Il Miglior vino dolce italiano della Guida Winemag 2025 è il Ruzzese 2020 Diciassettemaggio di Cà du Ferrà. Il punteggio di 97/100 certifica l’assoluto valore – dentro e fuori dal calice – dell’ambizioso progetto di recupero del vitigno autoctono ligure Ruzzese da parte di Davide Zoppi e Giuseppe Luciano Aieta, in collaborazione con l’enologa Graziana Grassini. Oltre al riconoscimento per il Miglior Vino dolce italiano 2025 al Liguria di Levante Igp Passito Bianco Ruzzese Diciassettemaggio 2020 (di seguito il profilo del vino), Cà du Ferrà si è guadagnata il titolo di Cantina italiana dell’anno per la Guida Top 100 Migliori vini italiani di Winemag.
COSTA LIGURIA DI LEVANTE IGP PASSITO BIANCO RUZZESE 2020 DICIASSETTEMAGGIO, CÀ DU FERRÀ
Fiore: 9
Frutto: 10
Spezie, erbe: 8.5
Freschezza: 8.5
Sapidità: 7
Tannino: 0
Percezione alcolica: 6.5
Armonia complessiva: 10
Facilità di beva: 9
A tavola: 9.5
Quando lo bevo: subito / oltre 3 anni
Punteggio Winemag: 97/100 (Miglior vino dolce italiano per la Guida Winemag 2025)
Via Nuova, Str. per S. Giorgio, 27/Bis 19011 Bonassola (SP) Tel. 3481033648 Email info@caduferra.wine
MIGLIOR VINO DOLCE ITALIANO DALLA LIGURIA: RUZZESE CÀ DU FERRÀ
Recuperare qualcosa di antico e renderlo squisitamente moderno. È la storia del Ruzzese, la storia di Cà du Ferrà. La storia del miglior vino dolce italiano della Guida Winemag 2025. Pochi conoscono il Ruzzese, vitigno autoctono della Liguria che non ha nessun parente dal punto di vista clonale. È un vitigno unico, non assomiglia a nessuno. Possiede un grappolo spargolo, acini piccoli e dalla buccia corposa, a scapito della polpa, e ciò lo rende interessante dal punto di vista fermentativo, ad esempio per ottenere ottimi passiti. È un vitigno che non soffre la siccità e mantiene un’acidità straordinaria. Il Ruzzese si presenta come un vino morbido, carico di zucchero, e, nonostante i suoi 14 gradi, ha una beva facile, sbarazzina. Insomma, imperdibile.
IL RUZZESE DICIASSETTEMAGGIO TRA I MIGLIORI VINI DOLCI ITALIANI
Il miglior vino dolce italiano, Ruzzese Diciassettemaggio 2020 di Cà du Ferrà, è frutto Innamorati di questa storia di recupero e qualità, Davide e Giuseppe nel 2015 decidono di piantare le prime 77 barbatelle di Ruzzese che in 5 anni diventeranno 1500 fino a ricoprire cinque terrazze a sbalzo sul mare nella zona dei piani di Cà du Ferrà a Bonassola, dove nascono i vini più pregiati dell’azienda di Bonassola (La Spezia). Esposti a sud, con il sole in fronte per tutto il giorno, le piante di Ruzzese crescono rigogliose e nel 2020 avviene la prima vendemmia.
Una vendemmia tardiva, cui segue la stesura dei grappoli in cassette della frutta dove l’appassimento durerà circa due mesi e mezzo, da fine settembre a fine novembre, e successivamente la sgranatura manuale. La vinificazione si svolge i primi giorni di dicembre, quando il vino sprigionerà il suo simposio di sapori e profumi. Non più di poche centinaia di bottiglie una produzione piccolissima, quella del vino Ruzzese di Cà du Ferrà. Preziosa, e speciale.
Winemag.it, giornale italiano di vino e gastronomia, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online, sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze dell’enogastronomia italiana e internazionale. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, vincitore di un premio giornalistico nazionale nel 2024. Editiamo con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Apprezzi il nostro lavoro? Abbonati a Winemag.it, con almeno un euro al mese: potrai così sostenere il nostro progetto editoriale indipendente, unico in Italia.
Prendi un sogno, credici davvero. Trova qualcuno che sogni con te. Chiudi gli occhi. E tutto sembrerà in discesa. Non c’è immagine che spieghi meglio il progetto ad ampio respiro di Davide Zoppi e Giuseppe Luciano Aieta, dei loro vigneti verticali, a picco sul mare della Liguria: dipende da dove li guardi. Cà du Ferrà è questo. Molto più di una cantina: uno stile di vita.
Flashback, utile a rimettere insieme i pezzi di una storia senza pari nel mondo del vino italiano, fatta di preparazione, coraggio, spirito imprenditoriale. Amore per le proprie radici, voglia di cambiare il mondo con tenacia, un pezzo alla volta. Realtà e sogni. Davide, laureato in Giurisprudenza, incontra Giuseppe, laureato in Ingegneria, con un Master in Finanza.
Se ne innamora e lo convince, a suon di tramonti mozzafiato, a cambiare vita. Anzi, orizzonte. Da Milano, i due si trasferiscono a Bonassola (La Spezia), noto borgo della Liguria di Levante dove i genitori di Davide, Antonio Zoppi e Aida Forgione, gestiscono dal 2000 una piccola cantina famigliare con agriturismo per l’ospitalità, chiamata Cà du Ferrà (“Casa del Fabbro”).
DAVIDE ZOPPI E GIUSEPPE LUCIANO AIETA, UNITI NELLA VITA E NEL VINO CON CÀ DU FERRÀ
Il matrimonio civile tra Davide e Giuseppe, officiato il 12 novembre 2016 nel castello di Bonassola, finisce addirittura in tv, protagonista di una puntata di “Real Time”. L’unione viene celebrata dalla più nota matrimonialista italiana, l’avvocata e saggista Annamaria Bernardini de Pace. Ospite speciale Enzo Miccio, il più noto Wedding Planner d’Italia. È la base per la “seconda vita” di Cà du Ferrà, con Davide e Giuseppe pronti ad entrare nell’organico dell’azienda agricola, rivoluzionandola sotto ogni aspetto.
«Abbiamo semplicemente continuato ad essere quello che eravamo a Milano», riferisce la coppia ricordando il trasferimento in Liguria. Nel 2017 viene costruita l’attuale cantina, che ospita una produzione di circa 28 mila bottiglie e che presto sarà ampliata, per consentire alla coppia di dedicarsi ancora meglio alla produzione e alle visite in cantina e in vigna. Ciliegina sulla torta è la collaborazione di Cà du Ferrà con una delle enologhe italiane più note: Graziana Grassini.
CÀ DU FERRÀ MIGLIOR CANTINA ITALIANA 2025 PER LA GUIDA WINEMAG
«L’aspetto umano nel mio lavoro è fondamentale – racconta la winemaker – e l’incontro con Giuseppe e Davide è stato tra i più belli, perché ci siamo affidati l’una agli altri naturalmente, senza forzature. Fare l’enologa vuol dire rendersi interprete della filosofia del produttore e di un territorio, fonderli insieme e saperli tradurre in caratteristiche sensoriali e nell’aspetto più emozionale del vino. Se manca il piacere di stare insieme, manca tutto».
Bonassola, grazie all’impegno delle anime belle di cui profumano tutti i calici di Cà du Ferrà – dal Vermentino al “Vino dolce dell’anno” della nostra Guida 2025, prodotto con l’antica e riscoperta uva Ruzzese – diventa simbolo della riscossa della viticoltura italiana dei piccoli borghi, spesso abbandonati alle proprie sorti.
Il teatro di una riscossa sociale, con la storia d’amore tra Davide Zoppi e Giuseppe Aieta che diventa impresa, nel duplice senso del termine, all’insegna di un approccio alla vita e al lavoro che brilla come un esempio. Non ultimo, Bonassola è la sintesi della forza delle idee e dei grandi progetti, tanto forti da richiamare e convincere grandi personalità come Graziana Grassini diventando realtà. Senza smettere mai di essere anche un bel po’ “sogni”.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 16 anni, tra carta stampata e online, dirigo oggi winemag.it, testata unica in Italia per taglio editoriale e reputazione, anche all’estero. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Segno Vergine allergico alle ingiustizie e innamorato del blind tasting, vivo il mestiere di giornalista come una missione per conto (esclusivo) del lettore, assumendomi in prima persona, convintamente, i rischi intrinsechi della professione negli anni Duemila. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
EDITORIALE – Tutto avrei immaginato nella vita tranne che di dover vestire, un bel giorno di settembre, i panni (indegni) dell’avvocato di Oscar Farinetti. E infatti me ne guardo bene, pur limitandomi a constatare (amaramente) che il tam-tam – più social che mediatico – generato dall’ennesimo caso tristemente derubricabile nella categoria “clickbait” (“acchiappaclic”, in italiano), imponga una ricostruzione fedele dei fatti. Di quelle che riportino la palla quantomeno al centro del dibattito, se non dalla parte del malcapitato protagonista. Già perché, contrariamente a quanto si legge e si condivide su “Feisbuk” e “Insta”, Farinetti non ha mai detto che «il Barolo» è «un vino dolce, che va con tutto e che si beve freddo». Il patron di Eataly, non ha neppure detto mai che, tout-court, «il Barolo» va «servito freddo, dodici gradi al massimo».
Piaccia o meno, nel video (pubblicato integralmente sotto) girato da quella che si autodefinisce “Italian Wine Evangelist“, Stevie Kim, Farinetti parlava (esclusivamente) di uno dei suoi Barolo. Ovvero di quello di Fontanafredda, azienda piemontese che l’imprenditore di Alba ha acquistato nel 2008, insieme al socio Luca Baffigo. Capisco benissimo che faccia sorridere – e coi sorrisi faccia magari fare pure “clic” a manetta – sostenere con toni scandalistici che Farinetti abbia pubblicamente “dissacrato” il Re dei vini piemontesi, quello a cui lui dovrebbe essere più “devoto”. Ma la verità risiede da tutt’altra parte. Come appare evidente nel video, l’imprenditore, prima di iniziare a parlare in un inglese scricchiolante, mostra agli spettatori l’etichetta del Barolo Docg del Comune di Serralunga d’Alba 2020, targato appunto Fontanafredda. Incalzato da una divertita Stevie Kim, Farinetti inizia a descriverlo come «il vino del futuro».
GRANDI VINI COME IL BAROLO “PRONTI PRIMA” RISPETTO AL PASSATO
Ed è proprio questa affermazione iniziale che va capita e analizzata, per comprendere tutto il resto del discorso e non cadere nel qualunquismo. «È un 2020 – continua l’imprenditore, tenendo in mano la bottiglia del suo Barolo – e lo berremo il prossimo anno. Ma se bevi il 2019 o il 2018 è lo stesso. La caratteristica di questo vino è che è semplice, è molto semplice». «Può sembrar difficile crederci – ammette Oscar Farinetti, col tono del “venditore” più che del degustatore professionale – ma questo è un vino semplice. È “dolce”. È possibile berlo con tutto, dalle verdure al pesce, alla carne. Ma quello che è importante è che venga servito freddo, come i vini bianchi, a 10-12 gradi massimo, molto freddo quindi».
Questo è molto, molto importante. È un vino dalla beva molto facile, perché questo Barolo – precisa il patron di Fontanafredda, continuando a mostrare l’etichetta agli spettatori l’etichetta del suo Serralunga d’Alba 2020 – è “meno”. È il futuro, perché il futuro è il “meno”».
Farinetti prosegue poi nel descrivere la stilistica del suo Barolo (non certo quello dell’intera denominazione, come qualcuno prova a far credere), ribadendo il concetto per lui fondamentale: «Non c’è bisogno di attendere un anniversario per berlo, o la prossima celebrazione. È fatto per essere bevuto ora. È molto facile (da bere, ndr)». Perché, allora, scandalizzarsi? Perché mettere in bocca a Farinetti parole che non ha mai detto? Perché far passare il patron di Eataly per uno sprovveduto che non conosce le caratteristiche della denominazione principale della sua regione, una delle più prestigiose del suo Paese e del mondo? Ah, già: i click!
BAROLO, AMARONE E SAGRANTINO SEMPRE PIÙ «EASY»
Maledetti loro e maledetto chi non gira il mondo, l’Italia e neppure le stesse Langhe, dimostrando di non conoscere il numero spropositato di denominazioni che stanno producendo, negli ultimi anni, «in sottrazione» (Farinetti, nel suo inglese tanto trasandato, direbbe «Easy», «Minus»), semplificando per certi versi l’apporto tannico in favore di versioni più “pronte”, bevibili, golose e accessibili in tempi relativamente brevi rispetto all’anno della vendemmia, senza dover più aspettare anni (ovvero gli «anniversari o celebrazioni» citate dal patron di Eataly nel video).
Lui, che il mondo lo gira e i vini li assaggia – oltre a conoscerne i trend internazionali, tra i quali la crisi dei vini rossi potenti, alcolici e “impegnativi”, in favore dei vini bianchi “freschi” e degli spumanti, nonché le difficoltà di trovare vini rossi serviti alla corretta temperatura, che non è quella «dell’ambiente»! – invece lo sa bene. E prova a rimediare, almeno con una parte della gamma di Fontanafredda. Succede in Langa, col Barolo, così come in Valpolicella, con l’Amarone e il Superiore. O in Umbria, col Sagrantino di Montefalco. Lo fanno i grandi, i grossi, i piccoli e i medi produttori: sarà poi il consumatore a scegliere. E non potrà che farlo sempre meglio, in un futuro con più giornalismo, cronaca e informazione responsabile. In fondo, è meglio un Barolo freddo di una bugia a fin di click. Prosit.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 16 anni, tra carta stampata e online, dirigo oggi winemag.it, testata unica in Italia per taglio editoriale e reputazione, anche all’estero. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Segno Vergine allergico alle ingiustizie e innamorato del blind tasting, vivo il mestiere di giornalista come una missione per conto (esclusivo) del lettore, assumendomi in prima persona, convintamente, i rischi intrinsechi della professione negli anni Duemila. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Non è un Aszú Day come gli altri quello che si celebra oggi, 10 dicembre2021, in Ungheria così come nel resto del mondo. Il “re dei vini dolci“, prodotto esclusivamente nella regione vinicola di Tokaji, compie infatti 450 anni.
Sono trascorsi quattro secoli e mezzo da quando il vignaiolo Máté Garai lo menziona nel suo testamento del 1571. Il documento, scoperto dallo studioso István Zelenák negli archivi della biblioteca di Sátoraljaújhely, è la prima testimonianza scritta riferita all’Aszú.
Garai lasciava in eredità ai suoi famigliari alcune preziose botti di «Asszú Szőlő Bor». Letteralmente “Vino d’uva Aszú”, ottenuto da acini botritizzati, ovvero attaccati dalla muffa nobileBotrytis Cinerea.
Nella cittadina del nord ovest dell’Ungheria, le celebrazioni ufficiali dell’Aszú Day 2021 si svolgeranno durante l’intero fine settimana, con un calendario di eventi e degustazioni in numerose cantine, dal 10 al 12 dicembre.
SEI ANNATE STORICHE DI TOKAJI ASZÚ: LA DEGUSTAZIONE
Il focus dei festeggiamenti saranno proprio i 450 anni del vino dolce di Tokaji, già al centro di alcune iniziative riservate alla stampa internazionale, ad inizio novembre 2021. Evento di punta, la degustazione di 6 annate storiche di Tokaji Aszú organizzata dai produttori a Tarcal, in collaborazione con Tokaj Guide.
Tutti in forma straordinaria i vini serviti, dal Tokaji Aszú Benedecz dűlő 2000 di Patricius, passando per i Tokaji Aszú 1993, 1988, 1972, 1956 e 1940 di Tokajbor-Bene Pincészet, Puklus Pincészet (Szentkereszt dűlő), Oremus e della vecchia cantina statale di Tokaj.
L’annata più sorprendente è la 1988, di un ambrato luminoso e dal naso particolarmente fresco, speziato, al contempo avvolgente, sinuoso, accattivante. Le note spaziano dal caramello al miele, dalla frutta stramatura e sotto sciroppo alla vaniglia, sino a cioccolato, arancia e zenzero candito.
In bocca una concentrazione assoluta e il “peso” dei grandi vini dolci mondiali, che va ben oltre la lascivia del residuo zuccherino. Colpisce anche al palato la 1988. Per l’estrema freschezza, nonché in termini di persistenza, matericità e beva spasmodica, agevolata da una chiusura asciutta, quasi comparabile a quella d’un ottimo vino secco.
LA LONGEVITÀ DEL TOKAJI ASZÚ
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Sbalorditiva anche la forma delle tre vendemmie più “anziane” in degustazione. La 1972, altrettanto fresca e concentrata, è connotata da una vena minerale finissima e da una chiusura su ricordi di liquirizia. La 1956 scalpita ancora, forse in onore dell’anno della Rivoluzione ungherese. Naso suadente, di vaniglia e mou, pronto a virare su tinte balsamiche, mentolate.
In bocca, un Aszú che regala ancora freschezza, frutto e vena salino-minerale, prima di una elegantissima chiusura agrumata, capace di rendere la beva agilissima. Concentrazione assoluta per la vendemmia 1940, ultimo “Muzeális bor” in degustazione: pienezza ed integrità della componente fruttata, che si arricchisce di venature di sottobosco, muschio e un accenno leggero di fungo, unico tratto che ne disvela la carta d’identità.
Un vino che sembra dialogare con l’annata 1956, sui ritorni di liquirizia che si riverberano dal naso al palato, tanto quanto il fiume denso di frutta polposa, tra lo stramaturo e lo sciroppato. Oltre ad albicocca e pesca ecco qui il fico, assieme al dattero, a convincere ancor più in termini di estrema godibilità e pienezza del sorso, sempre sorretto dall’adeguata freschezza.
Al cospetto delle precedenti annate, la 1993 di Tokajbor-Bene Pincészet e la 2000 di Patricius paiono bambini all’asilo di Tokaji. Vini dotati di grande prospettiva, al contempo capaci di rivelarsi sin d’ora veri e propri capolavori di equilibrio, tra concentrazione della componente fruttata, slancio minerale-vulcanico tipico dei vini della regione, garbo dei terziari e freschezza (da vendere).
LO SVILUPPO DELL’ENOTURISMO NELLA REGIONE DI TOKAJI
Se il passato dell’Aszú è tanto luminoso da riflettersi nel calice persino a 81 anni dalla vendemmia, il futuro non potrà che essere all’altezza. «La regione di Tokaji – anticipa a WineMag.it Peter Molnár (nella foto sopra) presidente del Consorzio Vini della regione ungherese – sarà interessata da un colossale progetto di sviluppo, diretto dal commissario György Wáberer, nominato appositamente dal governo».
Sono già iniziati i lavori di rinnovamento di alcune infrastrutture stradali locali e periferiche, mentre altre saranno realizzate ex novo. È il caso della funicolare che collegherà la cittadina di Tokaj alla cima della collina Kopasz-hegy, dove si trova l’attuale torre-antenna di Hungária Zrt.
L’edificio, oggi utilizzato solo parzialmente dall’emittente ungherese, sarà rinnovato e fungerà da punto di ristoro panoramico, grazie a un ascensore che condurrà i visitatori sulla vetta: l’esperienza offerta sarà incredibile».
NUOVO IMPULSO A GASTRONOMIA, RISTORAZIONE E OSPITALITÀ
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Con l’obiettivo di invogliare gli enoturisti a scoprire la regione in bicicletta, saranno rinnovate le piste ciclabili, che condurranno anche tra i pittoreschi vigneti della regione di Tokaji. Particolare attenzione sarà riservata alla gastronomia locale, attraverso bandi che agevoleranno l’apertura di nuovi ristoranti, in una zona che sta già accrescendo a livello esponenziale la qualità dell’offerta di ristorazione gourmet.
Ultimo in ordine cronologico, l’investimento di Dereszla Pincészet con il suo Dereszla Bisztró a Bodrogkeresztúron (nella gallery sopra). Qui, il direttore generale László Kalocsai, assieme a un team di giovani cuochi e wine expert, sta dando impulso all’evoluzione della cucina di Tokaji, fondendo i piatti della tradizione alle più moderne e ricercate tendenze della gastronomia internazionale.
«I finanziamenti interesseranno anche l’apertura di nuove attività ricettive, come hotel e B&B – continua Peter Molnár – con l’obiettivo di compiere un vero salto di qualità nella nostra offerta complessiva di enoturismo, nel giro dei prossimi 4 anni. Ciò che è ancora più importante sottolineare è che il progetto non riguarda solo le infrastrutture e i luoghi fisici, ma anche le persone e l’organizzazione complessiva».
VITICOLTURA, ENOLOGIA E TURISMO ALL’UNIVERSITÀ DI TOKAJI
Il riferimento del presidente del Consorzio di Tokaji è all’istituzione di un ufficio che coordinerà le attività turistiche e culturali della regione, che si interfaccerà direttamente con le cantine e con le attività museali. Ma non solo.
«Nel 2013 – spiega Molnár – abbiamo celebrato i 500 anni dalla fondazione del Collegio di Sárospatak, cittadina che dista meno di 40 chilometri dal cuore della regione che, da agosto 2021, ospita l’Università Tokaj-Hegyalja».
Il nuovo corso di laurea in Viticoltura ed Enologia, così come quello in Turismo ed Ospitalità, sono stati pensati per i nostri giovani e per dare nuovo impulso e redditività alle aziende di Tokaji.
Un modo per investire nel futuro della nostra regione vinicola, patrimonio dell’Unesco, fornendo una formazione adeguata, teorica e pratica, ai professionisti di domani».
I nuovi dipartimenti avranno una forte propensione all’internazionalizzazione. «L’università – conclude Peter Molnár – è già pronta ad ospitare anche studenti stranieri, sicura dell’attrattività che possa costituire la regione vinicola di Tokaji per qualsiasi giovane interessato a lavorare nel settore del vino».
A garantire la dimensione internazionale dei corsi saranno inoltre professionisti chiamati dall’estero, nonché collaborazioni con le più importanti università di viticoltura, enologia ed ospitalità già attive in Europa. Per i brindisi ci sarà l’imbarazzo della scelta. Almeno oggi, solo Tokaji Aszú: è il suo giorno.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 16 anni, tra carta stampata e online, dirigo oggi winemag.it, testata unica in Italia per taglio editoriale e reputazione, anche all’estero. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Segno Vergine allergico alle ingiustizie e innamorato del blind tasting, vivo il mestiere di giornalista come una missione per conto (esclusivo) del lettore, assumendomi in prima persona, convintamente, i rischi intrinsechi della professione negli anni Duemila. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Levata di scudi dell’Italia contro il Prošek, il vino dolce croato che Zagabria vorrebbe vedere riconosciuto dall’Ue come Menzione tradizionale. La richiesta è stata avanzata dalla Croazia ai servizi della Commissione europea. L’obiettivo è la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, che darebbe il via libera all’etichettatura del vino.
Nello specifico, il Prošek è un vino dolce da dessert prodotto nella sud della Dalmazia, da uve appassite. L’uva Glera non è prevista nel disciplinare. L’uvaggio stabilito riguarda i vitigni Bogdanuša, Maraština, Vugava e Plavac Mali.
Si tratta di uve autoctone croate (le prime tre a bacca bianca, l’ultima a bacca rossa), che danno vita a un passito generalmente molto costoso. Qualcosa di simile al Vino Santo, dunque.
In Croazia se ne producono complessivamente circa 60 milioni di litri all’anno, ovvero circa 80 milioni di bottiglie. Ma per Coldiretti, visto il nome, si tratta comunque di «un attacco al Made in Italy e al Prosecco nazionale».
L’IRA DI COLDIRETTI E FEDERVINI
«Il vino più esportato nel mondo è anche il più imitato – continua il sindacato degli agricoltori – e la decisione rischia di indebolire la stessa Ue nei rapporti internazionali e sui negoziati per gli accordi di scambio dove occorre tutelare la denominazione Prosecco dai falsi, come in Argentina e Australia».
Dura anche la reazione di Federvini sul Prošek. «Riteniamo questa richiesta inaccettabile – dichiara Albiera Antinori, presidente del Gruppo Vini di Federvini – e appare incomprensibile l’atteggiamento della Commissione Europea che sta lasciando andare avanti il dossier.
Il Regolamento europeo in materia (1308/2013) stabilisce che ogni denominazione di origine, come il nostro Prosecco, deve essere difesa da ogni tentativo di imitazione, anche attraverso la semplice traduzione linguistica. E il termine croato Prošek è semplicemente la traduzione di Prosecco».
Federvini chiede «con forza» che il Governo italiano si faccia «garante della protezione della denominazione e faccia pressione sulla Commissione affinché riconosca l’inammissibilità della richiesta».
«Ogni tentativo di indebolimento della nostra denominazione – aggiunge spiega Micaela Pallini, presidente di Federvini – deve essere respinto con forza. È fondamentale che il sistema Paese si muova unito e in maniera coordinata. Il pericolo è la proliferazione di prodotti che sembrano italiani ma non lo sono».
FEDERVINI: «PROŠEK COME IL PARMESAN»
«Evitiamo di ripetere con il Prošek il caso del Parmesan – ammonisce ancora Pallini – che tanti danni ha arrecato al nostro export caseario. Difendere oggi Prosecco significa tutelare le denominazioni italiane ed europee sul mercato Ue e nei mercati internazionali. Non farlo sarebbe un boomerang ed un grave danno per tutto il sistema vinicolo, italiano ed europeo».
Intanto il Prosecco vola sui mercati. Nel primo trimestre del 2021, lo spumante italiano più venduto nel mondo ha visto un + 8% delle bottiglie esportate nel mondo. Dati che, secondo Coldiretti, «ingolosiscono i falsari con imitazioni diffuse in tutti i continenti».
La confederazione cita per esempio Meer-secco, Kressecco, Semisecco e Consecco. Ma Coldiretti ha smascherato e denunciato anche la vendita di altri prodotti italian sounding, come Whitesecco e Crisecco.
Il falso Made in Italy alimentare vale 100 miliardi nel mondo. Sugli scaffali internazionali, due prodotti su tre che richiamano all’Italia non hanno in realtà nulla a che vedere con l’agroalimentare italiano.
L’ORIGINE DEL PROSEK E LA MENZIONE TRADIZIONALE UE
È l’articolo 112 del regolamento Ue n. 1308/2013 del Consiglio a chiarire quali caratteristiche debba avere una
Menzione tradizionale nell’Unione europea. L’espressione usata negli Stati membri indica «che il prodotto reca una denominazione di origine protetta o un’indicazione geografica protetta dal diritto unionale o nazionale».
Oppure, «il metodo di produzione o di invecchiamento, la qualità, il colore, il tipo di luogo o ancora un evento particolare legato alla storia del prodotto a denominazione di origine protetta o a indicazione geografica protetta». Sono due i tipi di menzioni tradizionali riferite ai vini prodotti nell’Ue.
La prima è utilizzata «al posto di / in aggiunta al riferimento a una Dop», come «appellation d’origine controlee (Aoc in Francia)», «denominación de origen protegida (Do in Spagna)», «denominazione di origine controllata (Doc in Italia)», o per quei prodotti enologici che rechino un’Indicazione geografica protetta (Igp) come «Vin de Pays», «Vino de la Tierra», «Indicazione Geografica Tipica», «Vinho Regional», «Landwein».
La seconda tipologia autorizza la presenza in etichetta di parole come «château», «grand cru», «añejo», «clásico», «crianza», «riserva», «fino», «Federweisser». Secondo l’Ue, «le menzioni tradizionali per i vini trasmettono ai consumatori informazioni circa le specificità e la qualità dei vini, in linea di massima integrando le informazioni fornite dalle denominazioni di origine e dalle indicazioni geografiche protette».
Un esempio è la «Gran Reserva de Fondillón» per vino di uve stramature della Dop Alicante, o il «Cru bourgeois» per vino della Dop Médoc. Sarà l’Ue a stabilire se il Prošek rientra in queste categorie.
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BREGANZE – Undici produttori, un solo obiettivo: la promozione di un’eccellenza veneta e italiana, il vino passito Torcolato. Denominazione di origine controllata dal 1996. E’ un quadro di grande unità quello che emerge dalla giornata di degustazione organizzata ieri alla cantina Maculan di Breganze.
Un tasting organizzato nell’ambito della “Prima del Torcolato 2018“, kermesse che oggi animerà il centro storico del paese della provincia di Vicenza, con la cerimonia della spremitura delle uve Vespaiola.
Tante le sfumature negli undici calici in degustazione. Tutte interpretazioni del terroir vicentino. Una fotografia delle zone più vocate e di quelle meno storiche per la produzione del Torcolato, come le colline di Bassano del Grappa.
“Ma non siamo qui per decidere qual è il buono – ha ricordato il padrone di casa, Fausto Maculan – bensì per mostrare la straordinarietà del passito di Breganze. Un vino di cui si trovano le prime tracce ufficiali nel 1870, che da allora è cambiato molto”.
“I produttori – ha evidenziato Maculan – hanno investito negli anni in tecniche che hanno permesso di trasformare il Torcolato in un’eccellenza, risolvendo per esempio i problemi di ossidazione. Basti pensare che negli anni Cinquanta questo passito era marrone, oggi invece è contraddistinto da un bel giallo dorato. In passato, i breganzesi regalavano questo vino agli amici o agli ospiti: oggi lo bevono anche loro”.
LA TECNICA DI PRODUZIONE Fondamentale, per la produzione del Torcolato, è l’appassimento delle uve. Un processo che avviene ancora come un tempo, all’interno di “fruttai” ricavati in vecchi granai dotati di abbaino e finestra per il ricircolo dell’aria.
I grappoli spargoli di Vespaiola vengono legati tra loro con lo spago: in una parola “torcolati”. Formano così vere e proprie trecce d’uva, legate alle travi di legno delle soffitte. Un’altra tecnica prevede la messa a riposo delle bacche di Vespaiola su graticci e cassette, simili a quelle utilizzate per la produzione del Recioto.
Dopo circa quattro mesi, il risultato sono acini pressoché disidratati, in cui la concentrazione degli zuccheri è molto elevata. E’ gennaio quando vengono “torchiati”, ovvero “pigiati”, “strizzati”. Terminata la fermentazione, il vino matura in piccole botti anche per più di due anni, prima di essere imbottigliato. Il Torcolato, infatti, non può essere venduto prima del 31 dicembre dell’anno successivo alla vendemmia.
La produzione si assesta attorno alle 50 mila bottiglie annue. Nella pedemontana vicentina, su un totale di 600 ettari vitati, circa 60 sono destinati alla Vespaiola. Solo i migliori terreni concorrono alla produzione del Torcolato.
Un passito affascinante come la striscia collinare che si estende per una ventina di chilometri, tra i fiumi Astico e Brenta. Al centro, Breganze. A Ovest l’area è delimitata da Thiene e a Est da Bassano del Grappa. Una zona che dà vita a gemme della gastronomia italiana.
Basti pensare al formaggio Asiago Dop, alla Sopressa Vicentina Dop, all’asparago bianco di Bassano Dop e alla ciliegia di Marostica Igp. Ma anche al mais Marano e a piatti della tradizione come il Bacalà alla Vicentina, il Toresan allo spiedo e i Bigoi co’ l’arna (i Bigoli con l’anatra).
I NOSTRI MIGLIORI ASSAGGI
Tutti buoni, i Torcolati di Breganze. Ma non possiamo non segnalare i nostri tre migliori assaggi in occasione dell'(Ante)Prima di ieri mattina:
1) Torcolato Breganze Doc 2015, Cantina Col Dovigo. Giallo dorato, naso pulitissimo e intenso: miele, albicocca, fichi e una leggera vena balsamica ad elegantire le prime “snasate”. Con una prolungata ossigenazione nel calice, questo Torcolato arriva ad accarezzare delicate distese di lavanda e a richiamare la liquirizia dolce.
In bocca tiene alla grande e non subisce grandi variazioni tra l’inizio e il termine della degustazione. Palato agile ma struttura consistente, tutta giocata su note corrispondenti all’olfatto e su una chiusura tra il sapido e il fresco balsamico. Tremila bottiglie totali. Una chicca, prodotta con passione da Stefano Bonollo.
2) Tocolato Breganze Doc 2014, IoMazzucato. Colore oro con riflessi ambrati. Colpisce al naso per una nota speciale, che richiama la nafta (idrocarburo). Un sentore che impreziosire il corredo olfattivo tipico della Denominazione.
Un Torcolato, quello di IoMazzucato, sugli scudi anche per un palato di grande limpidezza, giocato più sul sapido e sull’acido che sul dolce. Buona anche la persistenza, da giudicare in virtù della prevalenza delle durezze sulle morbidezze zuccherine. Un’etichetta, osiamo dire noi oggi, che rende onore a chi definì il Torcolato “dolce non dolce”.
3) Torcolato di Breganze Doc 2012, Maculan. Uno dei simboli della Doc Breganze, la cantina Maculan. Il genio di Fausto, vero e proprio “guru” dell’enologia italiana moderna – oggi affiancato dalle preparatissime figlie Angela e Maria Vittoria – brilla nel Torcolato 2012.
Ottenuto dalle colline vulcaniche e tufacee del paese, matura un anno in barrique di rovere francese per 1/3 nuove e per 2/3 di secondo passaggio. Nel calice si presenta di un giallo dorato luminoso. Come solo altri due campioni in degustazione, oltre ai tipici profumi, sfodera una leggera nota di idrocarburo.
Altro perfetto esempio della definizione “dolce non dolce”, non stanca mai. Tiene incollato il naso al vetro. E quando finalmente riesci a staccarti, la stessa (buona) sorte tocca alle labbra. I sorsi si rincorrono, fino all’ultima goccia. Lungo anche il retro olfattivo.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 16 anni, tra carta stampata e online, dirigo oggi winemag.it, testata unica in Italia per taglio editoriale e reputazione, anche all’estero. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Segno Vergine allergico alle ingiustizie e innamorato del blind tasting, vivo il mestiere di giornalista come una missione per conto (esclusivo) del lettore, assumendomi in prima persona, convintamente, i rischi intrinsechi della professione negli anni Duemila. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Secondo appuntamento con i volantini delle maggiori insegne Gdo italiane. Questa volta diamo i voti ai vini in promozione dal 14 dicembre al 24 o al 31 dicembre. I supermercati presi in considerazione – per ora – restano Auchan, Bennet, Carrefour, Conad, Coop, Esselunga, Il Gigante, Ipercoop e Iper la Grande I.
Invitiamo i lettori a fare grande attenzione ai prezzi pubblicati sui volantini, specie in quelli natalizi. Il prezzo di alcuni vini, infatti, non risulta sottoposto a sconti o promozioni. Si tratta dunque di etichette messe in evidenza, sul volantino, al solo scopo di spingerne le vendite, in abbinamento a specialità dei reparti Salumeria, Gastronomia o Pasticceria. Un esempio? Eccolo qui sotto.
Incredibile, in tal senso, la scelta del “marketing natalizio” dell’insegna Bennet, che si presenta ai clienti con un volantino senza prezzi “barrati”. Su “Tavola in festa – per un Natale perfetto”, si trova un 95% di vini al prezzo consueto di vendita. Solo per un 5% il prezzo indicato è concorrenziale: se siete abituati a fare la spesa da Bennet, più in basso troverete le etichette più convenienti da acquistare per Natale o Capodanno.
Il voto assegnato ad ogni etichetta è espresso – come di consueto per vinialsuper – in “cestelli della spesa“. Da un minimo di 1 a un massimo di 5: una valutazione che tiene conto soprattutto dell’ottica qualità prezzo. Un motivo in più per seguirci sui nostri canali social: Facebook e Twitter.
fino al 24 dicembre
Chianti Classico Docg, Cecchi: 4,79 euro (4 / 5)
Rosso di Montalcino Doc, Frescobaldi: 6,99 euro (4,5 / 5)
Bianco Umbria Igt Desiata / Rosso Umbria Igt Vocante, Terre de la Custodia: 3,59 euro (3,5 / 5)
Vini Friuli Doc Bianchi, Tenimenti Civa: 5,49 (4,5 / 5)
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 16 anni, tra carta stampata e online, dirigo oggi winemag.it, testata unica in Italia per taglio editoriale e reputazione, anche all’estero. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Segno Vergine allergico alle ingiustizie e innamorato del blind tasting, vivo il mestiere di giornalista come una missione per conto (esclusivo) del lettore, assumendomi in prima persona, convintamente, i rischi intrinsechi della professione negli anni Duemila. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
E’ la “fiera” nel cuore di tanti amanti della viticoltura “autentica”, “naturale”. Siamo a Fornovo di Taro, in provincia di Parma, per “Vini di vignaioli – vins des vignerons”. Una rassegna giunta ormai alla sedicesima edizione.
La fiera dei vignaioli artigiani si tiene sempre nello stesso tendone. La differenza è che, negli anni, è sempre più affollato. Di appassionati, sì. Ma anche di produttori. Sempre più “vignaioli” e sempre meno “imprenditori del vino”. Perché a Fornovo, il vino è inteso come risorsa alimentare corroborante e salutare, come è stata riconosciuta nei secoli. E non come bevanda che può essere alterata e corretta correggendo i costituenti.
La giornata di lunedì 6 novembre è uggiosa. Piove, come capita spesso nel periodo di inizio novembre. Il tendone posizionato all’inizio del paese, sulle sponde del Taro, è fatiscente. In alcuni angoli piove dentro. Ma lo spazio, quest’anno, è meglio distribuito e l’organizzazione ha apportato qualche modifica che rende la disposizione dei vignaioli più confortevole per i visitatori: 163 produttori, di cui 9 stranieri. Questi i nostri migliori assaggi. O, meglio, i più interessanti.
Manzoni bianco Fontanasanta 2016. macerazione di 5/7 giorni, poi affinamento in legno di acacia per 12 mesi. Colore giallo paglierino intenso, naso esplosivo di fiori e frutta bianca, con inserti di note tropicali. Al palato rimane concorde: bel glicine e continua frutta a polpa bianca e gialla, un discreto sale e un legno ancora da amalgamare.
Pinot grigio Fuoripista 2016. Macerazione in anfora per 8 mesi, poi un rapido passaggio in vasca solo per la decantazione. Vino dal colore rosa tenue tendente al chiaretto, sorprendentemente limpido e trasparente. Al naso fragoline e spezie in un mix quasi orientale. La bocca è complessa e lunga, fresca e avvolgente. Un leggero tannino accarezza le mucose e chiude il sorso lasciando la bocca immediatamente pulita. Dalla prima annata, la 2014 – tra l’altro non proprio facile, bisogna riconoscerlo – ad oggi, l’evoluzione di Elisabetta Foradori è convincente.
Perciso 2016. Elisabetta, insieme ad altre 10 aziende (Castel Noarna, Cesconi, Dalzocchio, Eugenio Rosi, Maso Furli, Mulino dei lessi, Gino Pedrotti, Poli Francesco, vignaiolo Fanti e Vilar) ha formato un consorzio, “I dolomitici”, con l’intento di valorizzare l’originalità e la diversità dell’agricoltura trentina. Nell’ambito di questo progetto nasce il “Perciso”, vino dedicato a Ciso, contadino locale che ha consegnato nelle mani di questi 11 amici una vigna di Lambrusco a foglia frastagliata a piede franco, i cui 727 ceppi sono stati piantati ad inizio 1900.
Vino ottenuto da lunga macerazione e affinamento per 10 mesi in legno grande. Un vigneto storico, un’uva rara, espressione di quella tipicità trentina che il Consorzio punta a valorizzare. Con successo. Vino dal colore rosso porpora carico , limpido. Naso di frutta rossa di sottobosco, non ha mezze misure e in bocca è dritto, schietto, con una discreta acidità e freschezza e una buona persistenza. Si fa bere facile, non è per niente segnato dal legno. Molto interessante. Considernado gli esemplari in commercio (2500) una vera e propria chicca.
Agr. Radikon , Gorizia (GO), Friuli Venezia Giulia
Ribolla 2010. Sasa Radikon qui non sbaglia mai. La vinificazione dei bianchi di casa Radikon è la stessa per tutte le uve: 4 mesi di macerazione, più 4 anni di affinamento in botte, più 2 anni di bottiglia. L’orange wine per definizione dopo quelli di Josko Gravner. Il colore è un giallo carico, dorato. Profumi di spezie, fiori appassiti, frutti canditi, miele, albicocca matura, rabarbaro e un accenno di zafferano. La compessità olfattiva accontenterebbe di per sè già il più scettico dei degustatori. Ma in bocca si completa. Di sottofondo il retro olfattivo aromatico. E in prima linea un tira e molla tra acidità, freschezza e tannino. Con chiusura sapida e minerale. Una meraviglia. Stop.
Agr. Ausonia , Atri (TE), Abruzzo
Qui ci imbattiamo in una mini verticale di Cerasuolo, annate 2016 , 2015 e 2014. Il Cerasuolo di Simone e Francesca, due giovani mantovani con la passione per l’agricoltura e per il vino, è una storia meravigliosa.
Simone lascia la farmacia e Mantova e insieme alla compagna si trasferisce in Abruzzo, dove dal 2008 inizia l’avventura. Siamo ad Atri, nell’entroterra teramano, a 270 metri sul livello del mare. Dodici ettari piantati a Trebbiano, Montepulciano e Pecorino.
Il Cerasuolo effettua una macerazione velocissima, di poche ore, massimo 10 (la 2014, “annata scarica”, ha fatto una notte intera in macerazione, ci racconta Simone) per poi passare senza bucce per la fermentazione in acciaio, dove completa anche la malolattica.
L’annata che convince di più è la 2015: meglio delle altre esprime le caratteristiche splendide di questo vino. Il colore rosato, quasi lampone (un rosa “Big Babol” ). Naso di piccoli fruttini rossi, lampone appunto, ma anche ribes, fragoline e sfumature di violetta. Bocca sapida, fresca e minerale. Uno di quei vini da scolarsi senza ritegno, in estate, a bordo piscina. O in spiaggia.
Az- Agr. Franco Terpin, San Fiorano al Collio (GO), Friuli Venezia Giulia
Qui, dal buon Franco Terpin, ci accoglie la moglie. Già è di poche parole lui. Lei? Gli fa un baffo. Versa, versa e versa. Ma non fatele troppe domande. Assaggiamo Sauvignon 2011 e Pinot grigio 2012, senza rimanere a bocca aperta come invece ci era capitati a VinNatur per il Sauvignon 2010. Il colpo arriva quando meno te lo aspetti. Mentre stai andando via, un po’ deluso, vedi spuntare una magnum con etichetta tutta nera e orange, con un disegno stile “gta”. Lì si fermano tutti.
Compresi quelli di spalle, pronti ad abbandonavano il banchetto. I malfidenti. Si sente sollevarsi un “Oooh, mmmh, wow”, dai pochi rimasti lì davanti. Il gioco è fatto appena metti il naso nel bicchiere. Parolaccia. Clamoroso. Ci dicono Malvasia, ma da un’attenta ricerca il Bianco Igt delle Venezie “il legal” esce senza specifiche di vitigno. Anzi, una specifica c’è. E’ il bianco fatto da uve “non so”:a base Malvasia, sicuramente. Ma con altri uvaggi che non ci è dato sapere.
Il naso è di quelli ipnotici, magnetici, non riesci a staccarlo dal bicchiere. Uno di quei vini che ti accontenti anche solo di annusare, non importa la bocca, talmente è appagante l’olfazione. Non serve altro. Proviamo a dare qualche descrittore. Non sappiamo nulla della vinificazione, dell’affinamento. Il naso inizia sull’uva sultanina, poi frutta bianca matura, pesca, albicocca secca.
Ma anche miele e note di caramello. In bocca, a dir la verità, ha convito meno tutta la platea, peccato. Bella acidità e mineralità, ma chiude forse troppo corto per l’aspettativa che aveva creato nel pubblico estasiato. E’ giovane e “si farà”. I presupposti ci sono tutti. Comunque il naso più roboante dell’intera giornata.
Agr. Eno-Trio, Randazzo (Ct), Sicilia
Giovane cantina, nata nel 2013. Fino a qualche hanno fa conferiva le uve ad altri produttori. Siamo in contrada Calderara, una delle più vocate del versante nord dell’Etna. Si coltiva Nerello mascalese, Pinot nero, Carricante e Traminer aromatico, Grenache e Minnella nera. Un bel mix. Il Traminer prende vita a 1100 metri sul livello del mare, i rossi più in basso. Le vigne di Nerello sono tutte pre filossera a piede franco, con più di cento anni di vita. Ottima tutta la gamma.
Il Pinot nero 2015, viti di quasi 40 anni, macerazione per 6-8 giorni, dopo la fermentazione e la svinatura passa in acciaio per completare la malolattica. Affina in barrique e tonneau per 16 mesi. Colore porpora con unghia violacea, naso bellissimo di marasca e frutti rossi. In bocca è fresco, non si sente per niente il legno, bella acidità, chiusura morbida, avvolgente. Chi dice che l’Etna è la nostra Borgogna non sbaglia, davanti a vini come questo. Un vino incantevole.
Il botto arriva però col Nerello mascalese 2014, 18 mesi di barrique e tonneau. Rubino fitto, naso commovente, frutto dolce e spezia. Ciliegia matura, prugna, mora, china su tutti, ma anche pepe e balsamico. Sorso appagante, fresco, tannino morbido, levigato, bel corpo sostenuto nel centro bocca e un finale persistente. Grande vino.
Az. Agr Stefano Amerighi, Poggio bello di Farneta – Cortona (AR), Toscana
Stefano Amerighi, l’uomo che ci regala il Syrah più buono dello stivale, non lo scopriamo certo adesso e soprattutto non grazie a chi lo ha premiato quest’anno come “vignaiolo dell’anno”. Amerighi è da tempo una garanzia. Lui e il suo Syrah.
Apice 2013. La selezione è un mostro che potrebbe tenere testa a qualche rodano importante. Complesso, spezia, fumé, frutta, non ti stancheresti mai di berlo. In bocca è talmente equilibrato e armonico che non finisce mai di farti scoprire piccole sfaccettature. Lunghissimo.
Az . Agr. La Stoppa , Rivergaro (PC) , Emilia Romagna
La realtà di Elena Pantaleoni è ormai conosciuta oltre i confini nazionali, specie per gli ottimi vini rossi a base soprattutto Barbera e Bonarda e per il noto Ageno, vino a lunga macerazione da un uvaggio di Trebbiano, Ortrugo e Malvasia di Candia.
Noi però siamo qui per uno dei vini più incredibili della fiera e dello stivale in toto: il Buca delle canne. Il vino prende il nome da una conca, appunto la “buca delle canne”, dove Elena ha piantato Semillon, tanto per intenderci l’uva principe da cui si ricava il Sautern.
Qui, a causa proprio della conformazione geografica e pedoclimatica, in alcuni anni le uve vengono colpite dalla muffa nobile, la Botrytis cinerea. Pigiatura solo degli acini colpiti dalla muffa, con torchio verticale idraulico, 10 mesi di barrique di rovere francese e almeno 2 anni di bottiglia per una produzione annua di soli 500 esemplari in bottiglia da 0,50 litri.
Giallo dorato con riflessi ambrati, il naso è ciclopico così come la bocca, tutta la gamma della frutta passita in una sola olfazione. Fichi secchi, canditi, agrumi, scorza d’arancia e poi zafferano, curcuma, mallo di noce. Esplosivo. In bocca sontuoso, ma di una freschezza imbarazzante, potente e armonico. Uno dei migliori vini dolci prodotti in italia, senza se e senza ma.
Agr. Cinque Campi, Quattro Castella (RE) Emilia Romagna
Questa forse una delle sorprese più belle incontrate. La soffiata arriva girando tra la fiera: “Assaggiate la Spergola, ragazzi!”. Questa cantina del reggiano a conduzione famigliare coltiva autoctoni come il Malbo gentile , la Spergola, il Lambrusco Grasparossa e in più qualche uvaggio internazionale come Sauvignon, Carmenere e Moscato.
Puntiamo alla soffiata e ci viene servito il Particella 128 Pas dose 2016, metodo classico di Spergola 100%, macerazione sulle bucce per 3 giorni, 6 mesi in acciaio e poi presa di spuma con 8 mesi di sosta sui lieviti. Una bolla allegra, spensierata, gradevole al palato. Con una nota fruttata gialla e citrica invitante la beva e un bouquet di fiori di campo ben in evidenza. Bella acidità e bevibilità.
Il secondo convincente assaggio è L’artiglio 2014, Spergola 90% e Moscato 10%. Altro metodo classico non dosato. Qui siamo sui 36 mesi sui lieviti ed è stato sboccato giusto, giusto per la fiera. La piccola percentuale di Moscato ne fa risaltare il naso e in bocca ananas, frutta bianca, pompelmo rosa ed erbe aromatiche. Una bellissima “bolla”. “Cinque campi”, nome da tenere a mente.
Lui lo puntavamo. Trebbiano modenese degustato al ristorante, volevamo vederlo in faccia. Uomo schivo, di poche parole, quasi infastidito al banchetto. Si direbbe un garagista del Lambrusco.
Tarbianein 2016. Trebbiano di Spagna, non ci dice altro sulla vinificazione. Sappaimo solo che sono tutti rifermentati in bottiglia. Il colore è un giallo paglierino torbido, il naso è dolce, richiama quasi lo zucchero filato e il candito da panettone. Poi agrume e fiori. E’ un naso straordinario. In bocca una bollicina morbida, il sorso è corposo e fresco. Bel finale ammandorlato e sapido.
Lambruscaun 2014. Lambrusco Grasparossa, capito bene, 2014. Un Lambrusco. Colore porpora carico, dai sentori di frutta matura, prugna, fragola, in bocca morbido, dal tannino composto e dalla bevibilità infinita. La freschezza e l’acidità sono ottimamente armonizzate dal tannino vellutato. Chiude la bocca lasciandola perfettamente pulita. Un grandissimo Lambrusco.
Agr. Praesidium, Prezza (AQ), Abruzzo
Entroterra abruzzese. Siamo ai piedi della Majella e del Gran Sasso, a 400 metri sul livello del mare. Qui, dopo una veloce macerazione sulle bucce del Montepulciano, nasce lo splendido Cerasuolo d’Abruzzo di Praesidium. Nell’annata in degustazione esce come Rosato Terre Aquilane 2015. Una caramellina, un confetto.
Colore rosato carico, sembra di avere nel bicchiere un rosso a tutti gli effetti. Limpido e trasparente. Il naso è un’esplosione di frutti rossi, fragolina di bosco, lampone, melograno, rosa e note di spezie e minerali. Il sorso è appagante, richiama tutto quello che l’olfazione ti trasmette. Ottima acidità e freschezza. La forte escursione termica della vigna rende questo vino di una acidità ben integrata al fine tannino derivante dal Montepulciano. Da riempirsi la cantina.
Occhipinti Andrea , Gradoli (VT) , Lazio
Siamo sulle sponde del lago di Bolsena, a 450 metri sul livello del mare. Terroir caratterizzato da terreno di lapillo vulcanico.
Alea viva 2015.Da uve Aleatico 100%, vinificato in secco. Una settimana di macerazione sulle bucce e fermentazione in cemento, poi passaggio in acciaio fino all’imbottigliamento. Color porpora, naso di rosa e viola, gelso e ciliegia. Bocca fresca e appagante. Pulito. Vino dell’estate.
Rosso arcaico 2016. Grechetto 50%, Aleatico 50%. Macerazione di un mese sulle bucce, fermentazione in anfore di terracotta, dove il vino poi affina per almeno 6 mesi. Rubino, naso di rabarbaro, albicocca e spezia con finali note di erbe officinali. In bocca morbido e fresco.
Agr Francesco Guccione, San Cipirello (PA), Sicilia
Territorio di Monreale, 500 metri sul livello del mare. Voliamo nella Valle del Belice, in contrada Cerasa a San Cipirello, provincia di Palermo.
“C” Catarratto 2015. Qualche giorno di macerazione, il giusto, poi solo acciaio. Nel calice è color oro, naso balsamico, di the, agrume. Un richiamo di idrocarburo e tanto iodio. In bocca salinità e freschezza e il retro olfattivo che torna sulla frutta. Grande acidità e spinta. Un prodotto notevole.
“T” Trebbiano 2015. Anche qui qualche giorno di macerazione, poi viene affinato in legno piccolo usato e acciaio. Color oro e un naso che non stanca mai. Camomilla, fiori di campo, fieno, frutta gialla e agrume. Poi ginestra. La bocca è piena, rotonda e morbida . Persistenza infinita. Ricorda tanto, ma proprio tanto, certi trebbiani storici per il nostro paese.
Medico per vocazione e sommelier per passione. Mi sono poi riscoperto medico per passione e sommelier per vocazione. Sostieni il nostro progetto editoriale con una donazione a questo link.
Abbiamo degustato tre vini dolci aromatici piemontesi reperibili nei supermercati Esselunga (ma non solo). Obiettivo: sapersi orientare quando l’occasione richieda un vino dolce. Natale, tutto sommato, non è poi così lontano.
E allora ecco le nostre impressioni sulla Malvasia di Castelnuovo Don Bosco Doc “Nevissano” di Terredavino, sul Brachetto d’Acqui 2016 di Braida e sul Moscato d’Asti 2016 “Su Reimond” di Bera. Prima, però, qualche breve accenno sui vitigni cosiddetti “aromatici”.
Brachetto, Moscato e Malvasia (solo alcune varietà) sono tre dei principali vitigni aromatici. Ci sono due strade per spiegare cosa siano. La prima prende in causa terpeni come nerolo e geraniolo (no, non sono nani di Biancaneve) e ne dà una spiegazione scientifica.
La seconda via è probabilmente più efficace: un vitigno è aromatico se un chicco d’uva appena raccolto e il vino che se ne ricava restituiscono le stesse sensazioni aromatiche. Per questo i vini aromatici sono in genere molto facili da individuare, anche per i meno esperti.
(2 / 5) Malvasia di Castelnuovo Don Bosco Doc Nevissano, Terredavino (6.5% vol)
Il colore fa subito festa, è rosa chiaretto intenso, molto vivo, brillante, con una leggera componente gialla. La spuma, subito corposa, scompare presto nel bicchiere.
Al naso il vino è intenso, di lampone, fragola e rosa. Sullo sfondo una leggerissima nota di lievito. In bocca è dolcissimo, al limite della stucchevolezza. Purtroppo la componente acida e nemmeno l’effervescenza riescono a compensare questo effetto “ghiacciolo all’amarena”. Questo nonostante sia stato degustato a circa 5 gradi e nonostante il produttore ne consigli una degustazione a 8-10 gradi.
Abbiamo fatto la prova anche a quella temperatura e sebbene emergano note leggermente più evolute, la sensazione di avere nel bicchiere qualcosa di davvero troppo dolce non scompare. Finisce leggermente ammandorlato, apprezzabile.
L’abbinamento più congeniale è con frutta secca e pasticceria secca non troppo dolce. Assieme ad una confettura potrebbe davvero dare un risultato eccessivamente stucchevole.
Prezzo: 6,79 euro (Esselunga)
(3 / 5) Brachetto d’Acqui 2016, Braida (5.5% vol)
Colore difficile da definire secondo i criteri usuali. Non è rosso e non è rosato. Ricorda certi calici di cristallo che si usavano parecchi anni fa, colorati di rosso, quando ad interessarsi del colore di quanto ci si versava erano davvero in pochi.
La luminosità anche in questo caso non manca, così come alcuni riflessi leggeri verso il giallo. Il naso è fine e molto interessante, di amarena, rosa e un ricordo di cioccolato.
La dolcezza anche in questo caso la fa da padrone anche se una nota fresca abbastanza decisa e una leggera frizzantezza ne limitano fortunatamente la percezione. Questo vino si abbina molto bene a dolci al cioccolato, per esempio ad un panettone farcito.
Prezzo: 9,90 euro (Esselunga)
(4 / 5) Moscato d’Asti 2016 “Su Reimond”, Bera (5% vol)
Nel calice si mostra di un bel giallo paglierino brillante con bollicina finissima e molto persistente. Il naso è finissimo e molto classico di pesca, salvia e con una affascinante nota citrina, anche in scorza.
Sebbene sia molto dolce, qui la freschezza davvero gioca un ruolo fondamentale riuscendo a bilanciarne le sensazioni gustative. Decisa sensazione agrumata, tanto da ricordare la cedrata, con un leggero pizzicore sulla lingua che non spiace affatto.
Anche sul finale è l’agrume a farla da padrone, sicuramente il più interessante dei tre. Biscotti, frutta secca, panettone e pandoro, ma anche crostate di frutta e piccola pasticceria troveranno un buon alleato in questo Moscato.
Prezzo: 8,20 euro (Esselunga)
LA TEMPERATURA DI SERVIZIO Una nota importante: i vini dolci non sono affatto semplici da servire. La temperatura riveste per questi vini, molto più di quanto sembri, un ruolo fondamentale.
Tipicamente vengono serviti a fine pasto, quando l’attenzione alla tavola pian piano viene meno (anche a causa delle bottiglie aperte prima…). Si apre la bottiglia, la si mette in tavola, poi si taglia il panettone, si ascolta una barzelletta dello zio, e i minuti passano.
La temperatura in sala da pranzo raggiunge facilmente i 24 gradi, il vino in men che non si dica arriva a 10, 12, 15… temperature alle quali si degusta bene una buona Barbera evoluta. Immancabilmente il giudizio sul vino dolce è: “Troppo dolce”.
Non abbiate paura ad usare la glacette per un moscato da 8 euro, o a tenerlo fuori, sul davanzale della finestra, dove le temperature si avvicinano allo 0. Ne gioveranno tutti.
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Oggi vi propongo un dolce fresco e gustoso. Per questa torta (per 6 persone golose!) ho usato 300 gr di formaggio fresco cremoso; 300 di mascarpone; il succo filtrato di 2 limoni; 200 gr di zucchero; 3 fogli di gelatina; un melone mantovano maturo; biscotti integrali 300gr; burro 80gr. Gocce di cioccolato per guarnire.
La prima cosa da preparare è la base, ma intanto ammorbidiamo la gelatina (2 fogli) in acqua fredda. Quindi tritiamo i biscotti e uniamoli al burro sciolto. Adagiamo il composto in uno stampo di 24 cm circa e livelliamolo bene. Terremo questa base in frigo.
Per preparare la crema invece, uniamo zucchero (150 gr), formaggio, mascarpone e il succo di un limone. Uniamo poi la gelatina che avremo strizzato e fatta sciogliere in un mezzo bicchiere di latte caldo.
Quando la crema sarà pronta aggiungiamo metà del melone tagliato a dadini e poi adagiamo il tutto sulla base, che ormai sarà bella compatta. Riponiamo il tutto in frigorifero e prepariamo la glassa.
Tagliamo a fette il melone, tritiamolo con 50 gr di zucchero e mettiamo sul fuoco la purea ottenuta (io aggiungo anche il succo di un limone). Quando lo zucchero è sciolto, togliamo dal fuoco e filtriamo. Poi di nuovo sulla fiamma per riscaldarlo. Infine aggiungiamo l’ultimo foglio di gelatina strizzata e mescoliamo per bene.
Questa glassa servirà da topping sulla torta, che guarniremo con cioccolato e frutta. Dopo qualche ora in frigo la nostra torta sarà pronta da gustare!
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E alla fine dei conti, quello che ti fa più incazzare, è che gliel’hanno proposto in abbinamento a una frittura di paranza. Eppure, la controetichetta parla chiaro. “Questo vino dolce e leggendario dell’Oltrepò Pavese ha un ruolo chiave nei pranzi festivi della tradizione in Lombardia, ove la sua vivacità conferisce importanza al fine pasto. Un vino che trova il suo adatto abbinamento (…) con dolci quali crostate, pasta di mandorle e sfogliatine”. Sfogliatine? Sfogliatine, sì. Quelle campane? Forse. Sembra un’etichetta studiata ad hoc. Ma lo avete capito? Parliamo del Sangue di Giuda. Il vino dolce dell’Oltrepò Pavese.
Sono le 23.30 di sabato quando un lettore di vinialsuper ci contatta attraverso la nostra pagina Facebook. E’ al ristorante. A Salerno, dove vive. Gli hanno appena proposto un vino che non conosce, in abbinamento alla frittura di pesce che ha ordinato al cameriere. E’ un vino rosso. Qualcosa non torna. La domanda che ci rivolge è perentoria. “Non è che gli devo fare un assegno? Rispondente, prima che arriva il conto”.
Allega al messaggio la foto della bottiglia. Panico. Si tratta del Sangue di Giuda Doc “Il Pozzo”, vino frizzante dolce. Vendemmia 2015. Ammettiamo l’ignoranza. Non lo conosciamo. Il nome di fantasia non ci dice nulla. Chiediamo una foto dell’etichetta posteriore. Che arriva, di lì a qualche minuto. E’ tutto chiaro. L’azienda indicata è Enoitalia, gigante imbottigliatore di Bardolino, Verona, che serve i supermercati Lidl. Quelli, per intenderci, del Montepulciano Biologico Passo dell’Orso decantato da Luca Maroni. Boom. Questa bottiglia costerà 6 euro al lettore. Un ricarico notevole, quello del ristoratore salernitano, rispetto alle potenzialità della bottiglia.
E’ la legge dei grandi numeri. Quelli che in Italia vincono sempre, a prescindere dal valore che rappresentano realmente. Basti calcolare che una delle aziende leader del Sangue di Giuda, in Oltrepò, fissa il prezzo del proprio “base” – comprensivo di trasporto, ma con pagamento anticipato – a 4,30 euro a bottiglia. E a 6.90 euro per il “cru”. Troppo? Fin troppo poco, assicuriamo noi che quei due Sangue di Giuda (il base e il cru) li conosciamo bene. E allora vada per il Sangue di Giuda di Enoitalia. Pure al ristorante. Con la paranza. Ma si sappia: l’Oltrepò pavese è un’altra cosa. Quando imparerà a promuoversi a dovere in Italia? Ai posteri l’ardua sentenza.
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