Rosso Conero Dop Azienda Agricola Santa Casa Loret
(3,5 / 5) Non poteva che attrarre il nostro interesse il Rosso Conero Dop 2013 prodotto dall’Azienda Agricola Santa Casa Loreto (AN).
In etichetta la riproduzione del complesso della Basilica a ”dominare” lo scaffale così come l’imponente cupola rinascimentale del Santuario fa con il panorama circostante, da diverse angolazioni, lì a Loreto.
LA DEGUSTAZIONE
Di un bel rosso rubino vivace, il Rosso Conero Dop 2013 dell’Agricola Santa Casa Loreto ha un’espressione vinosa gradevole, tipica del vitigno nei ricordi di piccoli frutti rossi di sottobosco.
Al naso, tra il ribes rosso, il lampone e il mirtillo giungono anche accenni di pepe nero e lievi note balsamiche.
In bocca è piacevolmente morbido e fruttato, con tannini fini. Sul finale, discretamente persistente, ritorna anche la balsamicità che ricorda il mirto.
Un calice che nel suo “non dinamismo” trova il perfetto equilibrio sulla tavola di ogni giorno, il tutto accompagnato da un ottimo rapporto qualità prezzo. Il Rosso Conero si abbina in genere a piatti saporiti, salumi, formaggi stagionati.
LA VINIFICAZIONE
Il Rosso Conero Dop 2013 Agricola Santa Casa Loreto è prodotto con uve Montepulciano in purezza. I vigneti si trovano a un’altezza di 100-150 metri sul livello del mare, su terreni argillosi allevati in parte a guyot e in parte a cordone speronato. La vendemmia viene effettuata nella seconda settimana di ottobre.
La vinificazione, effettuata per conto della Santa Casa dalla Viti Vinicola Costadoro di Loreto, è tradizionale in rosso: temperatura controllata, con macerazione sulle bucce di 8/10 giorni e frequenti rimontaggi. Successivamente il vino affina per un anno in acciaio e cemento e quindi ancora per due mesi in bottiglia, prima della commercializzazione.
L’Azienda Agricola Santa Casa Loreto dispone di circa 1400 ettari di cui 50 dedicati alla viticultura. Una produzione vincola di fatto cominciata nel XIV secolo, quando il vino veniva prodotto principalmente per consumo interno e per i pellegrini. La distribuzione nei negozi è storia recentissima, dal 2014.
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Quante volte vi è capitato di ordinare al bar “un Prosecco”? Ma vi siete mai chiesti se in quel calice c’era davvero del “Prosecco”?
Con il termine “Prosecco”, infatti, non si definisce un qualsiasi “spumante” o vino “con le bollicine”. Bensì quel determinato spumante – Doc o Docg – prodotto in Veneto e in Friuli Venezia Giulia.
Vi sognereste mai di chiamare “Chianti” qualsiasi vino rosso? Crediamo (speriamo) di no. Ecco perché occorre fare un po’ d’ordine: mentale, innanzitutto. E poi culturale.
Vinialsuper lancia quindi la campagna “Prosecco non è sinonimo di spumante” e l’hashtag #nonsoloprosecco, che vi invitiamo a utilizzare. Lo facciamo per voi. Perché vogliamo esser certi che, quando ordinate un “Prosecco”, intendiate proprio quel vino. Condividete l’articolo, ditelo agli amici, fatevi un selfie con la scritta “Prosecco non è sinonimo di spumante”! Insomma: inventatevi qualcosa per diffondere la cultura del vino.
I TRE PROSECCO: DOC E DUE DOCG
Sono tre le “versioni” di Prosecco, prodotte in base a disciplinari ben precisi: una a Denominazione di origine controllata (Doc) e due a Denominazione di origine controllata e garantita (Docg). Per tutti vale il metodo di spumantizzazione delle uve denominato Martinotti o Charmat, che prevede la rifermentazione del mosto in autoclave.
E’ questa la differenza principale con il Metodo Classico, che prevede una seconda fermentazione in bottiglia. Con il Metodo Classico (altrimenti noto come Champenoise) viene infatti prodotto lo Champagne, così come gli spumanti italiani più pregiati: Trento Doc, Franciacorta Docg, Alta Langa Docg e Oltrepò Pavese Docg, per citarne alcuni.
IL PROSECCO “MILLESIMATO”
Anche la definizione “Millesimato” è oggetto di grande confusione: di fatto, tutti i “prosecchi” sono “millesimati”. Questo termine, che non ha nessuna valenza relativa alla qualità della bottiglia, serve a evidenziare che tutte le uve con il quale è stato prodotto lo spumante sono state raccolte nella medesima annata. Frutto, dunque, dello stesso anno di vendemmia.
Ovvio, dunque, che un Prosecco sia “Millesimato”. Non sarebbe invece così scontato di fronte a un Metodo Classico italiano o a uno Champagne, che possono essere prodotti con assemblaggi di più annate.
La scritta “Millesimato” su un Prosecco è dunque un escamotage di marketing (pur consentito dalla legge italiana) con il quale il produttore – giocando sull’ignoranza del consumatore – tenta di dare inutile lustro alla propria etichetta, scimmiottando il Metodo Classico e gli Champagne. Anche se è vero che qualche casa vinicola usa miscelare annate differenti di Glera, per uniformare anno di anno in anno il gusto “di cantina”. Vediamo dunque le varie tipologie dello spumante Prosecco.
Prosecco Doc
Citando il disciplinare: “Il vino a denominazione di origine controllata ‘Prosecco’ deve essere ottenuto da uve provenienti da vigneti costituiti dal vitigno Glera; possono concorrere, in ambito aziendale, da soli o congiuntamente fino ad un massimo del 15%, i seguenti vitigni: Verdiso, Bianchetta trevigiana, Perera, Glera lunga, Chardonnay, Pinot bianco, Pinot grigio e Pinot nero (vinificato in bianco), idonei alla coltivazione per la zona di produzione delle uve (province di Belluno, Gorizia, Padova, Pordenone, Treviso, Trieste, Udine, Venezia e Vicenza”.
Conegliano Valdobbiadene Prosecco Docg Sempre citando il disciplinare: “La denominazione d’origine controllata e garantita ‘Conegliano Valdobbiadene – Prosecco’, o ‘Conegliano – Prosecco’ o ‘Valdobbiadene – Prosecco’, è riservata ai vini che rispondono alle condizioni e ai requisiti stabiliti per le seguenti tipologie: ‘Conegliano Valdobbiadene – Prosecco’, ‘Conegliano Valdobbiadene – Prosecco” frizzante’, ‘Conegliano Valdobbiadene – Prosecco’ spumante, accompagnato dalla menzione ‘Superiore di Cartizze’ se ottenuto nella tradizionale sottozona, nei limiti e alle condizioni stabilite”.
La zona di produzione delle uve atte ad ottenere i vini ‘Conegliano Valdobbiadene – Prosecco’ comprende il territorio collinare dei Comuni di Conegliano, San Vendemiano, Colle Umberto, Vittorio Veneto, Tarzo, Cison di Valmarino, San Pietro di Feletto, Refrontolo – Susegana, Pieve di Soligo, Farra di Soligo, Follina, Miane, Vidor e Valdobbiadene.
Il vino spumante denominato “Cartizze”, ottenuto da uve raccolte nel territorio della frazione di San Pietro di Barbozza del Comune di Valdobbiadene (dove deve avvenire l’intero processo di vinificazione), ha diritto alla sottospecificazione “Superiore di Cartizze” (107 ettari totali di vigneto, il “Cru” del Prosecco).
I vini “Conegliano Valdobbiadene – Prosecco” devono essere ottenuti dalle uve provenienti dai vigneti costituiti dal vitigno Glera. Possono concorrere, in ambito aziendale, fino ad un massimo del 15%, le uve delle seguenti varietà, utilizzate da sole o congiuntamente: Verdiso, Bianchetta trevigiana, Perera e Glera lunga.
Colli Asolani Prosecco (oggi Asolo Prosecco) Secondo il disciplinare, “la denominazione di origine controllata e garantita ‘Colli Asolani – Prosecco’ o ‘Asolo – Prosecco’ è riservata ai vini che rispondono alle condizioni e ai requisiti stabiliti dal presente disciplinare di produzione, per le seguenti tipologie: ‘Colli Asolani – Prosecco’ o ‘Asolo – Prosecco’, ‘Colli Asolani – Prosecco’ o ‘Asolo – Prosecco’ spumante, accompagnato dalla menzione superiore e ‘Colli Asolani – Prosecco’ o ‘Asolo – Prosecco’ frizzante”.
“La zona di produzione delle uve atte alla produzione dei vini a Docg ‘Colli Asolani – Prosecco’ o ‘Asolo – Prosecco’ comprende l’intero territorio dei comuni di Castelcucco, Cornuda e Monfumo e parte del territorio dei comuni di Asolo, Caerano San Marco, Cavaso del Tomba, Crocetta del Montello, Fonte, Giavera del Montello, Maser, Montebelluna, Nervesa della Battaglia, Paderno del Grappa, Pederobba, Possagno, San Zenone degli Ezzelini e Volpago del Montello”, con ulteriori delimitazioni geografiche specifiche.
IL PROSECCO ROSÉ? NON ESISTE Le norme che disciplinano la produzione del Prosecco sono chiare e non lasciano spazio a interpretazione. Ma la comune richiesta di “Prosecco” come sinonimo di “spumante” porta con sé un altro equivoco: quello del “Prosecco rosé”. Semplice smontarlo: non esiste.
La tecnica di vinificazione delle varie tipologie di Prosecco, infatti, vieta l’utilizzo di uve rosse vinificate in rosa, ovvero con breve contatto delle bucce a contatto con il mosto.
Le uve a bacca rossa come il Pinot Nero (per un massimo del 15%) adatte alla produzione del Prosecco, infatti, devono essere vinificate senza buccia, responsabile del rilascio del colore rosso (o rosato), in base alla durata del contatto con il mosto.
La vinificazione in bianco prevede dunque la fermentazione del solo succo d’uva, senza la parte solida costituita dalla buccia.
Se sulla carta dei vini di un ristorante doveste mai leggere “Prosecco Rosé”, come nel caso clamoroso denunciato da vinialsuper che vede come protagonista il Ricci di Milano (ristorante di Belen e Bastianich) sappiate che si tratta di un (patetico) escamotage per vendere qualcosa che non esiste, approfittandosi della riconoscibilità e notorietà, ormai internazionale del “Prosecco”.
In quel caso: rimbalzate la proposta e chiedete lumi al ristoratore. Oppure, meglio: alzatevi e cambiate ristorante. Magari consigliando di leggere questo articolo. #nonsoloprosecco
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(3 / 5) È spumantizzata nella patria del Prosecco (in provincia di Treviso) la Passerina Brut Spumante di Velenosi oggi sotto la nostra lente di ingrandimento.
Un vitigno autoctono tipico di Marche, Abruzzo e Lazio riscoperto negli ultimi anni, che (fonte Coldiretti) nel 2016, con un incremento vendite del 24,4%, si è piazzato al secondo posto della classifica “Top 5 wines” venduti nella regione Marche. Primo incontrastato ancora il Verdicchio che resta il vino più consumato.
La Passerina resta seconda anche sul podio nazionale dei vini emergenti dopo la Ribolla Gialla e prima del Ripasso (fonte Vinitaly). Che il successo sia dovuto anche all’ambiguità del nome?
Insomma, ordinare una bottiglia di Passerina mette già allegria, anche se l’etimologia del nome (stessa del vitigno) ha ben altra origine e deriva dagli acini ad elevata concentrazione di zuccheri e di quercitina (flavonoide) di cui vanno ghiotti i passeri.
LA DEGUSTAZIONE Di colore giallo paglierino scarico, si presenta nel calice con un perlage mediamente fine e persistente, apprezzabile per un metodo charmat. Il profilo olfattivo è poco intenso, tra il vegetale e il minerale, con lievi note agrumate di pompelmo giallo.
Al palato l’ingresso è ruvido, per una carbonica non adeguatamente bilanciata da altre sensazioni. Un effetto che sommato a una freschezza citrina rende il sorso un po’ sopra le righe della moderatezza e poco morbido.
Il finale, disimpegnato e con rimandi agrumati, si delinea sapido e pulito. Il che lo rende certamente perfetto in abbinamento ad un fritto di paranza.
LA VINIFICAZIONE Dieci anni dalla prima vendemmia per la Passerina Brut Spumante (2007). Prodotta con uve 100% Passerina allevate a guyot a circa 200-300 metri sul livello del mare, su terreni in parte sabbiosi, con densità di impianto di 5 mila ceppi, resa per ettaro 80 quintali (1,5 Kg per ceppo). La vendemmia è effettuata manualmente, in cassette da 20 kg.
Il vino base viene rifermentato in autoclave con sosta sulle fecce per oltre 90 giorni, secondo il metodo charmat. Velenosi vini nasce nel 1984 come idea imprenditoriale di Ercole e Angela Velenosi. La cantina si trova ad Ascoli Piceno e i vigneti nella circostante zona del Tronto.
Prezzo : 8,79 euro Acquistato presso: Sì con Te Supermercati
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Oggi vi propongo una ricetta ottima per picnic e gite fuori porta. Si tratta della classica pizza di scarola napoletana. Io non uso l’impasto per la pizza, ma il pan brioche, perché risulta più soffice.
Vediamo cosa occorre per 8 persone. Per l’ impasto: latte tiepido 250 cc; olio 40 cc; farina Manitoba 550 gr; sale 10 gr; zucchero (un cucchiaino); una bustina di lievito di birra disidratato; un uovo; un tuorlo per spennellare.
Per il ripieno: 2 ceppi di scarola riccia; un ceppo di scarola liscia; 4 filetti di acciuga sotto sale; uno spicchio d’aglio e olio q.b.; un cucchiaio di capperi sotto sale (facoltativi); 50 gr di noci sgusciate e sminuzzate; 20 gr di uvetta sultanina; olive nere di Gaeta. 40 gr; pecorino romano 30 gr. grattugiato; grana padano 20 gr. grattugiato.
LA PREPARAZIONE
Impastiamo in una terrina tutti gli ingredienti per il pan brioche, fino ad ottenere un impasto elastico, che lasceremo lievitare in un recipiente in plastica o bambù per almeno un’ora, tenendolo coperto. Intanto prepariamo la scarola.
Innanzitutto laviamola per bene e scartiamo il cuore bianco (lo possiamo usare per delle ottime insalate!). Caliamo le foglie verdi in acqua bollente salata e lasciamole per dieci minuti circa, dopodiché le scoleremo.
In una padella versiamo olio e uniamo l’aglio, i capperi, le olive denocciolate e le acciughe. Lasceremo dorare l’aglio, che poi toglieremo e sciogliere le acciughe. Infine caleremo la scarola sbollentata e strizzata (deve perdere l’acqua in eccesso) nella padella.
Dopo qualche minuto uniamo uvetta e noci e infine i due formaggi. Lasciamo il tutto sul fuoco quanto basta, quindi lasciamolo raffreddare. Ora non ci resta che assemblare!
Stendiamo con il matterello l’impasto e formiamo un rettangolo che riempiremo con la scarola. Poi arrotoliamo la sfoglia e chiudiamo a mo’ di ciambella. Riponiamo in una teglia da forno, unta e infarinata, spennelliamo con tuorlo d’ uovo e lasciamo lievitare ancora una mezzora.
A questo punto cuociamo in forno (180 gradi / ventilato) per circa 30 minuti. Appena sfornato il pan brioche, spennelliamolo con acqua. In questo modo resterà morbidissimo. E quindi… buon appetito!
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(3,5 / 5) Un buon rosato nel rapporto qualità prezzo. Parliamo del Nero di Troia Igp Puglia 2016 di Torre Quarto Cantine. Il vino si presenta nel calice di colore cerasuolo compatto. All’olfatto sprigiona profumi essenzialmente floreali (violetta, rosa, fiore del cappero) seguiti da delicate note fruttate, con un rimando alla ciliegia, colore del vino.
Al gusto rispecchia le aspettative della sua giovane età (vendemmia 2016). Si presenta moderatamente strutturato, tutto sommato abbastanza fresco e sapido.
Il rosé Nero di Troia Igp 2016 di Torre Quarto Cantine si abbina con il cacciucco di pesce e, in generale, con piatti leggeri dove vi è la presenza del pomodoro. Per questo è un vino consigliabile con la pizza Margherita. La tempeatura di servizio aggirarsi tra i 10 e i 12 gradi.
LA VINIFICAZIONE
Ottenuto al 100& da uve Nero di Troia, il rosé di Torre Quarto destinato alla grande distribuzione è vinificato in maniera tradizionale, per l’ottenimento di un rosato. La fase più delicata è il breve contatto del mosto con le bucce, a seguito della pigiadiraspatura.
Un’azienda storica, Torre Quarto, che ha sulle spalle i mutamenti del mondo del vino di Puglia. Non è certo un mistero che i mosti pugliesi, per lungo tempo, abbiano contribuito a migliorare i vini del nord Italia e francesi, creando alcuni veri e propri blasoni dell’enologia mondiale.
Torre Quarto, sita in Cerignola, non fa eccezione. Le uve di questa cantina per anni hanno preso la via della strada ferrata, per raggiungere le aziende vitivinicole del nord.
Grazie agli enormi passi scientifici che fatti nelle scuole agrarie della Puglia, all’ammodernamento dei sistemi di vinificazione e alla coscienza del grande potenziale enoico locale, i viticoltori pugliesi hanno iniziato a vinificare le proprie uve all’interno dei confini regionali. Con grandi risultati.
L’ azienda Torre Quarto è una delle innumerevoli realtà pugliesi che hanno puntato sulla territorialità, sulla qualità di tutti i processi produttivi, sin dalla vigna. Con una cura maniacale del vigneto, allevato a spalliera, con potatura guyot. L’azienda registra basse rese produttive, principalmente di uve autoctone (Primitivo, Negramaro, Uva di Troia), ma non disdegna anche vitigni internazionali come lo Chardonnay.
Approdata per caso nel mondo dell’enogastronomia. Il connubio tra tavola e vino diventa da subito la mia più grande passione, utile a migliorarmi di continuo grazie all’attività di sommelier. Amante dei viaggi e sportiva più per dovere che per piacere. Sostieni la nostra testata indipendente con una donazione a questo link.
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Una nuova cantina, al centro dei vigneti. Ma soprattutto una “bollicina”, per inaugurarla a dovere. Uno spumante “di Puglia”, s’intende.
Cantina Coppola 1489, unica azienda vinicola sul territorio di Gallipoli (LE), vuole fare centro al primo colpo.
Per mettere a punto il Metodo Classico da uve Negramaro vinificate in bianco ha scomodato un mostro sacro dell’enologia italiana: Mr Franciacorta, Franco Ziliani.
Ottantasei anni suonati e ancora tanta voglia di mettersi in gioco per l’uomo che, alla presidenza di Berlucchi, all’inizio degli anni Sessanta, diede vita al “movimento” franciacortino. Il simbolo del Metodo Classico italiano nel mondo.
“Questa collaborazione – spiega Giuseppe Coppola, titolare della cantina di Gallipoli – affonda le radici nell’amicizia tra mio padre e Franco Ziliani, che sono stati compagni di scuola. Le prime sperimentazioni per la spumantizzazione risalgono al 2015, quando abbiamo fatto provare a Ziliani due basi: una di Vermentino, l’altra di Negroamaro. Non ebbe dubbio su quale scegliere. Ma ci disse di non avere fretta e lo ascoltammo. Con il nostro enologo Giuseppe Pizzolante Leuzzi ci siamo così ripresentati lo scorso anno: la nuova base di Negroamaro ha convinto Ziliani senza riserve”.
Lo spumante Metodo classico da uve Negroamaro vinificate in bianco di Cantina Coppola sarà un Pas Dosè. Una bollicina non “dosata”. Naturale. Una di quelle che più d’altre riescono a esaltare la naturalità delle uve. E l’abilità enologica della cantina che le elabora.
“Abbiamo scelto il Pas Dosè – spiega Giuseppe Coppola (nella foto) – perché pensiamo sia il modo migliore per rappresentare l’identità di un territorio in un Metodo Classico. In questo caso l’identità del Salento. I ventiquattro mesi sui lieviti garantiranno al nostro spumante la giusta complessità”.
Lo spumante Coppola scorrerà a fiumi tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, periodo nel quale è in programma l’inaugurazione della nuova cantina. La struttura, oltre ai locali per la vinificazione, comprenderà un wine bar con cucina. A completarla sarà una barricaia a vista.
LA NUOVA CANTINA
Nessun “modello da imitare” per la famiglia Coppola, per il progetto della nuova struttura. “Altrimenti avremmo risparmiato”, scherza il titolare.
“Il wine bar – precisa Giuseppe Coppola – è stato studiato per valorizzare i nostri vini con piatti della tradizione del Salento, rivisti in chiave moderna dallo chef Franco Tornese. La cucina sarà a vista. Inoltre sarà presente un angolo dedicato allo show cooking. La bottaia sarà divisa in due da un ponte percorribile dai visitatori, con ampie vetrate, ma isolato dalle botti, che saranno in ambiente termoregolato”.
Di notte, dall’esterno, la barricaia sarà illuminata a giorno, offrendo uno spettacolo mozzafiato. Alla “toscana”. Di fronte alla cantina sorgeranno poi 3 ettari di nuova impiantazione.
Il vigneto sarà a forma di “C”, per celebrare una tradizione vinicola di famiglia che dura da centiaia d’anni. “Ma il vero obiettivo – ammette Coppola – è quello di portare Franco Ziliani all’inaugurazione della nuova cantina”. Mission impossible? C’è chi giura di no.
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Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Come dice Rocco Papaleo in un noto film “Si, la Basilicata esiste. Esiste! È un po’ come il concetto di Dio, ci credi o non ci credi. Io credo nella Basilicata.” È vero. E non solo esiste ed è una terra affascinante, ma esiste anche una Basilicata brassicola.
Undici le realtà birraie presenti nella regione (dati Microbirrifici.org). Oggi vi raccontiamo il Birrificio Birfoot di Matera, nato ad ottobre 2016 per mano del giovane mastro birraio Giovanni “Uacezza” Pozzuoli (leva 1992).
IL BIRRIFICIO Giovanni, dopo lunga esperienza come home-brewer, stage in birrifici e il conseguimento di diverse qualifiche professionali, ha preso coraggio e ha aperto il proprio micro birrificio. Con l’obbiettivo di esternare la propria passione per la buona birra.
Capacità produttiva di sette ettolitri, cura manicale per i dettagli, attenta selezione delle materie prime: questi gli elementi fondanti, i “core assets”, di Birfoot. Infatti, chiacchierando con Giovanni, emerge quanto lui sia consapevolmente convinto che “solo curando in modo rigoroso ogni singola fase del processo produttivo si possa ottenere e replicare un prodotto di qualità”.
Badare alla freschezza di tutte le materie prime selezionandole con attenzione diviene così un must irrinunciabile. Tre al momento le birre prodotte e commercializzate da Birfoot: una Blanche, una Apa ed una Strong Ale. Le abbiamo degustate tutte e tre.
LA DEGUSTAZIONE Albus. Blanche da 4,8%. Nella ricetta anche scorze d’arancia, coriandolo e pepe rosa. Colore giallo paglierino scarico, leggermente velata. Schiuma bianca fine e persistente.
Al naso è fresca ed agrumata, semplice quel tanto da invitare subito alla beva e complessa quel poco da creare un bella aspettativa. In bocca è scorrevole, la spiccata carbonazione non è fastidiosa e la rende setosa al tatto. Emergono le note dolci dei cereali, la leggera speziatura ed ancora un sentore di agrumi.
Finale mediamente persistente, fresco. Unico difetto, ma davvero piccolo piccolo, l’acidità non è molto sostenuta visto la tipologia di birra. Un poco in più avrebbe contribuito positivamente alla sensazione di freschezza. Nel complesso un buon prodotto.
Hop Jungle. American Pale Ale da 5,4%. Giallo dorato carico con riflessi che tendono all’aranciato. Schiuma abbondante, bianca e molto persistente.
Al naso è intensa. La luppolatura (ci dice Giovanni che sono stati utilizzati luppoli tedeschi ed americani) dona piacevoli profumi floreali ed una leggera nota agrumata cui si affiancano piacevoli sentori di frutta esotica matura. In bocca l’effervescenza è moderata e lega bene col gusto secco e pulito della birra. Sul finale, di media persistenza, emergono le gradevoli note amare tipiche dello stile.
Aztec. Strong Ale da 7.4%. Di ispirazione inglese si presenta con un bel colore ambrato, carico e luminoso, ed una schiuma fine e compatta. Complessa al naso con note di caramello e di frutta matura che lasciano presagire morbidezza al palato.
L’assaggio conferma l’intuizione del naso; è corposa e morbida con delicate note maltate e fruttate che portano il sorso verso una dolcezza non eccessiva, tipica per lo stile così come la lieve carbonazione. Buona persistenza.
Tre prodotti ben riusciti, in grado di coprire una buona gamma di gusti. E un produttore giovane, che non ha puntato sull’effetto moda delle “Ipa”, sviluppando invece birre con una propria identità e in grado di legarsi anche alla cucina del territorio. Albus, Hop Jungle e Aztec possono infatti accompagnare trasversalmente la tavola, dalle crudità di mare ai piatti di carne insaporiti alle erbe, dalle verdure fritte ai salumi più saporiti.
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(3 / 5) Rosato un po’ (troppo) salato. Una sintesi che racchiude bene l’assaggio del Bardolino Classico Chiaretto Dop 2016 dell’Azienda Agricola Conti Guerrieri Rizzardi, in vendita nei supermercati Esselunga.
Un calice che non soddisfa appieno, proprio per la preponderanza, al palato, di una nota salina che disturba la beva. Rendendo peraltro difficile l’abbinamento di questo vino rosato veneto con la cucina. Eppure le premesse sono ottime.
Il Chiaretto Guerrieri Rizzardi si presenta di un apprezzabilissimo rosato brillante, tipico della denominazione. Gli fa eco un naso elegante, altrettanto caratteristico, tra il floreale di violetta e il fruttato di fragola, lampone e ribes. Prestando ancora più attenzione, ecco la nota di “soluzione salina” che ritroveremo di lì a poco al palato.
In bocca, le percezioni fruttate che contraddistinguono il vino in ingresso vengono poi sovrastate dal sale. Quello che è uno dei tratti distintivi del Bardolino – descritto sin dalle cronache del 1935 come vino “grazioso e lieve”, ma soprattutto “salatino” – risulta la nota stonata nel calice del Chiaretto Guerrieri Rizzardi. Per eccessiva amplificazione. Una durezza che neppure la buona acidità riesce a controbilanciare.
LA VINIFICAZIONE
Sono diversi i vigneti dai quali la cantina Guerrieri Rizzardi ottiene il Chiaretto in vendita nei supermercati Esselunga. Due sono situati a Bardolino (località Campagnole e vigneto Vegro). Altri due nel Comune di Cavaion Veronese (vigneto Vignai, vigneto Cà dell’Ara). Sono 75 mila, in totale, le bottiglie prodotte.
Le viti, allevate a pergola semplice e doppia e guyot con una densità d’impianto variabile tra i 1.720 e i 5 mila ceppi per ettaro, affondano le radici in terreni di tipo ciottoloso, argilloso e calcareo di origine morenico glaciale. Il blend del Bardolino Classico Chiaretto Guerrieri Rizzardi è ottenuto prevalentemente dai vitigni Corvina (65%) e Rondinella (20%), a cui viene aggiunto un 15% tra Molinara e Negrara. Piante di età variabile tra i 5 e i 30 anni, con una produzione media per ettaro di 130 quintali (12.100 bottiglie).
La vinificazione prevede l’iniziale diraspataura e pigiatura delle uve. Segue il riempimento delle vasche di fermentazione e la svinatura, dopo circa 12 ore. La vinificazione in bianco avviene in ambiente ridotto, per preservare le caratteristiche delle uve ed evitare ossidazioni.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Contrada Piana, Comune di Ponte, provincia di Benevento. In piena campagna, nei pressi della ferrovia, sorge il birrificio artigianale Maltovivo. Una grande struttura, dove ad accoglierci è il direttore marketing, Antonio Orlacchio: una persona estrosa ed istrionica. Quasi un poeta alla Oscar Wilde.
La visita al birrificio si svolge in modo del tutto originale, con la degustazione delle birre, ancor prima di visitare l’edificio. Con il boccale di birra in mano si iniziano a scoprire tutti i processi produttivi. Nel percorrere le varie sale, Orlacchio non si interrompe un attimo nel raccontare del progetto imprenditoriale e di come nascono le piccole creature Maltovivo.
L’amore per le birre artigianali ha portato giovani imprenditori beneventani a cimentarsi in questo ambizioso progetto. Le birre prodotte da Maltovivo sono ottenute da ingredienti selezionati, con metodi rispettosi dell’ambiente, della genuinità e della bontà del prodotto, secondo le migliori tradizioni tedesche. Lazio e Campania i mercati di riferimento per il birrificio artigianale Maltovivo.
LA DEGUSTAZIONE
A colpire è Noscia ti seduce per il suo cappello di schiuma bianchissimo e compatto. La birra è di colore ambra scuro. All’olfatto libera profumi di fiori bianchi e gialli, erba secca, piccole bacche rosse poco mature.
Al gusto si è colpiti dalla morbida avvolgenza della schiuma, seguita da una nota amaricante data dal luppolo, note tostate e di cioccolato. Il finale chiude su note vagamente dolci, che ricordano il miele di castagne.
La birra Noscia di Maltovivo va servita a una temperatura di 8-10 gradi. Accompagna carni grigliate, formaggi a pasta molle o semi stagionati.
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
(3 / 5) Dall’omonimo vitigno autoctono del Friuli, un altro bianco per l’estate: una Ribolla Gialla che però non supera la soglia dei tre cestelli nella scala di valutazione vinialsuper.
Sotto la lente di ingrandimento la Ribolla Gialla Delle Venezie Igt annata 2016 Tenuta Gorizzo imbottigliata da Forchir.
Un vino moderno, la Ribolla, ma di origine antichissime che negli ultimi anni si sta affiancando al Prosecco come protagonista degli aperitivi.
LA DEGUSTAZIONE
Di colore giallo paglierino con riflessi verdolini, nel calice è limpido, luminoso e scorrevole. Al naso, tra il colle e la selva dantesca, in un momento di incertezza interiore resta con un profilo olfattivo neutro e appena confuso con leggere sfumature floreali e note agrumate.
Al palato è leggero. Tutto sommato però, grazie ad una buona freschezza gustativa e ad una discreta vena sapida concede una beva piacevolmente “poco impegnativa”, ma con un finale poco persistente. Se fosse musica, un preludio breve.
La Ribolla gialla è un vino ideale con aperitivi, antipasti, piatti poco elaborati a base di pesce. Vi suggeriamo di gustarlo con un semplice pagello al forno con patate o con dei tagliolini al salmone fresco. Calice a tulipano alla mano, bello fresco, alla temperatura di 10°.
LA VINIFICAZIONE
Il Ribolla Gialla Tenuta di Gorizzo è ottenuto dalla pressatura soffice di uve 100% Ribolla vinificate in acciaio. Forchir nasce ai primi del 900 ed è stato uno dei primi imbottigliatori registratosi in Friuli. Con 230 ettari di vigneto è uno dei primi dieci produttori di vino della regione.
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Da “carrozzone” in perdita a macchina da soldi. La cantina di Al Bano Carrisi si è trasformata in 6 anni da brutto anatroccolo a cigno. Un milione e mezzo di bottiglie nel 2016, per 4,5 milioni di fatturato. Un successo che consentirà al cantante di investire ancora nel vino.
Il progetto della nuova cantina sarà ultimato entro fine agosto. Lo stabile sorgerà a pochi passi dall’attuale Tenuta, a Cellino San Marco, nel Brindisino. Un edificio in perfetto “Al Bano style”. Tremila metri quadrati su tre livelli. Quattro torri perimetrali, che si ergeranno su mura in tufo, integrate con il panorama agricolo. Tra le vigne e gli ulivi.
Un passo necessario per l’Al Bano contadino. La cantina attuale, 400 metri quadrati, è di fatto quasi al collasso. Merito del successo della linea di vini destinati ai supermercati. Il magazzino coordinato dall’enologo Michele Renna ha ritmi d’inferno. “Movimentiamo una media giornaliera di 27-32 bancali”, assicura. Ogni pallet è formato da 125 cartoni, per un totale di 750 bottiglie. Circa 20 mila i “pezzi di cuore” di Al Bano che ogni giorno partono per raggiungere i supermercati di mezza Italia.
“Sin da piccolino – dichiara il cantante vignaiolo – ho vissuto in mezzo alle vigne e al mosto. Cose che, ormai, fanno parte del mio Dna. Da bambino odiavo tutto ciò che era campagna perché significava duro lavoro. Quando me ne andai da Cellino per avviare la carriera da cantante promisi a mio padre di tornare per costruire una cantina. Ci sono riuscito, nel 1973. Lui non ci credeva, io sì. Oggi le cose vanno molto bene e stiamo attendendo che si espletino tutte le questioni burocratiche per la nuova struttura”.
DALLE ORIGINI AL FUTURO “Quando comprai questi campi per trasformarli nella mia Tenuta – ricorda Al Bano – qui non c’era acqua, non c’era luce, non c’era linea telefonica. Ho cercato di creare un piccolo borgo autosufficiente, dove la gente arriva e non vede soltanto la fotografia di Al Bano o spera di incontrarlo. Questa vuole essere l’immagine di tutto ciò che si può fare quando si ha voglia di fare. Qui di voglia ce n’è stata tanta e ce ne sarà sempre tantissima: fare per creare lavoro, movimento, opinione. Per dire che questa terra è viva”.
Una questione di cuore, che interessa anche i figli del cantante pugliese. Mentre il padre si concede ai microfoni, l’ultimogenito, Al Bano Jr detto “Bido”, aiuta gli operai della cantina lungo la linea di imbottigliamento. Il viso non è quello del 15enne alle prese con la PlayStation. E il padre gliele canta.
“I miei figli – ammonisce Al Bano – devono imparare a capire sin da subito quanto è importante e indispensabile il lavoro e come affrontarlo. E’ comodo fare il figlio dell’artista e alzarsi sempre a mezzogiorno, ma così si rischia di creare i presupposti per i peccati del futuro. Bisogna estirpare subito questo tipo di cancro mentale”.
Sarà “Bido” l’erede delle vigne? “Intanto i figli devono imparano a lavorare – chiosa Al Bano – poi si vedrà. Anche a me non piaceva fare ciò che mi diceva mio padre e per questo mi sono creato l’alternativa. Come me, quindi, anche loro devono imparare a lavorare. Poi vedremo il da farsi”.
LA SVOLTA Quello che Al Bano non sapeva fare, di fatto, l’ha affidato a Sergio Angioi. Il general manager delle Tenute Al Bano Carrisi è l’uomo della svolta per la cantina brindisina. Un curriculum di tutto rispetto nel mondo della grande distribuzione organizzata (Auchan, Despar), dove cresce da scaffalista a buyer, prima di approdare alla corte di Al Bano, nel 2011.
“Al mio arrivo – spiega Angioi – abbiamo dovuto sistemare i conti. Al Bano, molto pratico delle questioni di vigna e di cantina ma meno delle questioni commerciali, si era affidato a persone che non avevano capito quanto fosse importante, per lui, la cantina. Una vera e propria questione di cuore, perché Al Bano non è lo Sting o il Trulli di turno: è un contadino che ha zappato fino a 16 anni compiuti. Posso dire che se avesse iniziato sin da subito a improntare commercialmente l’azienda agricola come questa avrebbe meritato, oggi Tenute Al Bano Carrisi sarebbe la cantina più grande d’Italia”.
La crescita, con Angioi general manager, è stata esponenziale. Trenta gli ettari iniziali, passati oggi a 88. “La vera svolta – commenta Angioi – è stata la linea di vini per la Gdo, che oggi viene distribuita in numerose insegne: Il Gigante, nel nord Italia, ha creduto subito nel nostro progetto ed è una catena alla quale siamo molto affezionati. Siamo presenti anche in un’altra grande insegna come Coop, ma la logica è quella di approcciare più la distribuzione organizzata che la grande distribuzione. In questo modo riusciamo a risultare molto capillari, in tutto il Paese”.
Un marketing improntato sul “vino quotidiano” e sul buon rapporto qualità prezzo. “Al Bano è un cantane popolare – sottolinea Angioi – e, come tale, propone vini per tutte le tasche, perché la gente non si giudica dal 730”. Accanto alla linea Do-Gdo, pari al 70% del fatturato complessivo delle Tenute, Al Bano promuove una gamma “premium”, destinata esclusivamente a ristoranti ed enoteche (horeca).
Da assaggiare “Felicità”, il Sauvignon blanc di Carrisi. Mentre in botte riposerà ancora per qualche mese il nuovo prodotto di punta di Al Bano. Un Salice Salentino Rosso Riserva Doc 2013 che si preannuncia ottimo. Si chiamerà “Aurito”, dal nome del cru. Ne saranno prodotte solo 3 mila bottiglie, “a riprova del progetto che mira all’altissima qualità”. Oggi l’etichetta di punta delle Tenute Carrisi è “Platone”: 20 mila bottiglie complessive. Il Salice Riserva sarà piazzato sul mercato italiano a non meno di 45 euro.
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Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
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Il vino simbolo dei rosati pugliesi e italiani. Un’azienda nell’azienda. Un brand nel brand, tanto da ispirare la creazione di veri e propri “Club” di appassionati, progetto ormai in dirittura d’arrivo.
Five Roses, il rosato da uve Negroamaro e Malvasia Nera della Leone de Castris, è un vero e proprio case history. E non solo per il successo di un’etichetta divenuta un marchio di fabbrica per la cantina di Salice Salentino.
Il rosato della Leone de Castris, prodotto ininterrottamente dal 1943, offre l’immagine di una perfetta gestione aziendale del rapporto Gdo-Horeca. Due mondi, quelli del vino al supermercato e del vino destinato esclusivamente alla ristorazione e alle enoteche, che solo in apparenza paiono inconciliabili.
IL SEGRETO
La ricetta è presto spiegata. Il Five Roses della grande distribuzione è diverso da quello che finisce nelle enoteche. Sugli scaffali dei supermercati un blend composto al 90% da Negroamaro e al 10% da Malvasia Nera. Percentuale, quest’ultima, che sale al 20% per il Five Roses Anniversario, destinato alle enoteche. Dodici gradi per il primo. Mezzo grado in più per il secondo.
Ancora prima, in vigna, viene scelto l’allevamento tradizionale ad alberello per il top di gamma. La più moderna spalliera per il rosato del supermercato. Tecniche che comportano costi differenti di gestione della pianta e del frutto.
“Tutte differenziazioni – spiega Alessandro Lodico dell’ufficio Commerciale Italia Leone de Castris (nella foto) – che ci hanno permesso di assistere alla convivenza dei due prodotti sulle carte dei vini dei ristoranti di diversi nostri clienti. Due prodotti che si differenziano infatti per intensità, morbidezza e versatilità nell’abbinamento”.
E ancor prima nel colore. Nel calice, il Five Roses della Gdo si presenta più scarico. Naso intenso e tipico, ma non quanto quello del Five Roses Anniversario. E’ alla prova del palato che la versione Horeca stacca la sorella Gdo. Gastronomicità evidente, morbidezze accentuate. Il trionfo della complessità sull’immediatezza della beva e sulla freschezza, facile e pronta, del Five Roses da supermercato.
“Ciò non significa che un prodotto sia buono e l’altro scarso – precisa Lodico – ma che si tratti di due etichette pensate per un pubblico differente e per momenti differenti. In questo modo riusciamo a soddisfare chi pretende di bere un buon vino a tavola, tutti i giorni. E allo stesso modo chi ha più tempo e pretese, al ristorante, per godersi un abbinamento perfetto con i piatti prescelti”.
Le cifre del rosato principe della Leone de Castris, del resto, parlano chiaro. Alle 150 mila bottiglie di Five Roses Anniversario da 75 centilitri distribuite nel canale tradizionale (Horeca) fanno eco le 160 mila distribuite quasi esclusivamente nel canale moderno (Do e Gdo). Palla al centro.
I FIVE ROSES CLUB
Un vino che si muove liquido nel mondo de Castris. Quasi animato da vita propria. Tanto che la casa di Salice Salentino sta per ufficializzare il lancio dei Five Roses Club. “Si tratterà di un gruppo ristretto di locali come wine bar ed enoteche nostre clienti – spiega Alessandro Lodico – nei quali la Leone de Castris promuoverà la cultura del rosato attraverso degustazioni del Five Roses e di rosati provenienti da altri territori. Un modo per fare cultura del vino, avvicinando storie e realtà lontane solo geograficamente”.
Una targa esterna indicherà l’adesione al “Club”. “Il resto – chiosa Lodico – lo farà all’interno chi, come noi, da sempre, si diletta con i rosati puntando alla qualità assoluta”.
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Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Per questo semplicissimo (ma gustosissimo) piatto occorre davvero poco.
Ecco le dosi per 4 persone: 500 gr di petto di pollo intero; 200 gr di formaggio cremoso fresco; 1 limone non trattato; olio extravergine di oliva; qualche foglia di menta fresca; aglio, sale e pepe a vostra discrezione.
LA PREPARAZIONE
Per iniziare dobbiamo tagliare il petto di pollo in bocconcini. In una padella mettiamo olio e aglio, che toglieremo dopo qualche minuto.
Quindi adagiamo il pollo. Saliamo quanto basta. Dobbiamo stare attenti che cuocia lentamente.
Quando risulterà cotto anche all’interno, spegnete il fuoco e incorporate la crema di formaggio e il succo di limone filtrato. Ecco! Tutto qui! Se volete, aggiungete pepe, menta e scorza di limone grattugiata. Buon appetito!
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Questione d’accenti. Te ne accorgi provando a pronunciarlo alla francese: Fabiò Marassì. Suonerebbe così, forse un po’ d’antan, ma più che mai intonato, il nome di Fabio Marazzi tra le colline dello Champagne.
Non foss’altro che Cantina Scuropasso si adagi sulle colline dell’Oltrepò pavese. Frazione Scorzoletta di Pietra de’ Giorgi. Trentacinque minuti a Sud di Pavia. Un’ora abbondante da Milano.
Non esattamente nei pressi di Châlons-en-Champagne, Reims, Troyes o Charleville-Mézières. Eppure, nella casa-cantina di questo appassionato vignaiolo lombardo, sembra sin da subito che la geografia ti stia prendendo per il culo. Rouler dans la farine, se preferite un’espressione d’Oltralpe.
La “r” moscia. L’eleganza dei modi che fa dimenticare – subito – che a parlare è un contadino con la camicia blu a quadrettoni. Un’attaccamento viscerale alla terra e alle vigne. La cocciutaggine nel difendere storia e valori di un territorio sfracellato dagli scandali, maltrattato dai burattini (e dei burattinai) della politica e dei Consorzi. L’agire, sempre, nel nome di un vino che deve parlare, prima di tutto, di natura e di passione. Sin dal colore. Fabio Marazzi è il francese d’Oltrepò. Monsieur Scuropasso.
LA VISITA Un vignaiolo strappato agli studi (e alle cravatte) di Economia e commercio. Scuropasso, fondata nel 1962 dal padre Federico e dal prozio Primo, svolta con Fabio nel 1988. Da vero e proprio “serbatoio” per le basi spumanti da Pinot Nero destinate ai grandi nomi della Franciacorta e del Piemonte (Guido Berlucchi, Carlo Gancia, Cinzano e Fontanafredda), la cantina inizia a produrre una propria etichetta. E’ il 1991. Il Metodo Classico Brut Pinot Nero Scuropasso segna l’avvio di una nuova era.
“Star vicino a enologi del calibro di Franco Ziliani, Lorenzo Tablino e Livio Testa, tutti formatisi in Francia, imparando sul campo dai vigneron dello Champagne, ha fatto in modo che la mia passione si tramutasse in un vero e proprio amore per il Pinot Nero, per le basi spumante, per il Metodo Classico”, spiega Marazzi.
Nel 1998 prende vita “Roccapietra”, la linea di spumanti Metodo Classico di Cantina Scuropasso. Un modo per unire i nomi delle due località simbolo per la produzione di Pinot Nero nella Valle Scuropasso: Rocca e Pietra de’ Giorgi.
Oggi l’azienda può contare su quindici ettari di proprietà. Centomila, circa, le bottiglie prodotte all’anno, anche grazie al contributo di alcuni storici conferitori, tenuti lontano dalle cantine sociali. Parte da leone spetta al Bonarda: 30 mila bottiglie del “vino da tavola” che consente a Cantina Scuropasso di reinvestire utili nella produzione della vera eccellenza: le 15 mila bottiglie di Metodo Classico da uve Pinot Nero.
Sempre più spazio, nell’assortimento di casa Marazzi, anche per il Buttafuoco, il vino rosso da lungo affinamento dell’Oltrepò Pavese. La recente acquisizione di “Pian Long”, vigna di un ettaro confinante per tre lati con i terreni dell’Azienda Agricola Francesco Quaquarini, fa entrare di diritto Scuropasso nell’olimpo del Buttafuoco Storico.
LA DEGUSTAZIONE Roccapietra Brut 2010 (sboccatura ottobre 2015). Cinquantadue mesi sui lieviti. Giallo paglierino brillante, perlage finissimo Balsamico e assieme fruttato, con ricordi d’agrumi ben definiti. Quello che, all’estero, definirebbero senza giri di parole “vino gastronomico”. Lunghissimo nel retro olfattivo. Un 100% Pinot Nero oltrepadano in pieno stile Montagne di Reims.
Pas Dosè 2009 magnum (sboccatura novembre 2016). Settantotto mesi sui lieviti. Un Pas Dosè nudo e crudo, ottenuto colmando con lo stesso vino. Naso di limone, lime, arancia, su sfondo di miele. Uno splendido spunto erbaceo montano, che ricorda l’arnica, copre i tipici sentori Champenoise di crosta di pane e lieviti. Sempre al naso, in continua evoluzione su un perlage da ammirare per finezza, spruzzi di vaniglia Bourbon.
Un Pinot Nero che sfida il tempo e la logica: auguratevi di non trovarlo mai in batteria alla cieca, col rischio di ringiovanirlo almeno di 3 anni, scambiandolo addirittura per un rosso. Lunghissimo il finale, tutto giocato tra balsamico e agrumi. Un capolavoro da godersi, a tavola, con un bel Parmigiano 39 mesi (minimo). Chapeau, Marassì.
Cruasè 2011 (sboccatura marzo 2017). Sessanta mesi sui lieviti. Le uve Pinot Nero a contatto con le bucce 10-12 ore regalano un “rosato troppo rosato” per i disciplinari. “Ma a me piace così. E continuerò a farlo così, perché è una scelta che si basa sull’essenza del frutto”, assicura il produttore durante la degustazione.
Parole che raccontano il calice meglio di qualsiasi altra prosopopea. E disquisizioni inutili di fronte a un grande rosato che l’Oltrepò del vino rischia di perdere, formalizzandosi sull’aspetto più che sull’anima dell’ennesimo signor Pinot Nero di casa Scuropasso.
Buttafuoco Docg 2009. Meticolosa scelta delle uve per assicurare uniformità nel raccolto e nella vinificazione delle varietà Croatina, Barbera, Uva Rara e Ughetta di Canneto nei vigneti della Garivalda. Quindici giorni in vasche di cemento, poi passaggio in acciaio.
Un anno in botte grande, poi botte piccola. Altri 365 giorni di ulteriore affinamento in bottiglia, prima della commercializzazione. Un Buttafuoco dall’acidità spiccata, non retta da un tannino efficace, forse per via di un legno usato in maniera troppo invasiva. Ma se queste sono le prove per la prima vendemmia a Pian Long, la strada segnata è certamente quella giusta, anche per il rosso principe di Cantina Scuropasso.
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(3,5 / 5) Attenzione a non confondere questo bel prodotto di J.P. Chenet con lo Champagne. Prima avvisaglia il prezzo, nettamente inferiore a quello della gamma di “bollicine francesi” presenti nei supermercati italiani. Uno sparkling wine che dà comunque soddisfazioni. Soprattutto nel rapporto qualità prezzo. Gran bell’affare se in promozione.
Giallo paglierino con riflessi oro, il Blanc de Blancs Brut della cantina J.P. Chenet evidenzia nel calice un perlage fine e persistente. Naso profondo di lieviti, crosta di pane e mandorla, sfodera una leggera nota ossidativa che, solo in una fase iniziale, tende a smorzare la piacevolezza delle note fruttate mature di pesca e albicocca. Fanno capolino anche note floreali fresche, sempre meglio definite.
In bocca, lo spumante Blanc de Blancs Brut Chenet riconferma la leggera ossidazione. Trattasi, di fatto, di una bollicina da bere presto, a un anno circa dall’immissione in commercio. Al palato risulta comunque morbido, rotondo.
Una piacevolezza rinvigorita da una spuma avvolgente, per nulla appuntita, che solletica la lingua e chiama il sorso successivo. La nota zuccherina finale conferisce ulteriore gradevolezza alla beva. Peccato duri poco: la pecca di questo Blanc de Blancs (quella che gli costa mezzo punto nella nostra valutazione in “cestelli” della spesa) sta proprio nella semplicità monocorde del finale e nella scarsa persistenza.
Quanto agli abbinamenti, il Brut J.P. Chenet è un vero e proprio “animale” da aperitivo. Uno sparkling che, se servito alla corretta temperatura (6-8 gradi), finirà in un baleno, senza dare alla testa. Per tecnica di vinificazione e uvaggio (100% Chardonnay) si presta anche ad accompagnare pesce grigliato e carni bianche.
LA STORIA
Il vero tratto distintivo della J.P. Chenet è certamente la caratteristica bottiglia dalle curve originali e dal corpo generoso. Una forma nata nel 1984, per mano dell’artista e imprenditore Joseph Helfrich. La chiamò “Joséphine”.
L’originale prevedeva un collo leggermente inclinato. Una forma che conserva tuttora una linea di vini della J.P. Chenet. Forse questo il segreto del successo di un’azienda capace di guadagnarsi il podio delle vendite fra le cantine d’Oltralpe, distribuendo prodotti in oltre 160 Paesi.
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frittelle con fiori di zucchina in cucina con mary vinialsuper 3
Iniziamo con una ricetta semplicissima. Stamattina ho raccolto dal mio orticello tanti fiori di zucchina ed ho pensato di preparare delle frittelle (tanto care alla mia prole!).
Ho usato poco più di una dozzina di fiori puliti, lavati e messi a scolare a testa in giù. Ho preparato la pastella con 400 gr di farina, 25 cl di acqua, un pizzico di sale, un uovo, 50 gr di grana e 50 gr di pecorino romano, un pizzichino di pepe nero e un cucchiaino di lievito di birra disidratato.
Dopodiché ho aggiunto i fiori tagliuzzati, lasciando lievitare per un’ oretta circa. Consiglio di scegliere una padella bella alta e di utlizzare olio di arachidi per la frittura.
Una volta caldo l’ olio, aiutandomi con due cucchiai, ho versato la pastella, rigirando di tanto in tanto le frittelle. Quelle pronte le ho adagiate su un foglio di carta per fritti e poi… Buon appetito!
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Si preannuncia un’ottima annata per il Primitivo di Manduria: la vendemmia 2017 sarà connotata da grado alcolico, corpo e struttura. Un’annata, dicono da quelle parti, “da scrivere negli annuari agronomici ed enologici”.
La raccolta delle uve, stante l’attuale andamento climatico caratterizzato da giornate di sole e alte temperature, dovrebbe essereanticipata di una settimana rispetto lo scorso anno.
Ad assicurarlo è il presidente del Consorzio di Tutela del Primitivo di Manduria. “Siamo fiduciosi e contenti per lo stato attuale dei nostri vigneti – dichiara soddisfatto Roberto Erario – che ovunque si presentano con abbondanti esuberi fogliari. Le temperature in aumento hanno generato un lussureggiamento vegetativo che porterà un’alta gradazione. Abbiamo avuto un inverno poco piovoso e molto freddo caratterizzato da eventi nevosi. Le temperature basse e la presenza di neve sul suolo e sulle piante hanno avuto un effetto sterilizzante sull’ambiente viticolo e hanno devitalizzato le fonti di inoculo che generano malattie. Nel complesso non ci sono state condizioni climatiche che hanno provocato infezioni e quelle lievi sono state controllate facilmente”.
“Anche se il germogliamento ad aprile ha subito un ritardo – continua Erario – successivamente il Primitivo ha recuperato alla grande perché le temperature hanno iniziato ad aumentare. A maggio si sono infatti registrati 20 gradi e, anche se si sono verificati eventi piovosi nella fase di prefioritura, la probabilità di infezioni primarie non si sono realizzate perché l’elevata ventosità in seguito alla pioggia, ha asciugato la biomassa fogliare”.
A giugno il vigneto è stato caratterizzato dall’allegagione: il passaggio dal fiore al frutto. “Abbiamo avuto una importante formazione del grappolo e un ingrossamento degli acini. Le temperature medie – continua Erario – hanno superato i 25 gradi anche con forte ventosità. Ricordo che l’areale di produzione del Primitivo di Manduria riguarda anche i comuni vicino al mare e le brezze marine hanno dato un contributo utilissimo nella formazione dei composti aromatici”.
L’EVOLUZIONE La vite, tra maggio e giugno, ha iniziato a correre. “Abbiamo assistito a crescite giornaliere di 3 cm – sottolinea il presidente del Consorzio di Tutela del Primitivo di Manduria – e quest’anno si sta notando una vegetazione più rigogliosa rispetto all’anno precedente. Questo è indice di qualità perché più foglie ci sono, maggiore è la capacità fotosintetica della pianta e quindi più numerosi saranno i fotosintetati e gli elaborati che andranno a costruire il grappolo, elaborati che verranno poi trasformati in zuccheri”.
Oggi, l’aumento esponenziale delle temperature con soglie di 33 – 35 gradi, ha permesso uno sviluppo rigoglioso della pianta.
“Ora ci troviamo nella fase di invaiatura – ricorda Erario – cioè l’inizio della maturazione dei frutti, contraddistinto da un cambiamento di colore: l’acino da verde diventa rosso rubino. Insomma, questa annata sarà contraddistinta da un elevato grado zuccherino che darà un prodotto corposo, di struttura e dal profilo aromatico e polifenolico eccezionale, tipica espressione del Primitivo nell’area Doc”.
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(4,5 / 5) Una linea di vini che spazia dai bianchi ai rossi, passando per le bollicine, contraddistinta da un ottimo rapporto qualità prezzo, senza perdere di vista la territorialità del prodotto.
Feudi di San Gregorio, ormai storica cantina di Avellino, propone ai supermercati un assortimento completo, capace di tratteggiare l’Irpinia del vino adatto a tutte le tasche.
Sotto la lente di ingrandimento di vinialsuper finisce oggi il Fiano di Avellino Docg di Feudi di San Gregorio, vendemmia 2015. In commercio è presente anche la vendemmia 2016: interessante valutare l’evoluzione in bottiglia dell’annata precedente.
Nel calice, il Fiano Docg di Feudi si presenta di un giallo paglierino acceso, leggermente velato per la presenza di fini particelle in sospensione (nulla che ne comprometta la qualità). Al naso l’intensità è decisa: le note floreali e fruttate fresche, assieme a una spiccata mineralità, evidenziano la tipicità del vitigno Fiano.
Fiori di camomilla, pesca gialla e note agrumate invitano a un sorso che parla di campi sterminati e sterminate pianure di mare. L’alcolicità sostenuta (13,5%), tutt’altro che “ubriacante”, fa da cuscino a una spalla acida e a una mineralità che donano freschezza alla beva. Un sorso che non stanca mai. Completa il quadro il tipico finale di nocciola mista a pepe bianco.
Perfetto l’abbinamento del Fiano di Feudi di San Gregorio con crostacei, primi e secondi a base di pesce, anche grigliato. Per gli amanti della cucina giapponese, un vino perfetto per accompagnare sushi e sashimi.
LA VINIFICAZIONE Semplicissima la tecnica di vinificazione di questo Fiano che punta a valorizzare, assieme, la prontezza della beva della vendemmia in commercio e le buone doti di ulteriore affinamento in bottiglia. Le uve vengono raccolte, diraspate e poste a fermentare in serbatoi di acciaio, a una temperatura controllata di 16-18 gradi. Anche la maturazione – della durata di quattro mesi – è affidata a serbatoi in acciaio, capaci di garantire la conservazione dei profumi e degli aromi tipici del vitigno.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
(3,5 / 5) Un vino a due marce, da aspettare nel calice per comprenderlo fino in fondo. E’ lo Squinzano Dop Rosso Riserva “Corte Aurelio”, marchio Lidl. Una Denominazione raramente riscontrabile sugli scaffali dei supermercati, fuori dai confini della Puglia. Coraggiosa la catena tedesca della grande distribuzione a proporlo nei propri store, al prezzo (sconcertante, per certi versi) di 2,99 euro.
Sotto la lente di ingrandimento di vinialsuper, la vendemmia 2013. Nel calice, lo Squinzano Dop Rosso Riserva Corte Aurelio si presenta di un colore rosso rubino impenetrabile. Una bella tinta, tipica dell’uvaggio Negroamaro. La prima impressione all’olfatto non è invece delle migliori. Si limita, di fatto, al calore dell’alcolicità: la percezione, monocorde e poco definita, è quella dei frutti rossi sotto spirito. Troppo presto, però, per catalogare lo Squinzano di Lidl tra i vini al supermercato meno lodevoli.
Pian piano, di fatto, l’ossigenazione fa il suo lavoro sul nettare. Ecco che le note fruttate cominciano a prendere forme note: domina la scena la ciliegia, accanto a ribes, lamponi e more selvatiche. Netto lo spunto vegetale tipico della macchia mediterranea: salvia, rosmarino, ginepro. Poi, zafferano e pepe nero a folate.
In bocca la complessità non è certo pari a quella espressa al naso. Lo Squinzano Dop Rosso Riserva Corte Aurelio di Lidl si conferma vino di alcolicità sostenuta. Nonostante ciò, un nettare connotato da una grande semplicità di beva.
Alle note fruttate di ciliegia e lampone risponde un tannino vivo ma tutt’altro che “verde”, cui fa eco una bilanciata sapidità. Sufficiente la persistenza. In cucina, ottimo l’abbinamento di questo Squinzano Dop con le carni rosse in generale, con predilezione per le lunghe preparazioni e la selvaggina. Ottimo con primi a base di ricchi ragù di carne.
LA VINIFICAZIONE
Come spesso accade da Lidl, quasi impossibile risalire alla cantina produttrice e all’esatta tecnica di vinificazione. Sull’etichetta, di fatto, è indicato solo l’imbottigliatore: la solita V.E.B. di Bardolino, ovvero Enoitalia.
Di certo la Doc Squinzano, come da disciplinare, racchiude i vini prodotti nell’omonimo Comune della provincia di Lecce, oltre a quelli ottenuti per almeno il 70% dai vigneti di Negroamaro nei comuni di Novoli, San Pietro Vernotico e Torchiarolo e, solo in parte, nei Comuni di Campi Salentina, Cellino San Marco, Lecce, Surbo e Trepuzzi. Tutte realtà della provincia di Lecce e Brindisi.
Possono concorrere al blend la Malvasia nera e altri vitigni a bacca rossa coltivati nella zona. In generale, la predilezione è per il Sangiovese (massimo 15%). Lo Squinzano “Riserva” deve affinare per almeno due anni in cantina, di cui almeno 6 mesi in botti di legno. Da qui la complessità di un calice a due marce, come quello di Corte Aurelio.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
(3,5 / 5) Un prodotto particolare, “diverso”. È la Cuvèe Sergio Rosè MO Collection di Cantine Mionetto. Diverso perché Mionetto, cantina che ha fatto del Prosecco una bandiera, presenta qui uno spumate Extra dry rosè.
LA DEGUSTAZIONE
Colore rosa tenue, brillante, con bei riflessi rosa intenso. Anche la ricca spuma, piuttosto persistente, ha un leggero colore rosato che adorna piacevolmente il bicchiere. Il perlage è abbastanza fine, vigoroso e persistente.
Al naso, Sergio Rosè MO di Cantine Mionetto è molto fruttato. Prevalgono note agrumate di pompelmo, seguite da sentori di piccoli frutti rossi. In bocca è agile, l’effervescenza lo rende giustamente tagliente e beverino. Di buon corpo se paragonato a molti altri charmat.
La buona acidità controbilancia la nota zuccherina (14-17 grammi per litro il dosaggio dichiarato). Nota zuccherina che equilibra il finale, altrimenti leggermente amarognolo. Persistente quanto basta. Valida alternativa ai “cugini” Prosecchi per un aperitivo, Segio Mo Collecion Mionetto è una cuvèe che, a tavola, si sposa bene con fritture leggere o carni non troppo saporite.
LA VINIFICAZIONE Sergio Rosè è ottenuto da un blend di uve rosse autoctone delle regioni Veneto e Trentino, vinificate in rosato con pressatura soffice e poche ore di macerazione sulle bucce. Il vino base subisce poi il processo di spumantizzazione in autoclave.
Fondata nella zona di Valdobbiadene nel lontano 1887 da Francesco Mionetto, capostipite della famiglia, Mionetto ha saputo in quasi un secolo e mezzo di storia divenire una delle realtà più rappresentative del Prosecco anche a livello internazionale. La svolta nel 2008, quando la cantina è stata acquisita dal gruppo tedesco Henkell & CO. Sektkellerei KG, uno dei maggiori produttori europei di bollicine.
L’accesso ai mercati internazionali è stato così più agevole, senza tuttavia snaturare la propria tradizione e vocazione ai territori della Doc e della Docg. Oggi Mionetto è presente in tutti i maggiori mercati mondiali con 32 tipologie di spumante suddivisi in 7 linee di prodotto differente.
Prezzo: 8,19 euro
Acquistato presso: Iper, la Grande I
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prosecco rose bastianich belen iper vinialsupermercato
(di Giacomo Merlotti e Davide Bortone) Bevitelo te, il Prosecco Rosè. Perché? Facile: non esiste. A meno di improbabili revisioni notturne del disciplinare di produzione della Doc Treviso, è una “svista” agghiacciante quella a cui si può assistere nel mega punto vendita di Arese (MI) a insegna Iper, la Grande i.
Al colosso della grande distribuzione italiana fa eco il ristorante di Joe Bastianich e Belen, Ricci Milano. Sulla carta dei vini, tra le “Bollicine”, ecco spuntare – per la modica cifra di 34 euro – il Prosecco Rosè “Flor”. Una chicca? Non proprio.
IL DISCIPLINARE Inequivocabile l’articolo 2 comma 1 del disciplinare di produzione del Prosecco Doc. “Il vino a Denominazione di origine controllata ‘Prosecco’ deve essere ottenuto da uve provenienti da vigneti costituiti dal vitigno Glera”.
“Possono concorrere, in ambito aziendale, da soli o congiuntamente fino ad un massimo del 15%, i seguenti vitigni: Verdiso, Bianchetta trevigiana, Perera, Glera lunga, Chardonnay, Pinot bianco, Pinot grigio e Pinot nero (vinificato in bianco), idonei alla coltivazione per la zona di produzione delle uve di cui all’art. 3 del presente disciplinare”. Game over: il Prosecco rosè non esiste.
L’ERRORE Sotto accusa, nel punto vendita Iper di Arese, nel milanese, è il cartello promozionale collocato nel bel mezzo della corsia dei vini: “Prosecco Treviso Doc Rosè Mionetto 75cl: 6,90 euro”. Inconsapevole della svista la cantina veneta Mionetto. Il prodotto in questione è infatti il “Mionetto MO – Sergio Rosé”, che in etichetta è correttamente dichiarato “Spumante Extra Dry”. Senza menzione di provenienza, Doc, o altro. E’ dunque il personale Iper ad aver identificato il prodotto in promozione come “Prosecco”.
Ci sono un’argentina e un americano in ristorante a Milano… Potrebbe cominciare così la barzelletta che vede invece come protagonista la carta dei vini di Ricci Milano. Passi per Belen, una a cui si può perdonare davvero di tutto.
Ma che un personaggio del calibro di Joe Bastianich (peraltro produttore di vino) non si accorga di una simile castroneria sulla carta dei vini del proprio ristorante, incoraggia noi malpensanti a valutazioni maliziose. Che si tratti di una trovata di “marketing” per spingere le vendite del rosè, accostandolo al “Prosecco”? Un dubbio che il mondo del web sembra confermare. Il Prosecco “Flor” compare in versione rosè sul sito californiano The Wine Connection – Rare & Premium Wines. Vini tanto “rari” e preziosi da non esistere.
DICIAMOLO
Una volta per tutte: “Prosecco” e “Spumante” non sono sinonimi. Il Prosecco è una sfumatura del vasto mondo della spumantizzazione. Non si può chiamare “Prosecco” tutto ciò che, semplicemente, non è Metodo Classico (quello, per intenderci, alla base della produzione dello Champagne, del Franciacorta o del TrentoDoc) o che abbia la “bollicina”. In definitiva, il vino chiede e merita rispetto. E ancor più ne richiede il consumatore.
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(3,5 / 5) Sotto la lente di ingrandimento di vinialsuper, un Metodo Classico dell’Oltrepò pavese. E’ l’Extra Brut Nobilis Naturae di Rossi de’ Bellagente, azienda di Stradella del gruppo Torrevilla.
LA DEGUSTAZIONE
Colore giallo paglierino pieno e brillante. Il perlage è abbastanza fine, vigoroso e molto persistente. Al naso, lo spumante Nobilis Naturae è intenso. Ben marcata la nota di lievito e crosta di pane. Un poco di frutta secca, accompagnata da sentori di frutta molto matura. In bocca caldo ed ampio, riempie bene il sorso.
Al palato la “bollicina” non infastidisce, per quanto tenda a smorzare la morbidezza del vino. Il finale, poco persistente, regala tuttavia una piacevole sensazione a metà tra i lieviti e il fruttato. In definitiva, un Metodo classico piuttosto equilibrato, non complesso, che trova nella sua immediatezza il punto forte, unita alla forza e persistenza del perlage e alla fine compattezza del bouquet. Un buon compagno in cucina, per abbinamenti non troppo elaborati.
LA VINIFICAZIONE
Nobilis Naturae è una cuvée composta da Pinot Nero e Chardonnay, di cui non sono dichiarate le percentuali in etichetta. I vigneti sono quelli dell’Oltrepò Pavese di fascia medio collinare, nei comuni di Rocca de Giorgi e Montalto Pavese. L’affinamento sui lieviti è pari a 18 mesi.
Realtà votata alla spumantizzazione Metodo classico, come da grande tradizione dell’Oltrepò, Rossi de’ Bellagente elabora, assembla ed affina i propri spumanti a Stradella. Le radici storiche della cantina affondano nel lontano XVII secolo, ma è dalla sua storia recente che nascondo i prodotti attualmente in commercio, distribuiti i modo più capillare dal 2014, quando l’azienda è entrata a far parte del gruppo Torrevilla.
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gerry scotti pubblicita vino rosato caduta libera oltrepo pavese
Più che alla verdura, alla frutta. A meno di due mesi dall’esposto dell’Associazione nazionale Consumatori all’Antitrust per la “pubblicità occulta di prodotti commerciali sui social network” da parte di alcuni vip – tra cui Belen, Fedez, Anna Tatangelo, Melissa Satta – Gerry Scotti sembra voler sfidare in tv l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.
Nel mirino l’ultima puntata di Caduta Libera, il quiz di Canale 5 condotto dal popolare presentatore Mediaset di Miradolo Terme (Pv). Come successo in un altro caso denunciato da vinialsuper, Scotti ha utilizzato una domanda a tema enologico per fare riferimento alla sua linea di vini, in commercio in alcuni supermercati dallo scorso mese di aprile.
IL CASO
“Verdura a cui può essere difficile trovare il giusto vino da abbinare”. Otto lettere. La concorrente ci mette poco a rispondere: “Carciofo”. Gerry ancora meno a cogliere l’ennesima palla al balzo: “Io l’ho trovato il vino ideale per il carciofo. E’ un bel rosato che si fa in provincia di Pavia”.
ll pubblico rumoreggia. Qualcuno si lascia scappare una sonora risata, svelando di aver ben capito il riferimento. A questo punto lo Zio Gerry alza le mani: “No – si affretta a precisare – non sto pubblicizzando nulla. Ho detto che è un bel rosato”. Per poi rincarare la dose, inequivocabilmente: “Ha un nome di una vigna. E non posso aggiungere altro”.
LA BEFFA Duplice la beffa dello scatenato conduttore pavese. Il riferimento non sarebbe solo al suo rosato da Pinot Nero “Pumgranin”, ma anche all’utilizzo in etichetta della parola “vigna”, contestato da Michele Antonio Fino, professore associato di Fondamenti del Diritto Europeo dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo in un’intervista esclusiva rilasciata a vinialsuper, lo scorso 6 aprile.
“La pubblicità occulta – dichiara Massimiliano Dona, presidente dell’Unione Nazionale Consumatori, a proposito dei casi di Fedez, Belen, Tatangelo e Satta – ha il potere di influenzare inconsapevolmente i consumatori nella scelta di un prodotto o nel giudizio su un brand. A maggior ragione è efficace se fatta da personaggi famosi, i cosiddetti influencer“.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
(4 / 5) E’ tra i vini spumanti Metodo Classico trentini più diffusi al supermercato. Parliamo del Brut Rosè Trentodoc Le Premier di Cesarini Sforza. La variante rosata del classico Le Premier, prodotto con sole uve Chardonnay.
Per ottenere il colore rosato viene infatti aggiunta una piccola percentuale di Pinot Nero, uva dal grappolo rosso. Sotto la lente di ingrandimento di vinialsuper la sboccatura 2016.
LA DEGUSTAZIONE
Nel calice, il Brut Rosè Trentodoc Le Premier Cesarini Sforza si presenta di un colore buccia di cipolla cristallino, luminoso. Il perlage è fine e persistente. Non resta che avvicinarlo al naso per avvertire l’impronta tipica del Pinot Nero: i frutti rossi come la fragolina di bosco, i lamponi e il ribes fanno tuttavia da sfondo alle più marcate note di lieviti e crosta di pane.
Corrispondente al palato, il Rosè Cesarini Sforza Le Premier sfodera nuovamente la carica delicata e sottile dei frutti rossi già avvertita al naso. Netta, poi, la svolta verso tinte mediamente balsamiche, che ricordano le erbe di montagna. Chiusura sulla mineralità tipica del Trentodoc, capace di ricordare la soluzione salina. Percezioni che, unite in un sorso mediamente caldo e secco, esaltano la sottigliezza di un perlage capace di solleticare delicatamente la lingua. Un bel quadro trentino, di assoluta qualità.
LA VINIFICAZIONE Il Brut Rosè Le Premier Cesarini Sforza è prodotto all’85% con uve Chardonnay, cui viene addizionato un 15% di Pinot Nero. La zona di produzione, come da disciplinare, è quella della Trento Doc. In particolare, i vigneti hanno esposizione a Sud, Sud-est e sono collocati su una fascia che va dai 450 ai 700 metri sul livello del mare.
La composizione del terreno è di tipo strutturato e profondo, franco argilloso. Le radici della vite affondano in un composto ricco di pietre, sciolti fluvio-glaciali da disfacimento di rocce porfiriche e sabbiosi. La forma di allevamento è il Guyot, a pergola semplice trentina, con una densità di impianto di 4 mila ceppi per ettaro.
La vinificazione prevede la raccolta manuale di Chardonnay e Pinot Nero nella prima decade di settembre, pressatura soffice delle uve intere, decantazione statica dei mosti, fermentazione a temperatura controllata in serbatoi di acciaio inox e affinamento sulle lisi per circa 6 mesi.
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Becks London Becks Berlin supermercato birra indurstria
Alle soglie dell’estate 2017 Beck’s, noto ed importante brand del gruppo Anheuser-Busch InBev, si presenta sul mercato con due nuovi prodotti: Beck’s London (Pale Ale) e Beck’s Berlin (Golden Bock). Come sono? Le abbiamo provate per voi.
Beck’s London è una Pale Ale, 6.3%, prodotta con tecnica Late Hopping, cioè una luppolatura a mosto caldo prima dell’inizio della fermentazione. Le Pale Ale, con la loro nota spiccatamente amara, stanno vivendo un periodo di splendore, oso dire “di moda”; quanti di noi hanno un amico che entrando al pub ordina una IPA!?! Scopo di Beck’s con la sua neonata London è probabilmente quello di entrare in questo segmento di mercato.
LA DEGUSTAZIONE
Nel bicchiere si presenta di un bel colore giallo carico con schiuma bianca fine e non troppo persistente. Al naso è poco intensa, fine, ed effettivamente ben luppolata con solo qualche accenno di profumi del malto. Ma ci delude una cosa: Beck’s in etichetta dichiara l’utilizzo di luppolo Cascade; gli appassionati lo sanno bene, il Cascade è un luppolo americano dalle forti note agrumate fra cui spicca il pompelmo che nella London non riusciamo a percepire. C’è una nota agrumata, è indubbio, ma è molto sottile, probabilmente per via del Late Hopping che regala sensazioni più delicate del Dry Hopping (luppolatura a freddo) normalmente usato in questo stile di birra. In bocca è scorrevole e di corpo leggero, tornano i sentori luppolati, pulita e con la carbonazione tipica della casa di Brema. Poco persistente.
Beck’s Berlin è una Golden Bock, 7.2%, cioè una birra a bassa fermentazione, più forte di una lager. Immaginiamo che scopo di Beck’s sia avvicinarsi a quei consumatori che cercano in una birra quella forza che spesso “la bionda”, per sua natura, non ha.
Di colore dorato carico, quasi tendente all’ambrato, ha schiuma bianca fine poco persistente. Al naso prevalgono le note del malto, dolciastre, appena smorzate dal luppolo che qui tende ad avere sentori erbacei come è giusto che sia. Beck’s infatti dichiara l’uso di luppolo Saphir, ed in questo caso si, la nota erbacea è tipica del Saphir. In bocca è scorrevole e di corpo fra il medio ed il leggero, pulita e poco persistente. A nostro avviso più riuscita della London.
Immaginiamo questi due prodotti pensati per un pubblico giovane, per quelle ragazze e ragazzi che con le loro uscite serali, più frequenti in estate a scuole finite, approcciano il mondo della birra per puro divertimento (bevete responsabilmente, mi raccomando!) ma anche alla prima ricerca di quelle sensazioni tipiche delle crafted beers. Ed è questo che ha colto la nostra attenzione.
L’EVOLUZIONE DEL MERCATO
All’inizio fu il Gruppo Carlsberg (terzo gruppo mondiale della birra) che col suo marchio Angelo Poretti, prodotta nell’italianissimo stabilimento di Induno Olona (VA), ha cercato di differenziare il portafoglio gustativo delle proprie birre affiancando alla tradizionale 3 Luppoli la 4 Luppoli e poi la 5, la 5 Bock Rossa, la 6, la 7 (in differenti versioni) e su attraverso la 8 e le 9 fino a presentare in occasione dell’EXPO 2015 la 10 Luppoli “le bollicine” (oggi presente anche in versione “Rosè”).
Poi fu la volta di Heineken (il secondo gruppo mondiale) che col marchio Birra Moretti ha da prima introdotto la linea “Grand Cru” e poi la linea “Le regionali”, sempre alla ricerca di sapori e sensazioni nuove e più articolate. L’anno scorso fu Ceres che presentò tre nuove birre col marchio Nørden, ispirate alle birre tradizionali del Nord Europa.
Ora è il turno di Anheuser-Busch InBev. AB InBev non solo è il primo gruppo mondiale, ma da quando ha acquisito l’ex seconda classificata, SAB-Miller, è diventato un vero e proprio colosso; 50 Miliardi di Euro di fatturato ed oltre 400 marchi fra cui Beck’s, Budweiser, Leffe, Lowenbrau, Spaten, Corona, Tennent’s, Stella Artois tanto per citarne alcuni. AB InBev “scomoda” per questa operazione commerciale Beck’s famosa per la sua Pilsner prodotta da 140 anni nello stabilimento di Brema seguendo rigorosamente il Reinheitsgebot, l’Editto di Purezza del 1516.
I DATI DI ASSOBIRRA
Ma perché tutto questo interessamento dei grandi gruppi industriali alle birre “diverse” sul mercato italiano Riflettiamo un secondo. I dati di Assobirra mostrano un consumo totale di birra in Italia pressoché costante fra il 2005 (17.340 Khl) ed il 2015 (18.726 Khl), così come constante il consumo pro capite passato da 29.9 litri nel 2005 a 30.8l nel 2015 (dati 2016 non ancora disponibili ma si stima non scostino molto).
I microbirrifici (quelli che chiamiamo “artigianali”) invece sono passati da 128 nel 2006 a 674 nel 2015 ed si stima che nel primo trimestre 2017 abbiano superato quota 900. Nel 2005 si stimava che il 4% del consumo di birra fosse appannaggio della birra artigianale (oggettivamente troppo poco per scomodare una multinazionale).
Ma se noi continuiamo a berci i nostri 30 litri a testa e nel frattempo i microbirrifici sono diventati sette volte tanto, vuol dire che quel 4% è aumentato, ed è aumentato rosicchiando quote di mercato alle birre industriali. E forse è proprio per questo che i grandi gruppi stanno proponendo sul mercato sempre più prodotti che imitano ed inseguono le crafted beers.
Il grosso del mercato è fatto dal consumo di prodotti basici ed economici. Ma la consapevolezza dei consumatori sta aumentando. Se è vero che in Italia non esista una vera e propria cultura della birra, è vero anche che il consumatore stia iniziando a cercare sapori diversi dalla solita “bionda per la vita”.
Beck’s London e Beck’s Berlin sono ancora lontane dal sapore delle Pale Ale e Bock artigianali. Sono due prodotti estivi adatti ad essere consumate nelle calde nottate estive nei locali all’aperto o bevute senza troppe paturnie in cortile all’ombra del gazebo mentre in nostro amico smanetta sulla griglia. Ma la tendenza ormai è chiara e ci fa piacere sapere che il consumatore è sempre più attento.
Prezzo: 2.99 euro (3x33cl)
Acquistato presso: Auchan
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Riflettori accesi sul vino del Meridione d’Italia a Radici del Sud. Alla XII edizione del Salone dei vini e degli oli meridionali, in scena il 4 e 5 giugno al Castello di Sannicandro di Bari, in passerella la viticoltura delle regioni Puglia, Basilicata, Campania, Calabria e Sicilia.
Un livello medio alto quello riscontrato ai banchi di degustazione, allestiti dall’associazione ProPapilla, capitanata da Nicola Campanile, in tre sale dello splendido maniero Normanno-Svevo.
Novantaquattro aziende rappresentate, capaci presentare in concorso 350 vini, settanta dei quali approdati alle finalissime di fine mese. Questi, invece, i migliori vini degustati a Radici del Sud dalla redazione di vinialsuper
SPUMANTI 1) Un assortimento completo, profondo, pregiato, fa di Colli della Murgia – realtà da 200 mila bottiglie l’anno certificata biologica con base a Gravina in Puglia (BA) – la cantina più interessante dell’intera costellazione di Radici del Sud 2017. Sbaraglia a mani basse la concorrenza nella sezione spumanti, con lo statuario Metodo Classico Brut 2012 “Amore Protetto”.
“Si tratta dell’evoluzione della scommessa della nostra azienda – spiega Saverio Pepe – dai risvolti ‘sociali’: produrre una bollicina che contrastasse il proliferare del Prosecco, ormai divenuto anche in Puglia sinonimo di ‘bollicina’. Siamo partiti così da uno Charmat, per poi evolverci nella direzione di questo Metodo Classico, a completamento del nostro percorso”.
Una manovra più che riuscita, con la marcia della qualità ingranata. “Amore Protetto” è una chicca da conservare per le migliori occasioni. Prodotto con uve Fiano Minutolo raccolte a mano e pressate direttamente, svela nel calice un perlage finissimo, in un tripudio giallo paglierino brillante, con riflessi verdolini.
Naso marcato di miele millefiori, con richiami a metà tra l’agrumato, l’esotico e la frutta candita, in un quadro di grande finezza che si ritrova anche al palato. Qui, a sorprendere, è la freschezza quasi balsamica della beva, unita a una buona sapidità. Ciliegina sulla torta? Una persistenza pressoché infinita.
VINI BIANCHI 1) Il Basilicata Bianco Igt 2016 “Accamilla” diCamerlengo è l’unico vino bianco dell’azienda agricola di Antonio Cascarano a Rapolla, in provincia di Potenza. Un mix di tre uve a bacca bianca trattate in vinificazione alla stregua dei rossi, alla maniera degli “Orange wine”.
L’apporto predominante (60%) è quello della Malvasia, raccolta in vigna una volta raggiunta una leggera surmaturazione. Completano il blend un antico clone di Fiano, il Santa Sofia, e il Cinguli, altro clone di Trebbiano Toscano. Tini di castagno per la macerazione, con le prime ore di follature che interessano anche i raspi delle tre uve.
Che dire? Il Castello di Sannicandro di Bari sembra sparire tra i profumi di questo calice che porta idealmente al Collio friulano e alla Slovenia. Un apporto, dunque, di tipo aromatico e tannico ben costruito, per un vino messo in bottiglia da circa cinque mesi. Non manca, anzi è ben marcata, la firma del terroir vulcanico in cui opera la cantina Camerlengo. Un sorso di eccezionale rarità.
2) Secondo gradino del podio per il Fiano di Avellino Docg 2014 “Numero Primo” di VentitréFilari, preziosa realtà di “artigiani del vino” di Montefredane, in provincia di Avellino. “Ventitré come l’anno 1923 – spiega Rosa Puorro – in cui nonno Alfonso nasceva. E ventitré come il numero di filari del nostro vigneto”. Un marketing efficace, che regge.
Anche (e soprattutto) in un calice che mostra un’evoluzione sostanziale rispetto al primo vino proposto: la stessa etichetta di Fiano, vendemmia 2015 (appena messa in commercio, ma con altrettante potenzialità d’affinamento). Il giallo dorato di cui si tinge il vetro è un inno al buon bere in Campania.
L’equilibrio tra acidità e sapidità fa il resto, in un contesto tutto sommato rotondo, morbido. Il segreto di questo Fiano? Nove mesi sulle fecce, che ne fanno un vero e proprio concentrato dell’essenza del grande vitigno irpino.
3) Sul bigliettino da visita di Mario Notaroberto c’è scritto in chiare lettere: “Contadino”. Un marchio di fabbrica genuino, che si ritrova anche nel Fiano Cilento Dop Valmezzana 2015 della sua cantina, Albamarina. Siamo in località Badia nel Comune di Centola, una sessantina di chilometri a Sud di Agropoli, in provincia di Salerno. Un progetto “contadino”, quello di Mario Notaroberto, che mira al rilancio del Cilento nel nome di un’enogastronomia fondata sul valore della “terra”.
E di “terra” ne troviamo tanta nel suo Fiano. Due le annate in degustazione, con la 2015 che – rispetto alla 2016 – evidenzia un’evoluzione già netta, tutt’altro che completa. Note floreali e fruttate si mescolano a richiami erbacei decisi, naturali. Sembra d’essere in piena campagna quando al naso giungono richiami d’idrocarburo, spiazzanti. In bocca gran calore e pienezza: l’acidità rinfrescante ben si calibra con una mineralità degna di nota. Un vino da aspettare, il Fiano Cilento Dop Valmezzana di Albamarina, come dimostrerebbe – secondo Notaroberto – il vendemmia 2012, “ancora in progressione in bottiglia”.
VINI ROSSI 1) E’ di Elda Cantine il miglior rosso di Radici del Sud 2017: si tratta del Nero di Troia Puglia Igp 2014 “Ettore”. Lo premiamo per la grande rappresentatività del vitigno che sa offrire nel calice e per l’utilizzo moderato di un legno che, in altri assaggi, ha distolto l’attenzione dalla vera potenzialità del Nero di Troia: il binomio tra frutta e spezia.
Giova a Elda Cantine la scommessa pressoché totale su questo uvaggio, con il claim aziendale “dalle radici al suo profumo” che, in realtà, è la sintesi della scoperta della “vocazione innata” di Marcello Salvatori. Un progetto del 2000 dedicato alla madre Elda.
Siamo sui Monti Dauni, più precisamente a Troia, in provincia di Foggia. Qui Elda Cantine ha recuperato ed alleva uno dei vigneti più alti dell’intera regione Puglia, situato a 400 metri sul livello del mare. Il Nero di Troia Puglia Igp 2014 “Ettore” è vinificato in acciaio, prima di passare in botti di rovere per 12 mesi.
2) Riscomodiamo Antonio Cascarano per il racconto dell’Aglianico del Vulture Doc 2012 Camerlengo, vino simbolo della sua cantina di Rapolla, in Basilicata. Una sintesi perfetta tra potenza ed eleganza: forse tra le più belle espressioni del vitigno attualmente in commercio in Italia. La corrispondenza gusto-olfattiva è pressoché perfetta: naso e bocca assistono a un rincorrersi tra note marasca, ribes, lamponi, prima di una chiusura delicata di vaniglia, che nel retrolfattivo vira su terziari di cacao e tabacco dolce.
Al palato l’impronta del terroir più evidente: una spiccata mineralità che allarga lo spettro dei sentori, chiamando il sorso successivo e accompagnando verso un finale lunghissimo, tra il fruttato e il sapido. Dodici mesi in barrique di primo, secondo e terzo passaggio, più un affinamento di 8 mesi in bottiglia. Nessuna chiarifica e nessuna filtrazione. Da provare.
3) Per la piacevolezza della beva ecco il Syrah Vino Rosso Doc Sicilia 2014 di Fondo Antico, azienda agricola di proprietà della famiglia Polizzotti Scuderi situata in frazione Rilievo, a Trapani. Un vino dall’interessantissimo rapporto qualità prezzo, che dimostra come il Sud del vino possa concedersi anche prodotti non troppo elaborati, “quotidiani”, ma di qualità. Gran bel naso di frutti rossi puliti, con richiami caratteristici di pepe e macchia mediterranea. In bocca una piacevole morbidezza giocata di nuovo sui frutti rossi, unita a una grande freschezza che chiama il sorso successivo.
VINI ROSATI Altra menzione per Colli della Murgia, tra i vini rosati. E non solo per il coraggio di mettere in bottiglia, in Puglia, un rosè dallo stile provenzale. Profumi intensi, acidità, freschezza. Questi i tratti distintivi del Rosato Igp Puglia 2016 Sellaia, ottenuto al 100% da uve Primitivo. Colore cerasuolo didattico, colpisce al naso per la pulizia delle note di frutta rossa e floreali di rosa. Una finissima delicatezza che ritroviamo anche al palato, in perfetto equilibrio tra durezze e morbidezze. Buona la persistenza. Uno schiaffo alla Puglia dei rosati ruffiani, che stancano al secondo sorso.
IL FUTURO DI RADICI DEL SUD Già si conoscono le date della prossima edizione di Radici del Sud, che dal 5 all’11 giugno 2018 tornerà ad occupare le sale del Castello Normanno Svevo della cittadina barese. Già confermato l’impianto, con i consueti incontri BtoB dedicati alle aziende, il concorso dei vini e la due giorni dedicata al pubblico.
La vera novità riguarderà il panel di degustazione, che si amplierà anche all’olio con tre diverse giurie: una composta da tecnici olivicoli, una da massaie e l’ultima da studenti delle scuole alberghiere. “Un modo nuovo di avere a disposizione punti di vista diversi su un mondo, quello dell’olio, con un potenziale ancora fortemente inespresso”, commentano gli organizzatori del Salone.
Altra novità riguarda la due giorni dedicata al pubblico. Il Salone si trasformerà in un vero e proprio mercato del vino e dell’olio, durante il quale i visitatori, oltre ad assaggiare, potranno anche comprare i prodotti delle aziende.
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Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Attesi da giorni, ecco finalmente ulteriori dettagli su “Enjoy Collio Time“, l’evento organizzato dal Consorzio Tutela Vini friulano “per pensare al Collio del futuro”.
Un ricco calendario di eventi, dal 14 al 18 giugno prossimi, non certo agevolati da una strategia di comunicazione (incomprensibilmente) complicata, al limite del masochismo: informazioni fornite a “spizzichi e bocconi”, peraltro solo a chi si iscrive sul portale enjoycollio.it, e dettagli forniti in maniera poco precisa, non aiutano certo il “winelovers” italiano (figurarsi lo straniero) a pianificare una gita fuori porta all’insegna dell’enogastronomia friulana.
Per non parlare dello strafalcione grammaticale presente sulla pagina web dove è possibile acquistare i ticket d’ingresso alla manifestazione (citiamo letteralmente, mostrandovelo in foto sopra: “un’evento”). Come dire: per il “Collio del futuro”, meglio ripartire dalle basi. Tant’è.
DETTAGLI “TOP SECRET” Secondo le ulteriori sommarie informazioni fornite dall’organizzazione, i primi tre giorni sono dedicati agli operatori della stampa specializzata nazionale ed estera e ai produttori: prevedono degustazioni, itinerari e presentazioni.
Enjoy Collio Time entrerà nel clou per i winelovers a partire dal weekend. Sabato 17 giugno, dalle ore 17 alle ore 22, presso il Teatro Tenda del Castello di Gorizia, saranno presenti produttori di vino e tipicità gastronomiche locali per la “Mostra d’assaggi e degustazioni” (biglietti a 19 euro acquistabili qui).
Domenica 18 giugno sono invece previste visite guidate nelle cantine dei produttori del Collio e itinerari guidati alla scoperta delle meraviglie enogastronomiche locali (. In contemporanea, sempre nel weekend, i ristoranti di Gorizia e provincia, in collaborazione con l’associazione Gorizia in tavola, proporranno al pubblico menu appositamente studiati per l’evento.
E’ dunque il “Tempo” il tema del primo evento del Collio all’interno della nuova strategia di posizionamento “Enjoy Collio Experience”. I visitatori verranno coinvolti (“enjoy”) per conoscere un prodotto di eccellenza, immergendosi nel Collio per comprenderne storia e valori (“experience”) dove le tradizioni e la natura si raccontano e si svelano.
L’esperienza di quest’anno è incentrata sul valore del Tempo, come storia, presente e soprattutto futuro, ma anche del vino: il tempo della natura ed il tempo delle persone.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
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Dopo due giorni di lavoro le giurie di Radici del Sud hanno identificato i 70 vini finalisti del concorso di questa XII edizione della manifestazione dedicata ai vini e agli oli del Sud Italia. Le due giurie hanno assaggiato gli oltre 350 vini in concorso in due giorni, nelle sale del Castello Normanno Svevo di Sannicandro di Bari.
I 70 vini finalisti ora passeranno ulteriormente al vaglio di una giuria di esperti e giornalisti del territorio a fine giugno per decretare il miglior vino bianco, rosso e rosato della XII edizione. La premiazione si terrà il 27 novembre sempre al Castello di Sannicandro di Bari, durante Radici Wines Experience.
Le giurie, composte da buyer e giornalisti, da enologi dell’Associazione Assoenologi e da membri del circuito Vinarius, erano suddivise secondo un nuovo criterio. I giurati erano distribuiti in 4 gruppi di cui due prevalentemente di buyers e due di giornalisti e critici del settore.
Due i presidenti di giuria: Alfonso Cevola per i buyer e Daniele Cernilli per i giornalisti, coadiuvati rispettivamente da Ole Udsen, importatore danese e dal giornalista Bernardo Conticelli. In questo modo è stato possibile incrociare i giudizi dei critici con quelli di chi, invece, ha un occhio di riguardo per il lato commerciale di ciascun vino.
“Siamo molto soddisfatti del lavoro delle giurie – dichiara Nicola Campanile, organizzatore dell’iniziativa -.La nuova organizzazione ha infatti permesso una maggiore uniformità di giudizio e una migliore lettura dei vini. Avere tutti attorno a un tavolo esperti del territorio e ospiti stranieri ha consentito anche a buyer e giornalisti provenienti da tutto il mondo di interpretare e capire meglio il carattere dei vitigni autoctoni del Sud Italia”. I 70 vini finalisti saranno annunciati ufficialmente oggi alle 19 durante il convegno che si svolgerà all’interno della sala consiliare del Comune di Sannicandro di Bari.
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Ci sono sfumature capaci di rovinare un bel quadro. Un po’ come i baffi sulla Gioconda, se fossimo al Louvre. Venature dadaiste, in grado di farti andar via dall’edizione 2017 di Emilia Sur Lì – festival dei Vini emiliani rifermentati sui lieviti, con la bocca in paradiso. Ma la coscienza all’inferno.
Tanti buoni vini rifermentati e qualche eccezionale metodo classico (“outsider” solo in teoria) all’Agriturismo La Longarola di Lesignano de Bagni, poco fuori Parma, venerdì 2 giugno. Ma una “leggerezza fiscale” impressionante, con bottiglie vendute da alcuni produttori senza alcuna ricevuta. Vini liberi, insomma. Anche dal Fisco. Vini anarchici. Vini, in realtà, masochisti.
Di fatto, un vero peccato in termini di lungimiranza. Al di là degli aspetti legali della questione, non è la prima volta che assistiamo in presa diretta allo “smercio” di vino senza scontrino, a fiere ed eventi che spesso vedono protagonisti vignaioli “controcorrente”. I paladini della naturalità in vigna, in grado di concordare su rigidi disciplinari di produzione che prescindono (in positivo) dai disciplinari, scivolano (non tutti, è chiaro: ma a questo punto qualcuno isoli i furbi) sulla buccia di banana della legalità.
Un trend pericoloso, che rischia alla lunga – su scale nazionale – di non dare il giusto valore alla produzione di vino naturale. Un’evasione fiscale che fa male a un movimento, quello dei vini prodotti “secondo natura” (senza solfiti aggiunti, biologici, biodinamici…) che meriterebbe d’essere raccontato ogni giorno per l’aumento di interesse da parte del pubblico. Dati positivi a cui questo fenomeno perverso – più italiota che italiano – non può che tranciar le gambe. Perché la storia – da che mondo e mondo – si fa coi numeri. Non con le chiacchiere o le poesie su madre natura, nemica – evidentemente – più dell’industria del vino che dell’industria del denaro.
I MIGLIORI ASSAGGI
Emilia Sur Lì 2017 resta comunque, a tutti gli effetti, una manifestazione di livello nel panorama dei vini “alternativi”. Ecco i nostri migliori assaggi di vini rifermentati e sboccati, compresi alcuni “Metodo Classico” esemplari.
1) Grechetto, Azienda Agricola Gradizzolo. Sono tutti da assaggiare i Grechetto dell’Azienda Agricola Gradizzolo di Monteveglio, in provincia di Bologna. Che si tratti di “Gradizzolo” 2005, rifermentato erbaceo, balsamico, dalla chiusura speziata e lunghissima, o del Grechetto 2015 in anfora (naso splendido sull’anice), oppure del Grechetto 2012, imbottigliato a febbraio 2013 (gran pienezza e complessità, pur mantenendo una straordinaria facilità di beva) i vini di Antonio Ognibene lasciano il segno.
2) “Per Franco” e “Rosso Bergianti”, Azienda Agricola TerreVive Bergianti Vino. Qui siamo a Gargallo di Carpi, in provincia di Modena. “Per Franco” è uno spumante Metodo Classico Rosè ottenuto in purezza da uve Lambrusco della varietà Salamino. Nulla a che vedere con la media dei Lambruschi tradizionali, da cui si discosta fin dalla prima olfazione di cipria, che vira subito sulla frutta.
Uno spumante deciso, di carattere, ben retto su una schiena muscolosa. Non tanto, però, da comprometterne l’assoluta piacevolezza della beva. Rosso Bergianti è invece ottenuto con l’aggiunta di un 20% di uve Lambrusco Sorbara alla base Salamino. Un Metodo Classico giocato sull’acidità tipica, appunto, del Sorbara. Un Lambrusco da bere tutto d’un fiato.
3) Harusame, Casè… naturally wine. Alberto Anguissola tira fuori dal suo scrigno di Casal Pozzino di Travo in Val Trebbia (Piacenza), uno spumante rosato di Pinot Nero in purezza a dir poco eccezionale. Ne vanno matti in Giappone, ma anche in Italia rischia di creare dipendenza. Dopo un affinamento in acciaio per circa un anno, al vino viene aggiunto mosto fresco di Pinot Nero della vendemmia successiva, “in modo da ottenere il livello zuccherino corretto per avviare la rifermentazione in bottiglia”.
Non viene fatto uso di zuccheri industriali o lieviti selezionati per Harusame: solo madre natura per la presa di spuma. Al naso nocciola tostata, che torna prepotente in un palato a dir poco sconvolgente per l’uvaggio. Fragranza pura, soprattutto quando nel retro olfattivo fa capolino l’arachide. La frontiera naturale e dorata di un Pinot Nero, a pochi chilometri dalla sua patria d’elezione: l’Oltrepò Pavese.
4) Spumante Metodo Classico Brut Bianco Antico 2014 Vej, Podere Pradarolo. Altro assaggio sconvolgente il 100% Malvasia di Candia aromatica prodotto in località Serravalle, nel Comune di Varano dè Melegari. Siamo nella bassa Valle del Ceno, in provincia di Parma. Nove mesi complessivi di macerazione: i primi tre prevedono profondi rimontaggi, che anticipano i successivi 6 mesi a cappello sommerso. L’estrazione è totale e in bocca è evidente l’eccezionale equilibrio tra bollicina e tannino. Per la seconda fermentazione è stato utilizzato il mosto 2015.
“Facciamo tanta fatica in vigna per portare in cantina uve sane, comprese ovviamente le bucce: perché poi dovremmo gettarle via?”: il commento di Claudia Iannelli, toscana doc trapiantata in Emilia per seguire il sogno del marito Alberto Carretti, lascia pochi spazi alle interpretazioni. Un Pas Dosè sboccato alla Volé da lasciare il segno. Vej si presenta nel calice di un giallo intenso, tra la camomilla e l’ambrato. Al naso la tipicità della Malvasia di Candia, con uno spunto floreale di rosa. Al palato si fa serio, grazie all’apporto dei tannini che chiamano piatti anche importanti. Lo immaginiamo su un’anatra all’arancia. Divino.
5) Barbera 2014, Camillo Donati. Gli effetti della rifermentazione in bottiglia sono ormai pressoché svaniti nella Barbera 2014 di Camillo Donati, orgoglioso viticoltore emiliano di Barbiano, Parma. Frutta rossa deliziosa al naso, di rara pulizia (alla cieca, note che farebbero quasi pensare a un Pinot Nero altoatesino).In bocca, il residuo zuccherino non infastidisce la beva, che resta seriosa nonostante la predominanza delle note fruttate. D’obbligo lasciare respirare un po’ il vino nel calice, per assaporarne l’evoluzione all’olfatto: la frutta rossa diventa cornice di liquirizia dolce e note erbacee mediterranee. Tutto bellissimo.
6) Frisant Bianco 2016, Il Farneto. A Castellarano, provincia di Reggio Emilia, Bella interpretazione del vitigno Spergola, autoctono dell’Emilia, cui viene aggiunto un 40% di Sauvignon In degustazione la vendemmia 2016, rifermentata a maggio.Naso delicato di pera Williams e fiori bianchi freschi per questo “Frizzante” di colore giallo paglierino intenso. Inattesa un’acidità così spiccata al palato, ben equilibrata con il ritorno delicato delle note fruttate e una mineralità che chiama il sorso successivo.
7) Lambrusco dell’Emilia Igt Rosso Frizzante Secco “Al Scur”, Ferretti Vini.. Frizzanti per Natura. Ottenuto da un 90% di uvaggio composto da sette varietà di Lambrusco (Maestri, Marani, Salamino, Grasparossa, Oliva, Barghi, Foglia frastagliata) e un 10% di uva Ancellotta, altra autoctona emiliana. E’ un Lambrusco sui generis, tutt’altro che “piacione” o “femminile”.
Solo apparentemente una contraddizione, se si considera che la Ferretti Vini è oggi un’azienda a conduzione femminile, grazie all’impegno delle sorelle Elisa e Denise, che hanno saputo far tesoro degli insegnamenti del padre Sante, per 40 anni cantiniere alla Cantina Sociale di Campegine.
“Al Scur”, di fatto, è tradizione e naturalezza. Spuma corposa che tinge un calice porpora, impenetrabile. Naso di quelli che rendono giustizia ai vini naturali, grazie all’apporto di un Grasparossa audace, animale. Il tutto senza perdere finezza. Un anziano contadino con le mani sporche di terra, ma in camicia. Pronto per la messa della domenica.
8) Lambrusco dell’Emilia Igp Frizzante Rosso Secco “Ponente 270”, Podere Cipolla. Denny Bini ci manda in confusione. Tocca rileggere tre, quattro volte gli appunti prima di battere la recensione del suo Lambrusco Ponente 270, piena di ossimori: degustandolo al banco d’assaggio di Emilia Sur Lì, scriviamo prima “austero”, poi “rotondo”. Proprio così, non è un errore. Un’interpretazione esemplare di un blend di Lambrusco Salamino, Malbo Gentile, Grasparossa e Sorbara.
Un vino fresco ed equilibrato, sia al naso sia in bocca, tutto giocato su grasse note fruttate (tendenti al maturo) e su una bevibilità eccellente. Un Lambrusco semplice, ma tutt’altro che banale. Da provare, sempre in casa Podere Cipolla – Denny Bini, il Grasparossa Libeccio 225: più spigoloso e muscoloso, per via di una spalla acida ben più consistente.
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Barbera 2014 Camillo Donati Emilia sur li
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Grechetto Azienda Agricola Gradizzolo Emilia sur li
Bersot bianco Gradizzolo Emilia sur li
Harusame Case… naturally wine. Alberto Anguissola Emilia sur li
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Lambrusco dellEmilia Igt Rosso Frizzante Secco Al Scur Ferretti Vini.. Frizzanti per Natura
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Uva sana in vigna e massimo rigore nelle operazioni di cantina. I segreti dei vini senza solfiti sono questi. Facile dirsi, un po’ meno a farsi. Di certo, la ricerca e la sperimentazione messa in atto dalla Teo Costa, azienda di appassionati produttori piemontesi che opera a Castellinaldo d’Alba, nel Roero, sta dando un grande contributo al “movimento”.
Un fenomeno che vede Coop Italia all’avanguardia tra le insegne della grande distribuzione organizzata, fetta di mercato nella quale il vino “bio” e “senza solfiti” è in crescita esponenziale. Lo ha sottolineato Luigi Pestarino, responsabile marketing di Coop Liguria, al convengo organizzato il 31 maggio proprio alla Teo Costa. “Coop Liguria – ha spiegato Pestarino – ha iniziato a vendere vini senza solfiti aggiunti a partire nel 2008, con grande lungimiranza. Da quando i vini Teo Costa sono stati inseriti tra le referenze, l’incremento delle vendite è stato via via più convinto e rilevante, fino agli exploit a tre cifre dei primi cinque mesi del 2017”.
“L’aggiunta di prodotti che possano fare riferimento all’anidride solforosa, dal metabisolfito di potassio usato nelle fasi fermentative all’anidride solforosa aggiunta nelle successive fasi di lavorazione – ha precisato Roberto Costa – risponde a una pratica tecnica che ha i suoi fondamenti nella necessità di evitare, nel mosto e nel vino, l’azione di funghi e batteri che potrebbero provocare danni alla salubrità del prodotto e anche effetti deleteri sulla salute dei consumatori”.
“Il problema, quindi – ha aggiunto Costa – non sta tanto nell’uso moderato di solforosa, quanto piuttosto nelle esagerazioni che, se fanno dormire sonni tranquilli al produttore, possono provocare effetti negativi su chi consuma vino”. Problemi che, come ha ricordato Antonio Germano, esperto in farmacologia, “vanno dal classico mal di testa a situazioni più preoccupanti tipo la riduzione della capacità dell’organismo di assorbire alcune vitamine indispensabili per i processi biologici, alcune dei gruppi B ed E”.
Della scommessa portata avanti dall’azienda Teo Costa ha parlato Gianfranco Cordero, enologo che da tanti anni segue le attività tecniche dell’azienda. “Sono dieci anni oramai che il progetto è stato avviato – ha ricordato – e logicamente, anno dopo anno, il protocollo di lavoro è stato sviluppato e migliorato. Non c’è nulla di segreto e nemmeno d’impossibile”.
“Ogni azienda potrebbe sviluppare un lavoro di questo tipo – ha aggiunto Cordero – a patto che inizi nei filari a produrre uva sana e che prosegua in cantina con il massimo rigore in fatto di pulizia e di tempestività nell’eseguire le varie operazioni sul vino. Evidentemente, i problemi sono maggiori per i vini bianchi rispetto ai rossi, ma l’applicazione rigorosa del programma di lavoro permette di procedere con efficacia”.
Spazio anche per una degustazione dei vini Teo Costa, durante il convegno. A guidare il folto pubblico presente, la giornalista Teresa Enrica Baccini e il docente della Facoltà di Agraria Riccardo Fortina. Un viaggio tra i cinque vini senza solfiti prodotti dalla cantina piemontese, in abbinamento al prosciutto crudo e al salame prodotti dalla stessa azienda agricola, da maiali neri allevati allo stato brado.
PIONIERI DEI VINI SENZA SOLFITI
Cinquanta ettari di terreni vitati, 230 mila piante di vite a frutto. Questi i numeri dell’Azienda Agricola Teo Costa di Castellinaldo d’Alba. Le vigne sono collocate in vari ambienti del territorio albese. Nel Roero, a Castellinaldo d’Alba e a Castagnito. Nell’area delle Langhe, Teo Costa conduce alcune vigne a Treiso, nella zona del Barbaresco, e a Novello, nell’area del Barolo. Oggi sono i due fratelli Marco e Roberto Costa a condurre l’azienda, coadiuvati da papà Antonio e mamma Mariuccia. Poi Nicoletta Marcellio, moglie di Roberto, e i loro figli Isabella, Viviana e Manuel.
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