il Vermentino Igt Toscana 2015. Le uve vengono vendemmiate nel corso della prima decade del mese di settembre. La vinificazione avviene in acciaio, a temperatura controllata. Il Vermentino Col di Bacche affina per 6 mesi, sempre in acciaio. Prima della commercializzazione, un ulteriore affinamento in bottiglia. Ottimo per l’aperitivo, il Vermentino Col di Bacche si abbina a piatti di pesce e carne bianca. Franca Buzzegoli propone poi l’assaggio del Morellino di Scansano 2014. La vendemmia del Sangiovese (90%) e degli altri vitigni a bacca nera (un 10% tra Syrah, Cabernet Sauvignon e Merlot) avviene tra la seconda metà di settembre e la prima settimana di ottobre: una vendemmia verde, in corrispondenza dell’invaiatura. La fermentazione si compie a temperatura controllata, per 20 giorni. L’affinamento è affidato all’acciaio per il 60% del vino; la parte restante matura in barriques di terzo e quarto anno. Un passaggio, questo, che rende il Morellino ‘base’ Col di Bacche apprezzabile con le sue caratteristiche peculiari anche a distanza di qualche anno dall’imbottigliamento. La grande centralità del frutto nella beva e la particolare attenzione alla pulizia negli esercizi di cantina sono palpabili e completano un quadro più che apprezzabile. Perfetto con i primi saporiti della cucina tradizionale toscana, si fa apprezzare a tutto pasto e con formaggi salati, di media stagionatura. Saliamo i gradini dell’eccellenza con Rovente 2012, il Morellino di Scansano Riserva Col di Bacche. Un prodotto ottenuto da un 90% di Sangiovese addizionato a un 10% di Syrah, vendemmiati tra la seconda metà di settembre e la prima settimana di ottobre da vigneti che registrano una resa di 55 quintali per ettaro, diradati sino al 50% in corrispondenza dell’invaiatura, ovvero nel periodo in cui gli acini iniziano ad assumere il colore tipico dell’uva. La vinificazione prevede una diraspapigiatura soffice e una fermentazione alcolica in serbatoi di acciaio inox a temperatura controllata, variabile tra i 28 e i 30 gradi. Continui rimontaggi e délestages precedono la macerazione sulle bucce, che si prolunga tra i 18 e i 21 giorni. L’affinamento del Rovente avviene in barriques di rovere francese, in parte nuove e in parte usate, per circa 12 mesi. Un ulteriore affinamento in bottiglia anticipa la commercializzazione. E sul mercato finisce un vino dall’ottimo rapporto qualità prezzo (13 euro all’horeca), con note fruttate fresche intense impreziosite da una delicata speziatura, un tannino elegante e rotondo e una capacità di invecchiamento medio lunga. In cucina ama piatti corposi, con cui mettere alla prova la un’ottima struttura: la cacciagione e i formaggi stagionati sono solo alcuni degli abbinamenti utili a valorizzare Rovente. Nella ‘verticale’ della produzione Col di Bacche, ecco arrivati a Cuponero, l’indicazione geografica tipica Maremma Toscana, vero fiore all’occhiello della vinicola di Magliano. La base (90%) è costituita come detto dal fortunato Merlot, cui viene aggiunto un 10% di Sauvignon: una percentuale variabile di anno in anno. La vendemmia proposta è la 2011, in grande forma già all’esame visivo col suo rosso rubino intenso. Al naso, alle note di frutta rossa fa eco un fresco sottobosco, invitante. Corrispondente al palato, regala un elegante e persistente finale. La vinificazione di Cupinero comincia dall’attenzione riservata agli acini durante il loro sviluppo. Le uve subiscono una diraspapigiatura soffice e una fermentazione alcolica in serbatoi di acciaio inox, a temperatura controllata variabile tra i 28 e i 30 gradi. Si cerca di favorire l’estrazione delle sostanze fenoliche con rimontaggi e délestages, prima di una macerazione sulle bucce della durata variabile tra i 18 e i 21 giorni. L’affinamento di Cupinero prevede l’utilizzo di barriques di rovere francese, in parte nuove ed in parte usate. Dura circa un anno. Alcuni mesi di ulteriore affinamento in bottiglia regalano agli amanti del Merlot (ma non solo) un’espressione unica del vitigno. L’espressione maremmana. Tutto da provare anche il Passito di Sangiovese Col di Bacche, ottenuto col classico metodo dell’appassimento delle uve al sole, cui viene fatto seguire l’affinamento in barrique. Ottima anche la grappa Riserva di Merlot, distillata dalle vinacce di Cupinero e affinata per 18 mesi in barrique.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Le valigie scorrono lente verso i legittimi proprietari sul rullo bagagli del Terminal 1, aeroporto Milano Malpensa. D’un tratto, la mente vola indietro di qualche giorno. Vuoto d’aria. Flashback. Pedro, uno degli eredi titolari della Vouni Panayia Winery, ripone con cura in un elegante cartonato una bottiglia di Barba Yiannis. “Here you are, enjoy it”. Stretta di mano, saluti di rito. E da quello stesso istante non pensi ad altro che al viaggio che, quella bottiglia di fragile vetro, dovrà affrontare nella stiva dell’aeromobile di compagnia Aegean, col quale sei appena atterrato a Milano dopo una settimana di vacanza sull’isola di Cipro. La Dea bendata sembrerebbe stata benevola. Fronte e retro, la valigia è pulita. Nessuna macchia viola, di vino infranto. Check definitivo: Barba Yiannis ce l’ha fatta. Sì. Dio benedica il pilota. Una settimana di vacanza a Cipro può bastare per fare la conoscenza dei migliori prodotti delle vigne cipriote.
E alla Vouni Panayia Winery, al 60 di Archiepiskopou Makariou III Avenue, nel villaggio di Panayia, distretto di Paphos, Cipro centro-occidentale, la bandiera dell’enologia isolana viene tenuta alta sin dalla fondazione, avvenuta nel 1987 su intuizione di un uomo formatosi al dipartimento di Viticultura e Enologia del Ministero dell’Agricoltura di Cipro, Andreas Kyriakides. Oggi, ad accogliere i numerosi visitatori di tutto il mondo dietro al banco degustazioni della casa vinicola, c’è Pedro. Terza generazione, stessa passione. E una invidiabile formazione enologica, portata a termine niente meno che in Toscana.
VOUNI PANAYIA WINERY Calice e piattino di formaggi locali: la degustazione dei vini dell’azienda di famiglia può cominciare. Le uve utilizzate sono tutte autoctone di Cipro. Si parte ovviamente dai bianchi, con Alina: dalle uve Xynisteri nasce un vino delicato, soave. Al naso emergono note di frutta esotica, pesca e limone. A dominare il palato sono appunto i sentori aciduli, che lasciano spazio a un finale più fruttato. Il secondo calice viene riservato a una “chicca” di Panayia: Spourtiko, nome del vino ottenuto dalla medesima uva, coltivata unicamente dalla famiglia Kyriakides nei vigneti di proprietà, nel cuore dei monti Troodos. Di colore giallo trasparente, Spourtiko risulta più secco di Alina.
Sentori di mela e finale lungo. Tocca poi a Promara, bianco più “importante”, affinato per due mesi in botti di rovere francese. Naso pieno, di frutta tropicale. La stessa percepibile al palato, in un finale delicatamente citrico. Quarto e ultimo bianco degustato: Alina medium dry. Uve Xynisteri, come per l’Alina “base”, ma in questo caso coltivate a un’altitudine superiore, tra gli 800 e i 1150 metri sul livello del mare, in suoli prettamente calcarei.
Ne risulta un bianco dalle note piacevolmente minerali. Sorprendente il finale, tendente al mieloso su note di arancia e limone. La degustazione prosegue con un rosato dal nome esotico, Pampela. In realtà si tratta di un blend di uve autoctone di Cipro, Maratheftiko e Mavro. Di colore rosso sgargiante, luminoso, si presenta al naso con carattere: si percepiscono note di ciliegia, fragola, arancia matura e melograno. Al palato è ricco, pieno, equilibrato, anche nel finale, lungo e fruttato.
Capitolo vini rossi. Quello di Barba Yiannis, per intenderci. Un amore sbocciato dopo l’assaggio di Plakota, il primo dei red wines proposti da Pedro. Siamo di fronte all’ennesimo blend, questa volta di tre differenti uvaggi: Maratheftiko, Mavro e il mai citato Ofthalmo. Un rosso aromatico, fruttato, che ricorda alcuni Cannonau sardi. Ciliegia, mora e mirtillo al naso; prugna al palato, delicato e tondo.
E infine, Barba Yiannis. Eccolo, il re dei vini Panayia. Di colore rosso impenetrabile, profondo, regala al naso decisi sentori fruttati e terziari, conferiti dall’affinamento. Il palato è elegante, pulito, asciutto. Chiaro il tocco della barrique francese, in cui Barba Yiannis riposa dodici mesi, affidandosi prima dell’imbottigliamento. Tredici gradi per un vino piacevolmente caldo, in cui spuntano neppure tanto timidamente vaniglia e cioccolato. Sorprendente.
Da provare. Pedro accompagna poi i visitatori nel sul regno: lo stabilimento della Vouni Panayia Winery. “Per me, per noi – dichiara timido, ma con orgoglio – fare vini non è semplicemente un modo come un altro di ‘fare impresa’, bensì un vero e proprio stile di vita. Qualcosa che ormai abbiamo nel sangue da diverse generazioni”.
E la si può toccare con mano questa passione. La si percepisce chiaramente tra le botti di acciaio dove le uve subiscono i primi trattamenti dopo la vendemmia, a cavallo tra i mesi di settembre e ottobre. Sullo stanzone veglia un dipinto di Dioniso, la divinità che – secondo il mito – insegnò agli uomini l’arte di produrre vino. Si scende poi sotto il livello del suolo. Ancora più nel cuore dei monti Troodos.
Qui riposano le bottiglie di vino Panayia, ordinatamente riposte in posizione orizzontale, come a formare un mosaico di sapori e profumi solo da scoprire. Poco lontano, due operai sistemano con cura le sei bottiglie che compongono ogni cartone di vino. Trecento ogni ora. “Quasi tutti i nostri macchinari provengono dall’Italia – evidenzia Pedro, sorridendo e ammiccando gli ospiti di Milano – e in particolare sono prodotti da un’azienda del Veneto”.
Regna il silenzio poco oltre, quando il giovane mostra la stanza delle barrique francesi. Sembra di percepire il sonno operoso dei vini. “Utilizziamo solo due volte ogni botte – spiega Pedro – e poi la rivendiamo ad altri produttori locali di vino, che le utilizzano per l’affinamento di vini liquorosi come la tradizionale Commandaria, o liquori come la Zivania (Zibania)”.
Le barrel hanno una capienza tra i 200 e i 250 litri e sono collocate in una stanza a temperatura naturale di 18-20 gradi. Ultima tappa della visita ai ‘sotterranei’ della Vouni Panayia è il museo dei vini prodotti in loco, dove è possibile ammirare la prima bottiglia, datata 1990. Il tour è finito, ed è già ora di tornare verso Paphos.
Non prima di aver ammirato la pineta che circonda le vigne della Vouni Panayia Winery, che si estendono su una superficie di oltre 25 ettari, lavorati prettamente a mano, con l’ausilio di un piccolo trattore (un ambiente protetto, che aderisce al network “Life, Natura 2000).
Vigne che ogni anno consentono la produzione di 300 mila bottiglie di vino. Rigorosamente autoctono, unicamente cipriota. Distribuite anche nei supermercati locali, comprese le grandi catene internazionali della grande distribuzione organizzata (Gdo), come il gruppo francese Carrefour.
KAMANTERENA SODAP LTD WINERY Il wine tour prosegue più a valle. E l’esperienza alla Kamanterena – Sodap Ltd Winery si può racchiudere tutta in un aggettivo: vulcanica. Merito di Irene Georgiu, la tour guide che ci accompagna nella degustazione, mescolando la propria passione per i vini ciprioti a nozioni di vita privata e battute degne d’un comico di Zelig.
Un metro e cinquanta di pura elettricità, umanità e simpatia. E quel fare materno che con guasta, se accostato tanto ai vini quanto agli ospiti. Ma cominciamo con il contestualizzare. Ci troviamo esattamente in località Stroumbi, nel distretto di Paphos, all’interno di una cooperativa sorta in loco nel 2004, ma che unisce dal 1947 oltre diecimila famiglie di produttori di vino di tutta l’isola di Cipro.
Siamo a un’altezza di circa 600 metri sul livello del mare, nella casa di una pluripremiata impresa vitivinicola, capace di aggiudicarsi premi internazionali al Decanter World Wine e all’International Wine & Spirits Competition, grazie a un sapiente mixaggio delle uve autoctone con quelle internazionali (Shiraz, Cabernet Sauvignon, Merlot, Semillon). Per intenderci: 2 milioni di bottiglie prodotte mediamente all’anno.
Il biglietto da visita con il quale il gruppo Sodap, secondo indiscrezioni, sta tentando di allettare nuovi soci o acquirenti, navigando finanziariamente in acque che non sarebbero limpide come quelle del mare di Cipro. E mentre alcuni colossi bancari stanno alla finestra, i vini prodotti nello stabilimento di Stroumbi continuano a essere esportati principalmente in Paesi come Danimarca (Horsholm e Rodding), Spagna (La Jonquera), Belgio (Woluwe Saint Lambert).
E ancora Grecia (Atene), Germania (Berlino), Giappone (Tokyo), Australia (Sydney), Stati Uniti d’America (New York e Florida), Francia (Orlienas), Svezia (Solna) e Repubblica Ceca (Praga). Una vocazione internazionale, quella di Kamanterena Sodap, che si riflette appunto sull’assortimento di vini commercializzati e proposti in degustazione.
Ed ecco addentrarci nell’affaire dell’istrionica Irene Georgiou. La prima bottiglia che stappa è uno Xynisteri della linea Kamanterena. Un bianco secco, di colore giallo paglierino intenso, con riflessi verdi. Naso energico, palato accattivante e astringente: mela verde, limone e lime.
Dodici gradi: più leggero di altri Xynisteri, ma più pulito e lungo nel finale. Passiamo poi all’assaggio di Arsinoe 62, un altro vino derivato da uve dell’autoctono Xynisteri, selezionate appositamente nella zona di Laona, nel distretto di Paphos. L’affinamento in bottiglia ne migliora l’aromaticità e lo rende il miglior accompagnamento testato in loco ai piatti di pesce e carne di pollo dei tradizionali Meze di Cipro.
E mentre Irene stappa il primo rosso, alla Sodap inizi a sentirti un po’ come a casa, coinvolto dalle storie di vita vissuta di questa straordinaria donna, di origini turche, con legami di sangue in Romania. E che ha vissuto per diversi anni persino in Canada.
Nel cielo dell’ampia stanza adibita a enoteca, Irene culla un calice d’un rosso di cui l’azienda va fiera: il Maratheftiko della linea Stroumbeli. “Il nostro enologo – spiega la guida, tenendo gli occhi fissi su quel calice – tiene molto alla perfetta ossigenazione dei vini, prima dell’assaggio. In questo momento sarebbe fiero di me”.
La risata che segue è incredibilmente contagiosa. Il Maratheftiko offerto risulta in effetti un ottimo esempio della potenza che può offrire quest’uva cipriota. Di colore rosso intenso, profondo, esprime un elegante profumo di frutti di bosco, cuoio e legno.
Il palato è asciutto, pulito, con un finale in cui emerge tutto il carattere della barrique francese, resa ancora più elegante dalla vaniglia. Irene passa poi ai blend. E’ il momento di assaggiare un altro “pezzo da 90”: il blend tra Maratheftiko e Cabernet Sauvignon cipriota, della linea Mountain Vines. Nel calice si presenta di un rosso intenso, tendente al viola.
Colpisce l’intensità delle note fruttate, che abbracciano sentori di legno affumicato. Al palato si presenta complesso, ricco, lungo: si avvertono note di frutti di bosco e barrique. I tannnini risultano eleganti, caratteristici del Cabernet. Un bel mix, a metà tra Francia e Cipro. Ultimo assaggio: tocca allo Shiraz della linea Stroumbeli.
Un bel rischio, quello corso da Irene, dal momento che ho subito precisato di non amare gli Shiraz “moderni” diffusisi come funghi negli ultimi dieci anni, in ogni angolo del Pianeta – rimanendo fedele al gusto di quelli siciliani. Ma quella di Irene è una scommessa vinta.
Già, perché lo Shiraz Stroumbeli della Kamanterena Winery Sodap Ltd è incredibilmente fedele alla tradizione italiana, più che a quella francese. Non presenta, per esempio, alcuna nota dolciastra, che caratterizza gli Shiraz francesi (forse più internazionali di quelli siculi, ma certamente meno fedeli al terroir). E, a completare l’opera, il profumo che si diffonde nel calice è magico: intenso, caldo, con spiccate note speziate e rinfrescanti sentori di menta e pepe.
All’assaggio, questo rosso si presenta molto ben strutturato: buono il corpo e decisamente soddisfacente la lunghezza, in un crescendo di spezie e frutti di bosco a bacca scura. Sarebbe stato meraviglioso poterlo accorstare, all’istante, a un buon filetto di carne al sangue. Ma questo è il momento dei saluti, che con Irene non può essere che quello di un sentito, accorato “arrivederci”.
KEO Parlare di vini di Cipro non può prescindere dal raccontare un’altra realtà: quella di Keo. La sede di produzione si trova nella parte centro-meridionale dell’isola, a Limassol (in italiano, Limisso), seconda città dello Stato di Cipro per numero di abitanti (circa 190 mila).
Lo stabilimento principale è collocato a poca distanza dal porto, ma esistono attualmente altri due poli di produzione, uno a Mallia e l’altro a Pera Pedi, sui monti Troodos, nella regione di Krasochoria. A Limassol l’azienda ‘sforna’ attualmemente 30 mila ettolitri di birra al mese, mentre nelle altre due sedi viene prodotto vino.
La conoscenza con Keo avviene non appena sbarcati sull’isola, dove in ogni angolo sono presenti pubblicità di questo colosso. Il primo bacio avviene quasi spontaneamente, nel primo locale di Cipro dove il turista sosta alla ricerca di refrigerio. La birra Keo è una lager leggera che deve competere soltanto con un altro prodotto: la birra Lion. Ma il confronto con questa superpotenza del settore è improponibile.
Èquasi raro trovare qualche ristorante o chiosco che abbia entrambe in lista. Il risultato è che Keo opera in un regime di quasi totale monopolio sull’isola. E di conseguenza i prodotti risultano poco tipici, poco ciprioti, troppo internazionali (nel senso negativo del termine) e troppo “chimici”.
Nei vini Keo, acquistabili in ogni catena di distribuzione di Cipro, sia essa nazionale o internazionale (Carrefour, per intendenrci) si avverte un utilizzo smodato dei solfiti. In sintesi: due bicchieri e sei KO. Anzi, KeO. Un esempio? Provate lo Xynisteri, acquistabile anche al Lidl locale.
CYPRUS WINE MUSEUM – MUSEO DEL VINO DI ERIMI, LIMASSOL Altra tappa obbligata per gli amanti del vino a Cipro è il Cyprus Wine Museum, il Museo del vino di Cipro. Situato a Erimi, piccolo borgo di 1.400 abitanti a pochi chilometri da Limassol. Si tratta di una meritevole iniziativa privata di Anastasia Guy, che ha messo a disposizione del pubblico (biglietto di ingresso tra i 4 e 7 euro) la propria collezione privata di cimeli dell’arte di fare il vino, abbinando al tour guidato del museo la degustazione dei vini rigorosamente ciprioti prodotti e venduti sul posto, recanti il marchio Cyprus Wine Museum.
Si passa dal Maratheftiko al Mattaro, nonché all’immancabile Xynisteri, per poi degustare – accompagnati da dolci tipici – la famosa Commandaria, uno dei vini più antichi del mondo, che per Riccardo Cuor di Leone era “il re dei vini e un vino da re”. “Le uve di Mavro e Xynisteri – spiega Anastasia Guy – vengono lasciate appassire sulla vite, raccolte tardivamente per elevarne il tasso zuccherino presente in ogni acino. Vengono poi lasciate al sole a seccare e solo in seguito pigiate.
Di questo vino liquoroso parla Esiodo, già nell’800 avanti Cristo. Ma conosce una diffusione eccezionale al tempo delle Crociate, quando diventa il vino per eccellenza nei banchetti regali. Questa denominazione di origine controllata – la più antica del mondo anche secondo il Guinness World Records – è consentita solo in quattordici villaggi dell’omonima regione dominata dal castello di Kolossi, situato a pochi chilometri dal Cyprus Wine Museum, in cui si può ancora respirare il fascino dell’epoca del Cavalieri Templari.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
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