EDITORIALE – Varietali appiattiti, utilizzo sostenuto dei legni, standardizzazione assoluta degli assaggi. La “sagra” del mosto concentrato e dell’appassimento in pianta. Il tutto nel nome di un dogma (aleatorio) come la “piacevolezza”. E’ quanto emerge dalla degustazione de “I migliori vini italiani“, l’evento milanese di Luca Maroni.
Un “critico del vino” davvero sui generis. Maroni, di fatto, ha coniato regole proprie per la degustazione, che solo lui utilizza. Alla base dell’Annuario dei Migliori Vini Italiani di Luca Maroni c’è infatti “l’analisi organolettica-dinamica“.
Mai sentita nei vostri corsi per sommelier e degustatori Ais, Fisar, Fis, Onav? Certo che no. E’ un marchio di fabbrica maroniano. Gran parte delle etichette premiate ha poco a che fare con la qualità assoluta ricercata da altre guide.
Del resto, la presentazione degli eventi del “critico” parla chiaro: “Luca Maroni guiderà il pubblico all’acquisizione del principio della piacevolezza del vino per comprenderne l’essenza e, senza strumenti né magie, condurrà il neofita e l’appassionato attraverso un percorso di fascinazione sensoriale“. E sticazzi, epicureisticamente parlando, of course.
I PREMIATI
Tre righe che potrebbero bastare (e avanzare) per giustificare l’assegnazione di premi come “Miglior spumante d’Italia”, per due anni consecutivi, a realtà come l’Azienda VitivinicolaVanzini.
Otto milioni di bottiglie e poca rappresentatività (nel calice) di un territorio che vanta una tradizione spumantistica eccezionale sul Metodo classico, come l’Oltepò Pavese. Per vincere è “bastato” un generico “Charmat lungo” da Pinot Nero, in versione rosé lo scorso anno, vinificato in bianco nel 2018.
Ma la spiegazione migliore di cosa è realmente “I migliori Vini Italiani di Luca Maroni” l’ha offerta, a Milano, il rappresentante di uno dei maggiori colossi del vino italiano, Schenk Italian Wineries (55,6 milioni di bottiglie vendute nel 2017):
“I nostri sono vini moderni, dissociabili dal cibo, ottenuti lavorando sulle maturazioni e sul residuo zuccherino, lavorando in vigna, sulla pianta, attraverso appassimenti. Dopo i primi esperimenti fatti con i nostri vini veneti, in particolare con l’Amarone, abbiamo esteso il progetto alle altre tenute presenti in Italia: in Puglia e Sicilia ma anche in Piemonte, dove per smussare la Barbera ricorriamo a legni dolci”.
Siamo sicuri che si producano così i “Migliori vini italiani“? Siamo sicuri che è questo il compito dei critici enologici, in un periodo in cui l’internazionalizzazione sta portando sulle nostre tavole vini di territori dalla scarsa tradizione enologica (in attesa di quelli cinesi)? Siamo sicuri che questi premi valorizzino realmente il patrimonio della viticoltura italiana?
Ma soprattutto: siamo sicuri che Luca Maroni non abbia effettuato consulenze per alcune delle aziende premiate? Qualcuno si è accorto che la valutazione assegnata da Maroni ad alcuni vini Horeca presenti nell’Annuario si discosta di pochissimo da quella di alcune etichette presenti in Discount come Md o Aldi?
Un esempio su tutti: lo splendido Amarone “La Mattonara” 2006 di Zýmē in vendita a 230 euro (98/100 Maroni) e la Croatina Provincia di Pavia Igt “Cantina Clairevue” (96/100 Maroni, in vendita a 2,99 euro da Md Discount, prodotta proprio da Schenk). Sono solo io a pormi queste domande o c’è qualcosa che non va?
Di certo è tutto lecito. Ma ai giovani e giovanissimi presenti all’evento spetta il dovere di informarsi, prima di mettere in bocca il prossimo “piacevole” calice suggerito dalla guida Luca Maroni. E allora prosit. Se son zuccheri, ci addolciremo anche noi. Domani.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
/// EDITORIALE /// “Gambero Rosso International ha iniziato a seguirti”. Wow. “Follow back” scontato, per me che sono da poco su Instagram col simpatico account @the.wine.traveller. Peccato duri poco. Due giorni, per l’esattezza. Dal 15 settembre ad oggi, 17 settembre, il Gambero ci ripensa. Zac. Passo dal (presunto) colpo di culo al doloroso (ma anche no) colpo di chela. Il crostaceo più educato d’Italia mi toglie il “follow”. Sperando che non me ne accorga.
Fanno tutti così, o quasi, gli ormai noti influencer del food & wine. Una pratica internazionale per alzare la “media” di uno degli elementi statistici fondamentali per giudicare la “social reputation”: il rapporto tra follower e account seguiti.
Il fatto è che molti di questi account sono gestiti da veri e propri professionisti dei social media. Che al posto di concentrarsi sulla proposizione di contenuti seri, originali, professionali, perdono tempo zigzagando come bisce a caccia di inutili fan sui social.
COME SI CUCINA IL GAMBERO
Il gioco, tutto sommato, è semplice. Non ci vuole una laurea in marketing. Per incrementare la reputazione social di un brand, gli espertoni delle agenzie specializzate iniziano a seguire tutti quegli account potenzialmente interessati agli argomenti e contenuti trattati dal cliente di turno.
Il “follow back” da parte del popolo dei social, specie su Instagram, è pratica ormai scontata. Il brand si ritrova così, in poche ore di follow compulsivi, con un gruzzolo di fan in più. Che non conteranno un cazzo, nella maggior parte dei casi, in termini di conversione del “like” in acquisti, visite. Ma che fanno figo, accanto all’immagine del profilo e alle ultime Instagram Stories.
Dopo qualche giorno – a volte addirittura dopo poche ore – quel brand smette però di seguirli. Che figura ci farebbe Gambero Rosso International, al di là della sua indubbia credibilità mediatica, se seguisse tutti gli account da cui è seguito? Un “giochino”, questo, che dovrebbe far ragionare le aziende del settore Food & Wine sulla loro scelte in campo di comunicazione.
I RIMEDI
Ma non tutto è perduto. Esistono delle app come Follow Cop – per chi come me ha Smartphone con sistema Android – che consentono di smascherare le centinaia di furbetti (cantine, aziende o singoli fenomeni) che ogni giorno provano a costruirsi un ruolo da influencer, ovviamente a scopo di lucro.
L’app consente di togliere il “follow” a chi non vi segue. Vi aiuta, insomma, a sgamare gli “Unfollowers“. Consentendo, così, di scegliere coscientemente se continuare a seguire qualcuno che ci ha aggiunto solo per sfoggiare un punto in più nel rapporto tra “follower” e “account seguiti”.
Non avendo mire da influencer, bensì da umile informatore del settore vino in Italia, uso Follow Cop ogni due giorni per scremare tra chi è realmente interessato ai contenuti che propongo su vinialsuper – e veicolo appunto attraverso i social – da chi, invece, vuole usare il mio “follow” per guadagnare credibilità e denaro.
Detto ciò, dopo queste rivelazioni apocalittiche e rivoluzionarie (!) siete tutti invitati a seguire il mio nuovo account Instagram. Senza che poi vi segua a mia volta. Ma questo era scontato.
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
RICETTA Spalla di maiale al forno con riso insalata di pomodori e yuca 3 1
La ricetta di oggi ricorda vagamente un piatto che ho mangiato insieme a degli amici boliviani. Si tratta della spalla di maiale al forno accompagnata con riso, insalata di pomodori e yuca. Vi dirò di come ho preparato il maiale.
INGREDIENTI per 4 persone
4 tranci di spalla di maiale ( circa 1,2 kg in tutto)
2 peperoni rossi
1 ciuffo di prezzemolo
3 cipolle
Sale quanto basta
1 Peperoncino
Olio extravergine di oliva
LA PREPARAZIONE
La preparazione di questa pietanza è molto semplice. Laviamo i peperoni, il prezzemolo, il peperoncino e le cipolle e tritiamoli aggiungendo olio per ottenere una crema.
Massaggiamo con essa i tranci di spalla, disponiamoli in una teglia e poi saliamo. Lasciamoli riposare un’oretta in frigo. Mettiamo in forno caldo ( 180 gradi) e lasciamo cuocere per circa un’ ora, coprendo il tutto con alluminio.
Infine lasciamo riposare dieci minuti a forno spento e poi serviamo con riso in bianco, pomodori e cipolle in insalata e con yuca sbollentata e condita con olio e sale. E quindi …. buon appetito!
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50 anni di Doc Rosso Piceno. Quattro cantine da visitare 6 1024x768
Quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario della Doc Rosso Piceno, un territorio da sempre sottostimato, nonostante le potenzialità pedoclimatiche e la qualità dei vini di molti vignaioli, anche emergenti.
Siamo andati sul posto, percorrendo il triangolo Offida, Ripatransone, Castorano. Abbiamo raccolto sensazioni tattili, olfattive e gustative, direttamente tra i filari e tra le mura delle cantine.
Abbiamo trovato grandi equilibri e grandi finezze, vini complessi e molto territoriali influenzati dal mare e dalla montagna.
Ritorneremo per continuare il tour: in agenda altre piccole ma grandi realtà. Per il momento prendete carta e penna e segnatevi queste.
PODERI SAN LAZZARO L’azienda Agricola Poderi San Lazzaro nasce nel 2003. Paolo Capriotti porta avanti la tradizione di famiglia, nella coltivazione della vite e nella produzione del vino di qualità e si cimenta in quella che a tutt’oggi è diventata la sua principale occupazione.
Ci troviamo nel comune di Offida, il cuore del Rosso Piceno Superiore una delle DOC storiche Italiane. Ottima posizione, in piena collina a circa 300 metri sul livello del mare e a circa 15 Km dall’Adriatico e 25 Km dai monti Appennini. Suoli argillosi su questi crinali ed esposizioni a sud, sud-ovest e nord-ovest.
Qui si risente dell’influenza del mare e delle giuste variazioni termiche tra il caldo diurno e le brezze serali. Si lavora in biologico e la filosofia dell’azienda è rivolta all’estrema cura dei vigneti per ottenere uve di qualità e per garantire il massimo del prodotto in bottiglia.
Paolo Capriotti produce attualmente circa 50 mila bottiglie divise tra uve bianche con Passerina e Pecorino e uve rosse come Montepulciano e Sangiovese in prevalenza ma anche uve Bordò.
Rese sempre intorno ai 70/80 quintali/ettaro , uso di legni vecchi e nuovi francesi , grande pulizia e espressività di un territorio molto vocato per la viticultura che nulla ha da invidiare alla vicina Toscana. Questa realtà del Piceno merita per passione, dedizione e grande intuito di questo “giovane” produttore.
I MIGLIORI ASSAGGI Pecorino Pistillo 2016. 14%vol , stessa densità di impianto a 4000 ceppi/ettaro ma resa più bassa. Qui siamo sui 70 q/ett. Lo scatto rispetto al bianco di apertura è notevole. Esposizione a Nord , terreno argilloso.
Il Pecorino 2016 dopo la fermentazione il 30% della massa affina in legno grande per 7/8 mesi . poi dopo un successivo passaggio in acciaio viene imbottigliato. Il colore è giallo paglierino carico con intensi riflessi dorati. Al naso agrume, cedro, pesca, pera e le caratteristiche note varietali del pecorino come erbe di campo e fiori. In bocca l’attacco è deciso.
Le note fruttate rilevabili al naso, lasciano il posto a sensazioni più mature, note di salvia, sfumature ammandorlate e mineralità. Nel finale torna l’agrumato a sottolineare tipicità e caratteri varietali.
Un vino da tutto pasto che con il salire della temperatura di servizio può offrire sensazioni organolettiche davvero interessanti e complesse. Da bere fresco non freddo. Ottimo rapporto q/p per un vino davvero divertente. Da preferire forse in annate più fresche dove la carica alcolica ben si bilancia con le durezze.
Podere 72 , Rosso Piceno Superiore Doc 2015 . 14.5% vol , Taglio di 50% Montepulciano e 50% sangiovese , il vino perfetto da bere sempre estate fresco e inverno a temp ambiente. Qui rese un po’ più alte sugli 80q/ett per un totale di 15000 bottiglie.
Il Vino della casa per Paolo Capriotti. Vendemmiato prima il sangiovese che porta a maturazione il grappolo con qualche settimana di anticipo rispetto al montepulciano. Le uve vengono vinificate e affinate separatamente passando circa un anno e mezzo in barrique usate e nuove e successivamente assemblate per fare un passaggio in acciaio e quindi arrivare in bottiglia.
Vinificazione a cappello emerso con rimottaggi frequenti. Colore rubino carico , al naso visciola , prugna , spezia e cacao. Ottimo bilanciamento tra le parti morbide e dure è un vino dalla struttura e dalla beva non impegnativa ma golosa. Tannini leggeri e ottima persistenza del reto olfattivo.
Grifola 2013 , Marche rosso Igt. 15%vol Montepulciano 100%. Bassissime rese, siamo circa sui 50 q/ett per un totale di 5000/6000 bottiglie a seconda dell’annata. Vigne di circa 40 anni. Vendemmia a metà Ottobre fermentazione in acciaio con cappello emerso e fino a 4 rimottaggi al giorno.
Verso Dicembre o Gennaio viene portato il barrique nuove di rovere Francese dove rimane per circa 2 anni, successivamente un dopo un passaggio in acciaio rimane in bottiglia altri 18 mesi. Il colore è un rubino intenso , impenetrabile . Il naso è un misto di frutta rossa matura, liquirizia, cacao, il tannino e morbido e non per niente ruvido.
La leggerezza del sorso non fa pensare alla gradazione alcolica in etichetta. Un vino che appare ancora giovane, con una acidità e un corpo che ne garantiscono longevità. Struttura , tanta struttura . Un vino da sorseggiare con calma, da rispettare nei tempi.
Bordo 2014, Marche rosso Igt. Bordò è il nome con cui è chiamato nelle Marche il vitigno grenache. Si tratta di un vitigno tipicamente mediterraneo, che nella zona picena ha trovato un habitat perfetto. Un uva difficile ci racconta Paolo, dall’acino delicato.
In fermentazione bastano 3 giorni di contato che le bucce si rompano e si possa gia svinare. Una caratteristica intrinseca dell’uva questa. Siamo sulle 600 bottiglie prodotte, una vera chicca. Dopo la vendemmia manuale, le uve sono portate in cantina per la fermentazione, che avviene in acciaio a cappello sommerso con frequenti rimontaggi.
Il vino matura poi per metà in legno nuovo e per metà in legno vecchio per circa 2 anni. Dopo un veloce passaggio in acciaio viene imbottigliato. Nel calice ha un colore granato. Il profilo olfattivo è caratterizzato da eleganti note floreali, sentori di macchia mediterranea, aromi di piccoli frutti a bacca rossa, cioccolato bianco, spezie orientali come la cannella e in minor misura la china.
Il sorso è piacevolmente fresco e gustoso anche se non ampissimo, di buona struttura, con tannini maturi e aromi ricchi e complessi. Finale da scorza d’arancia essiccata. Un vino elegante , fine , raffinato che accarezza il palato.
AZIENDA AGRICOLA VALTER MATTONI Valter Mattoni detto “la Roccia” è un personaggio meraviglioso. Decoratore e imbianchino di professione, nel 2006 ha deciso di iniziare sul serio a fare vino, non solo per goderne lui e la sua famiglia come da anni facevano ma per far godere anche noi. Ed ecco la prima annata in commercio, la 2006 appunto.
La sua idea, fare un vino semplice, diretto, senza troppe decorazioni, come il nonno e il padre prima di lui hanno sempre fatto. Una produzione minuscola, siamo nell’ordine delle 7500/8000 bottiglie anno. Artigianali. Preziose. Emozionanti.
I vigneti di proprietà sono Montepulciano, Trebbiano, Sangiovese e Bordò (la grenache marchigiana). Sì, anche Valter fa parte di quel piccolo gruppo di produttori che in un fazzoletto di Piceno coltivano e vinificano l’uva Bordò con grandissimi risultati.
La produzione maggiore è per il Montepulciano, Arshura esce in circa 4000 bottiglie/anno, 1500/1600 bottiglie sono di Trebbiano e solo qualche centinaio per Sangiovese e Bordò. Tre ettari e mezzo la proprietà, esposizioni a sud-est e sud-ovest, a circa 300 metri sul livello del mare , in faccia all’Adriatico.
Terreni argillosi alluvionali come tutta la zona di Castorano (AP) Le piante più vecchie hanno età fino ai 50/60 aa e sono il trebbiano e il montepulciano. In cantina si predilige l’uso di legni usati anche di oltre 4 passaggi. Tutte barrique di legni Francesi .
I MIGLIORI ASSAGGI Arshura, Marche rosso Igt 2015. 15%vol. Fermentazione in acciaio, poi un anno in barrique usate francesi. Rubino profondo con unghia accennata viola, naso su note di visciole, frutta rossa e cacao. Un naso ricco, che evolve con la leggera areazione del calice.
Al palato il tannino è morbido e il finale persiste su note di marasca e su note balsamiche mai stucchevoli. Il sorso è caldo ma i 15 % vol non appesantiscono la beva. L’utilizzo chirurgico del legno lo rende allo stesso tempo ricco e setoso.
Mai invadente in bocca. Verticale ed orizzontale, un sorso pieno su tutti i campi sensoriali. Un grandissimo Montepulciano in purezza. Un puledro adesso, che diventerà un campione di razza tra qualche anno.
Rossobordò 2015. Produzione esigua di circa 300 bott anno. Stessa vinificazione dell’Arshura, fermentazione in acciaio, poi via in barrique vecchie per 2 anni. Nel calice di un rosso rubino, luminoso, quasi trasparente.
I profumi rimandano alla spezia mista al frutto rosso piccolo, fragole appena colte, alternate a cannella e alla cioccolata. Poi un sentore di rose e infine china e rabarbaro. E’ un naso affascinante per eleganza, che si scopre come una timida donna. Non ti stancheresti mai di annusare il calice.
In bocca il tannino è morbido, l’acidità presente, minerale e sapido. Lunghissimo. Ritornano prepotenti le note speziate, con un finale che si addolcisce e chiude in freschezza. Mai pesante.
Il retro olfattivo è un campo aromatico incredibile per armonicità. Un vino giovane ma preciso, chiaro, che non lascia spazio ai tecnicismi, da ascoltare e degustare dentro e fuori dal pasto.
AZIENDA AGRICOLA CAMELI IRENE
La famiglia Allevi, sulle colline del paese di Castorano (AP), riparate dai venti del mare, esposte a sud e particolarmente adatte per la coltivazione e la cura di vitigni, coltiva da oltre 40 anni Sangiovese, Montepulciano, Passerina e Pecorino, vitigni autoctoni di questo territorio con l’aggiunta di un piccolo vitigno di Chardonnay e da pochi anni di uva Bordò (non ancora vinificata).
Una produzione totale di 20000 bottiglie anno. Tre gli ettari totale dell’azienda tutti a circa 200 metri sul livello del mare. Esposizioni a sud e sud est. Un piccolo produttore che fa della semplicità il suo punto di forza.Una bella realtà di una famiglia di vignaioli come una volta, quelli per cui siamo innamorati del vino.
I MIGLIORI ASSAGGI Pecorino Gaico 2016. 13,5 % vol, densità di 6 mila ceppi/ettaro per resa 60 q/ettaro. Vigne giovani. Fermentazione e affinamento sempre in acciaio per 6-8 mesi. Poi una sosta di altri 6 mesi minimo in bottiglia.
Colore giallo paglierino carico, sentori di frutta a pasta gialla, note che con la sosta nel bicchiere e il lieve rialzo della temperatura sconfinano quasi in un leggero tropicale. Erbe aromatiche sul finale. In bocca è rotondo, acidità ben bilanciata, finale lungo.
Conte 2017, Rosso Piceno Doc. 14%vol. 50 % Montepulciano, 50% Sangiovese. Fermentazione malolattica e affinamento sempre in acciaio. Sosta di 6-8 mesi in vasca poi assemblate le masse e imbottigliato.
Rosso Rubino carico con riflesso violaceo. La nota olfattiva è caratterizzata da profumi complessi di fiori, con una nota predominante di rosa e violetta poi frutta rossa ciliegia, fragola ma anche more e susina.
Finemente tannico al palato e con un’acidità perfettamente bilanciata. Un vino quotidiano che unisce il corpo del montepulciano all’eleganza del Sangiovese. Un best buy.
Paià 2016 , Rosso Piceno superiore Doc. 13,5 % vol. Montepulciano 70 %, Sangiovese 30 %. Vinificazione in acciaio poi affinamento in barrique usate solo per il Montepulciano. Il Sangiovese affina sempre in vasca di acciaio.
Colore Rubino carico e naso potente. Frutta rossa matura , caffè e una nota di spezia. Un vino dal corpo e dalla freschezza armoniose. Bello il tannino che si fa sentire senza invadere.
In bocca in prevalenza le durezze sulla parte morbida non stancano il palato. Un vino da pasto, da grigliata. Ottimo servito qualche grado sotto i canonici 18°.
AZIENDA AGRICOLA LE CANIETTE La realtà della famiglia Vagnoni è sicuramente una delle più conosciute qui nel territorio Piceno. Giovanni Vagnoni, seguendo le orme del nonno prima e del padre poi, nei primi anni ’90 entra in azienda e inizia a introdurre tutte quelle novità tecnologiche ed imprenditoriali che hanno reso Le Caniette conosciute ed apprezzate sul territorio e nel mondo.
Attualmente l’Azienda si estende per un totale di 20 ettari di cui vitati circa 16. Siamo a Ripatransone (AP) in una posizione limitrofa e perpendicolare al mare, le vigne godono di molti elementi favorevoli che le rendono uniche perché particolare è il microclima, come lo è la conformazione del terreno, composto da depositi sabbiosi e conglomeratici di tetto (Pleistocene inferiore). Un’azienda certificata biologica dal 1996.
I MIGLIORI ASSAGGI Lucrezia 2017 , Marche Passerina Igt. 12,5% vol. Bassa densità di impianto , siamo sui 400 ceppi per ettaro ma rese da 90/100 q/ettaro. dopo la vendemmia viene mantenuta per 10 gg a 0° C, sussegue diraspatura e spremitura molto soffice in assenza di ossigeno, pulizia dei mosti statica, fermentazione a temperatura controllata di circa 15 °C per circa 30 giorni. Affinamento in acciaio per circa 3 mesi.
E’ una Passerina diversa dalle solite scialbe e anonime che spesso si trovano in zona. E’ una bella bottiglia da ingresso di serata. Il colore è un giallo paglierino scarico ma il naso è intenso, ricco di frutta bianca fresca. In bocca sapidità e mineralità preparano la bocca e la stuzzicano. Discreta persistenza.
Chiediamo a Giovanni qual è quel tocco che rende questa Passerina una bottiglia che non passa inosservata e lui ci confida che dopo la spremitura del mosto fiore del pecorino circa 10/15 % della massa rimasta viene aggiunta alla Passerina conferendole quella struttura aromatica che per natura alla varietà manca. Piaciuta molto.
Morellone 2013 , Rosso Piceno Sup Doc. 13,5% vol ; 30% Sangiovese – 70% Montepulciano. Macerazione dai 6 ai 9 giorni in acciaio, affinamento e malolattica in barrique usate per 2 anni, un passaggio in cemento per fare la massa e poi ulteriori 2 anni di nuovo in acciaio. Terreno misto sciolto con presenza di calcare dai 280 ai 380 metri di altitudine.
Siamo sui 5000 ceppi per ettaro con rese di 60 quintali per ettaro. Rubino intenso, naso esplosivo caratteristico del montepulciano , marasca, prugna e spezia fino al cacao. In bocca è rotondo con corpo e struttura ben bilanciata dalla freschezza del Sangiovese.
Armonico al palato. Tannino giustamente levigato. Bella persistenza. Un gran vino, che si gusta meglio con qualche anno di bottiglia che lo rende ulteriormente armonico e leggero alla beva.
Cinabro 2013 , Marche Rosso Igt. 13,5 % vol. 100% Uva Bordò, (clone di Grenache) con piante di oltre 100 anni da un vigneto riscoperto poco distante dalla cantina. Vendemmia a fine agosto breve macerazione in tini di legno per 8 giorni, affinamento e malolattica in mezze barrique ( da 115 l) per 3 anni.
Poi sosta di un anno minimo in bottiglia. Cinquemila ceppi per ettaro a cordone speronato per una resa irrisoria di circa 12 quintali. Granato da manuale nel calice. Naso affascinante, mai sentita una china cosi netta.
Rabarbaro, chinotto, spezia, erba medicinale, poi agrume e un accenno di frutta rossa. E’ splendida l’evoluzione . In bocca è un fazzoletto di seta, entra elegante ed esplode. Sorso verticale dalla persistenza infinita.
La nota aranciata quasi da scorza essiccata ritorno sul finale donando freschezza e pulizia. Una bottiglia da bere con calma, senza fretta, anche fuori dal pasto. Una meraviglia.
Medico per vocazione e sommelier per passione. Mi sono poi riscoperto medico per passione e sommelier per vocazione. Sostieni il nostro progetto editoriale con una donazione a questo link.
Daniele Carlo Ricci Timorasso Derthona Colli Tortonesi Piemonte vino naturale 4 1024x768
COSTA VESCOVATO – Che poi, la vita, è un po’ per tutti come un’autostrada: piena di caselli. Ti fermi. Paghi. Se ti va bene ti danno il resto. E riparti. Altrimenti rimani lì. Fregato. Un infinito susseguirsi di stop and go. Da una parte chi dà. Dall’altra chi riceve. Fino alla prossima sbarra abbassata.
I panni del casellante, Daniele Ricci, se li è tolti volentieri. Nei primi anni Duemila. Per inseguire – fuor di metafora – un sogno chiamato Timorasso. Oggi, il 55enne vignaiolo è tra i riferimenti assoluti della piccola Denominazione piemontese portata in auge negli anni Novanta dal pioniere Walter Massa. Siamo sui Colli Tortonesi, in provincia di Alessandria. Per l’esattezza a Costa Vescovato.
Un campanile segna il paesaggio, all’orizzonte, tra le vigne appese alle colline che si alternano al bosco. Qualche sali e scendi e un tratto sterrato che macchia le gomme dell’auto di bianco, prima di raggiungere Daniele Ricci all’Agriturismo Cascina San Leto. Il “giocattolo” di famiglia, che suggella una vita di sacrifici, aperto due giorni a settimana, solo nel weekend.
I vini di Ricci, che oltre a diverse tipologie di Timorasso produce Barbera, Croatina e Nebbiolo, sono tra i più “naturali” della zona. Ma senza alcuna bandiera ideologica: “Avrei aderito alla Fivi – chiosa il vignaiolo – soprattutto per via dell’amicizia con Walter. Ma ultimamente hanno un po’ perso lo spirito iniziale e preferisco starne fuori, come sto fuori da qualsiasi altra associazione”.
Nessuna aggiunta di solforosa in cantina e rispetto massimo per il vigneto, con trattamenti che si riducono a rame e zolfo. Ma non è sempre andata così per il vignaiolo, che arriva all’appuntamento in pantaloncini corti e canottiera bianca, dalla vigna.
“Quando facevo ancora il casellante e la viticoltura era un’attività per così dire ‘secondaria’, portata avanti con mio padre – racconta Daniele Ricci – si lavorava come lavoravano gli altri: con la testa nel sacco. Senza porsi alcun problema ‘filosofico’. Non dimentichiamoci che siamo gente degli anni Ottanta, che ha bruciato tutto quello che poteva bruciare”.
“Io sono figlio del consumismo più sfrenato. Mio padre Filippo lavorava al Consorzio agrario. E per lui la novità erano i diserbanti ultimo modello, tutti i prodotti di sintesi che pensava fossero il meglio”
“Poi – continua il vignaiolo – il mio fisico particolarmente sensibile ha iniziato a dare i primi segni di cedimento. Davo i sistemici e sentivo una pressione al petto. Davo il diserbante nel grano e stavo male, pur indossando il casco per non respirarlo”. Ma la vera svolta è avvenuta alla nascita di Matteo (nella foto, sotto).
Oggi ha 22 anni e studia brillantemente enologia. “Da piccolo girava per i nostri campi, attorno all’attuale agriturismo. E io lo riprendevo: non puoi, non puoi! Una volta mi ha chiesto: perché non posso uscire? E da lì mi è scattata una molla. Ho detto basta. Succeda quel che succeda, basta con questi prodotti”.
“Ci dicevano che tutto sarebbe seccato – continua Ricci – senza l’aiutino dei sistemici. Ma era una balla. Era terrorismo. Ma fare vini naturali, per qualcuno, voleva dire fare vini con difetti. E ancora adesso, in certi contesti, essere biologici è penalizzante”.
Per questo non è presente alcun bollino sulle etichette dei vini di Daniele Ricci. Eppure l’azienda (15 ettari di cui 10 vitati, per 40 mila bottiglie complessive) è certificata biologica dallo scorso anno, al termine dei tre anni di conversione.
GLI ESORDI AL SUPERMERCATO
Nel percorso che ha portato Daniele Ricci ai fasti attuali, con la presenza di alcune sue etichette nelle carte del vino di molti ristoranti stellati, c’è anche un periodo nella Grande distribuzione organizzata.
“Erano gli anni Novanta – ricorda Ricci -. Grazie all’intermediazione di un broker abbiamo iniziato a lavorare con Finiper, ovvero Iper, la Grande i, che aveva capito l’importanza di avere in assortimento prodotti locali, quando ancora non era di moda al supermercato”.
Punti vendita come quelli di Tortona, Rozzano e Serravalle Scrivia, aiutano Ricci a farsi conoscere. “Ma mi sono accorto che non era il mio mondo. E ne sono uscito piuttosto velocemente, in quattro o cinque anni”.
“Nello stesso periodo, un’altra piccola catena di supermercati di Roma, oggi assorbita da Conad, volle i nostri vini. Il proprietario aveva anche un paio di enoteche nella capitale e ci commissionò due etichette diverse per i due canali, per lo stesso vino: un Timorasso”.
“Siamo andati avanti così, ancora per qualche anno. Tutto faceva mucchio: si portavano a casa due soldini e si reinvestivano. Tanto lo stipendio da casellante c’era. Mia moglie era tranquilla. Un anno compri la terra, un altro il trattore, un altro lo cambi: sempre senza soldi. Adesso è comico parlarne, ma allora no”.
Una svolta “naturalista”, quella di Daniele Ricci, che si può definire completata dalla realizzazione di una tettoia, immersa nel vigneto, sotto alla quale sono state interrate tre anfore da 10 ettolitri.
“La mia idea, anzi la mia fissa, era quella di fare il vino nella vigna. Fondamentale l’incontro con Josko Gravner, da cui andai negli Novanta, proprio con Walter Massa”
L’uva, raccolta nei vigneti attigui, viene diraspata e vinificata a “Chilometro zero” nei tre recipienti di terracotta di fabbricazione toscana, originari di Impruneta (FI). Nasce così “Io cammino da solo“, il Timorasso in anfora di Daniele Ricci. Cento giorni di macerazione sulle bucce e 12 mesi di affinamento ulteriore in botti di castagno.
Un vino non filtrato, non chiarificato. Ottenuto ovviamente con lieviti indigeni, così come tutti quelli di Daniele Ricci e della sua Azienda agricola di Costa Vescovato. Il tempo, sotto a quella tettoia, sembra essersi fermato al 1929.
L’anno in cui i nonni del vignaiolo, Carlo e Clementina, cominciarono a coltivare i terreni di marne Tortoniane di San Leto. Una calamita che ha riportato Daniele Ricci tra il verde dov’era cresciuto. Strappandolo anno dopo anno dall’asfalto del’autostrada.
LA DEGUSTAZIONE VsQ Metodo classico 2014 “Donna Clem”. Metodo classico base Timorasso, 36 mesi sui lieviti, dosaggio zero. La base è ottenuta dalla cuvée dalle uve di due cru: San Leto (vigne vecchie) e Giallo di Costa (90 giorni di macerazione sulle bucce).
Ad occuparsi della spumantizzazione è Dogliotti Vini 1870, cantina di Castagnole delle Lanze (AT) che ha nel suo portafoglio diverse realtà dell’Alta Langa. Le prove sono iniziate nel 2009, ma l’uscita sul mercato (con appena 2 mila bottiglie) risale al Vinitaly 2017.
Perlage fine, che stuzzica il palato in un gioco curioso con la “grassa” abbondanza del Timorasso. Il sorso, grazie al non dosaggio, mantiene tuttavia la verticalità che ci si deve aspettare dall’uvaggio. Finale amarognolo e salino, che racconta la fase fenolica di raccolta di un Timorasso spumantizzato ancora in fase di evoluzione.
Derthona 2016. Vinificato con macerazione di 3 giorni sulle bucce e affinamento di 12 mesi in botti di acacia da 700 litri. E’ il vino d’ingresso nell’universo di Daniele Ricci, che non a caso ha il colore dell’oro.
Un Eldorado chiamato Timorasso che qui mostra la sua faccia più giovane, ma non per questo timida. Darà il meglio di sé a partire dai prossimi tre-quattro anni, ma già oggi comincia a mostrarsi per quel che sarà.
Colli Tortonesi Doc 2013 “San Leto”. Eccolo qui, sua maestà il Timorasso. Vinificato con macerazione di 3 giorni sulle bucce, 12 mesi sulle fecce nobili e almeno 24 mesi di ulteriore affinamento in bottiglia.
Naso che si spinge a toni netti di idrocarburo che sono la cifra del vitigno. Un Timorasso giocato su una balsamicità che, per certi versi, ricorda quelli prodotti nell’unica sottozona della Denominazione, la Val Borbera (600 metri slm). Conservando tuttavia gli sbuffi florali tipici della media collina (300 metri slm).
Un palato che si diverte a esaltare a corrente alternata salinità e grassezza balsamica, evidenziando fasi larghe (quasi morbide) e fasi acide (dure) del sorso. Sinonimo di un nettare che migliorerà ulteriormente in vetro, ma solo per chi avrà il coraggio di conservarlo in cantina.
Giallo di Costa 2013. Il vino a cui è più affezionato il produttore. Timorasso vinificato con macerazone di 90 giorni sulle bucce a cappello sommerso e 24 mesi di affinamento in bottiglia.
Ci sentiamo di concordare con Ricci, perché quest è un vino che fa facilmente innamorare di questa straordinaria uva a bacca bianca autoctona dei Colli Tortonesi.
Un Timorasso semplice, tutto sommato. Giocato su intensi sentori erbacei, agrumati e di radice di liquirizia, con ottima corrispondenza naso-bocca. Pregevole la chiusura, carica e salina.
Rispetto 2017. Novanta per cento Sauvignon Blanc, completato da un 10% di Riesling italico. Tra le sperimentazioni del vignaiolo Daniele Ricci, anche questa, riuscitissima. Dimenticatevi, però, i tipici tratti del Sauvignon.
Soprattutto al naso, l’ottimo grado di maturazione di uve alla raccolta ha giocato in maniera fondamentale nella riuscita di un bouquet davvero seducente, quasi femminile. Si tratta, di fatto, del vino dalla beva più “easy” di Daniele Ricci.
Un complemento di gamma che non snatura la filosofia del produttore piemontese, dal momento che la macerazione di 20 giorni sulle bucce resta parte integrante della vinificazione.
Colli Tortonesi Doc 2012, Io Cammino da solo. Vinificato con macerazione di 100 giorni sulle bucce in anfore di terracotta interrate e ulteriore affinamento in botti di castagno, per 12 mesi. E’ l’orange wine di casa Ricci. Il vino, che al momento, sorprende di più.
Al naso l’impronta ossidativa è netta, ma integrata alla perfezione in un corredo di . Netti anche i sentori di legno, che contribuiscono a rendere avvolgente, anche al palato, questo orange di carezzevole potenza.
DUE NOVITA’ IN ARRIVO
In quel laboratorio a cielo aperto che sono le vigne di Daniele Ricci, sono due le novità in arrivo. La prima sarà “C.C.C.”, che sta per “Come un Cane in Chiesa”. “E’ come mi hanno fatto sempre sentire, anche prima di trasformarmi in una specie di santone. Io ero, sono e resterò sempre un cretino: un uomo semplice!”, spiega il vignaiolo.
Vendemmia 2011 per il Timorasso “C.C.C.”, che sarà imbottigliata a febbraio. Si tratterà del capitolo 2, dopo “Rebus”, l’etichetta enigmatica che riportava gli anni di nascita dei componenti della famiglia Ricci (in quel caso di trattava di un Timorasso in magnum, dimenticato in cantina, al buio completo, per 8 anni).
La seconda novità si tinge di rosso. Sarà un Nebbiolo particolare. “Una prova”, che aspira a sondare le capacità dei Colli Tortonesi di produrre etichette in grado di fronteggiare le Langhe, in termini di finezza. Un’evoluzione, insomma, dell’attuale Nebbiolo “San Martino” di Daniele Ricci.
L’affinamento in 14 barrique delle vendemmie 2016 e 2017 è tuttora in corso: il vino non sarà messo in commercio prima di 4 anni. Per assaggiarlo, dunque, bisognerà attendere il 2020. Non resta che aspettare.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
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TRENTO – Non si arresta la crescita del gruppo Lunelli in Italia, forte anche di tanti successi a livello internazionale. Dopo la grappa Segnana e l’acqua Surgiva, la famiglia proprietaria di Ferrari Trento segna un altro colpo in città: l’acquisizione del marchio dell’amaro Re Laurino.
“Dell’Elmo Saracini, famoso per la sua grappa e per il suo amaro Re Laurino, ci ha espresso la volontà di vendere. Gli amari hanno ricominciato ad essere apprezzati ultimamente. E così abbiamo accettato la proposta, acquistando l’azienda”.
Parole di Franco Lunelli in esclusiva a vinialsuper, durante il nostro tour delle Tenute di proprietà della famiglia trentina che ha dato il via al sogno di produrre “uno spumante capace di competere con lo Champagne, in Italia”.
Dalle finestre della sede di Ferrari Trento si scorge, in lontananza, la distilleria Tschurtschenthaler dell’Elmo Saracini, ormai di proprietà della terza generazione Lunelli. Situata a soli 7,3 chilometri da via del Ponte: 10 minuti di strada, in auto.
I Lunelli inizieranno a produrre l’amaro dal prossimo anno, dopo aver rilevato il marchio Re Laurino – legato tra l’altro a una delle più note leggende del Trentino, tramandata soprattutto in Val di Fassa – “senza modificare la ricetta originale”.
Il liquore “Re Laurino”, “digestivo e aperitivo”, è il simbolo della storica casa di Povo di Trento: “Un Elisir creato da Mario Tschurtschenthaler dell’Elmo. Il primo commercializzato dalla famiglia”. Presentato tuttora con l’etichetta originale degli anni Cinquanta. E’ la “Riserva dell’Elmo Saracini”, il prodotto di punta.
“So che i ragazzi hanno in mente qualcos’altro – chiosa Franco Lunelli – ma questo ve lo racconteremo la prossima volta!”. In realtà, le novità annunciate a vinialsuper non finiscono qui.
IN ARRIVO ANCHE NUOVI VINI ROSSI La crescita del brand Lunelli si concentrerà anche sul core business: il settore wine. Tenuta Podernovo, in Toscana, si prepara di fatto alla presentazione di due nuove etichette di vino rosso fermo.
Il tutto avverrà tra la fine di settembre 2018 e i primi mesi del 2019, per un totale di 7-8 mila bottiglie complessive. Si tratterà di un Cabernet Franc (vinificato in barrique nuove) e di un Sangiovese (tonneaux, barrique, botte grande), vinificati in purezza.
“La Denominazione sarà ‘Igt Costa Toscana’, che affiancherà l’Igt Toscana e comprende i territori di Massa, Lucca, Livorno, una parte della provincia di Pisa e Grosseto”, anticipa l’enologo trentino Corrado Dalpiaz, emissario dei Lunelli nel pisano dal 2001 e colonna portante dell’enologia italiana.
Le due etichette saranno delle vere e proprie “chicche” destinate all’Horeca, che affiancheranno gli ormai collaudati “Aliotto” e “Teuto”, presenti anche in Gdo (Esselunga e Il Gigante). “Due vini ottenuti da selezioni delle migliori uve dei nostri vigneti di 15 anni, in occasione della vendemmia 2015 a Tenuta Podernovo”.
IL GRUPPO
Ferrari Trento, azienda che da sola rappresenta la fetta più importante del Gruppo Lunelli, è ormai simbolo del Made in Italy e dello stile di vivere italiano nel mondo. Conta oggi 5,4 milioni di bottiglie prodotte, con l’export al 15%.
Ferrari fu pagata 30 milioni di lire al momento del suo acquisto. Oggi il fatturato si assesta su 71 milioni di euro (+12% rispetto al 2016). Sale a 100 milioni il fatturato complessivo del Gruppo Lunelli, che cresce del 7% rispetto al 2016 e commercializza, in totale, 11 milioni di bottiglie.
Un impero che comprende anche la casa prosecchista Bisol di Valdobbiadene, la storica distilleria trentina Segnana e Surgiva, brand di acqua che sgorga nel Parco Naturale Adamello Brenta, scelta dall’Associazione Italiana Sommelier (Ais) e destinata alla migliore ristorazione.
Tra i recenti successi riconducibili alla famiglia Lunelli, anche la freschissima elezione di Mirko Scarabello (prima responsabile di produzione e poi direttore tecnico e mastro distillatore di Segnana) a presidente dell’Istituto di Tutela Grappa del Trentino.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
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Dalla capitale Ferrari, Trento, ai feudi di Podernovo (Terricciola, Toscana) e Castelbuono (Bevagna, Umbria). E’ un triangolo ideale quello che unisce le Tenute Lunelli, dal nord al centro Italia.
Un tour di 584 chilometri, macinati (volentieri) per raccontare l’idea imprenditoriale di una delle famiglie del vino più eleganti e illuminate del Paese. Capace di rinnovarsi e, al contempo, restare saldamente attaccata alle tradizioni più genuine.
Alle classiche “bollicine” Trento Doc, di cui è simbolo Ferrari, la terza generazione della famiglia Lunelli ha voluto affiancare la produzione di vini rossi fermi. Lo ha fatto scegliendo due delle zone più vocate d’Italia: i Colli Pisani (Tenuta Podernovo) e l’Umbria (Tenuta di Castelbuono, 35 Km a sud di Perugia).
Nei primi anni Duemila, entrano così nel “portafoglio” dei Lunelli il Sangiovese, il Merlot e il Cabernet Sauvignon toscano. E il Sagrantino umbro. Tutti vitigni nobili, capaci di raccontare come pochi il terroir d’appartenenza.
Per i vini bianchi fermi, del resto, la famiglia Lunelli si affida all’ormai collaudatissima Tenuta Margon, a meno di 5 Km dalla sede produttiva trentina di via del Ponte, 15.
Chardonnay, Pinot Nero, Sauvignon, Incrocio Manzoni e Pinot bianco i vitigni allevati in un contesto mozzafiato, tra le ripide colline che dominano la valle scavata dal fiume Adige.
Insomma: anche se il tour delle Tenute Lunelli è ancora affidato alla buona volontà dei visitatori (è allo studio un servizio di collegamento “istituzionale”, che coinvolgerà in una prima fase la cantina toscana e quella umbra) i chilometri da affrontare in auto sembrano un lontano ricordo, una volta giunti alle varie destinazioni.
L’accoglienza, in loco, è garantita in particolare in Toscana: Casale Podernovo costituisce infatti l’opera di recupero delle case dei fattori, restaurate e rese ancora più accoglienti dalla presenza di una splendida piscina, con vista sui vigneti.
In Umbria, Tenuta Castelbuono di Bevagna è invece l’opera del maestro Arnaldo Pomodoro: il Carapace. Una cantina a forma di guscio di tartaruga la cui parte esterna sta mutando nel tempo, sotto l’azione degli agenti atmosferici che stanno ossidando le placche di rame. Integrando sempre di più l’edificio con l’ambiente circostante.
Qui l’accoglienza non è prevista. Ma tutt’attorno è un tripudio di piccoli e grandi alberghi. Di borghi e di viuzze caratteristiche. Di monumenti e di ristoranti-enoteche, come l’Osteria Antiche Sere di Luciano Sabbatini, da visitare per testare la vera cucina locale.
Anche in Trentino, ovviamente, l’offerta ricettiva non manca. Con la possibilità di scegliere una struttura nell’accogliente città di Trento o negli ancora più tranquilli dintorni, spingendosi verso la vicina e bella Rovereto.
TENUTA PODERNOVO Il nostro tour inizia dalla Toscana. Da un paesello di 4.500 abitanti, Terricciola, che sta ai Colli Pisani come Greve sta al Chianti. Ad accompagnarci nella visita di Tenuta Podernovo c’è un pezzo di storia dell’enologia italiana: Corrado Dalpiaz. Tessera numero 63 di Assoenologi.
“Tanto per i pomi torna”: la madre di Corrado, nel 1968, rassicurava così il marito. Era convinta che il figlio, diplomatosi a San Michele all’Adige (classe 6ª S) e in partenza per il suo primo “viaggio-lavoro”, sarebbe tornato a breve, per la raccolta delle mele (i “pomi”, appunto).
L’enologo trentino, invece, ha trovato in Toscana la sua nuova patria. Prima a Montescudaio, dove contribuì a istituire l’omonima Doc. Poi a Podernovo. “Fu Mauro Lunelli a chiamarmi – spiega Dalpiaz – nel 2000. Forte della nostra decennale conoscenza, dal momento che a San Michele eravamo compagni di banco, mi colpì al cuore, proponendomi di guidare il progetto delle tenute toscane”.
Sessanta ettari complessivi, di cui 25 vitati per il 70% a Sangiovese. Seguono Merlot, Cabernet Sauvignon e Franc. Un ettaro è destinato al re dei vitigni a bacca rossa del Trentino: il Teroldego. “Abbiamo scoperto che ne è permessa la coltivazione sui Colli Pisani e lo abbiamo voluto, quasi per forza di cose, nei nostri vigneti”.
Il Teroldego, di fatto, svolge a Podernovo la funzione del Colorino: con i suoi antociani, “trentinizza” (anche se in minima parte, con 1-2% di addizione nei blend) i vini rossi prodotti a Terricciola.
In vigneto, le pratiche sono quelle dell’agricoltura biologica. La certificazione arriverà a breve: il percorso – fortemente voluto da Marcello Lunelli che, dopo Trento, mira a estenderlo a tutte le Tenute – è iniziato nel 2009. Trattamenti di solo rame e zolfo, utilizzo di insetti antagonisti e pratica del sovescio sono ormai una consuetudine.
La novità, introdotta per la prima volta in Italia nel 2005 dalla famiglia Lunelli, proprio a Podernovo, è l’utilizzo di un macchinario che consente di stabilire lo stato di “salute” delle piante.
“Un sistema a infrarossi – spiega Dalpiaz – che ci aiuta a capire quando e dove raccogliere esattamente l’uva, attraverso una stima scientifica della vigoria del singolo ceppo”.
Ne scaturisce una mappa, con chiazze di diversi colori. Le aree identificate con il colore verde sono quelle del “Libro dei sogni”. Da lì, sotto la guida del responsabile dei vigneti, Filippo Accardi, le squadre di vendemmiatori raccoglieranno le uve destinate ai “cru” di Podernovo.
Ci spostiamo poi in cantina, dove l’ultima novità sono le anfore e gli orci di Manetti, su cui sono in corso alcuni esperimenti (in particolare sul Sangiovese, con buoni risultati). Splendida e moderna la struttura, in cui non manca un collegamento con il Trentino.
A partire dalla progettazione, riservata allo studio di architettura Giorgio e Luca Pedrotti. Passando per i materiali: il tetto in legno, perfettamente abbinato al “sasso” recuperato nelle campagne circostanti, riporta alla mente la tipica ambientazione montana. Moderna e funzionale anche la barricaia, inaugurata nel 2005.
LA DEGUSTAZIONE
I vini prodotti a Tenuta Podernovo (150 mila bottiglie complessive) sono Aliotto (60% Sangiovese, 20% Cabernet Sauvignon, 20% Merlot) e Teuto (65% Sangiovese, 30% Merlot, 5% Cabernet Sauvignon).
Ma due nuove etichette completeranno l’offerta tra fine settembre 2018 e gli inizi del 2019. Per un totale di 7-8 mila bottiglie. Si tratta di un Cabernet Franc (barrique nuove, il primo che sarà presentato) e di un Sangiovese (tonneaux, barrique, botte grande), entrambi vinificati in purezza.
“La Denominazione – anticipa l’enologo Dalpiaz – sarà ‘Igt Costa Toscana’, che affiancherà l’Igt Toscana e comprende i territori di Massa, Lucca, Livorno, una parte della provincia di Pisa e Grosseto. Sono due selezioni delle migliori uve identificate in mappa come ‘Libro dei sogni’, ottenute da vigneti di 15 anni, in occasione della vendemmia 2015”.
Entrambi i vini degustati convincono, per motivi diversi. Ma il fil rouge che li lega è evidente. La grande eleganza e finezza, coniugata in maniera più “pop” in Aliotto e in versione “luxury” in Teuto.
Aliotto, acquistabile anche al supermercato (è presente per esempio nell’assortimento Esselunga e in quello de Il Gigante) è un vino rosso che si presta anche a un consumo “estivo”, a una temperatura più fresca rispetto al consueto.
Di Teuto degustiamo la vendemmia 2015. Vino più complesso e gastronomico rispetto al “fratello minore” Aliotto (2 anni in legno e 6 mesi in bottiglia, prima della commercializzazione) perfetto per abbinamenti più complessi in cucina.
Splendida la trama tannica, ben definita al palato, capace di mostrare ulteriori margini di miglioramento del nettare. Quelli che sono evidenti in Aliotto 2001, il vero “colpo di scena” della degustazione guidata da Dalpiaz.
Un vino che non è in commercio, di cui i Lunelli conservano gelosamente alcune decine di bottiglie per le occasioni speciali. Il colore tiene, evidenziando sfumature solo vagamente granate.
Il naso si apre su un ventaglio infinito di profumi, dalla terra bagnata al tartufo, passando per il frutto rosso, la macchia mediterranea e i richiami balsamici.
Il palato non delude: il tannino di pura seta accompagna una beva giocata su frutta, mineralità e balsamicità. Chapeau. Un rosso che ricorda, per certi versi, i Brunello del versante grossetano.
TENUTA CASTELBUONO Dicono tanti testimoni che, durante la realizzazione del Carapace, quest’angolo di Umbria disegnato col pennello sulle colline di Bevagna (PG) fosse capace di ricordare le scene immortalate in certi quadri rinascimentali.
Una “bottega” a cielo aperto. Fra 30 ettari di vigneti. Un vespaio di artisti, architetti, progettisti e operai. Tutti guidati dal maestro Arnaldo Pomodoro. E’ il 2001 quando la famiglia Lunelli dà inizio ai lavori del Carapace, aperto al pubblico nel 2012.
Una vera e propria cantina-opera d’arte, capace di coniugare come poche l’idea di “Bello” e di “Buono”. Dalla spina vertebrale centrale si dipanano le volte, che poggiano a terra sinuose e leggere, grazie alla dinamicità delle ampie vetrate.
Un edificio vivo, dall’anima aperta e accogliente: il cuore è la barricaia, raggiungibile discendendo una rampa di ampie scale vorticose. Un’ambientazione idilliaca ospita le botti di legno, sotto al livello del terreno. Ma le pareti sono azzurre, illuminate. E ricordano il cielo, in una bella giornata di sole.
All’esterno, un dardo rosso conficcato nel terreno segnala la presenza del Carapace a diversi chilometri di distanza. Un punto, nel terreno. L’ennesimo collegamento tra un’estetica divina e ciò che c’è di più terreno: il suolo. E gi uomini che lo popolano.
LA DEGUSTAZIONE Ammaliati da tanta bellezza, il vino non può che completare un’esperienza che non è eccessivo definire “mistica”. I vini di Tenuta Castelbuono sono in evoluzione, ancor più dei rossi di Podernovo.
E non è solo una questione di uvaggio (il Sagrantino richiede e merita un lungo affinamento, per le sue caratteristiche).
L’arrivo del noto enologo Luca D’Attoma, nel 2015, ha portato a un vero e proprio cambio nella gestione del legno rispetto alle scelte precedenti di Ruben Larentis.
Il sorso delle ultime vendemmie di Carapace (Montefalco Sagrantino Docg), Lampante (Montefalco Rosso Riserva Doc) e Ziggurat (Montefalco Rosso Doc) è più internazionale e moderno. Ziggurat e Carapace, acquistabili anche al supermercato (Esselunga e Il Gigante) sono i vini umbri più “pronti” della Tenuta Castelbuono.
Nonostante ciò, mostrano ampi margini di ulteriore miglioramento in bottiglia, in linea con le caratteristiche dei rossi dell’area di Montefalco. Lampante 2014 è il vino top di gamma, che va ancora aspettato per esprimersi al meglio nel calice.
FERRARI TRENTO – TENUTA MARGON La “casa madre”, dove tutto ebbe inizio. E’ il 1902 quando Giulio Ferrari, appassionato imprenditore trentino, decide di iniziare a produrre un vino capace di competere con lo Champagne.
Un vino autentico, in grado di valorizzare la tipicità locale. Quale vitigno migliore dello Chardonnay, portato a Trento in seguito ad alcuni viaggi studio in Francia? I soldi non mancano a Giulio, di famiglia benestante e proprietaria di parecchi vigneti. Le attrezzature, seppur rudimentali, consentono il miracolo.
Le bollicine Ferrari – commercializzate all’epoca come “Champagne Maximum Sec G. Ferrari” – iniziano a far parlare l’Europa e poi l’Italia.
Che le apprezza e le consuma, prosciugando le scorte della piccola cantina ricavata nel seminterrato di un palazzo, nel centro di Trento.
Per l’esattezza in via Rodolfo Belenzani. A cento passi dal Duomo, la Cattedrale di San Vigilio. Col passare degli anni la domanda aumenta. E così l’affermazione del brand.
Soprattutto dopo la scoperta che le “bollicine” Ferrari migliorano nel tempo. E’ il 1945. Il muro eretto davanti all’ingresso della cantina per evitare saccheggi durante la Seconda guerra mondiale custodisce intatte le vendemmie 1937, 1938 e 1939.
Nasce così la prima riserva Ferrari. Da vini perfetti, rimasti in forma smagliante. Chi invecchia è il suo ideatore, che nel 1952 si decide a cedere l’attività a un giovane enotecario del posto, sicuro che avrebbe saputo valorizzare quel patrimonio come nessun altro. Quel giovane si chiama Bruno Lunelli.
Nasce così la Ferrari Trento, simbolo del Made in Italy e dello stile italiano nel mondo. La produzione passa dalle circa 12 mila bottiglie ai 5,4 milioni attuali (export al 15%).
La famiglia Lunelli, negli anni, coinvolge professionisti di tutti i settori (dal marketing all’arte, per intenderci) all’interno di un progetto a tutto tondo che forse, trova proprio nel Carapace umbro l’immagine più fulgida. La sua sinesi metafisica.
La terza generazione viene inglobata senza forzature all’interno di una “macchina da guerra” commerciale che fonda tutto sulla semplicità della qualità.
Marcello, Matteo, Camilla e Alessandro si formano nelle maggiori realtà internazionali e tornano “a casa” per scelta. Una famiglia del vino in cravatta (e tailleur) che sa valorizzare i propri dipendenti, premiati ogni anno con incentivi.
Non solo economici, ma anche umani: vietato non dare del “tu” al capo, incontrandolo tra i corridoi della Ferrari. Uno stile riassunto perfettamente da Franco Lunelli (nella foto) che incontriamo per un’intervista.
“Diciamo che negli anni ci è andata abbastanza bene – scherza il classe 1935 – se pensiamo che tutto ha avuto inizio dalla bottiglieria aperta da mio padre in un periodo simile a quello odierno, in cui tutti chiudevano”.
Bruno Lunelli fu il primo a proporre in zona “il vino da asporto”. “Andava casa per casa, coi fiaschi. E ne vendeva 15 ettolitri al giorno. Vino a un prezzo onesto, ma di qualità”.
Franco Lunelli ricorda ancora bene il giorno in cui il padre annunciò alla famiglia l’acquisto della Ferrari: “L’ho comprata perché si può incrementare, ci disse. Il signor Giulio vende 10 mila bottiglie l’anno. Ho firmato le cambiali e voi le pagherete per tutta la vita”. “Ci è andata bene anche in quel caso – continua a scherzare Franco Lunelli – perché abbiamo finito prima!”.
La Ferrari fu pagata 30 milioni di lire. Sette volte il suo fatturato. Oggi questa cifra si assesta su 71 milioni di euro (+12% rispetto al 2016). Sale a 100 milioni il fatturato complessivo del Gruppo Lunelli, che cresce del 7% rispetto al 2016 e commercializza, in totale, 11 milioni di bottiglie.
Un impero che comprende anche la casa prosecchista Bisol di Valdobbiadene, la storica distilleria trentina Segnana e Surgiva, brand di acqua che sgorga nel Parco Naturale Adamello Brenta, scelta dall’Associazione Italiana Sommelier (Ais) e destinata alla migliore ristorazione.
CUCINA GOURMET. E DAL 2019 L’AMARO Un ramo, quest’ultimo, che completa l’offerta trentina di Ferrari. Poco lontano da Villa Margon e dall’omonima Tenuta che dà vita ai vini fermi a marchio Lunelli, si trova infatti Locanda Margon.
Un paradiso per il palato guidato dallo chef Alfio Ghezzi (due stelle Michelin), dove è possibile godere di un menu ricercatissimo, servito nel cuore dei vigneti. Ma non finisce qui. Manca l’amaro, per restare in tema ristorazione.
Anzi, mancava. “Nell’autunno scorso – spiega Franco Lunelli – l’amico Dell’Elmo Saracini, famoso per la sua grappa e per il suo amaro Re Laurino, ci ha espresso la volontà di vendere. Gli amari hanno ricominciato ad essere apprezzati ultimamente. E così abbiamo accettato la proposta, acquistando l’azienda”.
Ferrari Trento inizierà a produrre l’amaro dal prossimo anno, rilevando il marchio Re Laurino – legato a una delle più note leggende trentine – senza modificare la ricetta originale.
“So che i ragazzi hanno in mente qualcos’altro – chiosa Franco Lunelli – ma questo ve lo racconteremo la prossima volta!”. E allora arrivederci, ragionier Franco. Prosit!
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Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Borghese abbazia con Birra Leffe chi si beve lo spot 1024x576
Da poco più di un mese è in rotazione sulle principali reti televisive e sui social la nuova campagna pubblicitaria di Birra Leffe. Protagonista degli spot lo chef e personaggio televisivo Alessandro Borghese.
La serie di spot (spot 1, spot 2, spot 3) gioca su parole che evocano concetti di tradizione, scoperta, storia e cultura. Le immagini fanno altrettanto, con riprese ambientate all’interno dell’abbazia belga di Leffe e la presenza di un monaco – tale Frate Hervé – che spiega a chef Alessandro Borghese le caratteristiche della birra dell’abbazia.
Nulla di male in tutto questo. Non fosse per un dettaglio: la Birra Leffe non è prodotta in monastero, non è prodotta dai monaci e di tradizionale, ormai, le è rimasto ben poco! Leffe è infatti un marchio prodotto da AB InBev, la più grande multinazionale della birra. Un prodotto industriale.
Nulla contro Birra Leffe in sé, capace di proporsi sul mercato con etichette più che dignitose – specie al supermercato – dall’interessante rapporto qualità prezzo. Birre di cui già ci siamo occupati anche noi di vinialsuper, recensendo positivamente le versioni Royale Whitbread Golding e Royale Mount Hood (ed altre ne seguiranno).
Troviamo però fuorviante accostare il marchio Leffe all’ambientazione monastica. Il rischio è quello di illudere il “consumatore medio”. Occorre quindi fare un minimo di chiarezza su cos’è la “birra d’abbazia” e su quali birre sono effettivamente prodotte da una comunità monastica e quali, invece, no.
BIRRA TRAPPISTA E BIRRA D’ABBAZIA Esistono infatti birre prodotte da Abbazie. Sono le così dette “Birre Trappiste”, prodotte da monaci Cistercensi della Stretta Osservanza (o Trappisti). Una birra, per potersi definire “Trappista”, deve rispondere a tre regole.
Deve essere prodotta all’interno delle mura di un’abbazia trappista, da parte di monaci trappisti o sotto il loro diretto controllo
La produzione e l’orientamento commerciale devono dipendere direttamente dalla comunità monastica
I ricavi devono essere destinati al sostentamento dei monaci ed alla beneficenza
Sono 11 i monasteri al mondo che rispondono a queste regole (6 in Belgio, 2 in Olanda, uno in Austria, uno negli USA ed uno in Italia). Le loro birre le riconoscete facilmente: riportano in etichetta il logo esagonale “Authentic Trappist Product”.
Differente discorso per le “Birre d’Abbazia” (come Leffe). Queste sono birre industriali che si fregiano del nome e marchio di una Abbazia, con o senza accordi commerciali con monasteri esistenti o estinti.
Birre che non necessariamente si rifanno a ricette tradizionali di quell’abbazia. Per esempio proprio le due sopra citate, Leffe Royale Whitbread Golding e Royale Mount Hood, o la nuova Leffe Ambrèe (lanciata da Borghese e Leffe attraverso i nuovi spot) rispondono a ricette di recente concezione, nate per soddisfare determinati segmenti di mercato.
LA STORIA DI LEFFE La storia di Leffe ci aiuta a capire come un prodotto, nato fra le mura di un’abbazia, sia diventato un prodotto industriale. Fondata nel 1152, l’abbazia di Notre Dame de Leffe a Leffe, oggi quartiere di Dinant in Vallonia, iniziò a produrre birra nel 1240.
Lo scopo era quello di ottenere una bevanda sana, in un periodo di continue e pericolose epidemie. L’abbazia conobbe periodi di crescita e splendore fino alla rivoluzione francese, durante la quale il birrificio venne distrutto.
La produzione di birra ripartì solo nel 1952, grazie alla collaborazione con un birrificio di Bruxelles, successivamente acquisito dalla multinazionale AB InBev.
LUCI ED OMBRE Un’iniziativa pubblicitaria a chiaroscuri, quindi. Accostare il nome di Leffe ai valori ed alla tradizione brassicola monacale nordeuropea è, evidentemente, una forzatura prettamente commerciale.
Dall’altro lato il fatto che uno chef “televisivo” come Alessandro Borghese metta il volto a favore di una birra che, una volta tanto, non sia la solita lager bionda, può nobilitare (speriamo) la percezione della birra al grande pubblico.
Luci ed ombre. Ombre poiché viene da chiedersi se, in un Paese che conta quasi mille birrifici artigianali che costantemente cercano tipicità e particolarità nelle loro produzioni, chef, influencer, critici gourmet e personaggi televisivi vari non possano – una volta tanto – spendere una parola a favore di un movimento in continua crescita. In continuo fermento (ci sia perdonato il gioco di parole).
Quando lo chef Carlo Cracco ha associato il proprio volto agli spot delle patatine della milanese San Carlo, da ogni dove si sono sollevate critiche. Operatori del settore e semplici consumatori sono rimasti interdetti di fronte al binomio “chef stellato – patatine in busta”.
Perché non capita altrettanto col binomio “chef – birra commerciale“? Probabilmente perché nessuno considera la birra un bene che possa essere “non commerciale”, un bere “nobile”. Ci auguriamo che questa serie di spot possa contribuire ad uscire da questa errata percezione.
Luci, quindi. Luci all’orizzonte. Vogliamo sperare che a partire da Borghese molti chef, stellati o meno, vogliano iniziare a trattare la birra alla pari del vino. Ad inserirla nelle proprie carte dei vini col rispetto che merita.
A considerarla negli abbinamenti coi loro piatti. A considerarla come ingrediente di cucina non solo per lo “stinco alla birra”. Avete notato la penuria di offerta brassicola nelle carte dei vini dei ristoranti?
E pensare che ogni regione italiana ha vari birrifici artigianali che fanno della territorialità (o anche dell’internazionalità) il loro punto di forza. Basterebbe davvero un minimo sforzo per iniziare a valorizzarli anche all’interno della ristorazione.
Ci piace pensare che anche una campagna pubblicitaria “furba”, come quella di Leffe, possa in qualche modo aiutare il mondo il della Birra ad uscire dall’anonimato.
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Borghese in abbazia con Birra Leffe chi si beve lo spot
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MILANO – Cosa ci fanno una decina di chef con il presidente della Milano Food Week, in un supermercato Pam di Milano? Semplice: la spesa. Ma non una spesa qualunque. Sabato e domenica 5 e 6 maggio e 12 e 13 maggio il carrello della spesa serve ad aiutare i più bisognosi.
L’iniziativa benefica, voluta da Federico Gordini in collaborazione con chef del calibro di Roberto Valbuzzi, Wicky Priyan, Yoji Tokuyoshi, Ernst Knam, Andrea Berton, Galileo Reposo e Viviana Varese, sarà valida in nove supermercati Pam Panorama di Milano e nell’unico punto vendita di Rozzano, Comune della periferia Sud Ovest milanese.
Si potranno donare i propri acquisti (generi alimentari di prima necessità) ai volontari di cinque associazioni (Caritas Ambrosiana, Ciessevi Milano, EquoEvento, Opera Cardinal Ferrari, Solidando) presenti all’uscita dei punti vendita.
Non a caso, il teaser dell’iniziativa benefica della Milano Food Week è stato girato all’interno del Pam Supermercato di via Strigelli 8, a Milano. Pam è infatti main sponsor della #MFoodW 2018, appuntamento giunto ormai alla sua nona edizione nel capoluogo lombardo.
I DETTAGLI
Una settimana di eventi (7-13 maggio) incentrati su “Kitchen tematiche” sparse per la città di Milano. “Luoghi dove vivere esperienze enogastronomiche esclusive – spiega il presidente Federico Gordini – associati a contesti e stili di vita diversi da cui prenderanno il nome: City Kitchen, Public Kitchen, Student Kitchen, Home Kitchen, Special Kitchen, Lifestyle Kitchen, Healthy Point”.
Ogni Cucina ospiterà emozionanti “StoryCooking” – ovvero showcooking che incontrano lo storytelling dei prodotti – tenuti da celebri Chef stellati e food blogger, come Enrico Bartolini, Ernst Knam, Alessandro Negrini e Fabio Pisani. Saranno raccontati piatti esclusivi da “portare a casa”, a partire dalla loro personale “Lista della Spesa”.
“Da qui – sottolinea l’organizzazione della Milano Food Week – il Carrello della Spesa diventa il protagonista ed il trait-d’union tra le diverse esperienze in città di questa edizione. Luogo virtuale in cui inserire la propria lista della spesa e interrogarsi sulle scelte alimentari che ciascuno di noi compie nella quotidianità. Scelte sulle quali porre maggiore consapevolezza e responsabilità”.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
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E’ arrivato il momento di fare un po’ di chiarezza. Perché dai commenti che si leggono in giro, soprattutto ad opera dei tanti leoni da tastiera che abitano le “tane” chiamate “social”, pare di intuire il palesarsi di una contraddizione che non ha senso di esistere.
E’ possibile fare cronaca giornalistica nel mondo del vino? Noi di vinialsuper crediamo di sì.
Cosa intendiamo per “cronaca”? Il racconto reale, oggettivo, non solo di un calice di un vino. Di una degustazione. Ma anche delle “notizie” legate al mondo del vino.
All’uscita dell’articolo su Josko Gravner siamo stati subissati di critiche pubbliche e di complimenti privati. Già, perché l’Italia è quel Paese dove si ha paura – in 9 casi e mezzo su 10 – di schierarsi apertamente con qualcuno, specie se si tratta di una posizione “scomoda”.
Ma in privato, via Whatsapp, o via Messenger, è tutto un fioccare di complimenti e incoraggiamenti: “Avanti tutta”. Tra chi ti manda al macello con una spinta e chi ti critica per partito preso, senza neppure conoscerti, non so chi preferire.
E allora, a qualcuno, servirà sapere che vinialsupermercato.it è diventata per scelta, dal luglio 2017, una testata giornalistica registrata in tribunale. Trasformandosi da un comune “wine blog” a qualche cosa di più, giuridicamente riconosciuto.
A qualcuno servirà sapere che da allora abbiamo collezionato almeno 5 minacce di querela per gli scomodi articoli pubblicati, due delle quali si sono tramutate in realtà: procedimenti in corso di cui vi terremo aggiornati, a tempo debito.
Possiamo solo dirvi che si tratta di articoli documentati con tanto di registrazioni e testimonianze. E aggiungere che, in Italia, qualsiasi testata seria deve fare i conti con querele e minacce: perché non viviamo in un Paese dove la stampa viene tutelata a dovere dalle istituzioni.
E la querela, in certi casi, vale quanto una pallottola: stordisce il giornalista, lo intimidisce, gli fa perdere la voglia di lottare per la verità, nel nome del rispetto nei confronti dei lettori.
Ecco il punto: il rispetto nei confronti di chi ci legge è l’unico paletto che vige nella redazione di vinialsuper. Un rispetto che vogliamo garantire tanto nelle recensioni dei vini quanto nel racconto dei “fatti di cronaca del vino” di cui siamo testimoni.
E allora basta accusarci di essere “di parte” perché la testata si chiama “vinialsupermercato.it”. Basta accusarci di esserci a caccia di like. A noi non frega niente fare gli “influencer”: lo lasciamo fare ad altri, molto più bravi di noi a “influenzare” (verbo orribile per chi intende fare pura informazione).
Ma ditecelo voi: stiamo sbagliando qualcosa nel tentativo di portare la cronaca giornalistica nel mondo del vino? E’ un approccio troppo “violento” e “aggressivo” nei confronti di un mondo che troppo spesso vive di “edonismo”? Vino e cronaca sono due mondi conciliabili? Una cosa si sappia: a noi piace stare scomodi.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
VERONA – Vinitaly in versione “Fast and Furious” quest’anno per la nostra redazione, al termine di una settimana di degustazioni in giro per mezza Italia (visita alle tre Tenute Lunelli, poi ViniVeri e VinNatur, prima della domenica d’apertura della Fiera veronese).
Tutti momenti che vi racconteremo quanto prima. Oggi è il turno dei migliori vini scovati a Vinitaly 2018. Eccoli di seguito, nel consueto ordine: dalle “bollicine” ai rossi.
SPUMANTI Spumante Millesimato Pas Dosè 2016, Tenuta Sarno 1860. Sua maestà il Fiano di Avellino, in una versione spumantizzata degna delle geometrie di Kandinsky. Punto, linea e superficie, tutte in un sorso.
Si parte di fatto da un’ottima base. Quella del vigneto “Giardino”, a Candida (AV), il più alto in Irpinia destinato a varietà a bacca bianca (650 metri sul livello del mare). Per la produzione dello spumante, Maura Sarno e il suo entourage scelgono il versante nord ovest, meno esposto al sole rispetto a quello destinato al Fiano fermo.
Punto, linea e superficie si incontrano così in un calice che si veste d’un giallo luminoso, rinvigorito da un perlage fine e vivace, glitterato. Il naso cattura con i suoi richiami agrumati e taglienti di lime e bergamotto.
La balsamicità espressa dalle note di salvia dà un tono ancora più fine, assieme a misurate tinte di miele d’acacia. In bocca la corrispondenza è pressoché totale, con una nota di pesca a iniziare un valzer di sensazioni verticali, con nota minerale salina netta.
Un Pas Dosè godurioso, gastronomico (nel senso nobile del termine), ben fatto. Settemila bottiglie prodotte per l’annata 2016 (12 mesi sui lieviti), non prodotto lo scorso anno per via del caldo eccessivo.
Metodo Classico Brut “N1”, Azienda Agraria Moretti Omero. Trenta mesi sui lieviti (vendemmia 2015) per uno spumante insolito, prodotto con uve Trebbiano Spoletino biologiche allevate a 400 metri sul livello del mare, a Giano dell’Umbria, in provincia di Perugia.
Giallo paglierino, perlage fine e persistente. Naso a metà tra il fruttato e il floreale, con pregevole risvolto sulle erbe di campo e un tocco (che non guasta, in questo caso) di crosta di pane. Liqueur ben dosata, non snaturante, e pregevole sbuffo leggero di pepe bianco.
Bello il gioco, in bocca, tra le fresche note agrumate (lime), quelle più morbide di pesca e la chiusura sulla nocciola. Il tutto avvolto da una “bollicina” cremosa. Ottimo compromesso per chi cerca l’equilibrio tra croccantezza, rotondità e freschezza nello stesso calice di spumante. Prezzaccio (in cantina): solo 14 euro!
VINI BIANCHI Colline Laziali Igt Bianco 2017, L’Avventura Società Agricola. In attesa della versione “non filtrata”, che si preannuncia ancora più interessante, ecco un bianco da uve Frascati dall’eccezionale rapporto qualità prezzo (4,50 euro agli operatori).
Si tratta infatti del vino “d’ingresso” de L’Avventura, la recente scommessa di Stefano Matturro e consorte a Paliano, in provincia di Frosinone. Un prodotto senza solfiti aggiunti. A colpire è un naso giocato a metà tra le noti verdi, erbacee, e la frutta esotica. Bella beva, di semplicità solo apparente.
Umbria Igt Grechetto 2017 senza solfiti aggiunti, Vini Di Filippo. Protocollo biodinamico per il Grechetto senza solfiti aggiunti della cantina Di Filippo. Siamo a Cannara, in provincia di Perugia.
Qui i vigneti sono lavorati da Roberto Di Filippo con l’ausilio di cavalli, oche e mezzi artigianali di legno e ferro prodotti dallo stesso viticoltore, in pieno stile Agro forestry.
Ecco dunque l’Amish dei Grechetto. Un vino che si stacca nettamente dalla media di tanti altri bianchi del Centro Italia. Giallo dorato nel calice, dove il nettare presenta leggere velature naturali.
Naso bellissimo, ed è già un successo: fiori secchi, frutta a polpa bianca e gialla matura, un tocco minerale e un rintocco speziato. Un vino da aspettare e riannusare per apprezzarne tutti i profumi.
Come quello di radice di liquirizia, dapprima timido, poi quasi impetuoso. Al palato un filo di tannino rende il quadro ancora più interessante, su note corrispondenti all’olfatto. Davvero un bell’unicum.
Alto Adige Gewürztraminer Doc 2016 “Nussbaumer”, Cantina Tramin. Tra tutti i prodotti di cantina di Cantina Tramin, segnaliamo questo: un “must” per chi non l’avesse ancora testato.
Un Gewürztraminer capace di incollare letteralmente naso e bocca al calice, un passo sopra il (seppur ottimo) Gewürz “base” 2017 di Tramin, “Selida” (sempre se di “base”, con Tramin di mezzo, si possa parlare).
Straordinaria, a Vinitaly, la prova della longevità di questo vitigno con l’assaggio della vendemmia 2011 di Nussbaumer, concessa a vinialsuper dal direttore tecnico Willi Stürz e da Günther Facchinelli, Pr & Communication di quello scrigno altoatesino chiamato Cantina Tramin.
Un aspetto, questo, che approfondiremo presto attraverso un altro articolo, con l’intervista esclusiva ai due rappresentanti della cooperativa di Termeno.
Friulano (Jakot) 2016 “t.f.”, Valter Sirk. In Vino Valter. Potrebbe suonare così la sintesi dei nostri assaggi di tutta la linea di Valter Sirk a Vinitaly 2018. Siamo tra Dobrovo (italianizzato “Castel Dobro”) e il piccolo villaggio di Višnjevik, nel cuore pulsante del Collio Sloveno. Dieci minuti dal confine italiano.
Valter Sirk e il suo socio Giuseppe Aldé paiono Stanlio e (C)Ollio. Vinitaly, in fondo, può essere una festa se le cose ti girano bene. E allora tutti invitati. Tanto il vino lo portano loro. E che vino. Non ce n’è uno che delude in tutta la linea. Ma a noi tocca scegliere.
Potremmo parlarvi del superlativo Pinot Bianco 2011 della linea “Contea”. Invece vi suggeriamo la tipicità di Jakot, corrispettivo sloveno di “Friulano” (“t.f.” sta proprio per “Tocai Friulano”: provate a leggere “Jakot” al contrario). Un nettare che matura per l’80% in acciaio e, per la restante parte, in acacia.
Il naso è di un’ampiezza rara: si incontrano una buona vena minerale, profumi di erbe, frutta a polpa bianca e fiori. In bocca la sapidità è evidente, ma è solo una dei convitati.
La vinificazione in acciaio valorizza i primari dell’uva e l’acacia non li snatura. E dunque ecco una bella vena fresca, rinvigorita da sbuffi di pepe bianco. La chiusura è più che mai tipica, sulla mandorla amara. Ottimo vino, oggi. Domani ancor di più, per chi ha il coraggio di aspettarlo.
VINI ROSSI Oseleta 2016, Corte Archi. A nostro avviso uno dei vitigni a bacca rossa meno noti, eppure più interessanti, dell’intero panorama del Veneto. Non a caso, da sempre, è tra le varietà che compongono (seppur in percentuali minime) l’Amarone della Valpolicella.
Proprio in Valpolicella opera Corte Archi, per mano di Fernando Campagnola e consorte. In questa Oseleta si trovano splendidamente mixati tutti i tratti tipici del vitigno: la vena animale, grezza, quella vegetale speziata, oltre a pennellate di frutto raffinato che conferiscono eleganza al quadro.
Un vino capace di coniugare potenza, persistenza, complessità e lunghezza. Tra l’altro, con evidenti potenzialità d’invecchiamento.
Cannonau di Sardegna Doc 2016, Antonella Corda. Fate largo in cantina per un Cannonau sui generis, che ci piace definire con un neologismo: Pinotnau.
Se avete in mente la potenza imperscrutabile e l’alcolicità spinta di tanti (troppi) Cannonau, ecco un’interpretazione elegantissima del re dei vitigni a bacca rossa Made in Sardegna.
Un vino che assomiglia tanto ad Antonella Corda, donna dai modi eleganti che nel 2010 ha preso in mano l’azienda di famiglia a Serdiana, poco lontano da Dolianova (CA), assieme al compagno Christian Puecher, venuto dal lontano Trentino.
Un Cannonau che, nel calice, pare un Pinot Nero. Sin dal colore. Un luminoso rosso rubino, dal quale si spigionano note raffinate di piccoli frutti a bacca rossa che ritroveremo anche al palato, assieme a tannini di velluto e un tocco speziato che non guasta.
Ad accompagnare verso un finale lungo sono le note minerali, che ben si coniugano con quelle fruttate. Un vino dall’alcolicità sostenuta (14%) ma tutt’altro che percettibile. Tanto da far pensare a un perfetto consumo anche d’estate, leggermente raffreddato.
Il segreto del Cannoau “Pinotnau” di Antonella Corda consiste nel mix tra una macerazione delicatissima delle uve, in grado di non snaturare il varietale, e l’utilizzo sapiente di botti di non tostate di rovere francese. Chapeau.
Trentino Marzemino Superiore d’Isera Doc 2015, De Tarczal. “Mr Marzemino” sta a Isera e di nome fa Ruggero dell’Adami De Tarczal. Il piccolo borgo alle porte di Trento, a un passo dalla cittadina di Rovereto, custodisce cantine ancora tutte da scoprire, come De Tarczal.
Una storia antica quella della famiglia di Ruggero, che oggi può contare sull’apporto delle due figlie (una in cantina, l’altra impiegata nell’annesso ristorante-vineria) e sulla mano di giovane ed ottimo enologo, Matteo Marzari, che dal 2003 sta valorizzando in maniera esemplare il patrimonio viticolo dei De Tarczal.
Tra i rossi preferiamo il Marzemino Superiore 2015 (vino, tra l’altro, dall’ottimo rapporto qualità prezzo). Naso elegante, tutto giocato sulle note tipiche di un vitigno da altri (troppi) bistrattato e scialacquato.
E dunque ribes, lamponi, marasca, un tocco di mora e viola mammola. Con l’inconfondibile risvolto speziato. Un nettare che evidenzia la giusta corrispondenza al palato, con l’apporto di pregevoli venature minerali.
E in effetti è la mineralità il fil rouge che lega i vini di De Tarzal (provare per credere anche il blend Manzoni Bianco-Pinot Bianco “Belvedere” 2013 e lo Chardonnay in purezza “Felix” 2016). Chiusura altrettanto raffinata, con rintocchi di liquirizia dolce. Il Marzemino in cravatta.
Chianti Classico Docg 2015 Borgo Scopeto. E’ il Chianti Classico che ha ottenuto il punteggio maggiore (94 punti) in occasione della degustazione alla cieca effettuata a Vinitaly 2018 in collaborazione con il Consorzio Chianti Classico (qui tutti i punteggi). Un vino prodotto dall’omonima azienda agricola di Castelnuovo Berardenga, in provincia di Siena.
Una cantina che collabora con la catena di supermercati a insegna “Iper La Grande i” per il progetto di private label “Grandi Vigne” e che, per questo, è stata inserita nella blind tasting.
Un risultato – il primo posto assoluto – che dimostra il grande lavoro fatto in Italia dall’agenzia Think Quality di Cuneo, assieme al buyer di segmento di Iper (ve ne abbiamo già parlato qui) per la selezione di incredibili referenze “qualità prezzo” da proporre a scaffale.
I vigneti da cui si ottiene l’omonimo Chianti Classico si trovano a un’altezza compresa tra i 350 e i 420 metri (70 ettari complessivi).
Si tratta del prodotto d’entrata della cantina toscana, che produce anche una Riserva (“Vigna Misciano”), un Supertuscan (“Borgonero”) e lo storico “Vin Santo”, oltre a grappa ed olio (non presenti in Gdo).
Il Chianti Classico Docg 2015 “Borgo Scoperto” (campione cieco numero 10), colpisce sin da subito per il suo colore luminoso, limpidissimo. Al naso la gran finezza espressa dalle note di piccoli frutti di bosco, degne di un grande Pinot Noir.
Un’eleganza che si ripropone con prorompente determinazione anche al palato, lunghissimo. Il frutto è di pulizia cristallina e il tannino è molto ben integrato. Un vino pronto, dall’equilibrio straordinario. Ma anche di chiara prospettiva.
VINI DA DESSERT Alto Adige Gewürztraminer Doc 2009 “Epokale”, Cantina Tramin. Torniamo a Termeno per raccontare quell’angolo di paradiso in terra che Cantina Tramin ha deciso di racchiudere in bottiglia, chiamandolo non a caso “Epokale”.
In realtà il nome è dovuto all’annata straordinaria in Alto Adige, la 2009 appunto, che ha consentito la produzione di questa vendemmia tardiva di Gewürztraminer. Nel calice il colore giallo oro è di per sé invitante.
La sorpresa (una conferma assoluta per chi conosce il modus operandi di Tramin) è il perfetto, divino, equilibrio tra note dolci, acidità e mineralità.
Frutto non solo di un’annata da ricordare, ma anche del coraggio di aspettare il momento giusto per l’immissione in commercio di questo raro Gewürz.
Si comincia della cernita dei migliori acini di due vigneti, vicino a Maso Nussbaumer, tra i 420 e i 440 metri sul livello del mare. Dopo un’attenta vinificazione, la fase delicata di affinamento in piccoli contenitori d’acciaio, a contatto continuo con i lieviti per otto mesi.
Dopo l’imbottigliamento, avvenuto nell’agosto del 2010, “Epokale” è stato portato nella miniera di Monteneve, in Val Ridanna (2 mila metri di quota).
Qui è stato stoccato per quasi sette anni al buio, a 4 chilometri dall’imbocco della galleria, a una profondità di 450 metri sotto la montagna. Temperatura e umidità costanti hanno consentito al nettare di trasformarsi, oggi, in pura poesia nel calice.
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migliori chianti classico in vendita al supermercato
E’ Borgo Scopeto 2015 il miglior Chianti Classico Docg acquistabile al supermercato. Medaglia d’argento per “Brolio Bettino” 2015 di Barone Ricasoli. Bronzo per “Peppoli” 2016 di Antinori.
Questo l’esito della degustazione alla cieca condotta da vinialsuper lunedì, a Vinitaly. Una bling tasting che premia altre quattro etichette, sopra i 90 punti.
Diciannove, in totale, i campioni di “Gallo Nero” rigorosamente stagnolati dal Consorzio di Tutela del Chianti Classico e serviti nel nuovo, pregevole calice firmato da RCR Cristalleria Italiana, che alla kermesse di Verona 2018 ha fatto così il suo esordio.
1° CLASSIFICATO
Chianti Classico Docg 2015 Borgo Scopeto (96 punti vinialsuper) (5 / 5) Un Chianti Classico prodotto dall’omonima azienda agricola di Castelnuovo Berardenga, in provincia di Siena.
Una cantina che collabora con la catena di supermercati a insegna “Iper La Grande i” per il progetto di private label “Grandi Vigne” e che, per questo, è stata inserita nella blind tasting.
Un risultato – il primo posto assoluto – che dimostra il grande lavoro fatto in Italia dall’agenzia Think Quality di Cuneo, assieme al buyer di segmento di Iper (ve ne abbiamo già parlato qui) per la selezione di incredibili referenze “qualità prezzo” da proporre a scaffale.
I vigneti da cui si ottiene l’omonimo Chianti Classico si trovano a un’altezza compresa tra i 350 e i 420 metri (70 ettari complessivi).
Si tratta del prodotto d’entrata della cantina toscana, che produce anche una Riserva (“Vigna Misciano”), un Supertuscan (“Borgonero”) e lo storico “Vin Santo”, oltre a grappa ed olio (non presenti in Gdo).
Il Chianti Classico Docg 2015 “Borgo Scoperto” (campione cieco numero 10), colpisce sin da subito per il suo colore luminoso, limpidissimo. Al naso la gran finezza espressa dalle note di piccoli frutti di bosco, degne di un grande Pinot Noir.
Un’eleganza che si ripropone con prorompente determinazione anche al palato, lunghissimo. Il frutto è di pulizia cristallina e il tannino è molto ben integrato. Un vino pronto, dall’equilibrio straordinario. Ma anche di chiara prospettiva.
2° CLASSIFICATO
Chianti Classico Docg 2015 “Brolio Bettino”, Barone Ricasoli (94 punti vinialsuper) (5 / 5) Uno dei Chianti Classico meno confondibili sullo scaffale del supermercato, per l’elegante etichetta di colore blu, con scritta dorata e stemma.
Tra gli altri, potrete trovarlo certamente negli store Esselunga dotati di enoteca a gondola. Un solo punto stacca “Brolio Bettino” (campione cieco numero 13) dal Chianti Classico classificatosi terzo.
A convincere, in questo caso, è dapprima l’ampiezza fine del naso, che spazia dalla confettura di ciliegia alla macchia mediterranea, passando per una speziatura che pare dosata da uno chef. Il tutto su sottofondo minerale.
Al palato si apre come d’improvviso, esprimendo tutta la sua potente eleganza dopo un ingresso garbato. Lungo e balsamico, conferma anche in bocca un’ampiezza da primato. Bellissimo il gioco tra acidità, sapidità e note fruttate che domina anche il retro olfattivo.
Ricasoli 1141 si conferma così tra le aziende maggiormente capaci di rappresentare la grandezza del Chianti Classico, anche in Gdo.
Duecentotrentacinque ettari di vigneto che abbracciano il Castello di Brolio, nel Comune di Gaiole in Chianti, oggi di proprietà del Barone Francesco Ricasoli.
3° CLASSIFICATO Chianti Classico Docg 2016 “Peppoli”, Antinori Presentazione forse inutile per uno dei prodotti più noti, se non il simbolo, della qualità del Chianti Classico nella grande distribuzione. “Peppoli” 2016 è il campione cieco numero 7 della degustazione alla cieca condotta da vinialsuper a Vinitaly.
Quello che spariglia le carte: i 6 campioni precedenti, di fatto si fermano a una media di 85 punti. Tra veri alti e bassi (oscillazione tra gli 81 e un meritatissimo 90).
Per il suo rapporto qualità-prezzo, certamente l’etichetta più alla portata di tutti: il costo, al supermercato (per esempio in Esselunga), oscilla dai 9 ai 12 euro.
Sin dal colore e dal naso è chiaro che si tratti di un Chianti Classico in stile moderno. La parte olfattiva è dominata dal frutto, ma accompagnata da altri sentori che la completano e rendono – proprio per questo – pregevole.
C’è il vegetale (macchia mediterranea), c’è il fiore di viola. Non manca un risolto minerale, sapido. Avesse avuto un po’ più di struttura al palato, si sarebbe rivelato ancora più apprezzabile.
Ma la ricerca della Famiglia Antinori, qui, è tutta incentrata sulla prontezza della beva. Obiettivo centrato in pieno, pensando soprattutto ai Millennials.
GLI ALTRI VOTI SOPRA A 90
Sono quattro, come anticipato, gli altri Chianti Classico che hanno ottenuto un punteggio superiore a 90. Partendo proprio da qui, ecco Volpaia 2016 di Castello di Volpaia.
Stesso punteggio per il Chianti Classico Docg 2015 di “Casa Sola“. Ma sono Banfi e Cecchi (92 punti per uno) a insidiare il terzo posto di Antinori.
La prima con “Fonte alla Selva” 2015: vino di grandissima prospettiva futura, oggi forse ancora un po’ troppo difficile per il cliente Gdo. La seconda con il Chianti Classico Docg “Riserva di Famiglia” 2014.
IL COMMENTO DEL CONSORZIO
“La nostra denominazione – ha spiegato Carlotta Gori, direttrice del Consorzio del vino Chianti Classico – si comporta tutto sommato bene in Grande distribuzione. La vera sfida è continuare a dialogare con le insegne rispetto alla spinta promozionale. E far loro comprendere che bisogna tutelare territorio, produttori e denominazione”.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
(3,5 / 5) In vendita in diversi supermercati da Nord a Sud Italia, il Colli Bolognesi Pignoletto Docg Frizzante “Tenuta Monteveglio” di Chiarli è un prodotto leggero ed esuberante, dalla carbonica vivace e ben integrata, ideale come aperitivo.
Vino bolognese per eccellenza, viene prodotto da uve a bacca bianca della varietà Grechetto gentile e vinificato in differenti tipologie grazie alla sua innata versatilità, nel territorio dei Colli Bolognesi.
Dalla vendemmia 2010 il Pignoletto può fregiarsi della Denominazione di Origine Controllata e Garantita.
LA DEGUSTAZIONE All’analisi sensoriale il Colli Bolognesi Pignoletto Docg Frizzante Tenuta Monteveglio di Cleto Chiarli mostra un cromatismo giallo paglierino tenue con bollicine abbastanza fini e persistenti.
Naso di media intensità che si apre su note floreali e cenni di banana, ananas e spuma di limone. Sorso croccante e fresco, abbastanza intenso, con gradevoli ritorni aromatici di banana e agrumi.
Senza picchi ma certamente apprezzabile per franchezza e rapporto qualità/prezzo. In abbinamento, il “Tenuta Monteveglio” Frizzante risulta ideale come vino da aperitivo e da antipasto, ma si sposa egregiamente anche con le classiche crescentine (o tigelle) ed i saporiti salumi emiliani.
LA VINIFICAZIONE
Il Colli Bolognesi Pignoletto Docg frizzante Tenuta Monteveglio di Cleto Chiarli nasce da uve grechetto gentile 100% allevate sui Colli Bolognesi. Dopo la raccolta, il 20% delle uve macera a contatto con le bucce per 12 ore, mentre il restante 80% subisce una pressatura soffice con uva integra o diraspata a temperatura controllata di 16° e addizione di lieviti selezionati. Presa di spuma in autoclave.
Il marchio Chiarli identifica il più antico produttore di vini tipici dell’Emilia Romagna fondato nel 1860. L’azienda “Cleto Chiarli Tenute Agricole” vanta un patrimonio vitato di oltre cento ettari di vigneto nelle zone più vocate dei vini DOC dell’Emilia-Romagna. Dal 2003 ha sede a Castelvetro in provincia di Modena.
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
(4,5 / 5) Il Gewurztraminer è uno dei vini più amati, per la sua aromaticità, dalle donne. Uno dei più richiesti al ristorante. Sotto la lente di vinialsuper finisce oggi l’Alto Adige Doc Gewurztraminer 2016 di Elena Walch.
Un’etichetta che si discosta (in positivo) dalla media dei Gewurz presenti al supermercato. Giustificando così il prezzo superiore e consacrando la cantina tra i riferimenti assoluti dell’Alto Adige del vino al supermercato.
LA DEGUSTAZIONE
Giallo dorato luminoso, limpido. La vista invitante precede un “naso” che costituisce la componente migliore del Gewurztraminer di Elena Walch: esotico intenso di papaya, ananas, litchi, pesca gialla matura, marzapane.
Sentori erbacei che sfiorano il balsamico e floreali di rosa rendono complesso l’olfatto, assieme a chiari richiami minerali iodici che ricordano la salsedine. Non manca una spolverata di pepe bianco, piacevolissima.
In bocca il vino entra quasi in punta di piedi, sul filo della glicerina (14%). Poi si accende di un’acidità appagante, che attenua le note dolci della frutta già avvertita al naso.
Il gioco è fatto: un Gewurztraminer che seduce e avvolge inizialmente, per poi farsi più serio e potente, chiudendo sui tasti neri di un immaginario pianoforte, con un’improvvisa svolta amaricante.
Un vino completo, anche nell’abbinamento: perfetto come aperitivo, si presta ad accompagnare alla perfezione piatti della cucina asiatica e indiana, speziati e saporiti. Ottimo con i crostacei, ma anche con portate di terra come foie gras e patè.
LA VINIFICAZIONE
Prima della fermentazione, il Gewuztraminer di Elena Walch macera 6 ore sulle bucce. Le uve vengono poi pressate in maniera soffice. Il mosto subisce poi una chiarifica statica, utile a illimpidire il nettare.
Successivamente viene fermentato in serbatoi d’acciaio a una temperatura controllata di 18 gradi, per preservarne li aromi. Il vino successivamente affina per alcuni mesi sui propri lieviti, in contenitori inox.
La storia della cantina Elena Walch inizia 150 anni fa a Tramin (Termeno), in provincia di Bolzano. Una struttura storica che è stata ampliata nel 2015, nel segno dell’avanguardia tecnologica e ambientale.
Prezzo: 13,90 euro
Acquistato presso: Iper, La grande i
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E’ un ritorno in pompa magna quello di La Versa nella Grande distribuzione. La cantina pavese, fallita e poi risorta grazie alla cordata lombardo-trentina guidata da Terre d’Oltrepò e Cavit, è a volantino questa settimana in Esselunga, con lo spumante base Riesling Doc Oltrepò Pavese.
La nuova etichetta sarà in promozione fino al 18 aprile a 2,94 euro. Un ribasso del 40% rispetto al “prezzo pieno”, che si assesta su 4,90 euro.
Lo spumante di Riesling è uno dei tre Charmat (Metodo Martinotti) pensati dalla nuova La Versa per i clienti dei supermercati, assieme a un Pinot Nero vinificato in bianco e a un Moscato.
I tre spumanti sono già disponibili negli store Esselunga e Bennet. “Ma entro fine anno – anticipa in esclusiva a vinialsuper Marco Stenico, direttore commerciale di La Versa – andremo a completare l’inserimento in tutti i principali player della Gdo”.
Tre Charmat lunghi, con un periodo di autoclave che varia dagli 8 ai 9 mesi. Per quanto riguarda i volumi, si tratterà a pieno regime (ovvero nell’arco dei prossimi due, tre anni) di un milione e mezzo di bottiglie di Charmat a marchio La Versa immesse nel canale moderno. L’obiettivo per il Metodo Classico è invece quello di raggiungere quota 750 mila bottiglie.
Di fatto, la nuova dirigenza lavora anche al riposizionamento del prestigioso marchio nel canale tradizionale. All’Horeca saranno riservate le etichette di Metodo Classico Docg base Pinot Nero, vero simbolo dell’Oltrepò pavese di qualità.
“Inizieremo con l’etichetta ‘Collezione‘ 2007 – spiega Stenico – una cuvée delle basi spumante selezionate tra le migliori reperite a La Versa al nostro ingresso in azienda. Il prezzo sarà attorno ai 16 euro più Iva, all’ingrosso. Toccherà poi a ‘Testarossa‘, il vero portabandiera di La Versa, con le basi spumante tirate da noi. In questo caso, il prezzo supererà i 20 euro più Iva”.
Per degustare il “nuovo” Testarossa si dovrà tuttavia attendere la metà del 2019. “Un prodotto – commenta Stenico – che intende rappresentare l’intero Oltrepò d’eccellenza, con il suo vitigno più rappresentativo, il Pinot Nero”.
LA DEGUSTAZIONE (4 / 5) Una tipicità salvaguardata anche attraverso i tre Charmat. Il Riesling da oggi in promo in Esselunga è il vero “anti Prosecco”. Giallo paglierino nel calice, naso intenso, fruttato, aromatico. Bollicina mediamente fine e persistente.
In bocca entra pulito, grazie a un “dosaggio” (Brut) capace di valorizzare al contempo aromaticità e corpo del vino. Uno spumante che riempie bene il palato anche una volta deglutito, con ritorni di frutta e richiami vagamente salini piacevoli, che invitano il sorso successivo.
Uno sparkling dall’ottimo rapporto qualità prezzo, capace di accompagnare alla perfezione un aperitivo, gli antipasti, ma anche l’intero pranzo o una cena non impegnativa.
Riesling spumante Oltrepo pavese Doc La Versa
La Versa tre Charmat per il rilancio in Gdo Riesling in promo allEsselunga 1
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Colli di Luni Doc Vermentino etichetta verde La Colombiera
(4 / 5) E’ “l’etichetta verde”, quella destinata alla Gdo, ovvero ai supermercati. Sotto la lente di ingrandimento di vinialsuper finisce oggi il Colli di Luni Doc Vermentino 2016 de La Colombiera di Castelnuovo Magra. Un Vermentino ligure, dunque.
LA DEGUSTAZIONE
Nel calice, il vino si presenta di un giallo paglierino acceso, luminoso. Al naso fiori freschi e frutta a polpa gialla, con richiami esotici che ricordano l’ananas. Un quadro in cui non mancano gli agrumi.
Al palato, il Vermentino de La Colombera si mostra più morbido di quanto possa far presagire il naso. L’ingresso in bocca, di fatto, è caratterizzato da sentori di frutta piuttosto matura. Percezione alcolica e acidità si fanno largo all’assaggio e lo dominano nel retro olfattivo.
Una beva facile per questo Vermentino ligure, ma tutt’altro che banale. Tutte le componenti risultano in perfetto equilibrio e armonia. Un vino fresco, che fa pensare al mare e all’estate.
Il Vermentino “etichetta verde” de La Colombera si abbina a tutto pasto ed è particolarmente indicato con piatti a base di pesce o carni bianche. Ottimo con il sushi, specie con le portate di crudo di salmone, tonno e tartàre in generale.
LA VINIFICAZIONE
Il Vermentino Doc Colli di Luni La Colombera viene prodotto con uve provenienti principalmente dai vigneti situati nel Comune di Sarzana, secondo Comune per abitanti della provincia di La Spezia.
Le vigne sono allevate a Guyot con una densità di 5 mila ceppi per ettaro, su terreni argillosi dotati di buona esposizione. La vendemmia viene effettuata “rigorosamente a mano e le uve immediatamente lavorate nell’arco della giornata”. La vinificazione della uve Vermentino in purezza avviene unicamente in serbatoi di acciaio inox, a temperatura controllata.
Una storia che affonda le radici negli anni Settanta quella dell’Azienda Agricola La Colombiera. Sul finire del decennio, Francesco Ferro, padre dell’attuale titolare Pieralberto Ferro, acquista una vigna nell’antico territorio di Luni, in Castelnuovo Magra.
Oggi La Colombiera può invece contare su oltre dieci ettari di vigna. L’obiettivo è quello di “rispettare la materia prima, tendendo all’eliminazione di manipolazioni chimiche, sia dei mosti che dei vini ottenuti”.
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(4 / 5) In attività effettiva da più di un secolo, Soloperto è uno dei nomi storici nell’area di Manduria, con una produzione variegata che abbraccia tutti le principali varietà pugliesi.
Nella gamma figurano alcune versioni di Primitivo tra cui il protagonista di questo articolo, il Ceralacca, che si distingue per il nome ben in evidenza nell’etichetta e l’inconfondibile sigillo rosso. Due segni distintivi facili da individuare.
LA DEGUSTAZIONE Nel calice il Ceralacca si presenta di un rosso rubino di una certa intensità e buona consistenza. Incuriosiscono, al primo esame, i lievi accenni al rosso granato.
Avvicinando il calice al naso si possono apprezzare i profumi abbastanza intensi, con i primi sentori di confettura di fragole e ciliegia matura a cui pian piano si affiancano note di tabacco, di cioccolato e caffè, per chiudere su sentori balsamici che rimandano a una certa evoluzione.
In bocca il vino dimostra una certa morbidezza e accarezza bene il palato. Il Primitivo di Manduria Ceralacca può vantare una discreta acidità, ma soprattutto una sottile quanto apprezzabile tannicità che non è così comune in altri primitivi dell’area di Manduria.
Piena la corrispondenza tra olfatto e gusto: il fruttato iniziale, qui non stucchevole, lascia piano piano il posto alle note terziarie. E così, sul finale, la buona persistenza complessiva è dominata da una piacevole chiusura balsamica.
Il vino nel complesso è piacevole ed equilibrato, con una alcolicità ben integrata nell’insieme e una personalità che lo differenzia rispetto ad altre etichette della stessa fascia prezzo. Compagno ideale per gli arrosti in genere, il Primitivo di Manduria Ceralacca non è da sottovalutare in abbinamento con le tipiche polpette di pane o di carne al sugo.
La struttura del vino e le sue caratteristiche complessive lo rendono un’alternativa interessante e conveniente anche per un pubblico diverso da quello tradizionalmente attratto dalle caratteristiche del Primitivo.
LA VINIFICAZIONE
Le uve utilizzate per questo Ceralacca, raccolte come da tradizione nella prima fase di settembre, provengono esclusivamente da vigneti dell’area di Manduria. Il sistema di allevamento è quello tradizionale, ad alberello.
Le viti hanno un’età compresa tra i 35 e i 40 anni: piante di queste caratteristiche permettono di ottenere vini di 14° come questo, dotati al contempo di una buona freschezza in bocca e di sentori di una certa intensità.
All’iniziale affinamento in acciaio segue un periodo di 6 mesi in barrique di rovere francese che, come si può facilmente notare quando lo si degusta, hanno il loro peso nel definire l’impronta di questo vino.
Un Primitivo di Manduria che esce sul mercato piacevolmente pronto, ma che non teme certo la possibilità di maturare anche altri 12 mesi, purché nelle giuste condizioni.
Prezzo: 6,90 euro
Acquistato presso: Supermercati DOK
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prosecco bulgaro sequestrato al porto di brindisi etichetta
BRINDISI – Era diretto in Francia il “Prosecco bulgaro”, o meglio da uve coltivate in Bulgaria, sequestrato nei giorni scorsi al porto di Brindisi.
L’operazione, condotta dalla Guardia di Finanza di Brindisi e dai funzionari della locale Agenzia delle Dogane, ha interessato 13.812 bottiglie da 0,75 litri.
Su tutte la dicitura “Wine of Italy” e “Product of Italy”, con l’aggiunta di “Denominazione di Origine Controllata” ed “Extra Dry”.
Il blitz è scattato nell’ambito dei servizi di vigilanza all’interno dell’area del porto di Brindisi.
I miliari hanno controllato un camion con targa bulgara, proveniente dalla Grecia. Scoperti diversi bancali di vino, la Guardia di Finanza ha contattato la società produttrice del Prosecco.
La stessa confermava che “tutta la merce trasportata era stata prodotta con uve coltivate in Bulgaria”. Il mezzo era condotto da un cittadino bulgaro, P.A., 68 anni, segnalato a piede libero.
“L’attività di servizio – precisano gli uomini della GdF – rientra nel più ampio contesto delle attività di intensificazione dell’azione di tutela del “Made in Italy” svolta dalla Guardia di Finanza, quale forza di polizia economico finanziaria, a difesa del mercato nazionale”.
Di fatto, può chiamarsi “Prosecco” solo il vino ottenuto da uve Glera (con piccole percentuali di altri uvaggi) coltivate in Veneto e Friuli Venezia Giulia. Hai già aderito alla nostra campagna #nonsoloprosecco? Questo è il momento di condividere l’articolo e diffondere la cultura del Made in Italy
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La grande bellezza dello stare nel vino è la sua interdisciplinarità, occorre conoscere di chimica, fisica, botanica,biologia,meccanica, economia, è importante mantenere sempre una mente aperta ed una visione d’insieme.
Cosi’ per rimanere sempre con la mente aperta, non rimanere chiusa nel mio ghetto. Avevo una giornata libera e sono andata a Live Wine a Milano.
Ho assaggiato, parlato con produttori, incontrato amici e colleghi e si mi sono divertita molto. Come tutte le volte in cui sono nel vino con leggerezza. “Leggerezza di linguaggio naturale”, vorrei leggere.
Basta focalizzare l’attenzione sui lieviti selezionati!
Si limita il racconto del vino ad un unico elemento, mentre il cammino dall’uva alla bottiglia è molto più lungo e complesso.
Basta addentrarsi in diatribe fra industriali vs artigianali!
Correte due campionati diversi, inutile sprecare fiato.
Il terrorismo sugli additivie sui coadiuvanti non ha portato a nulla. La casalinga di Voghera e la sua amica di Voghiera non conoscono la differenza fra queste due famiglie di prodotti.
E poi vi ricordo che la gomma arabica è un principale componente delle caramelle.
Raccontate del vino naturale figlio del tempo e non delle logiche commerciali. Raccontate del vino fatto da viticoltori che sono custodi del territorio.
Non parlate di vino fatto con le ricette!
Il vino è un lavoro di squadra, un racconto corale, non un susseguirsi di fredde operazioni di fabbrica.
Amici naturali, non correte dietro – in etichetta – ad api, coccinelle, farfalle, foglie con le stelline… Siate minimalisti ed essenziali, il vino parlerà da sé.
I giornalisti e le guide non vi hanno fatto nulla, non sono faziosi. Sono solo dei curiosi del vino che vogliono capire e conoscere il vostro mondo. Un nuovo linguaggio è possibile. Basta volerlo.
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(3 / 5) Che ci sia “Prosecco” e “Prosecco” è ormai chiaro a tutti gli attenti “bevitori”. Una regola che vale soprattutto al supermercato, dove peschiamo uno dei più commerciali e pubblicizzati: il Prosecco Doc Extra Dry millesimato 2017 Casa Sant’Orsola.
Un’etichetta che non faceva parte della nostra degustazione alla cieca di settembre 2017, in cui abbiamo stabilito i migliori e i peggiori “sparkling da Glera” al supermercato. Ma difficilmente – ve lo anticipiamo subito – sarebbe riuscita ad aggiudicarsi un posto tra i top.
LA DEGUSTAZIONE
Di certo, il Prosecco Sant’Orsola è uno di quei vini che, prima del calice, provano a raccontarsi visivamente sullo scaffale del supermercato (e ancora prima in tv, grazie a numerosi spot pubblicitari).
La bottiglia è avvolta in un sacchetto di colore arancione trasparente, che cattura l’attenzione del cliente. Un velo d’eleganza forse necessario per stordire, con il marketing, il palato di chi si accinge alla degustazione. Noi conosciamo Ulisse. E soprattutto le sirene.
Creature mitologiche a parte, il Prosecco Sant’Orsola si presenta del classico giallo paglierino nel calice. La “bollicina” è mediamente fine e persistente. Al naso la tipicità della Glera, che si esprime principalmente col sentore di pera.
Al palato, ennesima conferma dell’assoluta semplicità di questo Prosecco. L’ingresso è morbido, ma il nettare si sbilancia poi sui sentori zuccherini (pera matura). Finale sufficientemente persistente e lineare rispetto al sorso.
Un Prosecco destinato a un pubblico poco esigente, anche se il prezzo (se non soggetto a tagli prezzo e promozioni) non è tra i più invitanti per il portafogli, pur avvicinandosi al reale valore dell’etichetta. L’abbinamento? A tutto pasto, per chi gradisce, o come aperitivo.
LA VINIFICAZIONE
Il Prosecco Casa Sant’Orsola è prodotto con il Metodo Charmat, che prevede la rifermentazione della Glera in ampie vasche chiamate autoclavi. Casa Sant’Orsola è un marchio di Fratelli Martini Secondo Luigi Spa, che a sede in località San Bovo a Cossano Belbo, in provincia di Cuneo.
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vino biologico cosa significa quaquarini oltrepo pavese cantine losito gargano e1520294373971
“Lavoriamo in biologico, sia in cantina sia in vigna. Non siamo certificati ‘bio’, ma è come se lo fossimo”. Chi gira per cantine avrà sentito decine di volte questo ritornello. Ma cosa significa, allora, essere “certificati bio”?
Il “biologico” è solo una questione burocratica? Vale la pena certificarsi? Ma soprattutto: che differenza c’è tra un vino “convenzionale” e uno “biologico”?
Lo abbiamo chiesto a due belle realtà tutte italiane: l’Azienda agricola Quaquarini Francesco, che opera in Oltrepò Pavese ed è stata selezionata da vinialsuper come “Miglior Cantina Gdo 2016“, e Cantine Losito – Terre del Gargano, in Puglia. Le dividono 742 chilometri. Ma le due aziende sono vicinissime nel modo di condurre vigna e cantina. Rispondono alle domande Francesco Quaquarini e Giovanni Losito.
1) Da quanto l’azienda è certificata biologica? Quaquarini: Dal 2002. Losito:Dal 1997 al 2000 mio padre ha testato le pratiche bio, per verificarne l’efficacia e l’applicabilità nelle nostre vigne. Ottenendo buoni risultati, dal 2000 è cominciata la conversione a livello burocratico e, dopo i 5 anni previsti dal regolamento, le vigne hanno ottenuto la certificazione bio.
Dal 2012, con l’introduzione della menzione “vino biologico” a livello europeo, è stato necessario anche certificare la cantina ed il processo, ottenendo immediatamente la certificazione.
2) Perché questa scelta? Conviene? Quaquarini: E’ una scelta personale, non legata alla commercializzazione. Noi viviamo in mezzo alle nostre vigne, lavoriamo in campagna e non vogliamo utilizzare prodotti chimici per la nostra salute e quella dei nostri collaboratori.
Pensiamo che una corretta gestione del terreno possa essere positivo per un giusto equilibrio e rispetto dell’ecosistema, per salvaguardare la naturale fertilità e biodiversità del terreno.
Dai controlli sulla vegetazione si rilevano analiticamente l’assenza totale di residui di fitofarmaci che, altrimenti, se ci fossero, andrebbero sicuramente a finire in parte nel vino. E’ provato che l’impatto ambientale su equivalenti di area non è enormemente distante tra l’agricoltura convenzionale e quella biologica, ma sul prodotto finale i risultati sono scientificamente provati.
La lotta contro i parassiti nell’agricoltura biologica si basa soprattutto sull’utilizzo di antagonisti naturali (animali-antagonisti), repellenti naturali, barriere naturali etc. L’inerbimento controllato inoltre protegge il suolo dall’erosione, mantenendo una naturale ricchezza e fertilità , anche dal punto di vista idrico gli effetti sono assolutamente positivi.
Penso convenga qualitativamente, anzi ne sono convinto. Da un punto di vista strettamente economico sicuramente no, per il mercato italiano. I costi di produzione sono più alti del 30% circa, inoltre il rischio di perdere la produzione è molto più elevato.
Losito:La risposta sembrerà una frase fatta, ma è stata prima di tutto una scelta di sensibilità. Siamo viticoltori a livello professionale da tre generazioni, pertanto abbiamo visto persino la viticoltura intensiva da tavola delle nostre zone degli anni 70-90, con l’uso smodato di antiparassitari e fitofarmaci residuali, prima che gli studi dimostrassero gli effetti negativi su salute e natura.
Siamo le persone più presenti nei nostri stessi terreni ed i primi consumatori dei nostri prodotti, quindi abbiamo voluto tutelare la nostra salute e quella dei nostri clienti. Inoltre, volendo proseguire in questo lavoro ed in queste zone anche nelle generazioni a venire, è logico pensare ad una gestione più sostenibile e rispettosa della vitalità della natura stessa.
L’uso prolungato e smodato di fitofarmaci residuali o sistemici ed una agricoltura volta alla “rapina” alla lunga porta all’infertilità ed al disequilibrio dell’ambiente dove si coltiva…e lì, di che terroir si vuole più parlare. Conviene? Dal punto di vista economico le valutazioni da fare sono troppe e la risposta è diversa per ogni produttore.
Per fare una regola generale mi sento di dire che, in ambito vitivinicolo, conviene solo quando la gestione è affidata a persone tecnicamente e scientificamente molto competenti, nel territorio con condizioni pedoclimatiche favorevoli, ed avendo il mercato giusto a cui vendere e/o facendo accordi di filiera con chi vende professionalmente nel biologico.
3) Quali sono stati i passi necessari per ottenere la certificazione? Quaquarini: A parte la burocrazia , da un punto di vista tecnico abbiamo solo dovuto formalizzare su carta quello che già facevamo, implementando la ricerca scientifica per migliorare il risultato (es: capannina meteo con programma anticrittogamico in collaborazione con l’Università Agraria di Piacenza).
Losito: È stata fatta richiesta ad agronomi professionisti, i quali hanno curato burocraticamente la richiesta all’Organismo di Controllo (OdC) da noi scelto (nel nostro caso, quello con l’ufficio più vicino alla nostra azienda, a 20 km di distanza).
L’OdC a sua volta ha verificato l’ammissibilità della nostra richiesta a livello agronomico e si è interfacciato con l’Unione Europea per l’autorizzazione. Abbiamo poi aspettato cinque anni come da regolamento, per far sì che diminuisse la concentrazione degli eventuali residuali in precedenza usati.
Nel nostro caso, si poteva aspettare anche molto meno dato che già la nostra gestione era molto più “pulita” ed eravamo reduci da tre anni di prove in bio, ma la legge è legge.
4) A quale costo (economico, burocratico, di personale necessario a gestire le pratiche)? Quaquarini: La burocrazia è il primo vero ostacolo alla scelta del biologico. L’impegno gravoso in ufficio è equivalente al maggior impegno che dobbiamo sostenere in campagna.
La certificazione giustamente ci obbliga ad una serie interminabile di trascrizioni, registrazioni, dove gli attori sono diversi: noi, l’ente certificatore, l’ente provinciale e i rivenditori di prodotti agricoli (dalle vitine fino alla vendemmia). C’è anche un impegno non irrilevante in termini di studio, sperimentazione e aggiornamento tecnico sull’intera filiera produttiva.
Losito: Il costo dipende da azienda ad azienda, ma diciamo che tra i nostri costi vivi e nascosti in media siamo sulle 500 euro a ettaro. L’Europa però dà contributi per la gestione bio, pertanto i costi potrebbero diminuire anche di molto, dipende dalla professionalità dell’azienda.
5) Cosa distingue un’azienda certificata bio da una non certificata bio, ma che segue comunque i dettami dell’agricoltura biologica? Quaquarini: Molti dicono “Non siamo certificati ma è come se lo fossimo”. E’ un modo di operare non molto chiaro. O lo sei, o non lo sei. L’autocertificazione non è ancora ammessa, i controlli devono essere garantiti da un ente terzo (sicuramente per me non è giusto che a certificare sia una struttura privata pagata dall’azienda).
Certo dipende fondamentalmente dalla serietà delle persone. Basta guardare il telegiornale per sentire parlare di truffe sul biologico di aziende perfettamente certificate e questo è un grandissimo problema per chi cerca di lavorare bene.
Losito: Prima di tutto la certezza di controlli e l’affidabilità dell’operato (salvo frodi, comunque punibili per legge). Nel primo caso l’azienda, essendo controllata da enti esterni (i dettagli nelle risposte successive), riesce a garantire prima di tutto una tracciabilità di prodotto, ma anche che il prodotto sia effettivamente assente da residuali non ammessi.
Nel secondo caso, in genere, il solo applicare le tecniche bio non garantisce che siano stati fatti controlli analitici e che non ci siano problemi di deriva da contadini vicini. Considerando che l’Europa aiuta economicamente coloro che decidono di passare al bio, sarebbe economicamente svantaggioso non aderire ai sistemi di controllo nonostante l’applicazione delle tecniche.
Chi decide di non aderire, in genere, è più un millantatore che altro, perseguibile anche per legge. È come dire “il mio vino è docg, fidati solo della mia parola”.
6) Quali sostanze sono ammesse nella pratica bio in vigna e in cantina? Quali sono escluse rispetto al vino ottenuto da agricoltura “tradizionale”? Quaquarini: Per la campagna tutti i concimi organici certificati bio (dal letame ai pellettati), per la difesa contro gli insetti dannosi si possono usare antagonisti naturali (imenotteri, thuringiensis, ferormoni per la confusione sessuale), piretroidi.
Contro la peronospora si usa rame con il limite di utilizzo di 6 Kg/ha per annata agraria. Per l’oidio si usa zolfo e il fungo ampelomyces quisqualis. No OGM. A queste si aggiungono adeguate pratiche agronomiche atte a minimizzare gli attacchi dannosi e aumentare l’efficienza degli interventi (inerbimento, potaturasecca e verde, siepi, arieggiamento del grappolo, scelta delle varietà di uva più idonee alla zona, forme di allevamento, sesti d’impianto).
Per la cantina, l’utilizzo della solforosa è tollerato e regolamentato con un dosaggio più basso rispetto al vino convenzionale. La chiarificazione e stabilizzazione dei vini può essere può essere ottenuto con mezzi fisici (freddo, centrifugazione, filtrazione) con o senza l’impiego di prodotti enologici (lieviti, caseina, albumina, bentonite, sol di silice, tannini).
Non si possono usare un’infinità di prodotti, per esempio: carbone, lisozima, polivinil pirrolidone, ferrocianuro di potassio, trattamenti termici…
Losito: In vigna le principali ammesse sono diverse. Sostanze di origine vegetale o animale come c’era d’api, gelatina; olii vegetali e minerali; batteri, virus e funghi o loro estratti che attaccano i parassiti della vite; feromoni; rame e zolfo (a concentrazioni controllate dall’OdC).
Per quelle non ammesse ti allego una nostra analisi multiresiduale, in cui si attesta l’assenza di oltre 500 fitofarmaci non ammessi (previsti invece nell’agricoltura convenzionale), nome per nome.
In cantina i principali coadiuvanti ammessi sono bentonite, chiarificanti di origine vegetale e animale, anidride solforosa (in concentrazioni massime minori rispetto al convenzionale, fino quasi al dimezzamento per alcune tipologie).
Non ammessi sono acido sorbico e sorbati, lisozima, Chitosano, acido malico, ammonio bisolfito, solfato di ammonio, pvpp, Carbossimetilcellulosa, Mannoproteine di lieviti, enzimi beta-glucanasi, Ferrocianuro di potassio, Caramello.
Non sono neanche ammessi alcuni procedimenti fisici quali concentrazione parziale attraverso il raffreddamento, eliminazione dell’anidride solforosa, trattamento per elettrodialisi, dealcolizzazione parziale, trattamento con scambiatori di cationi, filtrazioni inferiori a 0,2 micrometri.
7) Il vino bio è diverso da quello “tradizionale”? La differenza si può riscontrare nel calice, all’assaggio? Quaquarini: Alla degustazione non è paragonabile, nasce da principi diversi. Sicuramente analiticamente è diverso, i residui di trattamenti, diserbanti,coadiuvanti enologici lasciano una traccia chimico/analitica ben evidente. La diversità sta nel lavoro.
Per valutare una diversità all’assaggio bisognerebbe fare una degustazione in parallelo di due vini identici ottenuti con metodi diversi. Penso che i vini bio e convenzionali possano essere buoni o cattivi entrambi: dipende dall’attenzione e dalla cura nella produzione.
Losito: Oggettivamente, dal solo punto di vista dei fitofarmaci residui, è sicuramente diverso, è più salubre. Per chi consuma vino quotidianamente, sicuramente questo fattore è importante per evitare accumuli. Sul fronte delle differenze nella degustazione si apre un mondo di valutazioni, tutte opinabili, senza una regola oggettiva.
Mettiamola così: premettendo che per fare un vino biologico si debbano prendere precauzioni e provvedimenti atti ad ottenere per forza un prodotto di alta qualità (in maniera da evitare problemi risolvibili solo con metodi non ammessi in bio), sicuramente la media dei vini biologici ha una qualità organolettica migliore della media dei vini convenzionali.
Se un vino biologico non è buono, non deve essere giustificato, come invece accade per i cosiddetti “vini naturali”, ai quali erroneamente spesso sono associati.
9) Come avvengono i controlli e con che periodicità? Quaquarini: L’ente certificatore effettua 2-3 controlli all’anno. Non c’è un calendario e sono casuali e imprevisti.I controlli avvengono in ufficio, in campagna e in cantina, per valutare tutte le fasi della produzione e della vendita del prodotto.
In campagna oltre al controllo visivo, si prelevano campioni di foglie e di uva per le analisi.In cantina si prelevano campioni di vino, mentre in ufficio (con tempi lunghissimi) si controllano tutte le carte, si contano bottiglie ed etichette bio e tutti i documenti della vendita.
Purtroppo il peso dei controlli è sempre più spostato verso una burocrazia mastodontica e inutile.Gli addetti ai controlli sono tecnici esterni agli enti certificatori che cambiano ogni tre anni al massimo. Poi ci sono i controlli degli organi pubblici, come Ufficio Repressione Frodi (ICQ), Nas, Provincia, Finanza etc.
Losito: L’OdC assegna un profilo di rischio per ogni azienda (dimensioni, vicinanza con altri, tipo di colture e prodotti) ed in base a questo aumenta la frequenza di visita. Noi abbiamo in media una visita ogni due mesi, ed in media durano 5 ore, in funzione della regolarità riscontrata e della complessità aziendale (conosco colleghi che hanno subìto controlli anche per 16 ore).
Come avviene: per ogni ispezione viene assegnato all’azienda un agronomo (non può ispezionare la stessa azienda più di tre volte consecutive) il quale fa un’indagine documentale riepilogativa, prelevando documenti in possesso delle autorità (fascicolo aziendale, pap, piano colturale, registri e verbali di precedenti ispezioni).
Viene poi in azienda a verificare che i documenti rispondano alla realtà ed analizza i nostri registri, nel quale sono indicati acquisti e vendite dei prodotti, dei fitofarmaci, delle materie prime, le operazioni colturali, la quantità di fitofarmaci utilizzata per ogni trattamento, le lavorazioni sui prodotti (uve, mosti, vini), il rispetto delle rese per ettaro (molto minori rispetto ai disciplinari igp o doc), riscontra la giacenza dei prodotti in base alle entrate ed uscite e la loro regolare etichettatura secondo le norme bio.
Infine, l’ispettore potrebbe prelevare campioni di terreno, pianta, uve, foglie o vini e sottoporli ad analisi multiresiduale per verificare l’effettiva assenza di fitofarmaci e coadiuvanti non ammessi.
Nel caso di irregolarità (che può anche essere un numero sbagliato sulla fattura), l’ispettore fa diffidare l’azienda e la certificazione bio è sospesa, così come la commercializzazione, il prodotto declassato a convenzionale ecc. L’azienda, in funzione della gravità del problema, si dovrà difendere e dimostrare l’innocenza, anche per vie legali.
10) Ha ragione chi dice che il biologico è ormai diventato una moda? Quaquarini: Magari lo fosse! Losito: La domanda porta con sé che la concezione che il settore del bio sia tutto uguale. Questo potrebbe valere per gli alimenti più comuni, ma il vino, rientrando anche nella categoria degli alcolici, segue dinamiche diverse, quasi opposte, specialmente in Italia.
Nel nord Europa, Nord America e Giappone, sicuramente il bio in alimentazione è anche una moda, una moda ragionata. Il vino bio, in questi posti, sicuramente è più apprezzato che qui da noi, seguendo le dinamiche del settore alimentare perché considerato comunque più salubre.
Nel nord Italia penso che il vino bio certificato sia visto più come una “alternativa interessante”, non una moda. Questo perché, mentre i produttori si impegnavano a far conoscere il vero bio, sono arrivate anche orde di “naturalisti” a confondere le idee, nel bene e nel male.
Oggi un operatore Ho.Re.Ca. del nord Italia, quando deve rifornirsi, in genere ragiona per estremi e semplificazioni: o grandi aziende famose e blasonate/di tendenza del momento, o l’estremista naturale (vedi il successo dei Triple A). In entrambi casi, mode. Il vino bio, che in genere prende il buono dei due estremi, si trova invece penalizzato in quanto tra i due estremi.
Ed al sud? Al sud, solo che ci penso, mi vengono amare risate. La maggior parte degli operatori classici (il 90% del mercato) pensa bio = puzza. Quando lo andiamo a vendere spesso non specifichiamo che è bio, altre volte ci sentiamo dire “ah, peccato che è bio”, oppure “bio? Non si direbbe” o ancora “bio? Allora siete truffatori, il bio non esiste”.
Quelli che comprano invece credono che il vino bio certificato sia fatto da santoni che fanno miracoli. Quindi no, altro che moda. Sicuramente ci ha aiutato ad emergere nel mercato soddisfacendo una nicchia, ma ora capisco la scelta di Gaja nel fare bio ma non dirlo.
I più esperti, soprattutto i sommelier italiani, sono tra i maggiori oppositori del biologico (basta guardare i commenti nei gruppi facebook sul vino, quando vengono aperte discussioni in merito). Se quindi i primi a doverli consigliare sono i primi a denigrarli, sicuramente è più difficile venderli.
11) Spazio per ulteriori considerazioni Losito:Credo nel vino biologico certificato, se di qualità. Esso prende la professionalità del convenzionale e la sensibilità del naturale. È il giusto che sta nel mezzo. Tutela il produttore, il consumatore e gli operatori del settore. Ha bisogno di essere comunicato, ha bisogno di scrollarsi di dosso i pregiudizi positivi e negativi dovuti dall’ignoranza (giustificata) derivata dalla sua complessità.
Ha bisogno di essere conosciuto per quello che è: un prodotto derivato da una gestione scientifica e meticolosa della pianta e del vino, volta ad una maggiore salubrità dell’ambiente e del prodotto, nella maniera più trasparente possibile.
Mi faccio una domanda, e la girerei anche ad Umberto: cosa cambiereste del biologico? Personalmente, farei qualche passo indietro nella legislazione, quando il vino era “da agricoltura biologica” o “da uve biologiche”.
Prima di tutto, con quelle menzioni era più chiara l’impronta ambientale di questa certificazione. Secondo, e parlo da enologo, molti coadiuvanti e processi fisici non ammessi in bio in realtà non costituiscono né un pericolo per l’ambiente, né per l’uomo.
Il loro uso potrebbe sprigionare il potenziale di molti vini bio, mantenendone intatta la salubrità. La paura della “chimica” in cantina ha generato ciò, ma deriva dalla scarsa conoscenza del comune consumatore. Non si può pretendere che tutti siano laureati in enologia, ma ci vorrebbe più fiducia negli enologi. Il consumatore teme ciò che non capisce e disprezza ciò che teme, divenendo prone alla manipolazione.
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Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
(4,5 / 5) Il Vermentino di Gallura è un vino bianco a Denominazione di Origine Controllata e Garantita la cui produzione è consentita nella provincia di Sassari da uve Vermentino per almeno il 95%, con facoltà di aggiungere un 5% da uve bianche non aromatiche tradizionalmente coltivate in Sardegna.
In vendita nei supermercati del circuito Pam, il Vermentino di Gallura Docg Campos Valzos si rivela un bianco leggero e pregevole per la spiccata vena sapida e marina, il sorso asciutto e caratteristico del varietale, e l’ottima beva.
LA DEGUSTAZIONE
All’analisi sensoriale il Vermentino di Gallura 2016 Docg Campos Valzos evidenzia un paglierino tenue e delicato, cristallino. Al naso affiorano note di pesca bianca e mela, fiori d’arancio e mandarini, erbe aromatiche e pietra bagnata.
Esuberanza giovanile. In bocca è secco, asciutto, di medio corpo, spiccatamente sapido con un finale intessuto di suggestioni minerali e iodate che si mescolano a sbuffi agrumati. Vino di buona qualità e franchezza.
All’assaggio si ha la sensazione netta che sia il vino stesso a chiedere un abbinamento marinaro. Vino da pesce, pesce di mare, per esaltare la marcata salinità che costituisce il tratto emblematico di questo Vermentino.
LA VINIFICAZIONE Il Vermentino di Gallura Campos Valzos nasce su terreni granitici fra i 300 e i 450 m d’altitudine. Fermenta a temperatura controllata in vasche di acciaio, quindi si stabilizza brevemente prima dell’imbottigliamento in recipienti inerti al fine di preservare tutta la freschezza e la fragranza delle note aromatiche primarie.
Campos Valzos è una linea della Cottini Vini Spa, azienda veneta con base a San Pietro in Cariano, in provincia di Verona. Un investimento a Santa Teresa Gallura, nell’estremo nord della Sardegna: da decenni la “seconda casa” dei Cottini.
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BOLZANO – Logiche che solo all’apparenza possono sembrare “illogiche”, quelle di (una certa) Grande distribuzione organizzata.
Fatto sta che un gruppo storico della provincia di Bolzano come Schenk Italian Wineries (lì, a Bolzano, dal 1960) si presenta sugli scaffali dell’hard discount Md con un Gewurztraminer ungherese. Mica altoatesino o trentino.
Parliamo del Gewurztraminer Oem Matrai della linea Cantina Clairevue, private label con cui Schenk opera all’interno dei discount Md, già Lillo Group S.p.A. (linea che Luca Maroni premia con alte valutazioni, che non riguardano tuttavia questa etichetta).
Scappa più di un sorriso a pensare che il sito web di Md tenga a sottolineare che “la storia della Società s’identifica con quella del suo fondatore, Patrizio Pondini, nato a Bolzano, attivo nel mercato della Gdo fin dagli anni ’60”.
E’ la stessa Schenk, pungolata da vinialsupermercato.it, a chiarire i contorni di una vicenda che ha del paradossale. Almeno quanto risulta paradossale, per un imprenditore italiano, la convenienza di investire all’estero.
“UNGHERESE MA DI QUALITA'” “Si tratta di una linea ‘private label’ realizzata per Md Italia, secondo le esigenze espresse dal cliente – evidenzia il gruppo bolzanino – che chiedeva un vino con un ottimo rapporto qualità-prezzo. Vista l’annata difficile del 2017, soprattutto per gli aromatici, risultava arduo mantenere tale rapporto sotto una certa soglia, utilizzando un vino Alto Adige”.
“Il prodotto in questione – continua Schenk Italian Wineries – è un Gewurztraminer Ungherese di ottima qualità, ma non è una Doc Alto Adige come invece è ‘Kellerei Auer’, nostra linea di punta. Auspicando, nei prossimi due anni, vendemmie quantitativamente e qualitativamente corrette, Schenk Italian Wineries sarà in grado di proporre vini italiani per la soddisfazione di Md”.
Piutost che nient l’è mei piutost, sintetizzerebbero a Milano. Il vino in questione, tuttavia, si lascia tutto sommato apprezzare. Soprattutto nell’ottica qualità prezzo. “Oem” sta per “Oltalom alatt álló eredetmegjelölés”, l’equivalente, in Ungheria, delle nostre Dop. “Mátrai” identifica “Mátra”, zona collinare dell’Ungheria settentrionale, dove si produce vino.
(4 / 5) Giallo paglierino scarico e velato per il Gewurztraminer Oem Mátrai 2016 Cantina Clairevue. Naso di litchi, pesca, esotico maturo (ananas), una punta minerale. Bocca corrispondente, non elegantissima, con chiusura su note posate di miele d’acacia.
Beva facile, zucchero non stucchevole. Dopo l’ingresso morbido, questo Gewurz ungherese svela un bel risvolto acido, che accompagna fino a un finale speziato, di pepe bianco. Un vino che fa della facilità di beva (e del prezzo: 2,99 euro) la sua arma vincente.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
vini in promozione al supermercato volantino febbraio 2018
Nuova puntata della nostra rubrica sui vini in promozione al supermercato. Dopo una scorpacciata di sconti (validi ancora per pochi giorni) negli store Esselunga, è Bennet, assieme a IperCoop, a salire sui gradini più alti del podio.
Il volantino valido fino al 28 febbraio merita di essere spulciato da chi è a caccia di vini dal buon rapporto qualità prezzo, tra le corsie della Grande distribuzione organizzata. Ma ecco come si presentano le insegne: da Auchan a Carrefour, passando per Coop, Iper la grande I e Tigros.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
PIACENZA – Che non si tratti di una degustazione di Château d’Yquem al Marina Bay Sands di Singapore, lo si intuisce dal colpo d’occhio iniziale.
E’ un pannello di plexiglass marrone, con la scritta a pennarello “Ingresso Sorgentedelvino Live”, ad accogliere una cinquantina di persone. Un freddo lunedì 12 febbraio segna le ultime 6 ore di fiera, a Piacenza Expo.
Il pannello, poggiato a terra, davanti alla cancellata che si spalanca a mezzogiorno in punto, la dice tutta sulla tre giorni che ha visto protagonisti 150 vignaioli (circa 800 vini) provenienti da ogni angolo d’Italia, oltre che da Austria, Croazia e Francia. Conta più la sostanza della forma.
E di “sostanza” ne troviamo tanta nei calici dei produttori, accomunati dal credo in un’agricoltura “biologica, biodinamica e sostenibile”. “Vino che si affida alla natura, per arrivare dall’uva alla bottiglia”, come piace definirlo agli organizzatori Paolo Rusconi, Barbara Pulliero e Francesco Amodeo, con l’astuzia linguistica di chi ha visto crescere Sorgentedelvino Live sin dalla prima edizione del 2008, 10 anni fa.
Quattromilacinquecento gli ingressi quest’anno, rende noto l’ufficio stampa. Cinquecento in più, nel 2018, rispetto all’edizione precedente. Una manifestazione che cresce. Come cresce l’interesse, in Italia, per i vini cosiddetti “non convenzionali”.
I MIGLIORI ASSAGGI
Ecco, dunque, i nostri migliori assaggi. Parte del leone la fa la Calabria, regione posta appositamente sugli scudi dagli organizzatori di Sorgentedelvino Live 2018. Buona rappresentanza anche per l’Oltrepò Pavese, che si conferma culla lombarda di una viticoltura alternativa, tra i colli del miglior Pinot Nero spumantizzato d’Italia.
Segnaliamo l’attento lavoro di recupero di due autoctoni in Toscana, da parte di una produttrice che, di “autoctono”, ha ben poco (ed è anche questo il bello). Poi qualche realtà emergente che saprà certamente imporsi dalle parte di Soave, in Veneto, ma non solo.
E una conferma assoluta in Liguria, con uno dei produttori più interessanti dell’intero panorama nazionale dei vini naturali. Infine, uno straordinario assaggio in Sardegna. Quello dal quale vogliamo partire per raccontare i migliori calici di Sorgentedelvino Live 2018.
1) Barbagia Igt 2016 Perda Pintà, Cantina Giuseppe Sedilesu. Giallo luminoso come una spada laser il Perda Pintà di Giuseppe Sedilesu, ottenuto dal vitigno autoctono di Mamoiada, paesino 2.500 anime in provincia di Nuoro: la Granazza, allevata ad alberello.
Un vitigno che non risulta ancora classificato ufficialmente. I Sedilesu lo hanno riscoperto e valorizzato, unendo il frutto di alcune viti presenti tra i filari di Cannonau. Al naso un’esplosione di macchia mediterranea, unita a sentori aromatici e avvolgenti che, poi, caratterizzeranno il palato.
L’avvolgenza è quella dei 16 gradi di percentuale d’alcol in volume, che rendono Perda Pintà perfetto accompagnamento per formaggi stagionati e piatti (etnici) speziati, come per esempio un buon pollo al curry o i dei semplici granchietti al pepe.
2) Azienda Agricola I Nadre. Degustare i vini della vitivinicola I Nadre, significa compiere un tuffo nel calcare, sino a respirarlo. Siamo in provincia di Brescia, più esattamente in località Muline, a Cerveno, Val Camonica. Il terroir calcareo e sassoso dei 2 ettari vitati conferisce un fil rouge di grande salinità a tutti gli assaggi di questa cantina.
Ottimo il Riesling che degustiamo in apertura, seguito dall’ancora più sorprendente Metodo Classico Vsq millesimato 2012 “A Chiara”: Chardonnay in purezza, dosaggio zero (tiraggio giugno 2013, sboccatura 19 settembre 2016).
A giugno 2018 sarà messo in commercio il millesimato 2015 e conviene prenotarsene almeno un cartone. Interessante anche la Barbera Igt Vallecamonica Le Muline 2015 “Vigneti della Concarena”, anche se appena imbottigliata.
3) Igt Toscana spumante rosato 2016 “Follia a Deux”, Podere Anima mundi. Altro assaggio memorabile e forse irripetibile. Già, perché Marta Sierota – l’elegante padrona di casa franco polacca di Podere Anima mundi – lo commercializza solo in cantina, per pochi intimi.
Il resto finisce in alcuni wine bar ben attrezzati di Roma, Bologna e della stessa Casciana Terme Lari, paese che ospita la cantina, in frazione Usigliano (Pisa). Centocinquanta bottiglie in totale per questo sparkling, su un totale di 10-15 mila circa complessive per Podere Anima Mundi.
Si tratta di uno spumante metodo ancestrale (non filtrato e non sboccato) base Foglia Tonda, autoctono a bacca rossa che qualche lungimirante produttore sta tentando di valorizzare, nella Toscana dei tagli bordolesi alla vaniglia. Un vino da provare a tavola, per il bel gioco che sa creare al palato tra frutto e salinità.
Di Podere Anima Mundi, interessante anche il Foglia Tonda 2015 “Mor di Roccia”, lunghissimo in bocca. Non delude neppure l’altro autoctono, il Pugnitello: “Venti” 2015 è ancora giovane ma di ottime prospettive, mentre la vendemmia 2014 sfodera una freschezza e una mineralità da applausi, unite a un tannino presente, ma tendente al setoso.
4) Calabria Igt Magliocco 2013 Toccomagliocco, L’Acino. Tutto da segnalare dalle parti di Dino Briglio Nigro. Siamo sulla Piana di Sibari, tra lo Jonio e il Tirreno, tra il Pollino e la Sila. Meglio non perdersi neppure un’etichetta di questo fiero produttore calabrese.
Da Giramondo (Malvasia di Candia) ad Asor (“rosa”-to di Magliocco e Guarnaccia nera) passando per Cora Rosso e Toccomagliocco, il Magliocco in purezza che costituisce la punta di diamante di questa cantina.
Grande pienezza sia al naso sia al palato, per un vino che riesce a esprimere – oltre a classiche note di frutta rossa e rosa – anche curiosi sentori di arancia a polpa rossa matura. Non mancano richiami speziati e minerali e un tannino che lo rende perfetto accompagnamento per piatti a base di carne.
5) Cirò Riserva 2012 “Più vite”, Vini Cirò Sergio Arcuri. Altro giro, altra giostra. Sempre in Calabria. Salire su quella di Sergio Arcuri è come catapultarsi a Cirò. Tra le vigne ad alberello di quel grande vitigno del Meridione d’Italia che è il Gaglioppo, sino ad oggi fin troppo offuscato dalla lucentezza dell’Aglianico.
Se “Aris 2015” è il campione di domani, il Cirò Riserva 2012 “Più vite” è il fuoriclasse di oggi. Ottenuto dal cru Piciara, costituisce la materializzazione in forma liquida della terra argillosa, quasi appiccicosa, della vigna più vecchia di casa Arcuri.
Un vino che ha tutto e il contrario di tutto: frutto, sapidità, tannino (quest’ultimo quasi scontato, presente ma dosato). Un rosso pronto, eppure di grande prospettiva. In definitiva, uno di quei vini da avere sempre in cantina.
Un po’ come il rosato da Gaglioppo “Il Marinetto”: splendido, per la sua grande consistenza acido-tattile al palato. E, non ultimo, per il suo colore vero, carico del sole di Calabria più che della nebbia di Provenza ormai tanto in voga tra i rosè.
6) Bonarda Oltrepò pavese Doc 2012 Giâfèr, Barbara Avellino. Forse il vino dal miglior rapporto qualità prezzo degustato a Sorgentedelvino Live 2018 (8,50 euro in cantina). Ma non immaginatevi il classico “Bonardino” dal residuo zuccherino piacione.
Giâfèr sta tutto nel nome: giovane, fresco, vivace. Un Bonarda dell’Oltrepò pavese che sfodera un naso e un palato corrispondenti, sulla trama che accompagna i tipici frutti rossi e i fiori di viola: un’esplosione di erbe di campo e liquirizia dolce in cui si esalta il blend di Croatina (85%), Barbera e Uva Rara.
Ma brava e coraggiosa Barbara Avellino non si ferma qui. Ha ancora in cantina qualche bottiglia di Metodo Classico 2005 “I Lupi della Luna”, base Pinot Noir con un 10% di Chardonnay. Uno spumante non sboccato (tiraggio 2008) interessantissimo, la cui commercializzazione è stata avviata solo dal 2014. Più di 110 i mesi sui lieviti.
Naso di erbe (ebbene sì, ancora loro) e palato appagante per corpo e complessità, giocata su tinte balsamiche e elegantemente mielose. Buona anche la persistenza. Le uve utilizzate per questo sparkling provengono dai terreni di Roberto Alessi de “Il Poggio” di Volpara (PV).
7) Pinot Nero Provincia di Pavia Igt “Astropinot” 2013, Ca’ del Conte. Uno di quei Pinot d’Oltrepò che fanno rima con chapeau. Paolo Macconi, titolare con la moglie Martina dell’azienda a condizione famigliare Ca’ del Conte di Rivanazzano Terme (PV) è uno che i vini li sa fare e anche vendere.
Non a caso va forte in Giappone, dove si vanta di vendere “vini che arrivano in perfetto stato, nonostante l’assenza di solforosa aggiunta e 40 giorni di nave”. E “Astropinot” 2013 è tutto tranne che un autogol.
Bellissima l’espressione del frutto “Noir” che riempie di gusto il palato, mentre l’anima animale del Pinot si fa largo con le unghie, espresse (anche) dal tannino vivo ma ben amalgamato. Un cru ottenuto dal vigneto “Il Bosco”, capace di rende merito al meglio della produzione vitivinicola dell’Oltrepò pavese.
Di Ca’ del Conte (azienda che fa delle lunghe macerazioni un credo, con un media di 90 giorni per le annate precedenti alla 2016) ottimi anche i bianchi. Segnaliamo il Riesling renano con un riuscitissimo tocco di Incrocio Manzoni, ma sopratutto lo Chardonnay 2013 Fenice: strepitoso. E aspettiamo il prossimo anno, quando sarà messa in commercio la prima vendemmia (2017) di Timorasso.
8) Insolente Vini. Lo dicevamo all’inizio: “sostanza” più che “forma” a Sorgentedelvino Live. Ecco una giovane cantina che riesce a coniugare entrambi gli aspetti: la sostanza dei vini di Insolente è pari alla loro forma.
Ovvero all’estetica, accattivante e moderna, delle etichette elaborate da Luca Elettri, pubblicitario prestato all’azienda di cui sono titolari i tre figli Francesca, Andrea e Martina. Il risultato sono 6 vini (3 bianchi, due rossi e uno spumante) elaborati in uno dei Comuni roccaforte del Soave Classico, Monteforte d’Alpone (VR).
Per l’esattezza: Bianco PR1, bianco macerato LE1, frizzante RM1 2016, rosso FC1, rosso jat AE1 e spumante ME1 2016, tutti alla prima vendemmia assoluta (2016). Garganega per i bianchi. Tai Rosso, Cabernet e Merlot per i rossi. Ma tra tutti, oltre al Tai, risulta molto interessante la “bollicina” di Durella, da vigneti vocati a Brenton di Roncà (VR), situati a 400 metri sul livello del mare.
Seicento bottiglie in totale, per uno spumante fresco, croccante. Una di quelle bottiglie che non stancano mai. Una bella espressione di uno strepitoso terroir, che sta conquistando sempre maggiore credibilità. E che ora può contare su un altro interprete. Giovane. Ma soprattutto Insolente.
9) Gewurztraminer 2016, Weingut Lieselehof. Una vecchia conoscenza di vinialsuper, già segnalata tra i migliori assaggi del Merano Wine Festival 2017, per lo strepitoso Piwi Julian 2008 e per il passito Sweet Claire (100% Bronner).
A Sorgentedelvino Live 2018 le strade si incrociano per un altro cavallo di battaglia di Weingut Lieselehof: il Gewurztraminer. Uno di quelli da provare, perché si discostano dalla media. Tipico più in bocca che al naso, dove sembra assumere note che lo avvicinano di molto al Moscato Giallo. La spiccata acidità al palato rende questo vino davvero speciale
10) Tra i migliori vini passiti degustati, due calabresi dominano la scena: il Moscato di Saracena di Cantine Viola, vendemmia 2014, è uno di quei vini che riescono ad andare al di là di un calice assoluto valore. Attorno alla riscoperta del Moscato di Saracena, Luigi Viola e la sua famiglia sono riusciti a creare un mondo.
Una sorta di indotto, costituito dalla recente fondazione di una cinquantina di cantine nella provincia di Cosenza. A raccontarlo è lo stesso Alessandro Viola, col garbo dei grandi uomini di vino.
Ottimo anche il Greco di Bianco passito dell’Azienda agricola Santino Lucà di Bianco (Reggio Calabria). Un passito dalle caratteristiche più classiche rispetto al Mantonico passito proposto in degustazione dalla stessa cantina, a Sorgentedelvino Live 2018.
Chiudiamo con un classico per i lettori di vinialsuper: il vino cotto Stravecchio Marca Occhio di Gallo della Cantina Tiberi David. Un unicum nel suo genere, che ancora attende (a differenza del Moscato di Saracena di Cantine Viola) il riconoscimento di “presidio Slow Food” per la definitiva consacrazione. Un aspetto che vi racconteremo presto, in un servizio ad hoc. Straordinaria l’espressione della vendemmia 2003 in degustazione.
Letteralmente “fuori concorso” il Pigato 2003 in versione “Armagnac” di quel santuario ligure che è Rocche del Gatto. A presentarlo è il guru Fausto De Andreis, che nella sua Albenga (SV) è artefice di vini immortali, a base Pigato e Vermentino.
Fausto ha chiamato questa “bevanda spiritosa” da 33% “Oltre Spigau 03”. Un altro passo avanti verso la battaglia irriverente di un vignaiolo d’altri tempi e senza tempo. Come i suoi vini.
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Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
(4,5 / 5) Alzi la mano chi ha mai sentito parlare di Tai Rosso. E se lo chiamassimo Cannonau, o Grenache? Si tratta dello stesso vitigno. Sotto la lente di ingrandimento di vinialsuper, il Tai Rosso Colli Berici Doc “Il Monastero” 2016 della Società agricola semplice Pegoraro di Mossano (Vicenza).
Un’azienda a conduzione famigliare, che aderisce alla Federazione italiana vignaioli indipendenti (Fivi). Per intenderci, gli artefici di quello straordinario Mercato dei Vini che, ogni anno, va in scena a Piacenza.
LA DEGUSTAZIONE
Nel calice, il Tai Rosso 2016 di Pegoraro si presenta di un rosso rubino brillante, limpido, mediamente trasparente. Al naso i frutti rossi tipici del vitigno: marasca, una punta di mirtillo e mora, ma soprattutto lampone, fragolina di bosco e richiami floreali di rosa canina.
Sentori puliti, candidi, che sembrano riprendere la franchezza invitante del colore di cui tinge il calice. Genuino è anche il palato del Tai Rosso della cantina Pegoraro. Corrispondente al naso, riempie la bocca di lampone e fragola, impreziosite da una sapidità che accompagna il sorso fino al retro olfattivo. Levigato il tannino. Setoso.
In cucina, l’abbinamento più scontato è quello con la gastronomia di questa fetta di Veneto tutta da scoprire. E dunque la Soprèssa Vicentina Dop e il baccalà alla vicentina. In realtà di Tai Rosso è uno di quei vitigni che la Grande distribuzione potrebbe valorizzare come “vino quotidiano” ma non banale, sponsorizzandolo anche fuori dai confini regionali (ad oggi è poco rappresentato sugli scaffali delle maggiori insegne).
LA VINIFICAZIONE
Tai Rosso “Il Monastero” è l’etichetta che la cantina Pegoraro destina ai supermercati. I vigneti si trovano a Mossano. Le uve vengono raccolte e selezionate tra la fine del mese di settembre e i primi giorni di ottobre.
La fermentazione avviene a una temperatura controllata che va dai 23 ai 27 gradi, con macerazione
di pochi giorni. Terminata la fermentazione il vino riposa in botti di acciaio per almeno sei mesi.
Il Tai Rosso (chiamato “Tocai Rosso” fino al 2007,) è il vitigno principe dei Colli Berici. La Cantina Pegoraro ne ha fatto una religione. Tanto è vero che sono quattro, oltre a “Il Monastero”, le etichette prodotte a partire da questo vitigno, non presenti sugli scaffali dei supermercati (destinati, dunque, all’Horeca). Ci incuriosisce il Metodo Classico Dosaggio Zero, che non mancheremo d’assaggiare e raccontarvi.
Prezzo: 4,69 euro
Acquistato presso: Alìper – Alì Supermercati
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Fiano del Salento Igt passito 2016 Galadino. E Croatina Provincia di Pavia Igt 2016 Cantina Clairevue. Cos’hanno in comune questi due vini in vendita negli Md discount? Entrambi si sono aggiudicati 96 dei 99 punti sulla scala di valutazione del noto critico Luca Maroni, autore dell’Annuario dei Migliori Vini Italiani.
“Galadino” e “Cantina Clairevue”, inoltre, sono due linee del colosso Schenk Italian Wineries di Ora (Bolzano), che figura sulle retro etichette come Casavin. Schenk imbottiglia sia il Fiano sia la Croatina pavese, prodotta tuttavia dal Consorzio Vitivinicolo Piemontese-Lombardo-Veneto, con sede a Pavia.
Come accade sempre più spesso, è su richiesta degli attenti lettori di viniasuper che ci siamo spinti nella degustazione di questi due vini. “Sono stati recensiti bene da Luca Maroni, voi cosa ne pensate?”, ci scriveva Giacomo, il 24 gennaio scorso.
Una domanda che ci inorgoglisce. Consci che, nella giungla del web, sia passato il concetto che i degustatori di vinialsuper non abbiano padroni. Lungi da noi, al contempo, giudicare il giudice.
Ma questo è quello che pensiamo di due etichette, il Fiano e la Croatina, in vendita da Md discount rispettivamente a 4,99 euro e 2,99 euro. Punteggi meritati quelli assegnati da Luca Maroni?
FIANO DEL SALENTO IGT PASSITO 2016, GALADINO (5 / 5) Giallo dorato limpidissimo, nel calice, questo Fiano del Salento Igt ottenuto da uve leggermente appassite. Al naso l’impronta netta di questa tecnica, che consiste nel raccogliere le uve leggermente in ritardo rispetto alla completa maturazione. Con la conseguente presenza di una maggiore concentrazione zuccherina negli acini.
Dunque frutta esotica (melone giallo e ananas su tutti), ma anche pesca a polpa gialla matura, papaya e banana, uniti a richiami salini e vegetali importanti. Passiamo all’assaggio, insomma, dopo un’analisi olfattiva davvero suadente.
L’ingresso in bocca rispetta le attese: morbido, sulla scia dei sentori di frutta matura avvertiti all’olfatto. Poi, questo Fiano sembra vivere un moto d’orgoglio. Accendendosi di un’acidità calda e regalando, infine, una chiusura dominata da piacevolissime note a metà tra il salmastro e il fruttato maturo di banana.
Bel vino, insomma. Soprattutto nel rapporto qualità prezzo. Se “la qualità del vino è la piacevolezza del suo sapore, ovvero la sua fruttosità”, assunto da cui prende il via il metodo di valutazione dei vini di Luca Maroni, anche noi di vinialsuper ci troviamo perfettamente in linea con la valutazione di 96/99.
CROATINA PROVINCIA DI PAVIA IGT 2016, CANTINA CLAIREVUE (2,5 / 5) Rosso carico con riflessi violacei impenetrabili per questa Croatina che, all’esame visivo, mostra una certa consistenza. Al naso, il piatto forte non è certo l’eleganza. Ma da un vitigno ruvido come questo, e per 2,99 euro, si può anche non aspettarsela.
Il punto è che naso e bocca paiono piuttosto corrispondenti. Frutti rossi come amarena e mora vengono sotterrati da richiami di cuoio, tabacco e incenso, pesanti come macigni. L’ossigenazione fa guadagnare qualcosa a questa Croatina, che pare davvero molto chiusa in se stessa.
Interessante, forse, riassaggiarla tra qualche anno. Ma senza troppe velleità, al cospetto di un vino che lascia a desiderare in quanto a “consistenza” del sorso. Ingresso e beva esile, su cui si innesta – peraltro – una vena vagamente zuccherina, pensata forse per alleggerire la beva.
Una vena “bonardizzante”, per usare un neologismo, che certamente apprezza il consumatore medio. Il retro olfattivo è fruttato e presenta una chiusura leggermente speziata, con gli sbuffi di pepe nero tipici del vitigno.
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(4 / 5) Il Pinot Bianco è uno di quei vitigni internazionali che fa discutere gli ampelografi sulla sua origine e che ha trovato dimora in svariati terroir.
Uno di questi luoghi è il Veneto. Assaggiamo oggi il Colli Euganei Pinot Bianco Doc della cantina Conte Emo Capodilista – Azienda Agricola La Montecchia, annata 2015.
LA DEGUSTAZIONE Colere giallo paglierino con riflessi verdastri, trasparente, scorrevole nel bicchiere. Al naso sembra poco intenso ma è solo timidezza. Dopo un attimo ecco arrivare piacevoli note di fiori bianchi, un leggero sentore erbaceo e note di frutta a polpa chiara.
Frutta molto matura che, via via che il calice si scalda, tende a prendere il sopravvento. In bocca si esalta subito la sapidità di questo Pinot Bianco, seguita dalla fresca acidità che lo rende veramente facile ed agile in bocca. “Beverino”, come si suol dire.
Delicato nel retro olfattivo, dominato dai ritorni floreali già percepiti al naso. Non particolarmente persistente, si sposa bene con preparazioni di pesce o carni bianche delicate.
In definitiva, un vino giustamente collocato in una fascia prezzo medio-alta, per quello che riesce a esprimere nel calice rispetto ad altre referenze prodotte con lo stesso vitigno.
LA VINIFICAZIONE Vinificazioni in bianco, in acciaio, a temperatura controllata per le uve di solo Pinot Bianco coltivate su terreno di medio impasto con esposizione sud nel comprensorio della Doc.
Cantina di lunga tradizione, come testimonia la villa cinquecentesca che sovrasta le vigne a Selvazzano Dentro (PD), Conte Emo Capodilista – Azienda Agricola La Montecchia vanta tracce storiche fin dalla Serenissima Repubblica di Venezia. Ma è recentemente che l’azienda si è distinta per i tanti progetti di eco sostenibilità, anche in collaborazione con le scuole delle province di Padova.
Prezzo: 9,50 euro
Acquistato presso: Alìper – Alì Supermercati
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Angiolino Maule vinialsupermercato credits Lorenzo Rui
Millenovecentottantotto, duemiladiciotto. Trent’anni di sacrifici e battaglie. Trent’anni di strade in salita, costellate da pozzanghere e buche grosse come crateri. Di quelle capaci di trasformarti da solista a capo del coro. Oppure da sognatore a fallito.
Chi dice che i vini naturali non esistono, forse, semplicemente, non hai mai incontrato in vita sua Angiolino Maule. Uno capace di metamorfosi kafkiane. Pazzo scatenato e ignorante (per molti) negli anni Novanta. Oggi, definitivamente, un pioniere.
Un “estremista”, fino a ieri. Poi diventato un “equilibrato del naturale” (parole sue). Eppure Maule non è cambiato mai. Qualche capello bianco in più, certo. Qualche ruga sul volto, dovuta ai troppi vaffanculi sottaciuti da un carattere pacato e meditativo, più che agli anni sul groppone. Roba rara da trovare tra i veneti.
Mentre l’Italia lo prendeva per scemo, Angiolino Maule e la moglie Rosamaria, sul finire degli anni Novanta, cominciavano a raccogliere i primi successi della loro azienda agricola: La Biancara di Montebello Vicentino.
Oggi Maule è presidente di VinNatur, l’Associazione Vini Naturali da lui fondata nel 2006, che dal luglio 2016 ha stilato un vero e proprio disciplinare per i propri associati (scaricabile integralmente qui).
Non sono troll le migliaia di visitatori che ogni anno, tra Genova e Vicenza, affollano gli stand degli oltre 170 produttori di vini naturali (italiani ma non solo, alcuni dei quali mappati da Decanter) che si riconoscono nei principi dell’associazione. E non è un troll neppure Angiolino Maule, che concede a vinialsuper questa intervista in esclusiva.
Che cos’è il vino naturale? E’ il vino prodotto senza utilizzo di prodotti di sintesi, né in vigna né in cantina. E con il minor impatto possibile sull’ecosistema
Quali sono gli strumenti a garanzia del consumatore, circa l’effettiva “naturalità” del vino? Quali strumenti ha messo in campo, in questo senso, VinNatur?
VinNatur da 10 anni effettua analisi a tutti gli associati su residui di pesticidi e solforosa totale all’interno dei vini. I produttori che hanno vini con residui e con livelli di anidride solforosa superiori ai 50 mg/l vengono allontanati dall’associazione in un percorso di due anni al massimo.
Ora abbiamo sviluppato anche un disciplinare interno e ci stiamo attrezzando per farlo rispettare in ogni sua parte, tramite controlli alle aziende associate che saranno eseguiti da enti certificatori esterni. Per quanto riguarda altri vini naturali non sono a conoscenza delle eventuali garanzie.
Quante bottiglie produce all’anno il “vigneto naturale” italiano? Su quanti ettari? Proprio per il fatto che non esiste una normativa è difficile stabilirlo. VinNatur in Italia “produce” nel suo insieme circa 5 milioni di bottiglie suddivise su 150 produttori, che in media posseggono 10 ettari vitati.
In Italia, lei è un precursore dei vini naturali: come ha visto evolversi il mercato, in Italia e all’estero?
Per quanto riguarda la mia azienda, fino al 2010 lavoravo prevalentemente all’estero, dove tutt’ora ci sono ottime prospettive anche per aziende piccole o sconosciute. Oggi vedo anche in Italia una bella evoluzione.
Si è passati dal parlarne tanto con pochi consumi, al parlarne e fare economia. Vedo sempre più ristoranti di alto livello proporre vini naturali anche non blasonati e questo mi rende felice.
Esistono vini naturali del tutto privi di quelli che, in una degustazione professionale, sarebbero considerati difetti? Direi proprio di si!
In percentuale, quanti vini naturali “difettati” riscontra ogni 10 assaggi? E in passato? Potrei dire 1 su 10, mentre in passato erano sicuramente di più.
Spesso la critica che viene mossa ai produttori di vini naturali è che facciano passare per “pregi” i difetti del vino: cosa risponde? Purtroppo ci sono ancora colleghi che la pensano così e quindi la critica è più che giusta. I difetti nascondono il vero terroir e la vera espressività del vino, non dobbiamo mai dimenticarlo. Io e molti altri che hanno l’umiltà delle proprie azioni abbiamo sempre ammesso i nostri errori.
Per primi ce ne scusiamo e ci impegniamo ad affrontarli e capire come non ripeterli. Quando presento i miei vini sono il primo a dire “buono, però ora che lo assaggio, lo avrei fatto diversamente e forse migliore!”.
I vini naturali attirano sempre più l’interesse del pubblico, ma sembrano destinati a restare comunque un fenomeno di nicchia, per pochi eletti: perché? Pensa che qualcuno sbagli a comunicarli? Qual è, secondo lei, il modo migliore per avvicinare al mondo dei naturali chi non li conosce? Non credo rimarranno fenomeni di nicchia. Già il Bio sta arrivando alle grandi cooperative vinicole più intraprendenti. Il “naturale” si sta allargando lentamente ma ritengo sia meglio così! Dobbiamo presentarci con umiltà, dicendo quello che facciamo, senza denigrare l’altro.
Sottolineare le differenze tra naturali e convenzionali come ha fatto di recente Live Wine è positivo, oppure ostacola il graduale avvicinamento dei due “mondi”? L’idea del confronto tra diversi approcci non è nuova, è un’idea già utilizzata in passato da altri. Ad una prima vista è fuorviante e per questo non mi è mai piaciuta particolarmente.
Lei beve vini “convenzionali” / “biologici”? Raramente bevo convenzionali e non mi voglio esprimere. Troppi “biologici / tradizionali” che mi capita di bere hanno un gusto per me simile al convenzionale, quindi senza personalità. Credo sia un vero peccato.
Gli additivi presenti nel “vino convenzionale/biologico/biodinamico” possono essere considerati pericolosi per la salute? Ad eccezione di solforosa in eccesso e pesticidi (soprattutto se ci sono più principi attivi) gli altri non sono pericolosi.
Qual è il prezzo di un vino naturale? Dipende dalla qualità. Ci sono vini naturali entry level da 10 euro, ma anche top di gamma da 100 euro in enoteca.
Cosa risponde a chi, provocatoriamente, sostiene che i vini naturali “non esistono”? Siamo costantemente “sotto l’attacco” di esperti ed enologi che sostengono l’inesistenza del vino naturale e l’inadeguatezza di questa definizione. Siamo anche circondati da altri enologi e studiosi che ci danno una mano o che ci osservano con curiosità e voglia di confronto. Per questo vado avanti per la mia strada senza guardare ad inutili polemiche. Ormai è una parola di uso comune, se ne faranno una ragione spero.
Qualche anticipazione sulla prossima edizione di VinNatur a Villa Favorita Verrà dato più spazio agli importatori e ai giornalisti dall’estero che vogliono scoprire le nuove aziende associate. Sarà inoltre strutturata un’area food più efficiente e con produttori di alto livello.
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DUSSELDORF – Oltre 70 espositori provenienti da 15 Paesi presenteranno, in un proprio padiglione (il 7.0) birre, sidri e altre bevande alcoliche.
Per la prima volta, nel contesto della mostra speciale “Same but different”, la gamma dei temi Craft Spirits, Craft Beer & Cider (Bevande alcoliche artigianali, birre artigianali e sidri) si troverà al centro della particolare attenzione della ProWein.
“Queste bevande creative svolgono un ruolo sempre più importante negli ambienti dei bar urbani, nella gastronomia di tendenza e nel commercio specializzato, includendo sempre più nuovi gruppi di acquirenti – non solamente in Germania ma anche in campo internazionale”, dichiara Marius Berlemann, Global Head Wine & Spirits e Direttore della ProWein.
“Era ovvio quindi riprendere questo argomento alla ProWein e prepararle un grande palcoscenico. Non ci saremmo mai aspettati una risonanza così positiva”, afferma Marius Berlemann. I fornitori di Craft Spirits, Beer und Cider provengono dal Belgio, Germania, Francia, Italia, – ma anche da paesi d’oltremare come Australia, Cile, Perù o Sud Africa.
IL MONDO NEL BICCHIERE
Il tema principale, con 40 espositori, risulta essere quello dei Craft Spirits. Tra questi si troveranno alcuni protagonisti del ramo tra cui “Revolte Rum” del Maestro Distillatore Felix Georg Kaltenthaler o la “Siegfried Rheinland Dry Gin” con la sua gamma di gin artigianali.
Anche il Perù è rappresentato, con la sua bevanda nazionale peruviana Pisco. Non solamente dalla Scozia o dall’Irlanda arriveranno whisky selezionati a mano: anche la Svezia – finora non presente nel campo dei whisky – sta facendo sempre più un nome in questo mercato e questo già dal 1999.
Nella città svedese di Gävle si trova la Destillerie Mackmyra, che per esempio in occasione del 40° anniversario del gruppo britannico Rockband ha portato sul mercato con “Motörhead Whisky” in una edizione limitata, uno speciale Single Malt.
Inoltre nel padiglione 7.0 i visitatori della ProWein troveranno una raffinata selezione di circa 10 espositori di Sidro. In questo campo è la Francia a dare il tono con le sue composizioni perlate e secche, seguita dall’Irlanda, dall’Australia e dalla Germania.
BIRRA ARTIGIANALE Per gli specialisti che vorranno informarsi sulla birra artigianale saranno a disposizione informazioni alla mostra speciale “Same but different”. Circa 20 espositori provenienti da sette paesi presenteranno le loro creazioni di luppolo.
Una nuova generazione di birrai tratta in modo nuovo la lavorazione con lieviti, malto e luppolo; gli archivi vengono rovistati, vengono riscoperti usi storici e regionali di birre che, sul bollitore, vengono interpretati in chiave moderna.
Ottimi indirizzi alla ProWein sono per esempio “Craftwerk” (Padiglione 7.0, Stand D 35), una divisione della Bitburger Brauerei oppure la Birreria Artigianale di Amburgo con “von Freude” (Padiglione 7.0, Stand D 19).
Anche nelle nazioni prettamente a storia vinicola come l’Italia e la Francia, i fabbricanti di birra, si son fatti già un nome con le loro birre da buongustai, come ad esempio la “Birra Antoniada“ (Interbrau; Padiglione 7.0, Stand D 24), “Meteor” (Brasserie Meteor; Padiglione 7.0, Stand D 28) e la “Brasserie Alaryk” (Padiglione 7.0, Stand D 39).
Tra tutta questa diversità, ecco che la Fizzz-Lounge della Meininger Verlag (Padiglione 7.0, Stand C 43) è quello che ci vuole: i sommelier di birra Dirk Omlor e Benjamin Brouër presentano in degustazioni guidate, il mondo emozionante delle birre artigianali – dalle birre aperitivo, alle birre alla spina per arrivare poi alle marche Porter, Stout, Ale ed alle birre belghe.
BARISTI E HYGGE Per i fan del bar, la Fizzz Lounge ha pronta un’attrazione: chi non conosce l’atmosfera Hygge? Una casa a mare, un picnic sul prato, una serata davanti al caminetto – o detto brevemente: l’atteggiamento scandinavo rivolto al calore, al benessere ed al valore della vita.
Quattro ben noti trendsetter di bevande ad alta percentuale alcolica presenteranno le loro esclusive creazioni Hygge. Arnd Henning Heißen, il maestro degli aromi, è uno dei più esperti baristi della gastronomia tedesca e dirige al Ritz-Carlton di Berlino i due Bar-Istituzioni “The Fragrances” e “The Curtain Club”.
Stephan Hinz è considerato come visionario della cultura tedesca del bar, ed è proprietaro del bar di Colonia ”Little Link” ed ha già pubblicato numerosi libri premiati. Marian Krause appartiene ai più rinomati baristi del paese, e già all’inizio della sua carriera ha dimostrato le sue capacità nei maggiori concorsi di cocktails ed è stato anche uno dei migliori baristi del paese.
Una delle migliori Barmaid in Germania è Marie Rausch. L’autoproclamata cuoca delle bevande gestisce a Münster il ristorante bar “Rotkehlchen” ed è diventata nota come pioniera del trend dell’abbinamento degli alimenti (Foodpairing-Trends) ed anche maestra dei drink personalizzati. Anche nelle competizioni internazionali si è già fatta un nome.
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