Tre nuovi spumanti Metodo classico da uve Nebbiolo in Piemonte. È quanto ha richiesto la maggioranza dei produttori aderenti al Consorzio Tutela Barolo, Barbaresco, Alba, Langhe e Dogliani. L’esito delle votazioni, raccolte in parte attraverso una raccolta firme (l’assemblea fissata a metà giugno non aveva raggiunto il quorum di partecipanti), è stato comunicato ieri alle cantine aderenti al Consorzio piemontese. L’iter per l’approvazione definitiva delle modifiche ai disciplinari potrebbe portare alla nascita di due sparkling Blanc de Noir – Nebbiolo d’Alba spumante Metodo classico vinificato in bianco e Langhe Doc Nebbiolo Metodo classico vinificato in bianco – e di un rosato, il Langhe Doc Nebbiolo Metodo classico rosé. I tre nuovi spumanti Made in Piemonte potrebbero vedere la luce a partire dalla vendemmia 2024.
Le votazioni sono state accompagnate da un dibattito a tratti acceso tra i produttori. L’esito è frutto di maggioranze tutt’altro che schiaccianti. Secondo fonti di winemag.it, l’accordo maggiore sarebbe stato registrato dal Nebbiolo d’Alba spumante Metodo classico da Nebbiolo vinificato in bianco. Il disciplinare di produzione dei vini a Denominazione di origine controllata Nebbiolo d’Alba prevedeva già le tipologie “Nebbiolo d’Alba Spumante” (rosso) e “Nebbiolo d’Alba Spumante Rosé”. Il Blanc de Noir completerebbe la gamma di colori dello sparkling ottenuto da uve Nebbiolo, con l’avallo alla vinificazione in bianco della varietà allevata in 25 comuni situate sulle due sponde del fiume Tanaro. Un provvedimento che innalzerebbe il valore dei BdN albesi, per i quali al momento è obbligatorio il declassamento delle uve.
La vera svolta riguarda i due Metodo classico Langhe Doc da uve Nebbiolo, Blanc de Noir e Rosé. A spingere per questa tipologia sono soprattutto i produttori di Barolo e Barbaresco, a cui è stata negata l’introduzione del vitigno simbolo del Piemonte nel disciplinare dell’Alta Langa, lo Champenoise ormai diventato simbolo d’eccellenza del mondo delle bollicine piemontesi. Di qualche anno fa l’esplicita richiesta di produttori come Sergio Germano (Ettore Germano, Serralunga d’Alba), rispedita al mittente dall’allora management dell’Alta Langa, guidato dal 2013 al 2022 da Giulio Bava (Cocchi). Una decisione poi confermata anche dalla nuova gestione targata Mariacristina Castelletta (Tosti 1820), in carica appunto dallo scorso anno. Nessuna indicazione, al momento, sul periodo minimo di affinamento sui lieviti dei due nuovi spumanti langhetti base Nebbiolo (qualcuno spinge per un minimo di 24 mesi, proprio come previsto dal disciplinare dell’Alta Langa).
RESE, BAG IN BOX, VARIETÀ AROMATICHE, ALBAROSSA E ROSÉ
Le tre novità “spumeggianti” non sono le uniche ad essere state approvate. Sono state infatti richieste modifiche delle rese del Langhe Rosso e del Langhe Rosato, portate a 110 quintali per ettaro, rispetto ai 100 attuali. La recente introduzione del Langhe Doc Barbera, con rese pari a 110 quintali, impedisce al momento il declassamento utile alla produzione di uvaggi Langhe Rosso o Langhe Rosato. L’innalzamento di 10 quintali pareggia i conti tra le due tipologie e offre ai produttori nuovi strumenti di valorizzazione del Barbera.
Sempre sul fronte del Langhe Doc Bianco e Rosso, è stata introdotta la possibilità di utilizzo di varietà aromatiche nell’uvaggio. Un provvedimento già varato nel 2020 dalla Doc Piemonte. Si potrà quindi produrre, per esempio, un Langhe Doc Bianco da uve Moscato secco, pur con divieto di menzione della varietà. Permangono tuttavia dubbi su quello che sarà il nuovo profilo organolettico di vini “Langhe Doc Bianco” potenzialmente ottenibili da varietà aromatiche (anche in purezza), in precedenza non ammesse nell’uvaggio. Il mercato darà le risposte attese. A larghissima maggioranza è stata poi introdotta la tipologia Langhe Doc Albarossa, varietà ad oggi ascrivibile alla sola Doc Piemonte.
Un passo in avanti sui mercati internazionali riguarda poi il Bag in Box, tanto in voga nei mercati scandinavi, Norvegia in testa. Sarà presto possibile produrre Bag in Box Langhe Doc Bianco, Rosso e Rosato, pur senza menzionare le varietà dell’uvaggio né ricorrere a menzioni aggiuntive, come quella della vigna. In precedenza, i BiB langaroli non potevano essere etichettati come “Langhe Doc”, ma solo come vini generici. Un’altra modifica riguarda i rosati. Valoritalia, negli ultimi mesi, ha sanzionato diverse aziende piemontesi di Langa per aver etichettato i loro vini come “rosé” al posto che “rosati”. Con larga maggioranza, è stato proposto di introdurre nel disciplinare il termine “rosé”, ad oggi assente dai testi vagliati dal Ministero e pubblicati in Gazzetta Ufficiale.
MODIFICHE AI DISCIPLINARI DELLE LANGHE: LE TRE BOCCIATURE
Tre le bocciature alle proposte di modifica dei disciplinari del Consorzio Tutela Barolo, Barbaresco, Alba, Langhe e Dogliani. La prima riguarda la mancata approvazione della proposta di avvio dell’iter del “Doc Langhe Moscato secco“. Una denominazione a cui avrebbero potuto aderire molti produttori di Moscato d’Asti Docg i cui vigneti si trovano in provincia di Cuneo, in comuni importanti per la bollicina astigiana come Santo Stefano Belbo e Cossano Belbo, senza contare Neive, Santa Vittoria d’Alba e Neviglie. Un’opzione per il momento scartata, nonostante sul territorio del cuneese esista un brand, “Escamotage”, che raccoglie 13 produttori di Moscato secco.
La Doc avrebbe consentito loro di non declassare questi vini a generici bianchi da tavola, oltre a delimitare l’area di produzione del Moscato secco, creando valore e possibilità di accesso ai bandi europei, che ammettono solo vini a denominazione di origine. No anche al Langhe Doc Viognier, che continua comunque la sua strada nella Doc Piemonte. La terza ed ultima bocciatura riguarda la proposta di istituzione di un Langhe Doc Nebbiolo Superiorecon menzione di vigna, sulla scorta di Barolo e Barbaresco. La tipologia attualmente prevista, il Langhe Doc Nebbiolo, non ammette infatti menzioni di vigna per il Nebbiolo, a differenza di quanto invece concesso per i Langhe Cabernet Sauvignon, Chardonnay, Favorita, Freisa, Merlot, Nascetta, Pinot Nero, Riesling, Rossese bianco e Sauvignon.
I barolisti temono che questa concessione possa scalfire fette di mercato di Barolo e Barbaresco, intaccando la salvaguardia delle due denominazioni al vertice della piramide qualitativa. Per i proponenti, al contrario, il Langhe Doc Nebbiolo Superiore con menzione di vigna sarebbe un’ottima via per proporre sul mercato vini con le stesse rese di Barolo e Barbaresco, immessi tuttavia sul mercato almeno un anno prima. Vini freschi, più beverini e “pronti” dei grandi Re di Langa, che avrebbero portato in giro per il mondo il nome delle vigne di Barolo e Barbaresco, stuzzicando i consumatori a fare, in seguito, l’upgrade. Tra bocciature e approvazioni, una cosa è certa: nella Langhe non ci si annoia mai. Dentro. E fuori. Dal calice.
Docg del Piemonte: 622 nuovi ettari tra Barolo, Barbaresco, Gavi, Asti e Alta Langa
Cresce il vigneto Docg del Piemonte: 622 ettari tra Barolo, Barbaresco, Gavi, Asti e Alta Langa. Le richieste (approvate) dei Consorzi
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
FRASCATI – Anche nel centro Italia è tempo di lavori in vigna. La stagione primaverile piuttosto inclemente ha rallentato lo sviluppo vegetativo delle piante, in particolare per le varietà precoci che si sono trovate a fronteggiare, in piena fioritura, le inaspettate temperature autunnali di maggio.
Ma a giugno inoltrato è finalmente arrivato il momento della potatura verde (o estiva), che ha lo scopo di contenere la chioma per favorire l’irraggiamento solare utile alla maturazione dei grappoli, ed eliminare germogli inutili. A Frascati, tra i vigneti di Cantina Imperatori, c’è una varietà per la quale le cesoie, almeno in parte, sono state tenute nella cassetta degli attrezzi. Si tratta del Viognier.
La vite è una liana – spiega l’agronomo Enrico Carli – e il contenimento della vegetazione normalmente avviene con le potature degli apici vegetativi. Nel caso del Viognier, gli apici sono tuttavia il motore dove si concentrano le sostanze aromatiche“.
“Mantenendoli – continua Carli – riusciamo a ottenere quindi mosti più profumati e complessi. Come lo sappiamo? Nel 2016 abbiamo fatto una prova di assaggio. Dopo aver diviso i mosti di un appezzamento in cui i tralci erano stati potati e di un altro in cui invece erano stati mantenuti, la differenza di ricchezza aromatica era sostanziale”.
Per gestire lo sviluppo della chioma, Cantina Imperatori ha scelto quindi di ricorrere a una pratica agronomica antica, già utilizzata dai contadini in passato proprio per il Viognier e per altri vitigni semi aromatici: la “cocciatura“, ovvero l’attorcigliamento del capo finale della pianta attorno all’ultimo filo di sostegno.
L’operazione viene fatta manualmente nel periodo di massima espansione vegetativa – precisa ancora l’agronomo – e deve essere effettuata con massima delicatezza per evitare che il tralcio si spezzi durante la torsione, motivo per cui in azienda affidiamo questa attività alle nostre collaboratrici donne, più attente, precise e delicate”.
E, nonostante il sole cocente dell’ultima settimana di giugno, è affascinante vedere le operaie all’opera. Gesti veloci ma gentili, per “riordinare” i tralci sparsi delle piante. Come ciocche di capelli scappati da una treccia.
Ma ad allietare la giornata ecco il cooking show dello chef Max Mariola, volto noto della tv che ha studiato due ricette estive da abbinare alla degustazione del Viognier di Cantine Imperatori. Il “picnic in vigna”, con tanto di cestini di vimini, è iniziato con la Panzanella di pane croccante ai tre pomodori, baccalà e basilico, servita nel classico barattolo di vetro.
A seguire, Mezze maniche aglio, olio, peperoncino, mentuccia e pecorino. Un primo piatto sostanzioso, rinfrescato dalla nota balsamica della menta romana, nota localmente col nome di Nepetella.
Perfetto l’abbinamento con il Lazio Igp Viognier 2016 di Cantina Imperatori (88/100 WineMag.it). Un calice di color oro verde, caratterizzato da sentori di erbe aromatiche, agrumi e ginestra, con frizzanti sensazioni di passion fruit e pompelmo giallo di ritorno. Un sorso pieno, di buon corpo, sapido e piacevolmente ammandorlato.
LA CANTINA Ma Cantina Imperatori non è, ovviamente, solo Viognier. Di proprietà del giovane Lorenzo Imperatori, che la gestisce con l’aiuto della sua famiglia, l’azienda è stata fondata nel 2010 a Frascati, nella zona dei Castelli Romani.
Un territorio di eccellenza per la viticoltura laziale. Merito della composizione del terreno, di medio impasto e ricco di scheletro, caratterizzato, al di sotto della fascia di coltivazione di circa 1,5 metri, dalla presenza di strati di basalto, tufo e arenarie scure, formatisi durante l’eruzione dei vulcani laziali.
Tale stratificazione è per altro osservabile nella suggestiva grotta scavata dai romani, alla quale si accede direttamente dalla cantina dell’azienda. Nonostante le potenzialità e l’incredibile vista di cui si gode dalla terrazza e dai vigneti, l’intero comprensorio era stato pressoché abbandonato.
Motivo per cui sono stati necessari lunghi e dispendiosi lavori di bonifica per renderlo nuovamente coltivabile. Le nuove piante sono state messe a dimora nel 2012. Nel 2014 è stata fatta la prima vinificazione in una cantina esterna, perché quella di proprietà non era stata ancora ultimata. Nel 2015 le prime bottiglie in commercio.
La produzione raggiunge oggi le 35 mila unità, distribuite principalmente in enoteche e canali Horeca del Lazio e di Milano, mentre si stanno aprendo nuovi sbocchi commerciali in Svizzera e in Belgio.
Le tipologie di vini per ora in commercio sono cinque, più una grappa invecchiata prodotta dalla distilleria Berta (dai 20 euro del Viognier ai 35 euro del Cabernet Sauvignon). Una realtà giovanissima, quindi, ma già con le idee ben chiare su quali siano gli obiettivi da raggiungere.
“Sin da subito, ci è stata data la possibilità di lavorare con serietà e con solide basi, sia in vigna che in cantina”, evidenzia Angelo Giovannini, consulente enologico con esperienze in numerose aziende del Lazio, che lavora in squadra con Enrico Carli e Daniele Lombardi.
A Giovannini il compito di occuparsi degli aspetti commerciali “scegliendo con cura quali uve impiantare e non badando a spese soprattutto in vigna, dove nasce veramente il buon vino”. Tutta l’azienda, che produce anche olio Evo da alberi secolari di Rosciola, Leccino e Frantoio, è in conversione al biologico.
IL METODO CLASSICO BASE CESANESE
Le varietà di uva a bacca bianca sono Viognier e il Trebbiano verde, presente nel Lazio sin dall’epoca romana col nome di Virdis, ma ben noto nelle Marche come Verdicchio e in Veneto come Trebbiano di Soave e di Lugana.
Due le tipologie prodotte, entrambe etichettate Lazio Igt Segreto Verde: una vinificata in acciaio e l’altra che sosta per 6 mesi in anfore di argilla, appositamente studiate e create dall’azienda Tava.
Tra le uve rosse spazio al Cesanese (varietà autoctona laziale diffusa soprattutto nella zona di Piglio, Affile e Olevano laziale, sedi delle omonime Doc) il cui vino matura in botte grande per 12 mesi, Cabernet Sauvignon (maturato in tonneau per 24 mesi) e Petit Verdot, che verrà imbottigliato quest’anno per la prima volta, dopo una sosta in acciaio.
Ma la vera notizia è l’inedita spumantizzazione col Metodo Classico del Cesanese. Lo scorso anno, circa 15 quintali di uva sono stati raccolti anticipatamente per conservare un’acidità elevata.
Sono stati vinificati in bianco e, una volta effettuata la malolattica, proprio in questi giorni, dopo il tiraggio, inizieranno il loro affinamento di circa 3 anni in bottiglia, riposando al fresco nella grotta romana. La data prevista per la commercializzazione è giugno 2022 e noi non vediamo veramente l’ora di assaggiarli.
Cantina Imperatori
Via di Pietra Porzia, 14
00044 Frascati (RM)
Tel. +39 0694015058
Cell. +39 3394586822
info@cantinaimperatori.it
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(5 / 5) Originario del Rodano settentrionale, dove per tradizione costituiva il partner ideale nell’uvaggio con il Syrah, il Viognier è un vitigno a bacca bianca di spiccate suggestioni aromatiche, odoroso di gelsomini e pesche, che negli ultimi anni si è diffuso anche in Italia con risultati spesso
sorprendenti.
In vendita nei supermercati del circuito Pam, il Viognier Gurgò Cantine Paolini rientra nei canoni del disciplinare DOC Sicilia. Un bianco corposo, equilibrato, intenso, brevemente affinato in legno. Un vino che conquista per l’immediata piacevolezza e l’ottimo rapporto qualità/prezzo.
LA DEGUSTAZIONE
All’analisi sensoriale il Sicilia Doc Viognier Gurgò 2016 di Cantine Paolini sfoggia un giallo limone di media intensità. Al naso affiorano profumi agrumati, pompelmo e scorza di limone, fiori d’arancio, pesca bianca e banana, cenni di salvia. Poco alla volta compaiono sbuffi di vaniglia e tostatura.
Sorso pieno,sapido, intenso nell’espressione aromatica, sostenuto da un’appagante vena di freschezza. Finale armonico, intessuto di toni speziati e vanigliati. Persistenza sopra la media. Davvero un vino sorprendente!
Si rivela sodale perfetto in abbinamento con piatti fusion e della cucina asiatica, e con preparazioni marinare a base di salmone, sgombro, anguilla e pesce spada. Ottimo con una tagliata di pollo e verdure alla piastra. Da provare assieme a formaggi a pasta morbida.
LA VINIFICAZIONE Il Sicilia Doc Viognier Gurgò di Cantine Paolini nasce da uve vendemmiate a mano nella terza settimana d’agosto. In cantina segue una pressatura soffice ed una lenta fermentazione a 15° che si protrae per circa quattordici giorni a temperatura controllata. Dopo un breve passaggio in botte il vino affina per sei mesi in bottiglia prima di essere immesso alla vendita.
Il vigneto Paolini si stende per tremila ettari nel versante meridionale e orientale dei comuni di Marsala, Trapani, Salemi e Mazara del Vallo. L’azienda nasce nel 1964 a Marsala su un territorio storicamente vocato per la viticoltura e oggi vinifica le uve di oltre mille conferitori. La contrada Gurgò vanta un terreno di matrice carsica che dona al vino una peculiare mineralità.
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Sei cantine per raccontare il vino di Malta. Dai due grandi gruppi che si contendono il primato commerciale sull’isola, Delicata e Marsovin. Passando per Meridiana – che ormai parla italiano – azienda di proprietà dei marchesi Antinori.
Proseguendo con Maria Rosa, il “giocattolino” di un milionario ultranovantenne del posto. E chiudendo, a Gozo, con Ta Mena Estate e Tal-Massar. Questo il percorso del wine tour.
Caccia agli autoctoni Gellewza, Girgentina e Serkuzan. Ma anche alle sfumature locali di varietà internazionali come Chardonnay e Sauvignon, tra i bianchi. Cabernet, Merlot e Syrah, tra i rossi. Una viticoltura, quella di Malta, che deve molto agli aiuti giunti dalla Comunità europea, a cui l’ex colonia britannica ha aderito il primo maggio 2004.
Un lasso di tempo che consente oggi all’isola di candidarsi a ruoli di tutto rispetto nel panorama enologico internazionale. Francia e Italia sono i modelli, seppur ancora lontani. Ancor di più se si considerano i 400 ettari liberi per investimenti nel settore, a fronte delle scelte di un governo distratto dai soldi facili delle compagnie assicurative internazionali e, soprattutto, del gaming e del gioco d’azzardo online.
Malta piace sempre di più agli investitori esteri in cravatta e ventiquattrore. Attirati dai vantaggi di una lingua ufficiale internazionalmente parlata, l’inglese. E dagli effetti della Brexit, che la stanno trasformando in una piccola cassaforte dei sudditi della regina.
Nel frattempo, le nuove generazioni maltesi abbandonano la campagna, preferendo i centri urbani disposti a raggio attorno alla capitale La Valletta. L’età media dei lavoratori impiegati nei 750 ettari vitati dell’isola, secondo dati forniti sul posto, si assesterebbe sui 50 anni.
Roba per vecchi, insomma, zappare la terra e godere dei frutti di Bacco, a Malta. D’altro canto, strade sempre più trafficate e in pessimo stato rallentano l’economia della piccola nazione del Mediterraneo.
E rimandano il countdown per l’Olimpo del vino, almeno di qualche anno. Mentre il turismo punta sempre più sui Millennial, la Generazione Y. Quella che si fa andar bene pure le spiagge sporche – oggi più di 10 anni fa – purché il deejay pompi musica a palla, che arrivi tra le onde.
Trovare manodopera qualificata, a Malta, è ormai un’impresa. Spesso sono aziende siciliane ad aggiudicarsi le aste per i lavori nel pubblico. E i privati, come le cantine, faticano addirittura a reperire elettricisti, idraulici, esperti nella catena del freddo e manovalanza in generale. Costi quintuplicati, dunque, per ogni singolo intervento necessario in un’ottica di modernizzazione delle strutture e delle attrezzature enologiche.
Se di mezzo ci si mette pure il cielo, con le ultime vendemmie stroncate da siccità e mancanza di reti idriche adeguate per l’irrigazione di soccorso, si comprende perché grandi gruppi come Delicata e Marsovin stiano tentando di raggiungere accordi col Palazzo del Gran Maestro, sede del nuovo parlamento progettata da Renzo Piano.
Alla viticoltura maltese occorrono denaro fresco, un programma che invogli i giovani a tornare a credere nella terra e investimenti sulla valorizzazione dei vitigni autoctoni, estirpati in massa nei due secoli di dominazione araba. Basti pensare che sull’isola cresce meno di un ettaro di Gellewza.
Completano il quadro incredibili rivalità commerciali tra l’isola madre, Malta, e la più grande delle due “isole satellite” dell’arcipelago: Gozo. Nella capitale La Valletta è impossibile reperire un vino gozitano al ristorante. Scarseggia l’offerta anche nella maggior parte delle enoteche. Mentre le catene di supermercati sembrano non curarsi dell’antagonismo.
TA MENA ESTATE Eppure è Gozo a offrire il miglior vino in circolazione a Malta. Un assortimento di etichette di ottimo livello dal produttore Joseph Spiteri, 58enne dagli occhi azzurri come la Blue Lagoon, che ha raccolto l’eredità dei bisnonni Carmela, detta “Mena”, e Frank: a loro si deve l’inizio di un’avventura chiamata Ta Mena Estate. La copertina del wine tour a Malta è tutta sua.
Joseph Spiteri è il guardiano dell’isola di Gozo. Dai 2 ettari del 1986, l’azienda di famiglia è passata negli anni a 25 ettari, quindici dei quali vitati. E Joseph ha ancora voglia comprare terre da convertire alla viticoltura e ad altri progetti in ambito agricolo. Mentre tutt’attorno i giovani sembrano aver perso il nesso con le origini.
A Ta Mena Estate lo staff è internazionale. In cantina anche un enologo italiano, Claudio De Bortoli. Ed è proprio all’Italia che si ispira Spiteri, che ha “imparato a fare il vino in Veneto, sui Colli Euganei, e poi in Toscana”. Un “allievo dell’università della strada”, come ama definirsi, che opera in regime naturale, pur senza alcuna certificazione.
Nel 2017 cade il decennale delle “vendemmie professionali” di Ta Mena, cantina con una capacità produttiva di 150 mila bottiglie. “Servizi finanziari, scommesse, assicurazioni – denuncia Spiteri – sono il nuovo male dell’economia maltese, in crescita di 6,5 punti ogni anno. Ma a che prezzo? Senza investimenti nell’agricoltura si gioca col destino”. Nel frattempo, Joseph, pensa a produrre vini che rappresentino appieno il terroir matese.
Il Vermentino Gozo Dok 2016 “Juel” si fa apprezzare per il naso salino e fruttato e per un palato morbido, pieno, piacevolmente disorientante per la mancata corrispondenza gusto-olfattiva. Il rosè “Grecal”, altro Gozo Dok, vendemmia 2015, è invece una delle chicche di Ta Mena Estate.
Ottenuto al 35% dall’autoctona Gellewza su una base di Merlot (50%) e con l’aggiunta geniale di un 15% di Tempranillo (colore e corpo), regala note floreali dolci al naso, tipiche del vitigno maltese a bacca rossa, e un vegetale prezioso offerto dal Merlot. Bella acidità e persistenza da campione. Incredibile si tratti di un rosato 2015, con altri 3-4 anni davanti, a ottimi livelli.
Sul gradino più alto del podio, però, c’è Gabillott 2009, blend di cinque uve: Merlot, Serkuzan (Nero d’Avola), Cabernet Sauvignon e Franc (15-20%) e Syrah.
Un vino capace di concentrare in bottiglia e riversare poi nel calice il clima di un’isola baciata dal sole 300 giorni l’anno (60 mm totali di pioggia), con venti per l’80% provenienti da Nord Ovest, secchi, e un suolo prettamente calcareo e limoso.
Naso generoso e intenso, dalla frutta alle spezie, con quella costante iodica che caratterizza tutti i vini di Ta Mena Estate. Al palato la mineralità è il tratto distintivo, assieme alle note fruttate, ancora croccanti come un biscotto. Chapeau.
Peccato che gli americani preferiscano la versione “barrique” (9 mesi / 1 anno) di Gabillott, con Carmenere al posto del Cabernet Franc.
Joseph Spiteri ha un’anima d’artista. Dipinge i paesaggi di Malta, la notte, al posto di dormire. Con le canzoni dei Pink Floyd o la musica classica di Beethoven a fare da sottofondo. Vere e proprie tele sono anche i suoi vini. Gli unici capaci di rappresentare davvero la verità del terroir di Malta, senza cercare di piacere per forza. Vini veri, insomma.
MASSAR WINERY Vini che avrebbe potuto fare “così” anche Anthony Hili di Massar Winery. Il vicino di casa, a Gozo, di Joe Spiteri. Peccato che Hili offra, con le sue etichette, la netta sensazione di non considerare Spiteri alla stregua di un genuino modello da imitare.
A Massar Winery l’obiettivo sembra più il consenso internazionale. E qualche premio (l’ultimo in Spagna) è effettivamente arrivato per la cantina di L-Għarb, Garbo in italiano, paesino situato nella parte Nord Ovest dell’isola satellite di Malta.
Vini come Tanit 2016, San Mitri 2014 e Garb 2013 paiono troppo “pensati” in cantina. Etichette che non riescono a nascondere l’abile mano di un enologo che ha l’intento di colpire il pubblico straniero. Non a caso, i residui zuccherini dei Sirkusian proposti in degustazione fanno impazzire le due turiste del Minnesota presenti al tavolo.
Abile intrattenitore, Anthony Hill racconta come “tutto, a Malta, è stato distrutto dalla politica che non crede nel ‘local’ e che non valorizza le imprese”. Come la sua, 6 ettari complessivi (3 di proprietà), e un record produttivo di 16 mila bottiglie.
A Massar Winery si allevano Vermentino, Sangiovese (importato dall’Emilia), utilizzato per la produzione di un rosso leggero e di un rosè, e l’autoctono Sircusian (anche detto Serkuzan e Sirakuzan il Nero d’Avola giunto proprio dalla Sicilia). A meritare una menzione è proprio quest’ultimo, nella versione simil “passito” di Garb 2013: vendemmia tardiva che sprigiona sentori di mela cotta, ciliegia, liquirizia, cioccolato e rabarbaro.
MERIDIANA WINE ESTATE
Tratti ancora più internazionali alla Meridiana Wine Estate, l’investimento su Malta della famiglia fiorentina dei Marchesi Antinori. Un’azienda vocata principalmente al mercato locale (export al 3%) soprattutto per lo scarso numero di bottiglie prodotte (circa 140 mila) da 17 ettari di terreni, con l’apporto di alcuni conferitori.
Un progetto nato nel 1997, che vede protagonisti vitigni francesi come lo Chardonnay (il più venduto), il Cabernet Sauvignon, il Merlot e il Syrah, accanto a Vermentino, Moscato, Viognier e piccole percentuali di Girgentina.
Vendemmia manuale e pratiche di cantina volte a preservare il “Maltese character” delle uve, non sempre con i risultati sperati – in termini di distintività – per l’utilizzo di un legno che tende a uniformare al gusto internazionale il singolo vitigno utilizzato.
Ma a colpire sono i prezzi di questi vini, letteralmente “regalati” per la qualità che riescono a esprimere (dai 9,20 ai 18,40 euro del Merlot top di gamma). A colpire, in modo particolare, sono i 15,90 euro del blend tra Cabernet Sauvignon (70%) e Merlot (30%). Il vino è Melquart 2014, 10-12 mesi di barrique. Naso splendido, ricco, balsamico, con richiami vegetali puliti, tipici dei due vitigni e in particolare del Merlot.
Grande corrispondenza al palato, dove alle note balsamiche fanno eco venature sapide che invitano la beva. Un calice e una bottiglia che rischia di finire in pochi minuti, davanti al giusto piatto. Più che soddisfacente anche il retro olfattivo, lungo. Il vino di Malta “fatto” meglio, in assoluto.
MARIA ROSA WINE ESTATE
Da Castrofilippo, paesino di 3 mila anime alle porte di Agrigento, passando per Saint-Émilion, vicino Bordeaux. Ha visto il mondo dalle vigne, dopo gli studi in Enologia e Viticoltura a Udine, la 31enne Lorena Molito. E’ atterrata a Malta due vendemmie fa. E la sua mano, a Maria Rosa Wine Estate, si sente eccome.
Poco più di 4 ettari, allevati per la maggior parte a Sirakuzan (Nero D’Avola), Cabernet Sauvignon (8%) e Syrah (2%). La tenuta, situata ad Attard, nel centro dell’isola di Malta, poco lontano dalla cittadina di Mdina, è dal 2006 il gioiellino di proprietà di Joseph Fenech. Un milionario maltese di 93 anni, imprenditore nel settore alberghiero, con la passione per il vino.
Ventimila bottiglie l’anno, zero export. Una piccola produzione di medio alto livello, cresciuta (qualitativamente) negli ultimi anni proprio grazie all’arrivo, in cantina, dell’enologa siciliana Lorena Molito.
“Questa – spiega – è una piccola realtà che punta a produrre vini di qualità. Quando sono arrivata qui, tre anni fa, mancavano però alcuni accorgimenti indispensabili, come il sistema di controllo della temperatura per le vasche in inox. Ho dovuto impormi per far comprendere che occorrevano investimenti senza i quali non si sarebbe mai raggiunto l’obiettivo”.
Nelle vasche riposa l’ultima annata, la 2017, che si preannuncia ottima. Sono pronti per essere imbottigliati il Sirakuzan Dok 2016 – grande facilità di beva, favorita da un bellissimo frutto rosso – e il Cabernet Dok 2016.
Il meglio riposa in barrique: da assaggiare le riserve di Sirakuzan, Syrah e, su tutte, quella di Cabernet Sauvignon. Peccato per il Sirakuzan vinificato in bianco, una chicca di Maria Rosa Wine Estate: non sarà prodotta quest’anno, per via della scarsità della vendemmia.
MARSOVIN WINERY Un elenco infinito di vini sulla “carta” di Marsovin, uno dei due maggiori gruppi del settore, a Malta. Ben 43 etichette, utili a spaziare dalla base alle linee di medio livello (vini destinati alla Gdo, tutti con un ottimo rapporto qualità prezzo) sino al top di gamma.
Un milione e mezzo le bottiglie prodotte dai 23 ettari di proprietà, cui vanno a sommarsi i 330 ettari dei selezionati e storici conferitori. Mercato locale al 96% e tante richieste dall’estero (per esempio dalla Cina) impossibili da soddisfare, per via dei numeri risicati e dell’andamento climatico delle ultime vendemmie.
I terreni di proprietà, in particolare, sono dislocati nelle aree a maggiore vocazione dell’isola e consentono a Marsovin di offrire un quadro completo dei terroir maltesi. A Marnisi Estate (8,5 ettari a Marsaxlokk, uno degli appezzamenti più grandi dell’isola) su producono vini in stile Bordeaux; a Ghajn Rihana (1.2 ettari a Burmarrad, nella zona di St. Paul Bay) grazie alla competizione radicale (120 centimetri tra una pianta e l’altra), si punta a rese più basse, in grado garantire una maggiore qualità per le varietà di Cabernet Sauvignon e Franc; a Wardjia Valley (1,5 ettari) sempre a nord, vicino a Ghajn, il vento è forte e le vigne sono disposte in suo favore, protette da alberi tra i filari di Chardonnay.
Marsovin, storica realtà maltese, fondata nel 1919 da Anthony Cassar, merita una menzione proprio per il coraggio: è l’unica cantina di Malta a produrre un Metodo Classico, il Cassar De Malte, un Brut ottenuto dal cru in Wardija Valley. Record produttivo di 5 mila bottiglie.
Perlage fine e persistente, naso tipico del vitigno, con richiami alla crosta di pane e al lievito dovuti ai 24 mesi di permanenza sui lieviti. Il bouquet è floreale e fruttato fresco, marcatamente agrumato e tendente all’esotico. Corrispondente al palato, dove il perlage si rivela cremoso. Lungo il retrolfattivo. Passare da Malta e non provarlo è un vero peccato.
Ma Marsovin non si limita alla produzione di un ottimo sparkling. Bernard Muscat, wine specilist che si occupa di PR ed Eventi per il gruppo Cassar Camilleri, guida la degustazioni delle migliori referenze della cantina, nel quartier generale della cittadina portuale di Paola (Pawla o Raħal Ġdid), a Sud della capitale La Valletta.
La famiglia Cassar ama l’Italia e, in particolare, l’Amarone. Per questo, dal 2009, ha pensato di produrre il Malta Dok “Primus”, ottenuto da Gellewza (65%) e Syrah (35%) da appassimento (“Imwadded” in etichetta). Nel calice la vendemmia 2015 presenta il tipico colore concentrato. Così come spessi sono i sentori che si liberano al naso: note di fico, prugna secca, confettura di frutti rossi.
E poi tabacco, miele d’acacia. Note bilanciate tra l’affumicato e il dolce che si ritroveranno anche al palato, dove a colpire è la presenza di una componente minerale salina e un tannino di velluto, coperto da cioccolato, che fa capolino nel retrolfattivo. Un vino perfetto davanti a un libro, oltre che con il giusto abbinamento a tavola.
Molto interessante anche il Passito “Guze” 2014, lanciato sul mercato da Marsovin in occasione del 16° anniversario dalla morte di “Sur Guzi”, “Signor Giusè(ppe)”, Joseph Cassar, uno dei discendenti del fondatore. Si tratta sempre di Syrah appassito, con un residuo zuccherino di 120 g/l tutt’altro che stucchevole. Naso intenso, come quello di “Primus”, con cui lotta in quanto a finezza dei sentori.
Marnisi Old Vines 2015 è invece un blend di Merlot (40%), Carbernet Sauvignon (30%) e Cabernet Franc (30%). Un taglio bordolese tout court, ottenuto dalle vecchie vigne di Marsaxlokk. Il passaggio in legno è evidente, sia al naso che al palato, ma non invasivo.
Rosso rubino poco trasparente, questo rosso di Marsovin Winery sfoggia un naso molto elegante, nonostante la prevalenza di note vegetali spinte: carruba, rosmarino, origano, ma anche frutta rossa come la ciliegia. I terziari sfiorano liquirizia, tabacco e incenso. Il palato completa il quadro con la consueta mineralità, ancora una volta ben bilanciata alle note fruttate. Particolare il gioco tra sale e frutta: componenti tra le quali mette il dito un tannino ancora vivo. Lunga vita davanti a questo taglio, degno di Bordeaux.
Non male, tra i bianchi, la Girgentina Igt Maltese Islands 2016 in purezza della linea “La Torre”, reperibile anche al supermercato. Giallo paglierino, naso tendente all’aromatico, ricorda per certi versi il Moscato secco. Un vino che aspira alla Dok, per la quale Marsovin sta riducendo sempre più le rese, che oggi si assestano sui 90-100 quintali/ettaro.
Un vino dal corpo leggero (10%) ma non banale, adatto all’aperitivo e alle calde estati maltesi. Naso e bocca corrispondenti, giocate soprattutto sulla freschezza acida di agrumi come limone, il lime e il bergamotto. Sorprendente la chiusura sulla nocciola.
EMMANUEL DELICATA WINEMAKER Sesta ed ultima tappa del wine tour a Malta, alla Emmanuel Delicata Winemaker. Restiamo a Paola, a poche centinaia di metri in linea d’aria da Marsovin. Con 1,2 milioni di bottiglie, Delicata è il secondo gruppo dell’isola.
Storia antica anche per questa grande azienda, fondata nel 1907 da Eduardo Delicata e passata nel 1937 nelle mani del figlio, Emmanuel, all’epoca appena diciannovenne.
Una politica aziendale completamente diversa rispetto a quella di Marsovin. “Non abbiamo nessun terreno di proprietà – spiega Georges Meekers, da 17 anni a capo dell’Ufficio vendite – sulla base del nostro progetto denominato ‘Vines for Wines’. Lavoriamo con oltre 300 viticoltori maltesi, che seguiamo attentamente con il nostro staff, a disposizione in ogni procedimento in vigna”.
Un progetto più unico che raro di “vigne in franchising”, quello della Emmanuel Delicata Winemaker. “Chiunque decida di diventare nostro conferitore – aggiunge Meekers – viene seguito dall’individuazione dei vigneti alla vendemmia. Siamo diventati così la prima cantina di Malta per quantità di uve e varietà allevate, più di 25 nel 2017. E a differenza dei competitor crediamo da oltre 20 anni nelle potenzialità degli autoctoni Girgentina e Gellewza”.
Cinquanta i vini prodotti da Delicata, “ma tutti in piccole quantità”, tiene a precisare Meekers: “I nostri sono boutique wines”. Export al 5% e grande concentrazione sul mercato maltese, specie in quello della Grande distribuzione, dove Delicata occupa un ruolo di grande rilievo a scaffale.
Nella linea non potevano mancare dei vini “mossi”. Ma non si tratta di Charmat o frizzanti. Delicata produce “aerated wines” con gli autoctoni Gellewza e Girgentina, perfetti per l’aperitivo. Peccato che le “bollicine” siano ottenute mediante aggiunta di anidride carbonica al vino. “Ma solo in piccole quantità – precisa Meekers – in quanto cerchiamo di conservare le bollicine che si creano naturalmente durante la fermentazione”.
Sono tutti vini “leggeri” quelli della Emmanuel Delicata Winemaker, pensati per un pubblico maltese non troppo esigente. A colpire è il solo Merlot Malta Dok Superior 2015 della linea Grand Cavalier, tra i vini più strutturati della casa di Paola. Frutto di un mix di barrique (Slavonia, Francia e Usa) che non sbilancia sui terziari naso e palato. Anzi, il Merlot risulta piuttosto caratteristico per la sua parte minerale-salina, che ben si amalgama alle note tostate di caffè e toffee conferite dal passaggio in legno.
Da provare anche il Moscato Malta Dok 2012 Grand Vin de Hauteville , vino liquoroso (15%) a base Moscato. Lievi e piacevoli note ossidative al naso e richiami all’idrocarburo per questo nettare di grande concentrazione gusto-olfattiva. Al palato per nulla stucchevole, sembra non stancare mai. Perfetto con formaggi e dolci come crostate alla frutta.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Centosessantadue vini degustati in diciotto differenti cantine, poste su un percorso di circa 250 chilometri. Sono i numeri più significativi del wine tour di vinialsupermercato.it in Svizzera, dal 24 al 30 luglio. Una settimana di peregrinazioni tra le splendide vie del “vino eroico” dei cantoni Valais (Vallese), Vaud e Geneve (Ginevra). Vigne a picco sul nulla, divise da cascate, costrette a fare i conti con il gelo invernale così come con il caldo torrido estivo. Vigne che costringono alla raccolta manuale delle uve. Vigne nelle quali i viticoltori locali vivono e, come successo a luglio a Fully, nei pressi di Sion, muoiono di lavoro. In due parole: viticoltura eroica. Ci hanno aperto le porte piccole realtà a conduzione famigliare, così come grandi gruppi cooperativi attenti più alla qualità che alla quantità del vino imbottigliato. E minuscole cantine, la cui produzione finisce – pressoché interamente – sulle tavole di lusso dei ristoranti stellati Michelin. Un tuffo in una realtà, quella del vino svizzero, a noi tanto vicina eppure ancora praticamente sconosciuta. Un wine tour che ci ha portato a toccare con mano la decrescita registrata per il secondo anno consecutivo, nel 2015, dai vini svizzeri nella Gdo (Coop Schweiz, Spar Handels, Volg per citarne alcuni, mentre Migros non vende alcolici). Una tendenza inversa al consumo di vini locali, in crescita dello 0,8%, come evidenzia una ricerca condotta da Philippe Delaquis per l’Osservatorio svizzero del mercato del vino (Osmv). Con i vini bianchi che restano i più venduti nei supermercati elvetici, mentre le vendite dei rossi Aoc (l’Appellation d’origine contrôlée che equivale alla Doc italiana) calano del 13%, a fronte di un aumento dell’1,8% del consumo di vino rosso svizzero. Sta pagando, insomma, il tentativo di recupero dei vitigni autoctoni svizzeri condotto da diverse cantine visitate. Oltre alla valorizzazione di uvaggi prima destinati alla sola produzione di vino sfuso o da “da tavola”.
“Visto le scarse riserve a disposizione e le incertezze legate al franco forte – evidenzia Philippe Delaquis in una nota dell’Osmv – il vino svizzero oggi cerca un’alternativa alla grande distribuzione. Per questa ragione l’Osmv, dal primo aprile 2016 ha deciso di raccogliere anche i dati presso i produttori, le cantine e di stimare ogni tre mesi, anche attraverso la Mercuriale, le tendenze di consumo. Questi dati esistono dal 2012 per i vini del cantone Vaud, ma l’Osservatorio intende ora estendere questa raccolta a tutte e 6 le regioni vitivinicole svizzere”. In generale, i vini importati provengono dall’Italia (71 milioni di litri), seguita dalla Francia (circa 40 milioni di litri) e dalla Spagna (circa 37 milioni di litri). Dal Portogallo sono stati importati circa 11 milioni di litri di vino. Se paragonate alle importazioni, le esportazioni risultano modeste: 227.500 litri in meno rispetto al 2014. Complessivamente, nel 2015 il volume d’esportazione è stato a 1,3 milioni di litri, cifra che comprende anche i vini esteri importati e riesportati, come evidenzia in una nota l’Ufag, Ufficio Federale dell’Agricoltura Svizzera. Una vendemmia non eccezionale in termini di quantità, quella del 2015: 85 i milioni di litri prodotti. Ma ottima dal punto di vista qualitativo. I giorni di sole sono stati molti. Ed è così che, tra le cantine, abbiamo potuto degustare uno straordinario vino bianco biologico senza solfiti a 15,5%. Proprio sul grado zuccherino, in particolare sulla possibilità di estendere ai vini Aoc l’autorizzazione di introdurre artificialmente zucchero, è in corso in Svizzera una battaglia tra piccoli viticoltori e grandi gruppi, a colpi di carte bollate presso i rispettivi governi federali.
ST JODERN KELLEREI, VISPERTERMINEN (VALAIS) Quale posto migliore per iniziare il wine tour se non i vigneti della St Jodern Kellerei, considerati tra i più alti d’Europa? Siamo a Visperterminen, piccolo Comune di 1.500 anime arroccato sui monti a sud del Rodano (Rhone). La zona meridionale dell’imponente corso d’acqua – che nasce in Svizzera e si spegne nel Mediterraneo, dopo aver attraversato il Sud della Francia – è considerata quella sfavorevole per la viticoltura vallese (5.100 ettari totali). Ma l’esposizione a Sud dei circa 50 ettari di vigneti della St Jodern Kellerei – cifra che si raggiunge sommando una miriade di piccoli appezzamenti di terreno, appartenenti ad appassionati abitanti del posto – costituisce un miracolo della natura che, assieme allo straordinario terroir, contribuisce a rendere magici i vini. Un’area vitivinicola che, di per sé, meriterebbe il riconoscimento di quella che in Italia è la Docg. I terreni, composti prevalentemente da sabbia, ardesia e argilla, sottendono al clima secco di una vallata che è la meno piovosa dell’intera Svizzera. Fendant, Johannisberg (Sylvaner), Gewurztraminer, Resi (Rèze), Pinot Nero, Gamay, Gamare e Syrah i vitigni allevati. Ma a farla da padrona, con circa un terzo delle bottiglie prodotte (100 delle 450 mila totali) è certamente l’Heida (Savagnin Blanc), il “vino delle Alpi”. All’enologo di formazione italiana Michael Hock (nella foto), 34 anni, il compito di fare gli onori di casa. “St Jodern Kellerei – spiega – è una cooperativa completamente differente rispetto al concetto di cooperativa italiana nel ramo del vino. Quando sono venuto via dall’Italia, dove in seguito agli studi presso l’Università di Torino ho lavorato per la Vignaioli Piemontesi, ho portato qui l’expertise acquisita. Ma sono rimasto sconvolto, positivamente, dall’attaccamento alla terra di ognuna delle famiglie che conferiscono le proprie uve a questa cantina. Nella maggior parte dei casi si tratta di persone che svolgono prevalentemente altri lavori, ma che comunque amano a tal punto le loro viti da trattarle come figlie. Il 99% di quello che conferiscono al momento della vendemmia, che qui si svolge manualmente, approssimativamente dal 25 settembre al 7 novembre, è letteralmente perfetto dal punto di vista fitosanitario: un sinonimo della gioia della tradizione e della voglia di portare avanti con successo il frutto delle terre ereditate di generazione in generazione”.
L’enologo Michael Hock ci ha messo comunque del suo, trasformando la St Jodern Kellerei in una cantina vocata alla produzione di vini veri, originali, tradizionali. Vini che parlano del terroir, del microclima di Visperterminen. E che esprimono al meglio l’unicità del vitigno, non solo nel caso di autoctoni superlativi come il Resi, da cui St Jodern ottiene meno di 2 mila bottiglie l’anno, di cui tre quarti già venduti prima della vendemmia. Il giro d’affari della cooperativa si aggira sui 4,5 milioni di euro, con una fetta del 40% proveniente dal canale Horeca (ristorazione) e dalle enoteche. Quarantamila bottiglie all’anno finiscono poi sugli scaffali della Gdo, in cui è Coop a farla da padrona con la sua linea “Pro montagna” (4 i vini St Jodern presenti in assortimento). Numeri raggiunti “nel rispetto totale delle famiglie conferitrici – spiega Hock -. Basti pensare che paghiamo un quintale di Heida più di quanto venga pagato un quintale di Nebbiolo destinato alla produzione del Barolo, assicurando circa 7,50 franchi al Kg, ovvero più di 6 euro”.
ST JODERN KELLEREI – BEST WINES Heida Veritas 2013, 14,5% – Vino bianco ottenuto da vite a piede franco centenaria, che genera acini e grappoli minuscoli. Garantita così la letterale esplosione della tipicità del vitigno. St Jodern affina in giare di terracotta questo vino, per mantenere ulteriormente intatte le caratteristiche dell’uva. Di un bel giallo carico, al naso evidenzia note floreali fresche e fruttate (albicocca). Annuncia già all’olfatto una mineralità che ritroveremo anche al palato, sotto forma di una sapidità di rara pregevolezza. Vino di grande persistenza. Fuori dalle righe, un fuoriclasse.
Pinot Nero 2015, 13,8% – Affina in acciaio questo Pinot Nero St Jodern, cui viene aggiunta una percettibile quantità di Gamay, che solitamente si aggira attorno all’8-10%. Bel rosso rubino brillante, regala un naso tutta frutta e mineralità. E’ questo, insomma, il filo conduttore dei vini St Jodern. La centralità del frutto (bacche rosse, canoniche) anche al palato gioca sinuosamente con una pregevole sapidità. Tannino piuttosto leggero, ma non siamo certo nell’area dei Pinot Nero di Salgesh. Un vino di montagna, naturale, non costruito. Da apprezzare per la verità territoriale che racconta. E per la sfida che rappresenta per St Jodern, nel futuro: migliorare ulteriormente la produzione dei rossi, portandoli ai livelli straordinari dei bianchi di casa Visperterminen.
ALBERT MATHIER ET FILS, SALGESCH (VALAIS) Abbiamo nominato prima i Pinot Nero della zona più vocata, Salgesch. Ed eccoci dunque alla Albert Mathier et Fils, casa vinicola di grande tradizione nel Vallese, oggi guidata da Amédée Mathier, nipote del fondatore. A condurci nella visita della cantina e nella degustazione è Patrick Jost (nella foto). In un territorio dove il Pinot Nero è la “specialità della casa”, Mathier è riuscita a distinguersi con uno straordinario progetto: quello della vinificazione in anfore di terracotta interrate. Sul retro della cantina, infatti, si possono scorgere le cinque postazioni in cui si trova il vino. Ogni “kvevri” – questo il nome georgiano delle anfore, localmente ridefinite con l’onomatopea “tschatscha” – può contenere fino a 1800 litri. Si tratta di un blend tra Resi (Rèze) ed Ermitage (Marsanne) per il bianco (che in realtà assume il colore tipico degli orange wine dei nostri friulani Josko Gravner e Sasa Radikon), e di Syrah in purezza per il Vin D’Amphore Noir. Dopo la vinificazione in anfora, momento in cui risultano fondamentali i ripetuti batonnage, il vino affina in botti di acacia e ciliegio. Regalando agli intenditori dei nettari unici e rari, di grandissima complessità (64 euro il prezzo di una bottiglia). Vini ossidativi, dunque, di cui vengono prodotte solamente 800 “pezzi” per tipologia, ognuno dei quali ha contribuito a rendere famosa nel mondo questa cantina vallese. Trenta gli ettari di terreni vitati su cui può contare la Albert Mathier et Fils, con un potenziale annuo che si aggira attorno alle 500 mila bottiglie. Tutti vini di grande pulizia e perfezione enologica quelli di questa cantina di Salgesch, che tuttavia non lasciano l’impronta territoriale sperata. Il “plus” di questa winery è proprio quello offerto dalle giare, vero colpo di genio di Amédée Marhier, assieme al tentativo di sviluppare l’enoturismo realizzando un salotto esterno alla cantina, abbellito dalle opere di alcuni artisti locali, dove presto sarà possibile consumare al calice la produzione della cantina. Segnaliamo a questo proposito due vini.
ALBERT MATHIER ET FILS – BEST WINES Malvoisie Flétrie 2014, 14,2% – Pinot Grigio, vendemmia tardiva. Buon vino da dessert, in grado di accompagnare anche formaggi a pasta semidura. Bel corpo e persistenza, esprime una dolcezza pacata, non invadente. Gradevoli le note di albicocca e miele che accompagnano prima l’olfatto e poi il palato verso una buona persistenza retro olfattiva. Rhoneblut 2013 Vinum Lignum, 13,5% – Fa parte della gamma di vini affinati in legno questo Pinot Noir in purezza di casa Mathier. Fratello maggiore della versione base, per complessità ed eleganza. Pregevole tannino, note fruttate chiare e distinte. E una freschezza espressa da un’acidità spiccata: ottime le potenzialità di una lunga vita in bottiglia, in ascesa. Il fondatore della cantina ha voluto chiamare questa linea “Rhone-blut” per sottolineare il suo attaccamento alla terra d’origine: “Rhone” è il fiume Rosano, “blut” il sangue. “Scorre come un fiume il sangue in questo vino”.
CAVE DU RHODAN, SALGESCH (VALAIS) Il titolare della Cave du Rhodan è assente al momento del nostro arrivo e il personale presente non parla inglese. Veniamo comunque invitati alla degustazione dei vini di questa premiatissima cantina vallese, capace di aggiudicarsi riconoscimenti a livello internazionale. Semplice ed efficace la filosofia da queste parti: Sandra e Olivier Mounir producono “vino sostenibile da agricoltura sostenibile”. La produzione infatti si fregia della certificazione biodinamica.
CAVE DU RHODAN – BEST WINES Petite Arvine 2015, 13,5% – Medaglia d’argento al Decanter 2016, non a caso. Profumato di fiori e frutta fresca al naso, morbido e rotondo al palato, sfodera come d’improvviso, accendendosi d’un tratto, un corpo e una struttura inimmaginabili in precedenza. Note fruttate eleganti anche nel retro olfattivo, ottima la persistenza.
Merlot Barrique 2014, 14% – Naso di liquirizia che colpisce ancor prima d’averne scorto il colore nel calice, che si tinge d’un bel rosso rubino con riflessi granati. Ritroviamo la medesima piacevolezza e concentrazione delle tinte fruttate riscontrato in tutto il resto della produzione Cave Du Rhodan, evidentemente a premiare l’ottimo lavoro in vigna e una padronanza totale delle difficoltà intrinseche alla viticoltura biodinamica. Barrique presente, distinta nei sentori terziari conferiti al nettare. Ma utilizzata, anche questa, con grande garbo. Tannino elegante e ottima persistenza. Gran bel rosso. Da degustare, magari, anche tra qualche anno.
KREUZRITTER KELLEREI, SALGESCH (VALAIS) E’ il giovane Jonas Leo Cina (nella foto), quarta generazione di una famiglia di viticoltori dal cognome diffusissimo a Salgesch e nel Vallese, a condurci alla scoperta dei vini della Kreuzritter Kellerei di Unterdorfstrasse, 32. Duecentomila bottiglia prodotte annualmente, per una realtà che è sulla cresta dell’onda dal 1917. Che oggi può contare anche su un hotel, l’Arkanum, in cui è possibile dormire in letti ricavati da tonneau dismesse. L’hotel sorge proprio sulla vecchia cantina, che nel 1985 è stata abbandonata per far spazio all’innovativo progetto di accoglienza dei turisti. La produzione della Kreuzritter Kellerei è tutta interessante e Jonas non teme il confronto con gli altri 49 viticoltori del paese. Ma ha un sogno. “Vorrei che tutto il Vallese fosse più unito – commenta – come lo siamo noi qui a Salgesch: un paese di 1500 abitanti, con 50 cantine attive sul territorio! Nel villaggio accanto, dove si inizia a parlare francese al posto del tedesco, c’è molta gente gelosa del nostro terroir e del nostro clima. Vorrei che si capisse che abbiamo tutti gli stessi problemi, tutti le stesse difficoltà. Confido molto nel lavoro delle nuove generazioni in questo senso”. Due i vini della cantina Kreuzritter che ci sentiamo di consigliare: non a caso sono entrambi vini rossi.
KREUZRITTER KELLEREI – BEST WINES Salquenen Cuvée d’Amitié 2014, 13% – Il giovane Jonas Leo ha introdotto questa deliziosa Cuvée da qualche anno nell’assortimento della propria cantina. Un successo lampante: le 1.500 bottiglie prodotte annualmente finiscono subito sold out. Prenotate ancor prima di essere imbottigliate. Si tratta di un Cabernet Sauvignon affinato 6 mesi in barrique, dove trova compimento la stessa vinificazione. Lampone, ribes, cioccolato, tabacco dolce al naso. Una vena vegetale che richiama la foglia del pomodoro e il peperone. In bocca la frutta a bacca rossa. Ad anticipare una chiusura elegantemente speziata. Vino di grande longevità.
Pinot Noir Le Refuge 2014 – Nessun affinamento in barrique, invece, per questo pregevole Pinot Nero tutto frutta ed eleganza del tannino. Ci sorprende il colore, veramente troppo carico per un Pinot Noir. Finché Jonas Leo non dichiara la presenza di un 5% di Diolinoir, varietà autoctona spesso utilizzata nei blend vallesi per la massiccia presenza di antociani, composti responsabili del colore rosso del vino. Le Refuge rispecchia le caratteristiche peculiari del terroir, guadagnandosi un posto d’onore tra i Pinot Noir di Salgesch.
DOMAINES ROUVINEZ, SIERRE (VALAIS) “La passione per l’eccellenza”. Questo lo slogan della famiglia Rouvinez, capace di abbracciare 12 domini dislocati nel Vallese, per un totale di 87 ettari. Un’avventura che affonda le radici nel 1947 per volere del fondatore, Bernard Rouvinez, che oggi può contare sui figli Dominique e Jean-Bernard, entrambi enologi. “Ad ogni vino la sua terra migliore per esprimersi”, sintetizza l’ottima Yannick Poujol (nella foto), responsabile Accoglienza della cantina di Chemin des Bernadienes 45, Sierre. “Single grape from single domain“. E una blend line a completare l’offerta, tra cui spicca a livello di notorietà conquistata in Svizzera l’assemblaggio di Cornalin, Humane Rouge, Syrah e Pinot Noir: il corposo Le Tourmentin, che ha visto la luce nel 1983. Il tour si svolge in quella che è la cantina storica della famiglia Rouvinez, oggi casa eletta dei vini da affinamento in legno. Una nuova struttura è stata realizzata negli anni Novanta a Martigny, uno dei centri di interscambio commerciale principali per la sua posizione strategica tra il Vallese e il cantone Vaud. Seicentomila le bottiglie prodotte annualmente da Rouvinez. “Ognuna, a suo modo – evidenzia Yannick Poujol – è in grado di esprimere al meglio le peculiarità dei vitigni. Non a caso in Vallese, pur essendoci solo 500 ettari vitati, possiamo contare ben 10 terroir diversi. Ed è lì che coltiviamo le nostre uve, a un’altezza variabile tra i 400 e i 1000 metri d’altezza”. Di assoluta perfezione e pulizia enologica, ai Rouinez va riconosciuto il grande merito di portare nel calice le caratteristiche intrinseche del Vallese.
DOMAINES ROUVINEZ – BEST WINES Coeur de Domaine, 14,5% – Strepitoso blend ottenuto dall’assemblaggio di un 70% di Petite Arvine, un 20% di Heida e un 10% di Hermitage (Marsanne), provenienti da tre differenti domaine, tra i quali è stato selezionato accuratamente, acino per acino, il meglio della produzione. Lo suggerisce lo stesso nome di fantasia dato a questo bianco poderoso per struttura, ma tutt’altro che invadente nonostante l’alcolicità sostenuta. Sfodera sia al naso sia al palato note elegantissime di limone e frutta a polpa bianca, che impreziosiscono una beva di persistenza infinita: vino sinuoso, di grande complessità, robusto e allo stesso tempo delicato come una nuvola che ti s’infila nel palato. Compagno perfetto per una cena a base di pesce.
Merlot Bio 2014, 14% – Tra gli ottimi rossi di Rouvinez (avremmo potuto citare per esempio l’Humane Rouge 2014 o il Cornalin 2014, o lo stesso, ottimo, Le Tourmentin Valais Aoc 2013) scegliamo di premiare a pieni voti il Merlot biologico, vendemmia 2014: letteralmente da applausi. Per la perfezione delle distinte note fruttate. Per la pulizia dell’olfatto tutto. Per la perfetta armonia ed equilibrio tra il corpo “grasso” e l’alcolicità. Per il semplice fatto che fa sognare d’aver di fronte un piatto di carne succulenta. Da divorare tra un sorso e l’altro.
CHATEAU CONSTELLATION, SION (VALAIS) C’è anche spazio per un curioso tuffo nella cronaca giudiziaria elvetica in occasione del wine tour di vinialsupermercato.it in Svizzera. Ci imbattiamo casualmente in Chateau Constellation, cantina che non avevamo in programma di visitare. Impossibile non notare l’imponente struttura, costruita con le sembianze di un castello, che domina il panorama in direzione Nendaz. Scopriamo così che Chateau Constellation è il nome scelto dal principale azionista, Dominique Giroud, per la sua “riconsacrazione” nel mondo del vino elvetico, dopo le accuse per frode, falsificazione di merci e contraffazione che lo hanno visto al centro di uno scandalo senza pari, per presunti reati commessi a cavallo tra il 1997 e il 2013. La stampa svizzera ha rinominato la vicenda Affaire Giroud. Tra le accuse, anche quelle di aver tagliato del St Saphorine del Vaud (vino bianco pregiato, ricavato da una sottozona della Aoc Lavaux) con del Fendant del Vallese. All’epoca, l’imprenditore era titolare della Giroud Vin SA, che ha dichiarato la bancarotta. Tra i dipendenti in forza a Chateau Constellation, almeno un paio sono italiani. E dall’Italia provengono molti vini oggi in vendita nel sontuoso “salotto” borghese allestito a Sion da Dominique Giroud: perché è così che andrebbe definito il piano terra del “castello”, dove è sorta una vera e propria enoteca con spazio ristorazione (tavola fredda). E ai piani alti, sale per ricevimenti, matrimoni, occasioni speciali. Ovviamente all’insegna del lusso. Cordialissimo il personale che ci guida nella visita delle cantine e dell’immensa struttura. Nonché nella degustazione dei vini. Un po’ meno memorabile la preparazione enologica degli addetti, che forse da queste parti non deve contare più di tanto. Vini di puro commercio, di fatto, quelli che degustiamo a Constellation. Destinati ad accontentare – immaginiamo – palati internazionali radical chic, alla ricerca di curiosi “pezzi svizzeri” da aggiungere a una spocchiosa collezione di “vini dal mondo”. Vini, quelli di Chateau Constellation, che la catena di supermercati svizzeri Denner ha tolto dall’assortimento dei propri punti vendita, in seguito all’Affaire Giroud. Modalità Svizzera: on.
SELECTION EXCELSUS JEAN CLAUDE FAVRE, CHAMOSON (VALAIS) Dal vino come business, al vino come ragione di vita. Eccoci a Chamoson, nel nostro incedere dal Vallese verso il canton Vaud. Tappa imprescindibile del nostro wine tour, la cantina Selection Excelsus di Jean Claude Favre (nella foto). Personaggio istrionico, Jean Claude ha organizzato in ogni minimo dettaglio il nostro incontro. Con tanto di traduttori per colloquiare in lingua inglese. “I vini Selection Excelsus sono l’espressione fedele d’un terroir d’eccezione”. Così Jean Claude ci introduce idealmente nel suo regno di Chamoson, il Comune con la maggiore superficie vitata del Valais. Un territorio fortemente frammentato. I proprietari di vigneti sono circa 1200. E diversi appezzamenti sono di soli 100 metri quadrati. Un affare di cuore la viticoltura, da queste parti più che altrove. Una situazione simile solo a quella di Visperterminen. In questo puzzle, Selection Excelsus può contare su circa 6 ettari vitati (45 mila bottiglie). Tutti situati sulla conoide alluvionale che rende speciale – in termini di terroir – questo villaggio svizzero. Solo il 10% delle vigne di Chamoson si trovano infatti su terrazzamenti eroici. Eroica è stata invece l’impresa di Jean Claude Favre, che è riuscito a trasformare la cantina fondata nel 1980 dal padre (conferitore d’uve) in una delle più rinomate della Svizzera. Allargando il business a Paesi come Germania e Italia. Come? “La produzione – spiega l’eclettico vigneron – si basa principalmente sulla valorizzazione dei singoli vitigni. Solo due i blend: un bianco e un rosso, entrambi indicati col nome di fantasia ‘1955’, codice postale di Chamoson. Fondamentalmente faccio vini che piacciono a me. E’ questa la mia filosofia. E infatti, tra le varietà, è possibile riscontrare, oltre a quelle tipiche come il Johannisberg e il Fendant, anche il Pinot Blanc e il Pinot Gris: semplicemente perché li amo!”.
SELECTION EXCELSUS – BEST WINES Humagne Blanche 2014, 12,5% – Mineralità, frutto, utilizzo non invasivo della barrique. Che cosa manca a questo Humagne Blanche per essere definito perfetto? Niente. Ottenuto dalla più antica varietà di cui si abbia notizia Nel Vallese (“Registre d’Anniviers”, 1313), contiene molto più ferro rispetto agli altri vini. Tanto da essere soprannominato “vino della nascita”. Alle giovani donne che partoriscono negli ospedali vallesi ne viene tradizionalmente offerto un calice a scopo ricostituente. Riti e usanze a parte, quello di Selection Excelsus è un Humane Blanche eclettico, impreziosito dalla barrique e capace di accompagnare aperitivi, pesce e crostacei, dall’antipasto ai primi. Perfetto anche con i piatti a base di formaggi locali. La spiccata acidità fa sì che l’Humagne Blanche Selection Excelsus possa essere conservato in cantina per anni, prima di essere degustato su note più evolute. In gioventù si mostra aromatico, ma di un’aromaticità estremamente fine. “Eccelsa”, per restare in tema.
Cornalin 2015, 13% – La pazienza è la virtù dei saggi. E di chi ama il vino, aggiungiamo noi. Dare tempo al Cornalin 2015 di Selection Excelsus è quasi un obbligo morale. Se non altro per rispetto delle viti storiche, impiantate nel 1978, su cui può contare Jean Claude Favre per la produzione di questo straordinario rosso di prospettiva. Piante capricciose, difficili da coltivare. Quattromilacinquecento le bottiglie prodotte in media ogni anno, con rese di 30-35 quintali. Dire Cornalin a Chamoson è come dire Nebbiolo a Barolo. Ma quello di casa Favre ha una marcia in più rispetto a quello dei vicini. Un naso di ciliegie e note floreali di sambuco precedono un palato di struttura, buona acidità e tannini pregevolissimi. Già apprezzabile con piatti importanti a base di carne, va – come anticipato – dimenticato in cantina e riscoperto tra almeno 4-5 anni. Come minimo, ovviamente.
DOMAINE DE BEUDON, FULLY (VALAIS) Appena travolta da una tragedia immane, come quella della scomparsa di Jacques Granges – deceduto in seguito a un incidente avvenuto proprio tra le vigne – veniamo accolti a Beudon dalla moglie del vigneron, Marion Granges-Faiss (nella foto). Quella tra le “vigne del cielo” di Fully, per noi di vinialsupermercato.it, è stata di fatto un’esperienza umana straordinaria, oltre che professionale. Dell’incontro con Marion abbiamo già trattato nel nostro ampio reportage. Ricordiamo qui che la produzione del Domaine de Beudon, certificata biodinamica, rientra nel circuito dei viticoltori Triple A. Le vigne, tutte situate a un’altezza compresa tra i 600 e i 900 metri, con pendenze da scalatore, danno vita a vini dagli eccezionali profumi e aromi. Vini estremamente longevi, capaci di scardinare di netto certe leggi non scritte del vino svizzero, secondo le quali – per esempio – un Fendant “va bevuto giovane”.
DOMAINE DE BEUDON – BEST WINES Fendant 2004– Nel calice si presenta ancora d’un bel giallo paglia, con riflessi verdolini. Al naso l’impagabile freschezza delle note fruttate (albicocca) e uno spunto vegetale che costituirà ilfil rouge, preziosissimo, di tutta la produzione del Domaine de Beudon. Un contrasto solo apparente, in quadro in cui anche la mineralità gioca un ruolo fondamentale. Un vino d’agricoltura, d’artigianato. D’arte.
Riesling Sylvaner 2004 – Ottenuto da un appezzamento di 1,6 ettari situato interamente a 800 metri d’altezza, risulta aromatico come un giovane Moscato al naso, nonostante i 12 anni, con un tocco di miele delicato e fine. Lunghissimo in bocca, chiude su note amarognole che ricordano vagamente il rabarbaro.
Petite Arvine 2014– Premiato come miglior vino bianco bio della Svizzera. Lo degustiamo leggermente fuori temperatura. Ma ne apprezziamo comunque la freschezza. Bel naso, a cui risponde in bocca una portentosa struttura e calore: verbena, timo, limone. La sensazione è quasi balsamica.
Constellation 2007 – E’ il riuscitissimo blend tra Pinot Noir, Gamay e Diolinoir, varietà autoctona del Vallese. Un vino sensualissimo. Dai profumi vellutati di frutta (piccole bacche rosse) al riconoscibilissimo sentore di rosa. Un vino sinuoso, del fascino della discretezza. Anche al palato. Dove chiude con le canoniche note di erbe officinali, persistenti, lunghe.
LA CAVE DES CHAMPS CLAUDY CLAVIEN, MIEGE (VALAIS) Ormai pronta a prendere le redini della cantina al fianco del padre, Shadia Clavien (nella foto) ci accoglie nella sala degustazioni de La Cave des Champs, a Miege nel Vallese, da vera padrona di casa. La giovane, 23 anni, sta completando gli studi nella prestigiosa Alta Scuola di Viticoltura ed Enologia di Changins, a Nyon, canton Vaud. Il polo universitario più accreditato dell’intera Svizzera in materia enologica. E tra un paio d’anni sarà pronta a seguire le orme di quello che, in terra elvetica e non solo, è considerato un guru del vino: Claudy Clavien. Abbiamo ormai abbandonato da una decina di minuti il rettilineo che taglia in due il cantone, correndo parallelo al reno. Avventurandoci nelle tortuose stradine che conducono da Sierre a Crans Montana. Fino a giungere a Miege. Pittoresco paesino di 1.500 anime, a 700 metri sul livello del mare. Anche qui, quella che ormai è una consuetudine: più vigne che campanelli delle abitazioni. Dei 130 ettari vitati del paese, La Cave des Champs può contare su 10. Con una capacità produttiva annua che si assesta, in media, sulle 700 mila bottiglia. “Grazie a un attento lavoro in vigna – spiega Shadia Clavien – cerchiamo di tradurre in bottiglia sia le caratteristiche di struttura sia quelle di freschezza del vino, a seconda dell’uvaggio. Mio padre ama i vini sottili e strutturati ed è per questo che lavoriamo con botti di alta qualità, cercando di conferire al vino ulteriore complessità e un lento e promettente invecchiamento”. In effetti è vasta la produzione de La Cave des Champs che si avvale dell’utilizzo di barrique. E ad ogni sorso è evidente il grande potenziale dei vini firmati da Claudy Clavien. Vini territoriali, da aspettare in cantina per anni. Vini che, bevuti oggi, esprimono un tannino di grande potenzialità e sentori terziari vanigliati un po’ troppo aggressivi, almeno per il gusto italiano. Una gamma che, dall’anno prossimo, si arricchirà del frutto della prima vendemmia di Merlot, impiantato per la prima volta tre anni fa.
LA CAVE DES CHAMPS, BEST WINES Fendant 2015, 11,5% – Per finezza, il miglior vino da uve Chasselas degustato in Svizzera in occasione del nostro wine tour. E parliamo della “finezza” della semplicità, non della complessità. Si tratta infatti del vino bianco più diffuso in questa regione. Un vino leggero, da pasto. Che in casi come questo, rarissimi, si eleva all’ennesima potenza. Naso tutta frutta e fiori freschi. E facilità di beva straordinaria, resa tutt’altro che banale dalla ‘grassezza’ delle note fruttate, che conferisco grande morbidezza a un palato di velluto. Ottimo come aperitivo, il Fendant 2015 La Cave Des Champes può aspirare ad accompagnare addirittura piatti di pesce. Da provare.
Cornalin 2015, 13% – Vitigno difficile da coltivare, è una delle sfide più interessanti per Claudy Clavien la produzione in purezza del Cornalin. Molti altri lo hanno estirpato. Tanta frutta nel naso e in bocca, per un vino che vale di degustare per giungere – idealmente – all’esatto compresso tra la freschezza di un Pinot Nero e la complessità e struttura d’un Syrah. Tannino straordinario per finezza.
Diolinoir 2014, 13% – Ha bisogno di qualche minuto nel calice per aprirsi completamente e sprigionare le proprie potenzialità il Diolinoir di Claudy Clavien. Si tratta di un ‘incrocio’ ottenuto dalle varietà Diolly e Pinot Noir, introdotto nel Vallese negli anni Settanta. Naso interessante dominato dai piccoli frutti a bacca rossa, sfodera l’ennesimo tannino elegante di casa La Cave, mostrando ampi margini di potenziale invecchiamento. Già oggi piacevolissimo, regala una bocca ricca e piena e un retro olfattivo degno di nota.
Carminoir 2014, 13% – Se avete da giocarvi una sola fiche, bene: puntate tutto sul Carminoir di Claudy Clavien, delizioso incrocio tra Pinot Noir e – questa volta – Cabernet Sauvignon. Quantomeno per la sua unicità. Bel naso elegante su note fruttate che, presto, rivelano d’essere in ottima compagnia di sentori speziati di liquirizia e aromi di caffè (12 mesi di affinamento in barrique). In bocca è suadente, morbido, rotondo nonostante la buona struttura. Svela, solo nel finale, uno spunto leggero di liquirizia dolce. Grande persistenza. Perfetto per accompagnare piatti anche strutturati a base di carne, è un altro vino capace di invecchiare bene negli anni.
CLOS DE TSAMPÉHRO, FLANTHEY (VALAIS) Sono vini in giacca e cravatta, quelli di Clos de Tsampéhro. La penna è quella di Emmanuel Charpin (nella foto), artefice con i suoi tre soci Joel Briguet, Christian Gellerstad e Vincent Tenud, di un vero e proprio miracolo enologico. La cantina di Flanthey, che divide i locali con la consociata Cave La Romaine di Joel Briguet, apre ufficialmente i battenti nel 2013. Si brinda con le bottiglie della prima vendemmia, la 2011. Il target è subito evidente. Alta gamma. La produzione Clos de Tsampérho, ben presto, cattura le attenzioni dei ristoranti svizzeri più accreditati. Non passa inosservata agli stellati Michelin. Che fanno a gara, uno dopo l’altro, per aggiudicarsi i vini della nuova casa vinicola di Flanthey. Un successo arrivato presto, prestissimo. Ai nastri di partenza. Non a caso condividiamo la degustazione dei vini Clos de Tsampéhro con Pierre Edouard Coullomb, head sommelier dell’Hotel Les Sources des Alpes, cinque stelle di Leukerbad. Che presto avrà in carta queste “chicche”, ottenute da 2,5 ettari vitati complessivi, per un totale di 9500 bottiglie prodotte nel 2015. E’ Emmanuel Charpin a guidarci alla scoperta del cuore pulsante della cantina: la barricaia. Centoventi piccole botti, in cui riposano per un minimo di due anni i nettari in seguito alla vinificazione, avvenuta rigorosamente in legno (botti grandi di rovere). “Tsampérho – spiega Charpin – ha come unico obiettivo la qualità assoluta, senza il minimo compromesso. Ciò si traduce in basse rese in vigna, nella migliore selezione delle uve ma, ancor prima, in trattamenti di tipo biologico per prevenire le malattie della vite, al posto di combatterle”. Clos de Tsampéhro è infatti una delle dieci cantine della Svizzera che si avvalgono di elicotteri per i trattamenti agricoli. Alla giovane cantina di Flanthey va anche riconosciuto il grande merito d’aver promosso il recupero del Completer, vitigno autoctono del Vallese a bacca bianca, ormai sparito. Le barbatelle provengono dal canton Grigioni, dove invece è ancora allevato. Di seguito i migliori vini degustati, tenendo presente, però, che l’assaggio è avvenuto direttamente dalle barrique. I vini 2016 di Clos de Tsampéhro, tutti eccellenti, devono ancora essere imbottigliati.
CLOS DE TSAMPÉHRO, BEST WINES Tsampérho blanc 2015, ?% – Le premesse in barrique sono ottime per questo straordinario assemblaggio delle varietà Heida (70%) e Reze (30%). Vinificazione totale – 15/18 mesi – in botte, dopo la raccolta manuale dei grappoli e la pressatura soffice. Alla complessità e alla finezza degli aromi del primo uvaggio si sommano i muscoli e le caratteristiche più ruvide del secondo, sopratutto in termini d’acidità. Il risultato, al naso, è pressoché aromatico: frutta a polpa bianca, albicocca, fiori d’acacia. In bocca regna un perfetto equilibrio, con prevedibile predominanza delle note morbide e vellutate dell’Heida. L’acidità del Reze dona ulteriore freschezza e complessità alla beva. E ne fa un vino atto all’invecchiamento, che immaginiamo verterà su tinte – ancora più spiccate – di idrocarburo. Chapeau.
Completer 2014, ?% – Suadente e vellutato al naso, si conferma tale anche al palato. Le note di idrocarburo, qui già ben distinte, fanno spazio anche a sentori di pietra focaia. L’alcolicità è spiccata, assestandosi oltre i 15% in volume. Ma l’equilibrio è letteralmente perfetto. Un vino che fa vibrare il palato per le note evolute che parlano d’agrumi, per l’acidità piacevolmente citrica, per lo spunto gassoso percettibile anche nel retro olfattivo. Un capolavoro. Da aspettare ancora qualche mese, prima dell’imbottigliamento dalla barrique. E poi per anni, in cantina. Se si è capaci.
Tsampéhro III 2014, 14,2% – Il numero III indica la terza vendemmia della casa vinicola, che ha scelto di incartare la bottiglia con una carta velina fine, su cui è stampata la mappa dei vigneti. Una prima impressione che deve far pensare alla territorialità di questo blend rosso, che in una degustazione alla cieca potrebbe essere scambiato – senza vergogna – per un Super Tuscan. A comporre l’assemblaggio sono Cornalin (che fa la parte del leone), Merlot, Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon. “Vogliamo vini perfetti – evidenzia Emmanuel Charpin mentre versa il prezioso nettare nel calice – ma che siano anche piacevoli da bere”. Missione compiuta, Emmanuel. Perché Tsampéhro III 2014 lo puoi accostare a piatti saporiti a base di carne. Ma si presta alla perfezione anche come vino da meditazione, dopo pasto. Il compagno perfetto di un buon libro. Un vino rosso dominato dal fil rouge delle note fruttate grasse e dalla struttura del Cornalin, cui si sommano le note speziate del Merlot e quelle vegetali e fresche dei due Cab. Un vino che racconta – al naso e al palato – sentori di confettura di amarene e prugna, impreziositi da varietali speziati al pepe nero e terziari come liquirizia e cuoio. Evidente la propensione di questo blend all’ulteriore affinamento in bottiglia, fino a 15 anni.
NEYROUD FONJALLAZ, CHARDONNE (VAUD) Jean Francoise e Anne Neyroud, marito e moglie, sono i titolari di questa storica cantina di Chardonne, prima tappa di vinialsupermercato.it nel cantone Vaud. Fondata nel 1901, l’attuale struttura è stata acquistata dalla famiglia dalla famiglia Neyroud nel 1938. La vera svolta nel 1962, quando il padre di Jean Francoise abbandona le attività collaterali legate al bestiame per dedicarsi anima e cuore alla sola viticoltura. Ci troviamo nel cuore delle terrazze di Lavaux, che dominano la parte centro-orientale del Lago di Ginevra, ai piedi del Monte Pèlerin. Un luogo unico, patrimonio mondiale dell’Unesco. I terreni vitati della Neyroud Fonjallaz, che ammontano a circa 7,5 ettari, si trovano tutti in sottozone elette alla viticoltura del Lavaux, come Saint-Sephorine, Calamin e Dézeley.
NEYROUD FONJALLAZ, BEST WINES Dézeley 2015, 12,5% – Dopo i primi bianchi a base Chasselas, più destinati all’aperitivo che ad accompagnare un pasto completo, ecco un Dézeley di buona finezza, sia al naso sia al palato. Dominano la scena note fruttate di buona eleganza, che richiamano il melone e i frutti esotici. Buona anche la persistenza.
Saint-Sephorine Pinot Noir 2015, 12,8% – Un Pinot Noir in purezza che, al naso, regala le classiche note di sottobosco, con predominanza dei piccoli frutti a bacca nera su quelli a bacca rossa (più mora che lampone e fragolina). Un bel tannino elegante segue il valzer della frutta, prima di una piacevole chiusura su tinte minerali e sapide. Bella esaltazione del terroir di Lavaux in questo rosso di casa Neyroud-Fonjallaz. Semplice e genuino come la famiglia che lo produce.
JACQUES & AURELIA JOLY, GRANDVAUX (VAUD) Ad accoglierci, nella “casa-cantina” di Grandvaux, a pochi passi dal pittoresco centro storico del villaggio elvetico che s’affaccia su un lago di Ginevra mozzafiato, è un ragazzetto in pantaloncini corti, a petto nudo. Buon inglese. E la maturità d’un adulto: “Mi metto una maglietta e chiamo papà. Solo un momento”. Jacques Joly è in vigna quando suoniamo al campanello. Ci mette poco ad arrivare, seguito poi dalla moglie. Nel frattempo Gerome, il figlio 15enne, ci fa accomodare nella sala degustazione. Una bella famiglia del vino svizzero, i Joly. “Our wine, our life“, si legge sulla brochure di presentazione. E in effetti è questa la prima impressione. Tre ettari di terreni, per una produzione di circa 25 mila bottiglie l’anno. Terreni che non sono di proprietà di Jacques e Aurelia. Ma che, forse, un giorno lo diventeranno. La cantina, sorta nel 2008, ha già saputo imporsi nel panorama nazionale, aggiudicandosi diversi premi enologici (Lauriers d’Or Terravin). Inoltre, il governo cantonale ha premiato i Joly per il loro impegno nella promozione dell’enoturismo locale, che dallo scorso anno ha subito un’impennata nel Lavaux. La produzione dei Joly, del resto, è in grado di offrire una valida fotografia delle sfaccettature che assume il vitigno Chasselas (chiamato Fendant nel Vallese) nelle 8 diverse sottozone di produzione del Lavaux (830 ettari ripartiti su 6 Comuni rivieraschi). Qualche esempio? Il cru Dézaley dà vita a Chasselas che assumono sentori spiccatamente minerali, che sfociano nella pietra focaia. A Calamin, l’altro cru, la massiccia presenza d’argilla nel suolo regala vini complessi, soprattutto dal punto di vista olfattivo. E a Villette, l’area più estesa con i suoi 175 ettari, la sabbia compie l’esatto opposto: vini di facile e pronta beva, poco atti all’invecchiamento, ma molto fruttati.
JACQUES & AURELIA JOLY, BEST WINES Epesses Lavaux Aoc La Destinée 2015, 12% – Un gran bell’esempio della complessità offerta allo Chasselas dai terreni argillosi della sottozona Epesses. Al naso note fruttate eleganti e mineralità spiccata. Le stesse che si ritrovano in un palato di grande equilibrio. Pregevole anche il finale: La Destinée chiude, lungo e persistente, su note di melone maturo. L’ennesimo vino bianco svizzero che può aspirare a qualcosa di più del semplice abbinamento in occasione dell’aperitivo. L’Arpent 2014, 13,5% – Riuscitissimo blend tra Garanoir (80%) e Syrah (20%), L’Arpent è un rosso poderoso, ottenuto da seconda rifermentazione in barrique. La vinificazione delle uve avviene separatamente e il mix del Syrah con la varietà locale Garanoir viene effettuato solo in seguito a una selezione accurata della barrique nella quale le uve del vitigno francese esprimono il tannino e la morbidezza desiderata. Ne scaturisce un vino dall’imponente impronta olfattiva: alle note di confettura di more fanno eco intensi richiami al cuoio, alla liquirizia e al cioccolato. Con l’ossigenazione, L’Arpent si apre anche a sfumature fumé. Buona morbidezza al palato, dove il tannino risulta effettivamente equilibrato. L’utilizzo della barrique è perfetto: le note vanigliate fanno solo da contornom nel finale e nel retro olfattivo, al ritorno delle note fruttate di mora.
CAVE PHILIPPE BOVET, GIVRINS (VAUD) Vale proprio la pena di percorrere ogni singolo chilometro delle strade anguste che tagliano in due il distretto di Nyon, staccandosi dalla E62, fino a giungere alla cantina di Philippe Bovet. Siamo a Givrins, cuore pulsante del vino del Vaud, lontano dai terrazzamenti tipici del lago di Ginevra (Lavaux). E quella di Philippe Bovet (nella foto) non è una cantina. Non è un’azienda. E’ un sogno ad occhi aperti. E quello che sta combinando da queste parti Bovet, è qualcosa a metà tra l’opera d’arte d’un visionario. E la follia. Philippe Bovet, il Maradona del vino svizzero: lo rinominiamo così al termine della nostra visita in cantina. Un soprannome che va ben oltre la leggera somiglianza tra il vigneron – ex maestro di sci e tuttora grande amico del campione olimpico Didier Défago – e il Pibe de Oro. Ma andiamo con ordine. Sono le 10.30 quando giungiamo a Givrins. Ad occuparsi di noi è Baptiste Moreau (nella foto, sotto), bischero di 21 anni che ha mollato la cantina del padre, produttore di Chablis in Francia, per andare a studiare a Changins. “Troppa teoria e poca pratica”: un fardello, quello della scuola d’alta formazione in Viticoltura ed Enologia, che Baptiste ha liquidato in pochi mesi. Trovando comunque un posto d’onore nella cantina di Bovet. Del resto, il vino ce l’ha nel sangue, Baptiste. Che con destrezza ed estrema preparazione ci guida nella visita della cantina. Grande importanza per il progetto di Bovet rivestono le barrique in cui affinano vini che fino a pochi anni fa erano praticamente sconosciuti in Svizzera. Parliamo del Malbec, su tutti. “Sono un grande amante dell’Argentina e del suo vino principe – spiega Bovet – così ho deciso di tentare di allevarlo qui, a partire dal 2009”. Tra gli 8 ettari di terreni della Cave (5 in conversione biologica), in grado di assicurare una produzione annua di 80 mila bottiglie (numero che sale a 200 mila considerando le vinificazioni effettuate per conto di altri viticoltori della zona), Bovet può contare su 5 differenti cloni di Malbec. Quattro dei quali provengono direttamente dall’Argentina, o meglio dalla cantina Tempus Alba di Mendoza.
Quello piantato nel 2009 arriva invece dalla Francia (Montpellier). Il Malbec di Bovet affina tre anni in barrique. E finisce sold out ancor prima di essere riversato in bottiglia. Una fortuna poter degustare da una delle piccole botti la vendemmia 2014, che sarà “pronta” nel 2017. Ottimo, sempre dalla barrique, anche il Viognier 2015, ottenuto da una particella costituita da viti di 20 anni posta sotto la chiesa di Givrins. Ma in realtà, Bovet ha reso famosa la Svizzera del vino per un altra produzione: quella del Gamay. Avete capito bene. Proprio per il Gamay, considerato il ‘vino rosso da tavola’ degli svizzeri. “Quando ho iniziato a produrre Gamay affinato in barrique, riducendo di molto le rese in vigna – spiega Philippe Bovet – in molti in Svizzera pensavano fossi diventato pazzo. Ho proposto il mio Gamay ad alcune degustazioni professionali: pensavano si trattasse di Syrah. Invece era proprio Gamay”. Il Gamay è la sintesi della filosofia produttiva della Cave Bovet, che punta a valorizzare al massimo il singolo vitigno, “che deve parlare di sé, della terra da cui nasce, ed esprimere nel calice tutto il suo potenziale”. “E’ così che ho vinto un sacco di premi, parlando della purezza di ogni vitigno prodotto”, commenta col sorriso stampato sul viso il viticoltore. La Cave Philippe Bovet produce assieme ad altri tre produttori svizzeri due vini – un bianco e un rosso – frutto di un assemblaggio segreto: “Les 4 Elements”. Si tratta del tentativo di unire lo spirito d’innovazione, il savoir faire e l’expertise in materia enologica di Bovet e degli altri produttori svizzeri Guy Cousin (Vignoble Cousin, Concise – canton Vaud), Stéphane Gros (Dardagny, canton Geneve) e Cave Christophe Jacquod (Bramois – canton Valais) che condividono la medesima filosofia. Sono loro i “quattro elementi”: acqua (Bovet), terra (Cousin), fuoco (Gros) e aria (Jacquod). L’unico vino capace di unire il meglio delle produzioni di quattro distinti cantoni. Molto più di una semplice operazione di marketing. “Nei mesi che precedono la vendemmia – spiega Bovet – osservo le uve e i loro mutamenti e stilo una lista di cose che vorrei sperimentare. A fine vendemmia mi rendo conto d’aver realizzato neppure la metà delle cose che mi ero prefissato. Per chi vuole innovare e sperimentare, soprattutto in Paesi come la Svizzera, dove il clima è particolare e spesso avverso, ogni vendemmia passata è una vendemmia persa. Perché? Perché siamo viticoltori e non cuochi: noi non possiamo rifare una ricetta venuta male, cambiando semplicemente gli ingredienti”. Goal. Palla di nuovo al centro.
CAVE PHILIPPE BOVET, BEST WINES Chenin Blanc 2015, 13,9% – Imbottigliato da circa tre mesi, lo Chenin Blanc 2015 di Philippe Bovet esprime già bene il suo potenziale, che non potrà che esplodere ulteriormente con l’ulteriore affinamento. Il vitigno, originario della Valle della Loira, si racconta nel calice sotto una delle sue poliedriche forme: quello della complessità e della qualità assoluta, a dispetto di chi bistratta i nettari ottenuti da questa nobile bacca bianca. Bovet attende sino all’ultimo minuto la maturazione in vigna, spingendola sino al limite. La vendemmia 2015, del resto, è stata molto favorevole. Giallo paglierino, con riflessi dorati. A un naso complesso di frutta esotica, con il melone che spicca sulle altri frutti come il mango, fa eco una mineralità che segna uno stacco con altri Chenin Blanc degustati in Svizzera, oltre a un corpo di tutto rispetto. La buona acidità lo rende vino atto a un degno invecchiamento, superiore anche ai 5 anni.
Verticale di Gamay, 2010 / 2015 – Viaggio nelle ultime cinque annate della varietà che ha reso famoso Bovet – a buona ragione – in Svizzera e nel mondo. Si comincia dal frutto spinto all’ennesima potenza del Gamay 2015 Pacifique (14%). La vinificazione in acciaio regala un naso e una bocca a base di frutti rossi: consistenti, pieni, ricchi, persistenti. Elegante il tannino, come mamma l’ha fatto. Il Gamay 2014 Atlantique (13,4%) affina invece in barrique. Stessa pulizia delle note fruttate, che sfociano sia al naso sia al palato in terziari di speziati. Botte per nulla invadente nel conferimento di leggere note vanigliate. Si tocca il cielo con un dito con il Gamay 2011 di Bovet: mix perfetto di eleganza e finezza, espressione del magnifico terroir locale. E’ la vittoria di Davide su Golia. La vittoria della qualità sulla quantità. La scommessa vinta da Bovet. Ottimo anche il Gamay 2010, che si fa grasso con le sue note intense di marmellata di prugna e datteri. Unica pecca, quello svanire un po’ frettolosamente nel retro olfattivo: un sogno a bocca piena, che svanisce troppo presto.
DOMAINE MERMETUS, ARAN VILLETTE (VAUD) Il sole luccica sul lago di Ginevra e lo spettacolo che offre la natura, tra le vigne del Domaine Mermetus, è degno d’un quadro impressionista. In mezzo alla cornice si muove una figura piccola, composta. Ci viene incontro. E’ Claire (nella foto), la padrona di casa. Che ci accoglie col sorriso, pronta a guidare con grande professionalità la degustazione. Una fortuna, per il marito Henry Chollet e per il figlio Vincent, poter contare sull’apporto di questa dama del vino svizzero, che conosce bene come le sue tasche la terra e le mille sfumature del vino del Lavaux. Siamo ad Aran Villette, poco lontano da uno svincolo autostradale della E62. Eppure regna il silenzio. Delle auto, neppure l’ombra. Il tetto di Domaine Mermetus e le sue pareti bianche spuntano come per magia tra le vigne della “maison”, poco prima che la collina, scoscesa ma non ripidissima, baci l’acqua del lago di Ginevra. Siamo a casa di un produttore che, grazie al suo profondo attaccamento alla terra d’origine, è tra i fondatori dell’Association Plant Robert – Robez – Robaz. Henry Chollet, marito della splendida Claire, è tra i pionieri che nell’aprile 2002, a Cully, sottoscrivono l’impegno formale nella riscoperta di un vitigno autoctono ormai quasi scomparso: il Plant Robert – Robez -Robaz, per l’appunto. Un vitigno a bacca rossa, della famiglia del Gamay, coltivato nel Lavaux tra il 18° e il 19° Secolo e salvato dall’oblio, in extremis, nel 1966 dal vigneron Robert Monnier. Densità d’impianto minima di 7.500 piante per ettaro, con resa massima di 0.7 litri per metro quadrato e densità del mosto minima di 85° Oechsle: queste le regole del ‘gioco’ dell’associazione, che per garantire l’autenticità del prodotto si rifà all’Organisme Intercantonal de Certification (Oic), a sua volta rispondente al Service d’Accréditation Suisse (Sas). Una speciale “fascetta”, simile al contrassegno di Stato apposto sui vini Docg in Italia, viene apposta sulle bottiglie di Plant Robert autentico. Una missione, quella di Domaine Mermetus, che oggi viene portata avanti con entusiasmo dal figlio di Henry e Claire Chollet, Vincent, in collaborazione con la moglie. Sette ettari totali, suddivisi in 35 particelle. Capaci di trasformarsi in 33 diverse cuvée interamente elaborate, dalla vigna alla bottiglia, dalla famiglia Chollet.
DOMAINE MERMETUS, BEST WINES Vase n° 10 2015,12,8% – E’ lo Chasselas in purezza che, da queste parti, definiscono “gastronomico”. Ovvero il più complesso. Quello che, per caratteristiche, è adatto ad accompagnare un pranzo o una cena, al di là dell’aperitivo. Dopo aver degustato l’ottimo Les Terrasses de Valérie 2015 (Chasselas d’Epesses intenso, grasso, minerale), passiamo con curiosità a Vase n° 10 e ce ne innamoriamo. Di un bel giallo paglierino carico, risulta intenso al naso, ma con la classica nota esotica (melone) che si fa attendere rispetto ad altri Chasselas, piacevolmente sovrastata dalla spiccata mineralità, che poi troveremo anche al palato. Chiude fruttato, con note che ricordano la banana matura. Vase n° 10 è ottenuto senza malolattica, per garantirne la purezza e la struttura ideale per l’accompagnamento gastronomico. La terra ricca di argilla e limo, in cui affondano le radici le viti, è il segreto di questo ottimo bianco svizzero.
Viognier Essence lémanique 2015, 14,9% – Avete letto bene. Un Viognier dall’accentuata alcolicità, eppure così bevibile, per nulla stucchevole o da capogiro. A nostro parere, assieme al recupero del Plant Robert, è questo il vero capolavoro di Domaine Marmetus. Un vitigno, il Viognier, che i Chollet allevano da oltre 20 anni. E un nome, Essence lémanique, scelto non a caso: Lemano è il nome originario del lago di Ginevra, di cui questo vino sembra esprimere l’essenza. La sintesi perfetta. Un po’ come se i Chollet fossero riusciti a condensare, in un’unica bottiglia, tutte le caratteristiche dei terroir del Lavaux. In questo Viognier troviamo la freschezza delle note fruttate riscontrabili nei bianchi della sottozona Villette. Ma anche la complessità dei vini d’Epesses e Calamin. E infine la mineralità e le note evolute dei migliori Dézalay. D’un giallo dorato già di per sé invitante, si presenta al naso con più albicocca che pesca. In bocca morbido, intenso. Con l’alcolicità a fare da cornice, calda ma equilibrata, alle note fruttate. Lungo finale, con spruzzata leggera di pepe bianco. Il compagno perfetto per gustare piatti speziati della cucina indiana.
Plant Robert Le Chant de la terre 2014, 13% – Il “Canto della terra”. Altro nome azzeccato per un vino – questa volta rosso – che parla della tradizione più profonda e dell’amore e dell’attaccamento alle origini della viticoltura del Lavaux. Per comprendere appieno le caratteristiche di questo Plant Robert bisogna conoscere il Gamay, di cui è la versione “esplosa”: più frutta, più spezie. E uno spunto animale, rustico, tradizionale, tipico dei vini veri, sinceri. Non artificiali, autentici. In una parola: naturali. Di un rosso rubino profondo, poco trasparente, Le Chant de la terre si presenta al naso col megafono: piccoli frutti a bacca rossa e nera (lampone, more) accompagnano una speziatura accentuata di pepe e chiodi di garofano. Caratteristiche che ritroviamo anche al palato, dove si comprende come il Plant Robert sia un vino d’attendere qualche anno, prima che esprima appieno tutto il suo potenziale. Col passare dei minuti, l’ossigenazione del nettare nel calice contribuisce a esaltare note più morbide e grasse al naso, che sfociano addirittura nel balsamico delle resine d’abete. Un vino rustico, ma elegante. Un ossimoro con cui accompagnare portate di carne importanti, come per esempio la selvaggina d’agnello.
DOMAINE HENRI CRUCHON, ECHICHENS (VAUD) Ultima tappa prevista tra le cantine del Vaud, prima di spostarci e chiudere il wine tour nel cantone Ginevra, è il Domaine Henri Cruchon di Echichens. Siamo nel distretto di Morges, a casa di una famiglia di viticoltori appassionati, giunta ormai alla terza generazione. Un vero e proprio riferimento nella zona. Ai 12 ettari del Domaine vanno a sommarsi infatti altri 42 ettari vitati di proprietà di altre famiglie, unite in una sorta di cooperativa Il fondatore, Henri Cruchon, può contare sull’apporto dei due figli Michel (viticoltore) e Raoul (enologo), su quello delle loro mogli Anne e Lisa (impiegate amministrative) e, dal 2010, anche sull’apporto della nipote Catherine Cruchon, enologa con esperienze formative anche in Italia, nel Piacentino. Tutti e 12 gli ettari di proprietà sono certificati biodinamici, così come 32 dei 42 ulteriori ettari delle famiglie conferitrici. “La terra non ci appartiene – spiega Catherine – noi siamo i suoi custodi. La coltiviamo, dunque, con l’idea che dobbiamo garantirne la longevità, con pratiche di totale rispetto nei confronti della natura”. Il contesto è quello dell’Aoc Morges, compresa tra la città di Losanna e il fiume Aubonne. La denominazione più estesa del canton Vaud. E’ qui che i viticoltori hanno riscoperto e valorizzato il Servagnin, varietà autentica di Pinot Nero, introdotto in Svizzera proprio a partire da Morges.
DOMAINE HENRI CRUCHON, BEST WINES Altesse 2015, 15,5% (senza solfiti, non filtrato) – Rimaniamo letteralmente folgorati di fronte a questo bianco senza solfiti di casa Cruchon. Altesse è il nome del vino ma anche quello della rarissima varietà Altesse, coltivata solamente nella Savoia francese, luogo dal quale proviene. I grappoli maturi prendono le sembianze del Gewurztraminer una volta maturi: quel bruno rossastro che è gli ha fatto guadagnare il soprannome “La Roussette” da parte dei locali. In realtà la traduzione corretta sarebbe “Sua Altezza”. Un appellativo più che azzecato. Nel calice l’Altesse 2015 del Domanine Henri Cruchon si presenta d’un giallo dorato carico. Al naso l’acqua del mare: una percezione salmastro-minerale di rara pregevolezza, unita a richiami esotici, agrumati (limone) ed erbacei (fieno). Al palato l’alcolicità calda non disturba una beva morbida, straordinariamente rotonda e avvolgente. Anzi, esalta le note di miele e cedro, di eleganza sublime, che sembrano disciogliersi nel sale di cui è ricco anche il palato, oltre al naso. Straordinario il lavoro effettuato in vigna dai Cruchon con questo rarissimo uvaggio, sin dal 1998, anno della prima produzione. Un’attenzione che poi si trasferisce in cantina, dove gli acini vengono pressati interi e vinificati in serbatoi da 500 litri. Lunga fermentazione, che comprende la malolattica.
Pinot Noir Champanel 2014, 13% – Fa parte dei Gran Cru della casa vinicola di Echichens, questo Pinot Nero che reca appunto il nome della vigna Champanel, divisa a metà tra la varietà a bacca rossa e il locale Chasselas. Il terroir Champanel è caratterizato da un profondo terreno argilloso-calcareo, che si trova su una morena formatasi 10 mila anni fa per l’attività dei ghiacciai. Non a caso, da questa posizione si può ammirare il Monte Bianco, al di là del Lago di Ginevra. “Al fine di mettere in evidenza il carattere pieno di questo Grand Cru – spiega Catherine Cruchon – le viti, tutte di 30 anni, sono coltivate nel rispetto dei ritmi lunari, ovviamente senza utilizzo di prodotti chimici”. La vendemmia viene compiuta a mano, su rese molto basse. In seguito alla vinificazione tradizionale, il vino matura per 18 mesi, di cui 12 in botti di rovere. Ne scaturisce un Pinot Nero validissimo: imbottigliato solo da due mesi, quello che degustiamo mostra grandi margini di miglioramento nel medio-lungo periodo (6 anni) evidenziando carattere e finezza rappresentati benissimo da un tannino da ricordare.
DOMAINE DU CENTAURE, DARDAGNY (GENEVE) Per raggiungere Dardagny, il navigatore ci conduce al confine con la Francia, per poi farci rientrare in territorio elvetico in seguito a un brevissimo tratto di superstrada. Stranezze della tecnologia a parte, Dardagny è una tappa imprescindibile del nostro wine tour: l’ennesimo Comune con più vigne che campanelli, designato a rappresentare l’altissimo livello qualitativo dei vini del cantone di Ginevra. La prima delle due cantine visitate è Domaine du Centaure, il regno di Claude Ramu e dei suoi figli Nicolas e Julien (nella foto). A guidarci nel tour della winery è proprio quest’ultimo. Una cantina moderna, realizzata nel 1980 e sempre in continua evoluzione dal punto di vista tecnologico. Oggi i Ramu, famiglia storica, presente a Dardagny sin dal 1400, arrivano a produrre circa 200 mila bottiglie dai 20 ettari di proprietà, cui vanno a sommarsi gli 8 in locazione. “In tutti questi anni – tiene a sottolineare Julien Ramu – siamo sempre stati indipendenti, senza mai aderire a nessuna cooperativa. Fummo noi a introdurre il metodo Guyot in Svizzera, nel 1925 con Edmond Ramu, nostro capostipite. E fu sempre lui a piantare il primo Gamay e Pinot Nero, nel 1936”. Una storia curiosa quella dei Ramu, che negli anni Cinquanta trova in Charles Ramu un altro innovatore: pilota di auto da corsa in Italia con Alfa Romeo, rifiutò la chiamata in Formula 1 per tornare tra le sue vigne di Dardagny. Introdusse così Aligoté, Pinot Grigio, Gewurztraminer e Moscato, ottenendo diverse medaglie d’oro. Ma fu Claude Ramu a cambiare il nome dell’azienda in Domaine du Centaure, nel 1982. Assegnando al pittore Serge Diakonoff il compito di realizzare le caratteristiche etichette dei suoi nuovi vini.
DOMAINE DU CENTAURE, BEST WINES Pinot Gris Les Chant des Sirènes, vins doux – Vino dolce ottenuto grazie all’appassimento delle uve per due mesi su graticci. Una volta raggiunto il grado zuccherino desiderato, mediante disidratazione, gli acini di Pinot Grigio vengono pressati e, in seguito alla fermentazione, posti ad affinare in barrique per 20 mesi. Bel giallo dorato, al naso sprigiona la freschezza delle note di brutta a polpa bianca (pera, banana) e d’albicocca. Lo apprezziamo per la grande pulizia al palato e per la scelta maestrale di un grado zuccherino non stucchevole: un’operazione non riuscita ad altri viticoltori svizzeri.
Garanoir-Gamaret barrique Légende 2014 – More, pepe, spezie. Il blend tra le varietà locali Garanoir e Gamaret è riuscitissimo al Domaine Du Centaure. Un vino tannico, di corpo, capace di sfoderare un grande carattere. Uno di quei vini da aspettare, anche se già in grado di accompagnare più che bene piatti saporiti a base di carne, come la selvaggina.
DOMAINE LES HUTINS, DARDAGNY (GENEVE) Si conclude qui il nostro wine tour in Svizzera. E non poteva che terminare in una delle cantine svizzere che fanno della qualità il proprio baluardo. Seconda ed ultima tappa a Dardagny è Domaine Les Hutins, cantina storica che oggi è retta dall’ingegnere Jean Hutin e dalla figlia enologa Emilienne Hutin Zumbach (nella foto). Ormai la quinta generazione di una famiglia di viticoltori. L’anno della svolta, da queste parti, è il 1982. Quando Jean inizia a impiantare Sauvignon Blanc. Molti altri seguono poi il suo esempio in Svizzera, dal Ticino alla Svizzera tedesca. “La nostra filosofia produttiva – spiega Emilienne – prevede la massima attenzione in vigna, nel rispetto dell’ambiente. Stiamo portando avanti la produzione integrata, con 3,5 ettari sui 20 totali coltivati in biodinamica, pur senza certificazione. Il nostro vino deve parlare della terra e dell’andamento dell’annata, senza artifici. E’ un vino vero, insomma”. Quindici le varietà allevate, che danno vita a 27 differenti etichette, equamente suddivise tra bianchi e rossi. I terreni si trovano a un’altezza di 430 metri sul livello del mare. Tutti in piano, a esclusione dei 2 ettari in pendenza suddivisi tra Sauvignon, Syrah, Merlot e Viognier, nei pressi del fiume Rodano.
DOMAINE LES HUTINS, BEST WINES Sauvignon Blanc 2014, 13,5% – Ottenuto dalle vigne vecchie, questo Sauvignon Blanc affina in barrique per 12 mesi. Vino molto più diretto e schietto del suo parente non affinato in barrique (di cui però abbiamo degustato la vendemmia 2015, 14,5%), esprime sentori fruttati meno esuberanti, ponendosi di diritto come vino gastronomico. Pregevole la chiusura su note di limone, che lo rende ancora più interessante. L’affinamento viene compiuto in barrique da 500 litri, senza aver prima svolto malolattica. Legni che sono stati selezionati con cura da Emilianne e reperiti dopo una lunga ricerca atta a esaltare le caratteristiche del vitigno internazionale e le peculiarità del terroir di Dardagny.
Chasselas Bertholier 2015 13 % – E’ lo Chasselas top di gamma di Hutins. E si sente. Non il solito vino “leggero”, da aperitivo, bensì un nettare che mostra buona struttura e consistenza. L’erba in campo non viene diradata, ad esclusione della base della pianta, con dosi minime d’erbicida. Fermentazione lunga, che si aggira attorno ai due mesi per questo Chasselas gastronomico. Naso floreale (tiglio) con richiami minerali che poi si riscontrano nuovamente al palato, dove la salinità precede una chiusura fruttata, ma di sostanza.
Bertholier Rouge 2014, 13,5 – Altro top di gamma di Hutins. Si tratta dell’assemblaggio tra Gamaret (70%), Merlot (15%) e Cabernet Sauvignon (15%) vinificati in barrique. Le tre varietà che compongono il blend effettuano assieme la fermentazione. Nel calice, Bertholier Rouge si presenta d’un rosso intenso, poco trasparente. Intenso è anche il naso, che da un principio fruttato (bacche rosse) si evolve con l’ossigenazione verso tinte balsamiche, mentolate. Si sprigiona a quel punto anche la caratteristica nota vegetale del Sauvignon, che apprezziamo particolarmente. Al palato si conferma vino di sostanza e di corpo, capace di accompagnare degnamente piatti complessi a base di carne e selvaggina. La verticale compiuta da Hutins ne dimostra la longevità, con l’annata 2005 ancora straordinariamente viva nel calice.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
(4 / 5) Di nuovo una grande soddisfazione dai bianchi di Sicilia acquistabili al supermercato. Oggi, sotto la lente di vinialsupermercato.it, c’è il Viognier Terre siciliane Igt di Barone di Montalto, annata 2013. Un vino che si presenta sugli scaffali in una veste accattivante: bottiglia trasparente, elegante, che lascia brillare d’un giallo sgargiante, quasi d’oro, il prezioso contenuto. “Prezioso” soprattutto per la qualità, perché il prezzo è più che abbordabile (soprattutto se si riesce a reperire questo prodotto in promozione). Veniamo alle specifiche. Il Viognier Terre Siciliane Igt Barone di Montalto si presenta nel calice del colore sopra descritto. Al naso è molto caratteristico: si fanno avanti pesca, albicocca, banana, miele e fiori bianchi. Un bouquet particolare, che cattura l’attenzione per aromaticità. Al palato dominano indiscutibilmente le note fruttate: ecco di nuovo la pesca, molto persistente, accanto a sentori di albicocca. Le note di limone e agrumi, percepibili nel finale, sono precedute da sentori esotici di banana e melone, che rendono quasi scontato l’accostamento di questa bottiglia ad altre con uvaggio Chardonnay. L’abbinamento perfetto è quello con il pesce crudo: provatelo con il sushi, o con altre pietanze crude della tradizione giapponese. Ottimo anche con l’etnico cinese, per la vicinanza alle note dolciastre e agrumate di alcune salse. Da provare anche come aperitivo o accostato a formaggi (di capra, per esempio) di media stagionatura.
Questa bottiglia rappresenta pressoché un “unicum” nel panorama delle ‘enoteche’ della grande distribuzione organizzata. Merito dell’uvaggio utilizzato: quel Viognier così raramente reperibile al supermercato. La Barone di Montalto Spa lo ottiene dalle proprie vigne situate nella Valle del Belice, più esattamente nella cantina di Santa Ninfa, in provincia di Trapani. Si tratta di un vitigno francese, originariamente diffuso solamente nella valle del Rodano, che ha conosciuto un grande successo sin dalla metà degli anni Novanta, cominciando a essere coltivato anche in altri Paesi. Per caratteristiche climatiche e morfologiche, la Sicilia si presta a ottime produzioni. Eppure, una ricerca condotta negli Usa ha dimostrato una forte somiglianza genetica del Viognier con un vitigno tipico del Piemonte: la Freisa, a sua volta parente del Nebbiolo (da cui nascono grandi vini come il Barolo e il Barbaresco). Così come nella tradizione originaria, il Viognier Barone di Montalto viene lavorato in una prima fase a freddo, per mantenerne le caratteristiche organolettiche e aromatiche. Le uve vengono pressate e lasciate a contatto con le bucce per 12 ore alla temperatura di 4 gradi, per poi passare alla macerazione in botti di acciaio, a una temperatura che non supera i 14 gradi. L’affinamento dura circa 3 mesi, con rimescolamenti (batonnage) di cadenza settimanale.
Prezzo pieno: 6,65 euro
Acquistato presso: Il Gigante
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
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