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Villány, nuova frontiera del Cabernet Franc: in Ungheria il primo concorso Franc du Monde

Villány, nuova frontiera del Cabernet Franc in Ungheria il primo concorso Franc du Monde

Il Cabernet Franc ha una nuova capitale di confronto mondiale: Villány. Con la prima edizione di Franc du Monde, concorso internazionale dedicato al vitigno andato in scena il 10 giugno 2022 (101 campioni da 8 Paesi, giudicati da una giuria internazionale a Siklósi Vár), l’Ungheria si conferma un punto di riferimento per la varietà bordolese.

Dei 1.450 ettari complessivi presenti oggi nel Paese, ben 330 sono iscritti alla Dop Villány, nella zona sud occidentale. Il rigido sistema di qualità introdotto nel 2014, con all’apice il Villány Franc Super Premium – resa massima di 50 quintali per ettaro e invecchiamento minimo di 2 anni, di cui almeno uno in legno – è riuscito a mettere i vini rossi magiari, prodotti con uve Cabernet in Franc in purezza, sotto ai riflettori internazionali.

Franc du Monde è la sfida nella sfida. Un percorso appena iniziato, che vedrà impegnato il Consorzio vini di Villány (Villányi borvidék), capitanato dal noto produttore Josef Bock, nel coinvolgimento di altri territori che puntano sul Cabernet Franc. In primis Loira e Bordeaux, ma anche Bolgheri, Colli Euganei e Gambellara, per l’Italia.

Anche per questo, la prossima edizione della competizione è prevista tra due anni. Un periodo necessario per superare le reticenze mostrate dai Paesi leader nella produzione del Cabernet Franc, in occasione della prima edizione di Franc du Monde (Francia e Italia in primis, a dire il vero con poco tempo a disposizione per l’invio dei campioni in Ungheria).

«Obiettivo nell’obiettivo – come ha sottolineato András Horkay del Villányi borvidék – è mettere Villány al centro del mondo del Franc, attraverso un evento utile al confronto sul vitigno e alla crescita della sua popolarità tra i consumatori».

I MEMBRI DELLA GIURIA DI FRANC DU MONDE 2022 E I VINI PREMIATI

Confermato per novembre 2022 l’annuale rendez-vous a Villány, con la settima edizione della Franc & Franc Conference. «La decisione di creare un nuovo concorso enologico – commenta Gergely Nagy, direttore esecutivo di Tenkes Regional Development Nonprofit Ltd – è stata ispirata dalle esperienze degli anni passati».

La regione vinicola di Villány ha già organizzato 6 volte eventi commerciali e consumer a tema “Cabernet Franc”. In questi anni, molti dei più importanti produttori del Vecchio e del Nuovo Mondo hanno presentato i loro vini alla Franc & Franc Conference. Si tratta di produttori devoti, che credono nella varietà e ne fanno vini varietali».

Centouno i vini iscritti a Franc Du Monde 2022, provenienti da 8 Paesi: Francia, Slovacchia, Croazia, Serbia, Romania, Turchia, Argentina e Ungheria. La categoria “Premium” è risultata la più popolare, con 67 campioni in degustazione. I vini sono stati valutati da esperti internazionali del settore, tra cui i due Master of Wine Cees van Casteren e Pasi Ketolainen.

Oltre a loro Ximena Pacheco, György Orodán, Zoltán Győrffy, Csilla Sebestyén. E ancora: Attila Fiáth, Ágnes Németh, Davide Bortone (winemag.it), Sue Tolson, Niklas Bergquist. Infine: László Romsics, Ivett Vancsik, Jeroen Terhorst, Joel B. Payne, Tomislav Ivanovic.

Qualità complessiva dei vini medio-alta. Ma solo il 30% degli iscritti ha potuto ricevere una medaglia, secondo le regole Oiv. I vini vincitori hanno dunque registrato valutazioni medie pari o superiori agli 89,2 punti.

LE MEDAGLIE D’ORO DI FRANC DU MONDE 2022

– Bock Cabernet Franc 1993, Villány, Ungheria

– Fritsch Villányi Cabernet Franc 2019, Villány, Ungheria

– Günzer Tamás Bocor Villányi Franc 2019, Villány, Ungheria

Csányi Chateau Teleki Villányi Cabernet Franc 2002 ,Villány, Ungheria

– El Enemigo Cabernet Franc 2016, Argentina

– Vylyan Franc Variations 2020 botte 2020, Villány, Ungheria

– Tajna Cabernet Franc 2019, Slovacchia

– Bodri Cabernet Franc “Dűlő” Selezione 2019, Szekszárd, Ungheria

– Havas & Timár Franom 2018, Eger, Ungheria

– Bock Villányi Franc Ördögárok Selezione 2015, Villány, Ungheria

Csányi Teleki Tradíció 1881 Villányi Franc Kopár 2017, Villány, Ungheria

LE MEDAGLIE D’ARGENTO DI FRANC DU MONDE 2022

– Jackfall Cabernet Franc 2017, Villány, Ungheria

– Belo Brdo Cabernet Franc Etichetta nera 2017, Serbia

– Havas & Timár Franom Barrel Selection, 2017, Eger, Ungheria

– Szende Kopár Villányi Franc 2017, Villány, Ungheria

– Mokos Villányi Franc Super Premium 2017, Villány, Ungheria

– Blum Cabernet Franc 2017, Villány, Ungheria

– Weninger & Gere Villányi Franc (Csillagvölgy) 2018, Villány, Ungheria

– Antal Cabernet Franc 2020, Szekszárd, Ungheria

Vesztergombi Kerékhegy Cabernet Franc 2017, Szekszárd, Ungheria

– Lelovits Tamás Villányi Franc 2017, Villány, Ungheria

– Bock Villányi Franc Fekete-hegy Selection 2012, Villány, Ungheria

– Bakonyi bio Villányi Cabernet Franc 2020, Villány, Ungheria

– Mokos Villányi Franc 2017, Villány, Ungheria

– Csányi Chateau Teleki Villányi Franc 2017, Villány, Ungheria

– Bock Villányi Franc Fekete-hegy Selection 2009, Villány, Ungheria

– Bock Villányi Franc M Selection 2017, Villány, Ungheria

– Jekl Cabernet Franc 2013, Villány, Ungheria

– Koch VinArt Cabernet Franc 2018 Villány, Ungheria

– Feravino (Enosophia) Cabernet Franc Miraz 2018, Croazia

– Heumann La Trinitá Villányi Franc 2017, Villány, Ungheria

– Koch VinArt 899 Villányi Franc 2017, Villány, Ungheria

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Villányi Franc, che fermento! Futuro spianato grazie alle nuove generazioni

Giovani, preparate e desiderose di dimostrare il loro valore “sul campo”. Ovvero nel calice. Sono loro, le giovani winemaker che hanno girato il mondo per tornare a casa, il volto più fresco e promettente del Villányi Franc. Stelle che hanno brillato sul palcoscenico della Franc&Franc International Wine Conference 2021, andata in scena il 19 e 20 novembre nel sud dell’Ungheria, patria dei vini rossi ottenuti da Cabernet Franc in purezza (340 ettari complessivi).

Un unicum nel panorama internazionale. Tanto che l’evento ha convogliato a Villány circa 200 professionisti internazionali del settore. Nel confronto con i vini magiari protagonista anche l’Italia, con il Costa Toscana Igp Cabernet Franc 2017 di Duemani, cantina biodinamica di Riparbella (Pisa) guidata da Elena Celli e Luca d’Attoma (tra le più acclamate dal parterre).

La profezia di Michael Broadbent, critico di Decanter che, nel 2000, comprese le potenzialità del vitigno bordolese nel particolare microclima ungherese, sembra oggi tingersi di rosa. Levando di dosso, ai vini Villányi Franc, quel filo di “polvere” del classicismo e quel comun denominatore legato a poderosità e grassezza, conseguenza dei lunghi affinamenti in legno piccolo (spesso nuovo) e delle alte percentuali d’alcol in volume.

IL FUTURO DI VILLÀNYI

La svolta attuale porta il nome di giovani winemaker come Zsófia Kövesdi (a destra, nella foto di copertina) in forza a Jammertal Wine Estate. Enologa dalle idee chiare e di grande determinazione, è tornata in Ungheria «per lasciare il segno» dopo gli studi in Francia (Montpellier e Bordeaux) e la pratica in Australia, California e Portogallo. Riuscendo, addirittura, a tirare fuori dal cestello uno Chardonnay coi fiocchi (“Ars Poetica” 2020, che sa di Borgogna e di Australia, in “salsa” magiara), in una terra di rossi (90/100 al Villányi Franc 2016).

In rampa di lancio anche la giovanissima Pálma Koch (a sinistra, nella foto di copertina). Dopo l’esperienza poco più che ventenne a Stellenbosch, in Sudafrica, ha trovato il modo di coniugare il buono del “Nuovo mondo” con gli insegnamenti e l’esperienza pluriennale del padre Csaba Koch (già di per sé allergico a terziari troppo opprimenti). Il suo primo vino, un Syrah di grande dinamicità, con al centro l’autentica espressione varietale e primaria, fa ben sperare per il futuro percorso sul Cabernet Franc.

Non solo donne all’orizzonte del Villányi Franc. Accanto a monoliti e pionieri come Bock (in maturazione in botte nuove annate coi fiocchi, a rimarcare un cambio di passo che sa di consapevolezza del presente), Gere Attila Pincészete (strepitoso l’Ördögárok-dűlő 2017, 93/100) e Csányi Pincészet (promettente Kopár 2017, 91/100) si stanno affacciando nuove realtà. Tutte con le carte in regola per affermarsi. Ed entrare nell’Olimpo del Cabernet Franc internazionale.

VILLÁNYI FRANC, DIÓSVISZLÓ TERROIR SPECIALE

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È il caso di Ruppert Borház, che l’anno prossimo compirà 20 anni di attività. Ventisette ettari vocati alle varietà a bacca rossa, nella sottozona più promettente di Villányi, in termini di terroir: Diósviszló, ai confini occidentali della denominazione protetta. Il Franc di Ákos Ruppert (92/100) abbina in maniera magistrale concentrazione e freschezza. Frutto, balsamicità, spezie e terziari.

Tratti che distinguono anche il rosso iconico Super Premium di Koch (91/100) ottenuto dal vigneto Imre-völgy dűlő che domina il borgo di Diósviszló, 737 abitanti. Tra i mostri sacri della regione vinicola di Villányi si iscrive anche qualche imprenditore straniero. Quella di Evelyne ed Erhard Heumann è una storia d’amore che porta la coppia ad investire in una cantina in Ungheria, dalle rispettive madrepatrie (Svizzera e Germania).

Heumann Pincészet nasce con l’intento di essere un hobby. Ma a quasi trent’anni da quel 1995, è ormai qualcosa di ben più definito. Ossessionati dalla qualità, Evelyne ed Erhard sono giunti al compimento del loro progetto sul Cabernet Franc con una straordinaria annata del loro vino bandiera, Trinitás Villányi Franc 2016.

Un successo bissato dalla vendemmia 2017, appena entrata in commercio (93/100). Guarda caso, ecco rispuntare Diósviszló nel blend (vigneto Nagyhegy), accanto a Vokány (vigna Trinitás).

Tra i vini più interessanti della Franc&Franc International Wine Conference 2021 anche il Cabernet Franc 2019 di Rácz Miklós Tamás (93/100). Inutile chiedere da dove provengano le uve. Ma l’onnipresente terroir di Diósviszló qui si mostra in una veste croccante, estremamente concreta, speziata. Eppure piena e gastronomica.

Succosità da vendere e uno dei varietali del vitigno meglio espressi della denominazione, per un vino giocato sull’eleganza, che ha tanta vita davanti. La prova provata che il Villányi Franc merita un posto d’onore, d’ora in avanti, sulle tavole di esperti e winelover internazionali.

Villány, Baranja ed Erdut: la “Terra del vino” che unisce Ungheria e Croazia

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Altro che diritti Lgbt: l’Ungheria chiede ad Orbán di poter bere vino al ristorante

Dopo il terremoto sulla legge Lgbt, definita da molti osservatori d’ostacolo ai diritti di gay, lesbiche e transessuali, un altro terremoto scuote l’Ungheria di Viktor Orbán, che si prepara al voto di aprile 2022. I produttori di vino ungheresi chiedono al governo di Budapest di consentire agli avventori di poter bere vino al ristorante. L’Ungheria è infatti uno dei pochi Paesi rimasti nell’eurozona in cui è in vigore la tolleranza zero sull’alcol al volante.

Tradotto: bevi una birra, la polizia di ferma a un posto di blocco e sono guai. Patente ritirata e sanzione molto salata, anche in fiorini (in molti casi pari o superiore al salario medio mensile).

A guidare la rivolta è una colonna portante della viticoltura magiara: Joseph Bock, classe 1948, tra i più noti viticoltori di Villány, regione vinicola ungherese vocata al Cabernet Franc in purezza. Bock, esperto cacciatore di cinghiali e daini nel tempo libero, ha messo nel mirino da diversi da anni il proibizionismo del governo ungherese.

ALCOL AL VOLANTE, «TOLLERANZA ZERO IMPEDISCE LA CRESCITA»

Ieri l’ultima stoccata, sul palco di Franc&Franc 2021, manifestazione che ha convogliato nel Sud dell’Ungheria ben 175 wine expert da tutta Europa e non solo, ospitata come di consueto dalla cantina Bock.

«Dobbiamo cambiare questa assurda legge – ha dichiarato Joseph Bock – che mina l’evoluzione stessa della viticoltura ungherese. La tolleranza zero sull’alcol alla guida è d’ostacolo allo sviluppo dell’economia delle cantine magiare, che si stanno sempre più attrezzando anche sul fronte dell’enoturismo».

Siamo ormai uno dei pochi Paesi rimasti in Europa a non permettere a nessuno di bere neppure un bicchiere di vino al ristorante. Anche i turisti e gli enoturisti vivono col timore di consumare un calice di vino, perché corrono il rischio di vedersi ritirata la patente fuori dal ristoranti o dalle cantine».

«Chiunque abbia a cuore la crescita del settore – ha aggiunto Joseph Bock – deve supportarci in ogni modo per far sì che questo divieto venga abolito al più presto. Consentire una minima tolleranza è ormai vitale non solo per molte cantine e ristoranti, ma anche per tutto l’indotto di cantine, ristoranti e strutture ricettive ungheresi».

GIORNALISTI E CONSORZI DEL VINO UNGHERESE CON JOSEPH BOCK

Zoltán Győrffy (nella foto sopra), direttore del wine magazine ungherese Pécsi Borozó, si allinea alla posizione di Bock. «Chi viene pizzicato alla guida con appena 0.25 mg/l di alcol – spiega in esclusiva a WineMag.it – rischia in Ungheria una multa da un minimo di 200 a un massimo 200 mila euro. Quest’ultimo è chiaramente un valore estremo, che tiene conto di eventuali danni causati a persone o cose».

Vedersi rifilata una sanzione da 300 euro e da uno a tre mesi di sospensione della patente è comune, nel Paese. Il punto è che, così facendo, si pone un limite alla cultura del vino ungherese, che deve pur essere bevuto responsabilmente».

«Penso che il governo debba rivedere le norme attuali – conclude Zoltán Győrffy, membro tra l’altro dell’ufficio di gabinetto del rettore dell’Università di Pécs – introducendo una tolleranza minima per chi si mette alla guida, simile a quella di altri Paesi produttori di vino, come per esempio l’Italia. La tolleranza zero è d’ostacolo all’enoturismo, alle nostre cantine e a tutte le aziende della ristorazione e dell’ospitalità».

Tra i favorevoli a una revisione della legge c’è anche Péter Molnár, direttore del Consorzio Vini di Tokaj, la più nota e rinomata regione vinicola ungherese. «L’auspicio – commenta a WineMag.it – è che questa legge cambi, per il bene dell’enogastronomia ungherese».

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Villány oltre il Cabernet Franc: nuovo marchio per l’agroalimentare della regione vinicola

Fare sistema e diventare un punto di riferimento per l’enoturismo magiaro. È questo l’obiettivo che si è data la regione vinicola ungherese di Villány. La zona meridionale dell’Ungheria è già nota per la produzione di vini rossi da uve Cabernet Franc in purezza. Una rarità in Europa e nel mondo. Al marchio collettivo già apposto alle pregiate bottiglie di Villány Franc sarà affiancato un nuovo logo, utile a contraddistinguere i prodotti agroalimentari del “Districtus Hungaricus Controllatus” di Villány.

Dal punto di vista grafico, così come per il vino, al centro del nuovo marchio di qualità ci sarà il crocus ungherese. Un fiore raro e protetto in Ungheria, caratteristico della parte meridionale della collina di Szársomlyó, la più alta della regione vinicola con i suoi 442 metri sul livello del mare. Il crocus è stato scelto simbolicamente: è il primo a spuntare in primavera, nonché il primo a fiorire.

L’operazione di branding collettivo è frutto del lavoro della Strada del Vino di Villány-Siklós, presieduta da Dóra Boglárka Kovács, in collaborazione con il Villányi Borvidék, il Consorzio Vini locale, e con le autorità nazionali magiare. In settimana. il progetto ha raccolto le prime adesioni.

NON SOLO VINO NELLA REGIONE DI VILLÁNY

Accanto alle storiche cantine Bock, Gere Attila e Tamás Gere e Zsolt si sono schierati Báthori Méhészet, produttore di miele di acacia e di castagno; Olajütő Szociális Szövetkezet, oleificio di Ormánság che, tra l’altro, ha un ruolo sociale fondamentale in un’area rurale ad alto tasso di povertà e disoccupazione, al confine con la Croazia (Baranja). In squadra anche Szarkándi László, che a Túrony produce marmellate e sciroppi artigianali.

Le stesse cantine Bock, Gere Attila non producono solo vino, ma anche olio di semi, micromacinati, compresse e creme per la cura del viso e del corpo. Mentre la cantina Tamás Gere e Zsolt si è specializzata anche nella produzione di succo d’uva naturale.

Verrà dunque creata una «mappa gastronomica», online e cartacea, utile a promuovere i produttori locali della regione vinicola di Villány. Una sorta di guida, in cui saranno inclusi anche le strutture ricettive, come hotel e Bed & Breakfast, oltre ai migliori ristoranti.

Le aziende del circuito potranno apporre il nuovo marchio sulle confezioni dei loro prodotti. «Ora – spiega Dóra Boglárka Kovács – la sfida più grande sono i piccoli perfezionamenti, ovvero i dettagli. L’obiettivo è sviluppare un sistema di marchi, ben funzionante a lungo termine».

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Villány, Baranja ed Erdut: la “Terra del vino” che unisce Ungheria e Croazia

VillányBaranja ed Erdut. Ovvero l’Ungheria meridionale dei vini rossi eleganti e generosi, che punta tutto su Cabernet Franc e taglio bordolese. E la Croazia nord-orientale, lontana dal mare, abbracciata dai fiumi Danubio e Drava: terra di vini bianchi a base Graševina e varietà a bacca rossa tipiche di Bordeaux. Non è stato ribattezzato per caso “Land of wine“, “Terra del vino“, il progetto di promozione transfrontaliero che unisce la regione vinicola magiara di Villány e le due sottozone croate della macro regione di Podunavlje.

Un matrimonio che si consuma a nord e a sud di una delle tante strisce tracciate dalla geopolitica, tra Pannonia e Balcani. Per l’esattezza, lungo gli ultimi 60 degli oltre 320 chilometri di confine tra Ungheria e Croazia; verso est, sino a lambire la Serbia.

La forma a grappolo d’uva che si ottiene unendo idealmente il tracciato di VillányBaranja ed Erdut racconta tutto, o quasi. A partire dalla cartina geografica. Oggi solo i serrati controlli alla frontiera dettati dalle misure anti Covid-19 interrompono la continuità, non solo paesaggistica, tra gli areali.

Una morbida discesa dalle “vette” di Villány (140-350 metri sul livello del mare) alla pianura croata, modellata sul letto paludoso del Danubio. Dal sud dell’Ungheria si rotola giù fino ad Osijek, quarta città della Croazia per numero di abitanti – oltre 100 mila – e nuova capitale storica, culturale ed economica della Republika Hrvatska.

THE LAND OF WINE: VILLÁNY, BARANJA ED ERDUT

Novanta metri sul mare, sulla sponda sud del fiume Drava, per un centro che fa della cultura green e del turismo su due ruote il suo punto forte. L’immenso “Giardino urbano” (Gradski Perivoj) di Osijek è menzionato sin dal 1.750. Lo conoscerà bene Davor Šuker, uno dei più grandi calciatori croati di tutti i tempi, che qui è nato.

Una terra simbolo del multiculturalismo, in cui non è difficile trovare tre chiese per paese. Cattolici, calvinisti e ortodossi le distinguono dalla forma del tetto, nonché dalla presenza, o meno, della croce sul campanile.

Una storia ben simboleggiata dal Máriagyűd kegyhely di Siklós, santuario e luogo di pellegrinaggio riconosciuto dalle diverse confessioni religiose, ad appena 16 chilometri dal capoluogo vinicolo Villány. Appena al di là del confine ungherese, il melting pot è evidente nel bilinguismo e nelle assonanze dell’enogastronomia.

Un puzzle che si fa ancora più complesso se si considera l’influenza della Serbia, con cui la Croazia ha condiviso le sanguinose vicende dell’ormai ex Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Il monumento alla Battaglia di Batina, con il suo obelisco di 26,5 metri sull’altopiano di Gradac, celebra la “Vittoria” dell’Armata rossa in occasione della cosiddetta Krvava kota 169, l’«elevazione sanguinosa 169» del 1944, tra gli scontri più violenti della II Guerra mondiale.

Nell’ossario che fa da basamento, i resti di 1.297 combattenti. Perlopiù contadini ucraini, arruolati in fretta e furia dalle forze armate sovietiche per arrestare l’avanzata dell’esercito tedesco. Appena sotto e all’orizzonte, una vista mozzafiato sul Danubio che, proprio in questo tratto dei suoi 2.860 chilometri, unisce le sponde di Croazia e Serbia. Con l’Ungheria sullo sfondo.

VILLÁNY E IL CABERNET FRANC UNGHERESE: CLASSICUS, PREMIUM E SUPER PREMIUM

Seconda solo a Tokaji per notorietà internazionale e acclamata terra dei vini rossi ungheresi, la regione vinicola di Villány si estende su circa 2.400 ettari (2.333,64 secondo l’ultimo censimento) nella macro regione di Baranya. Con i suoi 322,25 ettari, il Cabernet Franc si è ritagliato negli anni il ruolo di varietà simbolo.

Si tratta di uno dei rari casi al mondo di vinificazione in purezza del vitigno. L’esempio è quello della Loira francese (Breton), con cui quest’angolo d’Ungheria condivide le caratteristiche del terreno (argilla, sabbia, limo e loess). Il marchio ungherese si chiama Villány Franc. Alla base, un rigido sistema di classificazione identificato nel 2014 dal locale Consorzio di tutela, il Villányi borvidék.

La stragrande maggioranza dei vini viene imbottigliata come Classicus. Ma sono le tipologie Premium e Super Premium a dare le maggiori soddisfazioni nel calice. Il segreto? Le rese delle uve, provenienti da singoli vigne e cru, vengono contenute sino a meno di un terzo dei 100 ettolitri potenziali.

I vini Villányi Franc Premium (massimo 60 ettolitri / ettaro) prevedono l’affinamento in botte di un anno (la media è di almeno due). Per i Villányi Franc Super Premium, commercializzabili anche solo col nome di Villányi Franc (35 ettolitri / ettaro), il vino trascorre almeno un anno in botte e un altro anno in bottiglia (tre anni sono la media tra vendemmia e inizio della commercializzazione).

Il nuovo sistema di classificazione interessa soprattutto i le uve di Cabernet Franc prodotte in vigneti simbolo come Bocor, Dobogó, Fekete-hegy, Jammertal, Konkoly, Kopár, Mandolás e Ördögárok, per citarne solo alcuni. Tra i produttori spiccano gli storici Tiffán, Gere, Polgár e Bock.

Interessante il fermento riscontrabile tra le cantine di Villányi sul fronte della proposizione di vini meno opulenti, frutto non solo del controllo delle rese in vigneto ma anche dell’esaltazione di frutto più croccante e meno maturo-marmellatoso. Eleganza e finezza, assieme a freschezza e agilità di beva, sono le caratteristiche che premieranno i Villányi Franc di domani.

I MIGLIORI CABERNET FRANC DI VILLÁNYI: LA SELEZIONE DI WINEMAG.IT

Per mantenere alta l’attenzione dei produttori, dal 2015 il Villányi borvidék 0rganizza un tasting dei vini atti a divenire Premium e Super Premium. Tra i 12 selezionati nel 2021, alcuni brillano in particolare per la loro capacità di esaltare il terroir d’elezione del Cabernet Franc ungherese, tanto quanto una necessaria chiave interpretativa moderna del vitigno-vino.

A differenza di Bordeaux, dove il Conseil Interprofessionnel du Vin ha da poco varato l’introduzione di quattro nuove varietà a bacca rossa per contrastare i cambiamenti climatici (Touriga Nacional, Marselan, Castets, Arinarnoa), la regione di Villány sembra intenzionata a risolvere il problema – almeno al momento – attraverso una sapiente gestione del vigneto.

Sarà il mercato, nell’arco dei prossimi 10 anni, a dire chi avrà avuto ragione. Nel frattempo, i calici migliori parlano tutti la stessa lingua. A preoccupare, piuttosto, sono diverse interpretazioni che privilegiano il legno al frutto, nel solco di una standardizzazione ed omologazione che non fa bene al futuro.

 

Agancsos Pincészet – 2017 (14% vol)

Gran bella scorrevolezza e materia per questo Cabernet Franc in purezza vinificato in legno grande da 500 litri. Il sorso è tipico e abbina l’usuale generosità del frutto a una croccantezza rara, che si traduce in una succosità seducente. Convince anche per la gestione composta dei terziari, finissimi e in grado di incomplessire magistralmente il profilo di un’uva coccolata in vigna e poi preservata (ed esaltata) in cantina. Un grande lavoro, in definitiva, sulla varietà, sul terroir e sulla longevità.

A. Gere Pincészet – Ördögárok-dűlő 2017 (14,5%)

I lieviti selezionati all’interno dei vigneti di proprietà, per l’esattezza 3 dei 7 considerati migliori dai test fermentativi, conferiscono uno stile unico ai vini di Attila Gere Pincészet. Nello specifico, il Franc è ottenuto dal cru di Ördögárok, che nel 2017 (come per molti vini ungheresi dell’annata) ha dato risultati eccezionali.

Una chicca che convince per l’eleganza estrema della componente verde del vitigno, tra ricordi di macchia mediterranea, speziatura dolce e fresca e vibrante acidità. Tannini presenti ma elegantissimi, integrati e di gran prospettiva. Tra le componenti morbide, il frutto si rivela materico e succoso, ancora croccante. I terziari giocano un ruolo di secondo piano e lasciano spazio a una delle migliori espressioni territoriali del vitigno. Vino con una grande vita davanti.

 

Bock – Fekete-hegy Selection 2015 (14,5%)

Fekete Hegy, ovvero “Montagna nera”, è una delle selezioni della cantina di Villány guidata dall’iconico József Bock. Un vino che viene prodotto solo nelle annate migliori. E la 2015 sta lì a dimostralo, con la sua stratificazione e complessità, nonché attraverso il chiaro messaggio sulla longevità dei Cabernet Franc ungheresi prodotti nella zona.

Alle classiche note fruttate del vitigno, qui generose e rotonde (ciliegia, lampone, fragolina di bosco), fa eco una freschezza che accompagna dal naso al retrolfattivo, giocata anche su ricordi di erbe della macchia mediterranea.

Bel tannino elegante, integrato e di prospettiva, che contribuisce a rendere la beva agilissima e super gastronomica. Vino pronto, con margini di crescita. Così come sarà grande un altro Cabernet Franc in purezza di Bock: il Siklós ottenuto dalla vigna di Makár, al momento ancora in affinamento in barrique.

Riczu Tamás – 2017 (15%)

Vino ottenuto dalle vigne di Villány con una resa inferiore ai 50 quintali ettaro. Non spaventino i 15% vol., perché il quadro è quello di uno dei vini di rara concentrazione e precisione degli aromi, in cui l’alcol gioca un ruolo fondamentale, proprio per la sua perfetta integrazione.

Il frutto rosso e nero polposo invita agli straordinari un tannino di seta, elegantissimo. A contribuire all’equilibrio del nettare anche una freschezza data da ricordi di mentuccia. Colpisce (anzi strabilia) per l’opulenza, abbinata appunto a freschezza, definizione elegante degli aromi e persistenza da vendere. Un faro per il futuro dei Villányi Franc.

  

Ruppert – Diósviszló 2016 (14,5%)

Piante di 20 anni e resa che fatica a raggiungere il chilogrammo per ceppo nel vigneto di Diósviszló. Se il calice del Cabernet Franc di Ruppert è eccezionale lo si deve soprattutto al grande amore che questa famiglia di produttori riversa in ogni singola attività produttiva. Non a caso è tra i pochi disponibili anche in Italia.

Colpisce per la stratificazione del naso e del sorso, che accosta frutto, spezie, freschezza, eleganza. Una fermentazione rigorosa e volta a favorire l’espressione dei primari, unita a un utilizzo garbato dei legni, regala un sorso al momento piacevolissimo, nonché di assoluta prospettiva.

Sauska – Siklós 2017 (14,5%)

Quattordici gradi e mezzo (abbondanti, si direbbe) e un’acidità pari a 6.1 punti: certi vini si comprendono ancora meglio con i numeri alla mano. Quelli del Cabernet Franc Siklós di Sauska, di fatto, parlano da soli. Si tratta dell’assemblaggio delle vigne Kopár, Konkoly e Makár. La parola d’ordine è “equilibrio”, sul filo di una perfetta corrispondenza gusto-olfattiva.

Note di chiodo di garofano, mentuccia, anice e un tocco di rabarbaro ben si accostano alla pienezza di un frutto grondante di succo, a bacca rossa e nera (lampone, ribes, mora). Vino di rara pienezza e gastronomicità, nonché fulgido esempio di quanto il Cabernet Franc di Villány possa ritagliarsi uno spazio (anche) tra i grandi vini internazionali “da meditazione”. Oltre a piatti elaborati di carni rosse, un buon libro come accompagnamento ideale.

 

Szende Pince – Kopár 2017 (15%)

Botte grande da 500 litri per due anni, una scelta territoriale che inizia dai legni: rigorosamente Trust ungherese. La selezione del vigneto Kopár di Szende è uno di quei vini che cattura sin dal primo sguardo e, subito dopo, dal primo naso.

Il frutto è delizioso e i terziari perfettamente integrati. Un quadro elegante e gioioso su cui danzano freschi ricordi di erbe della macchia mediterranea. Al palato, una perfetta corrispondenza gusto-olfattiva e tannini in cravatta: soffici, ma di prospettiva assoluta.

Tra i migliori Cabernet Franc ungheresi non può mancare quello degustato durante l’Hungarianwines Gettogether 2021 del 19 agosto, al castello medioevale di Siklós. Una manifestazione a cui aderiscono annualmente diversi produttori provenienti da tutte le regioni vinicole dell’Ungheria.

Heumann – Trinitás 2016 (15%)

Vino ottenuto da Cabernet Franc in purezza di rara eleganza e stratificazione nel panorama dei Villány Franc dell’annata 2016. Si tratta del frutto dell’assemblaggio delle uve di Vokány (Trinitás, per l’appunto) e Diosviszlo (Nagyhegy), pensato dalla coppia svizzero-tedesca Evelyne & Erhard Heumann. Come pochi altri colpisce per l’integrazione assoluta dell’alcol, utile spalla dell’assoluta freschezza.

Precisissimi ricordi di piccoli frutti a bacca rossa e nera (mirtillo, ribes) ancora croccanti si concedono tanto al naso quanto al palato, arricchiti da tannini soffici e ricordi di cioccolato e tabacco. Tasso di gastronomicità alle stelle, senza rinunciare a una beva gustosa, golosa, instancabile. Potenziale d’affinamento lunghissimo.

DOVE MANGIARE A VILLÁNY

  • A. Gere Mandula Restaurant (Diófás utca 4-12, Villány)

Non solo vino per la cantina A. Gere. La famiglia chiude il cerchio dell’ospitalità con il Crocus – Resort & Wine Spa, nonché con un ristorante di assoluto livello: il Mandula Étterem – Bisztró & Wine Bar, proprio nel cuore del villaggio di Villány.

Il ristorante porta nel piatto un concetto di “Alta cucina regionale”, rispondente alla tradizione Swabian, ovvero della Svevia, la regione della Germania da cui provengono i Gere, così come molte altre famiglie della zona.

Un lavoro che si fonda sulla creatività, all’insegna dell’attività più importante: la produzione di vini di alta qualità. Al Mandula Étterem – Bisztró & Wine Bar si sperimenta un viaggio tra i vini di Attila Gere, a cui la componente gastronomica vuole fare da spalla.

  • Bock Óbor Étterem (Batthyány utca 15, Villány)

Nel solco dell’enoturismo e dell’ospitalità anche la cantina Bock, che a Villány propone un hotel 4 stelle, l’Ermitage, e un ristorante, l’Óbor Étterem, che si distingue per l’ambiente informale, a cavallo tra la trattoria e i masi con stube del Trentino Alto Adige.

Un po’ come sentirsi a casa, all’insegna degli abbinamenti cibo-vino studiati attorno alla ricchissima produzione della famiglia di origini sveve. Il tutto curato dall’executive chef Barbara Nemesné e dalla coppia di sous-chef György Róbert e Hadnagy Attila.

  • Sauska 48 (048/10 hrsz, Villány)

Si chiama Sauska 48 l’elegante ristorante della cantina Sauska. Oltre ai piatti, si distingue per la vista mozzafiato sulla collina di Villány, specie dalla terrazza, perfetta per l’estate e per le calde e assolate giornate primaverili. Il perché del nome? Presto spiegato: il ristorante ha 48 posti a sedere.

Nel piatto, le specialità della regione interpretate in chiave moderna, con ingredienti provenienti dalle aziende agricole biologiche del circondario. Il tutto condito dalla vasta gamma di vini targati Sauska che comprende, oltre a Villány, anche la produzione della seconda cantina, a Tokaji (vini disponibili anche in Italia).

BARANJA ED ERDUT: “GIÙ” IN CROAZIA, TRA GRAŠEVINA E CABERNET

Venti minuti, direzione sud. Cofano dell’auto e calici rivolti verso Petlovac. O, meglio, Baranjsko Petrovo Selo. Il valico tra Ungheria e Croazia meridionale dista appena 19 chilometri da Villány. Dall’altra parte, ecco la Baranja. Poco cambia, se non una consonante, rispetto alla Baranya ungherese.

Già, perché il progetto di promozione territoriale dei due Paesi si fonda proprio sulla sostanziale unità geografica delle due aree del Transdanubio. Simili anche nel numero di abitanti (circa 350 mila) nella densità di popolazione (attorno ai 75 / Km²) e per la superficie (circa 4 mila Km²). Senza dimenticare che, appena al di là del confine, in Croazia, vivono ancora circa 10 mila ungheresi, secondi solo a serbi (29 mila) e ai padroni di casa croati (oltre 275 mila).

L’influenza “enologica” della Baranya, in Baranja, si sente eccome. Più che nel calice – il terroir di Villány è decisamente più vocato e in grado, da solo, di offrire vini di maggiore spessore – nelle varietà. Basti pensare che la Graševina, la varietà più allevata non solo nella regione vinicola di Podunavlje ma in tutta la Croazia, altro non è che l’Olaszrizling ungherese, ovvero il Riesling italico.

Sul fronte dei rossi, riecco il Cabernet Franc, altro “volto noto” transfrontaliero. Non mancano le altre varietà del taglio bordolese: Cabernet Sauvignon e Merlot, vinificati in purezza o in uvaggio. Colpisce l’approccio croato al vitigno, che nelle migliori espressioni è molto diverso da quello ungherese.

Se a Villány si tende a produrre vini rossi potenti ed eleganti, impreziositi da una mano di legno e terziari più o meno invasivi, in Baranja, così come a Erdut, si sceglie – al momento – la via del residuo zuccherino. Un elemento troppo spesso strabordante, tanto da standardizzare la beva e renderla ancor meno territoriale. Le due subregioni della Podunavlje vivono un’era che può essere considerata d’oro per la viticoltura.

Respinto il sistema mono partitico comunista all’inizio degli anni Novanta, sono molte le aziende che si sono date da fare nel settore. Tra queste, ne spiccano alcune intenzionate distinguersi «sul modello di qualità della vicina Villány», spiega a WineMag.it Josip Pavić, presidente dell’Associazione produttori di vino della Croazia. Ecco dunque i 10 vini da non perdere tra Baranja ed Erdut.

Cabernet Sauvignon 2012 “Premium”, Vina Kalazić (13,5%)

Una delle cantine con le idee più chiare sul futuro, la Vina Kalazić di Zmajevac. La produzione, certificata biologica, si divide in tre linee. Si passa dai vini quotidiani alle due linee premium, tra cui spicca il Cabernet Sauvignon 2012. Gran pulizia del frutto, tannini finissimi e un sorso che fa presagire ancora un quinquennio ad alti livelli per il bordolese di casa Kalazić.

Pinot Grigio 2019, Vina Gerštmajer (13,5%)

Si resta a Zmajevac, ma si cambia completamente registro con Vina Gerštmajer. Una realtà famigliare che vale di pena conoscere e approfondire, soprattutto per la rivoluzione in atto grazie ad Ivan Gerštmajer. Il giovane, rappresentante della quarta generazione, ha iniziato a ridurre parzialmente i residui zuccherini di una realtà interamente vocata alla produzione di vini da vendemmia tardiva.

Il risultato più fulgido è l’esaltante equilibrio fresco-zuccherino di uno dei Pinot Grigio più attraenti del momento, almeno in scala mitteleuropea. Agli 8 grammi di residuo, perfettamente integrati, rispondono 12 punti di acidità. Il sorso è teso e freschissimo, tanto quanto morbido e suadente.

Uno dei classici vini “buoni da soli”, eccezionali anche a tavola. L’esempio più fulgido di quanto un giovane vignaiolo con lo sguardo sul mondo possa dare la svolta alla produzione di una famiglia che, negli anni, si è ritagliata un posto d’onore nella produzione dei migliori vini della Croazia.

Cabernet Sauvignon 2019, Vina Gerštmajer (14%)

Il vino che chiude il cerchio della rivoluzione. Se l’approccio di Ivan Gerštmajer alle varietà a bacca bianca da sempre presenti nel vigneto di famiglia è quello di semplificare senza ridurre, nel bouquet di vini della boutique winery di Zmajevac non poteva mancare un rosso in grado di mostrare l’altra faccia della medaglia.

Tra i vini carichi di terziari e qualche standardizzante sbrodolata sul residuo zuccherino (non a caso tanto amato da mercati come quello cinese) in Baranja brilla l’interpretazione del Cabernet Sauvignon 2019 del giovane Ivan.

Nella sua semplicità e immediatezza, chiara sin dal colore e poi fulgida all’assaggio (frutti rossi croccanti, speziatura elegantissima, beva agilissima ma tutt’altro che banale) c’è tutta la concretezza di un’idea che va ben oltre il vino. Quella di chi vuole scrivere la storia, in una regione enologicamente giovane, che ha un disperato bisogno di personalità a cui aggrapparsi per distinguersi.

Graševina 2020 “Premium”, Vina Belje (13,5%)

Vina Belje è il produttore di vino croato dotato del parco vigneti più vasto: ben 650 ettari, tutti in Baranja. Splendido il corpo aziendale storico, con una serie di cunicoli pronti a sorprendere gli enoturisti. Sul fronte della produzione, nel 2011, l’azienda ha investito risorse pari a 20 milioni di euro per un nuovo polo produttivo all’avanguardia.

Un’azienda attentissima al marketing e al giudizio internazionale, che sta dando (e darà) un grande aiuto alla denominazione e al territorio, soprattutto in termini di visibilità. Tra i vini, tutti enologicamente ineccepibili e pensati per centrare i gusti moderni, ben oltre i confini nazionali, spicca la concretezza e tipicità della Graševina.

Graševina 2020, Vina Antunović (12,5%)

«One woman company». Così si presenta la “donna del vino” più intraprendente della Croazia. Jasna Antunović Turk (nella foto sopra) è a capo della prima azienda vinicola del paese fondata e condotta da una donna. È a Dalj, nella regione di Erdut, a due passi dal confine con la Serbia, che l’ex manager del settore finanziario ha cambiato vita.

Una fortuna per l’intera regione di Podunavlje poter contare oggi sui suoi vini, in grado di evidenziare nel calice le sfumature del terroir locale. Per l’esattezza, Jasna Antunović Turk ha dato avvio nel 2004 all’impianto dei vigneti (8 ettari complessivi) contando sull’esempio del padre. Nel 2009 ha inaugurato la piccola cantina artigianale, a poche centinaia di metri dal Danubio.

La gamma è ricchissima di gemme, tra cui la Graševina 2020. Un vino non filtrato, allo scopo di preservare le gentili caratteristiche del vitigno. Al giallo paglierino luminoso con riflessi verdolini fanno eco frutto e materia da vendere, prima al naso poi al palato.

Spiccano note citriche e di frutta a polpa gialla, nonché fiori che contribuiscono a creare un bouquet elegante e ricercato. Uno di quei vini che assomigliano tanto a chi li produce, dividendosi nello specifico tra charme e concretezza, equilibrio e carattere.

Graševina 2015 Premium, Antunović (12%)

Quando può “invecchiare” una Graševina? Risponde Jasna Antunović Turk, con la sua Premium 2015. Sei anni abbondanti e non sentirli per questo bianco affinato sapientemente in legno grande, che si presenta nel calice con una veste dorata, luminosa. Tutto tranne che il bianco “grasso” e “pesante” che ci si potrebbe aspettare. Un nettare che conserva delicatezza e fragranza, all’insegna di una filosofia produttiva chiara: elevare il vitigno grazie alla tecnica.

Naso e bocca in perfetta corrispondenza, su preziosi ricordi floreali e generosi e polposi richiami fruttati. La componente agrumata tende il sorso come una corda, mentre il legno gioca a riequilibrare il sorso con la vena cremosa. Un vino bianco dall’elevatissimo tasso di gastronomicità, tanto da chiamare il piatto e l’abbinamento ad ogni sorso.

Cuvée Rosé 2020, Antunović (12%)

Poteva mancare un rosé nella cantina della prima donna winemaker della Croazia? Certamente no. Quello di Jasna Antunović Turk, per di più, è un rosato che travalica persino il facile (anzi, triste) luogo comune del rosato che fa impazzire le donne. Ottenuto da un uvaggio Pinot Noir, Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, si presenta nel calice di un rosa provenzale luminoso.

Il naso è delicato, sui fiori di rosa e i piccoli e croccanti frutti rossi. Si spazia dal ribes alla fragolina di bosco, per poi virare su ricordi più pieni e maturi di frutta a polpa bianca e gialla, come la pesca e il melone. Si ritrova tutto al palato, in un quadro di perfetta corrispondenza che vede nella freschezza e nella vena salina del sorso (lunghissimo per la tipologia, in termini di persistenza) uno dei punti forti.

Chardonnay 2017, Antunović (13%)

Altro vino che esalta la varietà, il territorio e il savoir-faire enologico di Vina Antunović. Uno Chardonnay che convince per la riconoscibilità assoluta del vitigno, interpretato in chiave Erdut e, per questo, ancora più prezioso. Naso e sorso si concedono tra eleganti ricordi floreali e di frutta esotica. Pregevole la vena minerale-salina che fa da spina dorsale, unita all’esaltante freschezza che controbilancia la morbidezza del frutto. Vino equilibrato e gioioso, dotato di gran carattere e visione locale.

Graševina 2020, Vina Erdut

Vina Erdut, l’azienda guidata da Josip Pavić, presidente dell’Associazione produttori di vino della Croazia (nella foto sopra) è la cantina leader, in termini di fatturato ed ettari vitati disponibili della subregione di Erdut (513 di cui 490 a corpo unico, un record in Croazia). Merita la visita per l’imponenza della struttura di chiara matrice comunista, con vista spettacolare sul Danubio. La cantina, dotata dei più moderni sistemi di vinificazione, è stata inaugurata nel 1984.

È in grado di accogliere 6 milioni di litri di vino. Al suo interno, una botte di rovere di Slavonia finemente intagliata, con scene di vita rurale che fanno da contorno all’Ultima Cena. Tra i vini secchi e fermi convince la Graševina. Un bianco a tutto pasto giocato sull’esuberanza della componente fruttata, ben riequilibrata dalla freschezza.

Icewine 2012, Vina Erdut

Una delle sorprese per chi si ritrova a sondare le cantine della regione vinicola del Podunavlje: un icewine croato ottenuto da uve Gewürztraminer, raccolte a fine dicembre. Trenta grammi litro di residuo davvero ben integrati, in un sorso suadente e fresco, ben terziarizzato. Un vino perfetto per accompagnare soprattutto formaggi saporiti, oltre ai dolci.

DOVE MANGIARE IN BARANJA

  • Josić Restaurant & Winery – Vina Josić (Planina 194, Zmajevac)

Cucina tipica della Baranja con uno sguardo particolare sul mondo, in particolare sull’Italia, dove Damir Josić si sta tuttora formando, per nobilitare il menu del Josić Restaurant, annesso alla boutique winery di famiglia, Vina Josić. Un’avventura iniziata nel 1999, con l’acquisto di una delle tante antiche case di Zmajevac dotate di grotta (sarduk) per la conservazione del vino (prodotto in maniera casalinga) e dei generi alimentari.

  • Hotel Lug – Restaurant & Vinoteka (Šandora Petefija 64, Lug)

Eleganza e ambiente ricercato si riversano nei piatti di Hotel Lug – Ristorante e Vinoteka. Una storica realtà dell’omonima frazione del comune di Bilje, nell’Osijek-Baranja, da poco rilevata e in rampa di lancio. Nell’edificio da cui sono stati ricavati hotel, cantina e ristorante, fino a due secoli fa, viveva una famiglia tedesca. Al momento sono 67 etichette le etichette di vino in carta. L’obiettivo è di raggiungere le 150, per offrire un ventaglio completo sul vino della Croazia, da abbinare a piatti molto curati, non ultimo dal punto di vista estetico.

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  • Baranjska kuća (Kolodvorska 99, Karanac)

Un luogo magico e da non perdere, per tutti quegli enoturisti che vogliono vivere un’esperienza autentica. Il Baranjska kuća di Kneževi Vinogradi è situato nella frazione di Karanac e offre molto più di una cucina tradizionale di altissimo livello.

Il ristorante dell’hotel è interamente ricavato all’interno della Ulici zaboravljenog vremena, la Via del Tempo dimenticato attorno alla quale si sviluppano gli edifici del vecchio villaggio di Karanac, tra case e botteghe dei mestieri ormai in disuso.

Nei calici del ristorante Baranjska kuća, per scelta del giovane titolare Stanko Škrobo (nella foto gallery), solo vini prodotti nella regione della Baranja. Tra le specialità, anche la farina di mais prodotta in casa e utilizzata per confezionare il pane di questo angolo unico al mondo, in cui la modernità dello street food è legata a doppio filo alla tradizione.

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Gli Editoriali news news ed eventi

Il vino (vulcanico) ungherese, poco conosciuto e tutto da scoprire nel 2021

EDITORIALE – Con una selezione che supera le 100 etichette, l’e-commerce vinoungherese.it punta a far conoscere a winelovers e professionisti del settore Wine&Food una terra del vino che pare ormai giunta alla piena maturità e consapevolezza dei propri mezzi, ben oltre i vini dolci di Tokaj: l’Ungheria.

WineMag.it gioca in casa, dal momento che la selezione è stata da me compiuta negli ultimi 6 mesi con ripetuti viaggi dall’Italia e lunghe permanenze in tutte le regioni vinicole ungheresi.

L’obiettivo di vinoungherese.it è quello di ampliare il bagaglio di conoscenze degli amanti del nettare di bacco in Italia, mostrando la bellezza assoluta dei vini vulcanici ungheresi, ben oltre il mainstream (meritatissimo, per carità) dei vini Aszú, delle nuove espressioni di Furmint “dry” e delle etichette commerciali di vini rossi delle regioni Villány ed Eger.

Ho percorso in auto più di 2 mila chilometri, conoscendo personalmente ognuno dei produttori entrati in catalogo e assaggiando tutta la linea di vini (comprese, ove possibile e degno di nota, le vecchie annate). Altre realtà entreranno in catalogo nei prossimi mesi.

Al centro della selezione ci sono decine di varietà autoctone ungheresi di cui posso dirmi ormai “innamorato”. Su tutti lo Juhfark (letteralmente “Coda di Pecora”) originario di Somló: vitigno e regione che meritano un’attenzione assoluta nel panorama internazionale, in qualità di principale, nuova e vera “frontiera” del vino ungherese.

Assieme, Juhfark e Somló costituiscono una coppia inimitabile per mostrare il terroir vulcanico della collina di Somló, situata a nord del lago Balaton, nella zona orientale dell’Ungheria (a sole due ore di auto da Budapest).

Poi ci sono Budai Zöld, Csókaszőlő, Ezerjó, Hárslevelű, Irsai Olivér, Kabar, Kadarka, Kéknyelű, Királyleányka, Kövérszőlő, Leányka, Kékfrankos, Portugieser, Nektár, Olaszrizling, Turan, Zengö, Zéta e Zeus.

Nomi pressoché impronunciabili, in alcuni casi, che meritano un posto d’onore accanto a internazionali come Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon, Chardonnay, Grüner Veltliner, Merlot, Moscato Bianco, Moscato Giallo (Sargamuskotály).

E ancora: Muscat Ottonel, Pinot Grigio, Pinot Nero, Riesling renano, Müller-Thurgau (Rizlingszilváni), Sauvignon Blanc, Syrah, Gewürztraminer (Tramini) e Zweigelt. Infine, ma non ultimi nel vasto catalogo dell’e-commerce – udite, udite – Sagrantino (l’uva di Montefalco) e Sangiovese (il vitigno che ha reso grande la Toscana, nel mondo).

Due le etichette che vedono l’Italia “protagonista”, con altrettante varietà simbolo. Il Sagrantino è allevato in Ungheria da un solo produttore, innamorato dell’Umbria: Heimann di Szekszárd, che lo utilizza in uvaggio nel portentoso “Franciscus” e nel giovane, dinamico e freschissimo “Sxrd” (a proposito di potenziali nuove frontiere per il Sagrantino di Montefalco).

Il Sangiovese è invece quello della cantina 2HA, finita nei guai con il Consorzio del Brunello (episodio raccontato qui da WineMag.it) per un sito web un po’ troppo “brunellofilo” per avere il dominio “.hu”, utilizzato per promuovere l’etichetta “Tabunello“, tuttora in vendita senza alcuna commistione con il re dei vini rossi della Toscana.

Tra le particolarità dell’e-commerce vinoungherese.it, anche la presenza del più popolare e apprezzato tra i produttori del cosiddetto vino naturale ungherese: si tratta di Hummel, vignaiolo tedesco che ha sparigliato le carte in una zona piuttosto “seduta sugli allori” e abituata all’auto-incensazione come Villány.

Non poteva mancare la cantina che, meglio di altre, sta cercando di raccogliere l’eredità di Hummel nel sud dell’Ungheria: Wassmann, il sogno divenuto realtà di un’altra coppia tedesca, Ralf Wassmann e Susann Hanauer, che opera in regime biodinamico. Chi ci segue nella scoperta? Cin, cin.

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Esteri - News & Wine news news ed eventi

Flipper tour del vino ungherese: da Tokaj a Villány in 4 giorni (con tappe intermedie)

Si può fare. Partire con un pranzo veloce ma raffinato in uno dei nuovi templi dell’enogastronomia di Budapest – il Fiaker Cafe Wines Bistrot – proseguire per Miskolc – la città delle grotte preistoriche trasformate in cantine – far tappa tra Tokaj e Mád e concludere il viaggio dall’altra parte dell’Ungheria, a Villány, dopo una sosta ristoratrice al Baracsi Halászcsárda: il luogo perfetto per degustare la tradizionale zuppa di pesce del posto (Bajai halászlé) condita da fiumi di Kadarka di Szekszárd.

Poco meno di otto ore di viaggio in auto, spalmate su 4 giorni, utili a percorrere circa 700 chilometri, quasi tutti in autostrada. Un vero e proprio “flipper tour“, per chi ha poco tempo a disposizione e vuole scoprire in un batter di ciglio tutto (o quasi) del vino ungherese.

L’atmosfera rilassata del Fiaker Budapest è ciò serve per cominciare il viaggio col piede giusto. András Kálmán, fresco del premio Wine Spectator Reveals Restaurant 2020, ha messo su una parete degna di uno scalatore di calici.

Il concept è rivoluzionario. Una lista di 260 etichette ridisegna i confini del Paese, tratteggiando a suon di bianchi, rossi e spumanti (dall’ottimo rapporto qualità-prezzo) la carta geografica del Regno d’Ungheria, pre Trianon di Versailles (1920).

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Ecco dunque, una vicina all’altra, le chicche dell’ex Impero Austro Ungarico provenienti dalle attuali Romania, Slovacchia, Austria, Croazia, Serbia e Slovenia. Spazio anche per l’Alto Adige – unica regione d’Italia, ancora per poco – rappresentata da Alois Lageder. L’altra particolarità?

Al Fiaker Budapest – spiega a WineMag.it András Kálmán – sappiamo che per gustare un buon vino, spesso bisogna attendere. Per questo siamo in grado di offrire ai nostri clienti verticali di oltre 10 anni, per molte delle etichette presenti in carta”.

All’enoteca-bistrot di via Imre Madách 11, nel cuore del centralissimo Distretto V, si può degustare in serie tre bianchi da altrettante varietà, rappresentativi dei rispettivi terroir (ungherese, austriaco e sloveno).

  • Badacsonyi Olaszrizling 2019, Éliás Pince. Vino proveniente dall’areale vulcanico a nord del lago Balaton. Al naso è tipico, nel gioco tra note agrumate e mineralità. Al palato una bella pienezza conferita dai ricordi di frutta matura, in perfetto equilibrio con le note vulcaniche. Sorso agile ed elegante, di buona lunghezza. Insomma, tutto ciò che deve avere un buon “Riesling italico”, varietà molto diffusa in Ungheria.
  • Grüner Veltliner Smaragd Ried Achleiten 2017, Domäne Wachau. Solo una delle etichette che Fiaker è in grado di offrire ai propri clienti in verticale, indietro sino agli anni 90. Nel calice, il vino austriaco sfoggia un giallo paglierino acceso, luminoso. Lo stile, al naso e al palato, è quello di un nettare con l’armatura perfetta per affrontare la sfida col tempo. Alla larghezza delle note fruttate mature abbina una freschezza invidiabile. Vino al momento sull’altalena, in preda all’esuberanza dei suoi 14.5% d’alcol in volume.
  • Sauvignon Blanc 2018, Dveri Pax. La moderna cantina slovena ha una storia lunga 800 anni, legata ai monaci benedettini. La zona è perfetta per una varietà internazionale come il Sauvignon, tipico sin dalla sua veste paglierina, dai riflessi verdolini. Note tropicali, naso-bocca. Un accenno verde (buccia di pompelmo) e floreale (sambuco) gioca col succo e con la polpa. Al palato agrume e mineralità e un finale asciutto. Un vino semplice, perfetto per l’aperitivo e per l’estate, dall’allungo amaricante che invoglia al sorso successivo.
photo credit miskolcadhatott.blog.hu

Tre vini, tre cantine, tre storie, che paiono mescolarsi e confondersi nel balzo spazio-temporale dal Fiaker di Budapest, minimalista ed elegante, ai grovigli post industriali della città di Miskolc.

Il cielo minaccia pioggia. Ma a impressionare, all’orizzonte dell’autostrada M3 e della sua direttrice E79, è la vista dei palazzoni grigi, conficcati come denti consumati di un gigante, nella parte alta della quarta città d’Ungheria.

Sono i casermoni degli ex operai dell’industria pesante, fiorente durante la Seconda Guerra Mondiale e caduta in disgrazia negli anni Novanta, a ricordare che il verde della sconfinata pianura ungherese è ormai alle spalle.

Di fronte agli occhi, i rimasugli di una città che sta provando a lasciarsi alle spalle le scorie post socialiste. A suon di cultura, turismo e polizia, ma pur sempre tra un club striptease e l’altro. Il centro della città, oggi sede del governo della Provincia di Borsod-Abaúj-Zemplén e di un’Università, pullula di giovani diretti in discoteca.

È l’immagine dissacrante di un sabato sera d’agosto (2020, mica un anno a caso) di una nazione che, chiudendosi in se stessa, è riuscita a mettere la museruola al Covid-19, ma che ora ha voglia di tornare a vivere. Specie a Miskolc, dove il rumore delle industrie dell’acciaio si è spento da un pezzo. E la musica è cambiata, anche grazie alle nuove generazioni.

Ne sa qualcosa Roland Borbély, uno dei pochi ex meccanici del mondo che può dire di aver lasciato il “garage” due volte: la prima dopo aver mollato il lavoro in officina, per aprire la sua cantina; la seconda per essersi concesso una cantina vera, dopo i primi esperimenti enologici nel box di papà.

Gallay Kézműves Pince e il suo quartier generale nel villaggio di Nyékládháza, sono questo: un sogno divenuto realtà, nel segno della rivalsa di un intero territorio. La cantina di Borbély, di fatto, è una stella luminosa di appena 11 ettari, nel cielo spento della viticoltura di Miskolc.

La città è nota a livello turistico per la presenza di centinaia di grotte preistoriche, una accanto all’altra, lungo la matassa di viuzze che si accalcano ai piedi del monte Avas. Un tempo, questo era il crocevia del mercato del vino tra Budapest, Eger e Tokaj: il vino si respirava nell’aria.

Oggi, pochi ma strenui viticoltori vogliono riportare in auge una zona che, negli due ultimi secoli, ha visto più fumo librarsi dalle ciminiere che grappoli appendersi alle viti. Nulla è impossibile. E Roland Borbély lo sa.

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  • Gallay Genus 2019. Uno dei focus è sull’uva autoctona Zenit, presente in questo blend accanto a Chardonnay e Olaszrizling. Bel naso ampio, tocco minerale, nocciola. Agrumi, tra polpa e buccia. Uno sbuffo di spezia tiene sull’attenti la pesca matura. In bocca corpo leggero, ma bell’allungo fresco e agrumato.
  • Gallay Kabar 2019. Kabar è il nome della varietà ottenuta dall’incrocio tra Hárslevelű e Bouvier, inserita nel 2006 nel registro nazionale ungherese. Ancora una volta gli agrumi a fare da sfondo, al naso. Tocco di zenzero riconoscibile nella componente vegetale-speziata. La morbidezza in ingresso di palato precede una netta freschezza: il sorso è verticale, minerale. Preciso e di buona lunghezza.
  • Gallay Nyékládháza 2016. Zenit in purezza. Bel naso, minerale-pietroso più che salino, a stuzzicare note cremose di limone. Tocco leggero di spezia. In bocca conserva la nota minerale asciutta, abbinata magistralmente alla succosità del frutto: pesca a polpa gialla, ma anche agrumi.
  • Gallay Blanc 2012. Vino dal taglio internazionale, pur essendo ottenuto al 50% da Zenit, accanto al Pinot Bianco. Il primo naso è sulla suadenza e rotondità dei terziari del legno. L’ossigenazione libera una nota leggera di idrocarburo, oltre a un tocco di radice di liquirizia. Bel palato fresco e fruttato, per un vino di grande gastronomicità.
  • Rozé 2019. Colore carico, certo più vicino al saignée che alla Provenza, ma luminoso. Zweigelt in purezza, in quantità limitatissima: solo 700 bottiglie. Il naso è intenso nel bouquet di marasca e piccoli frutti rossi. Al palato la freschezza accompagna un corpo medio, in un sorso fruttato che chiama l’estate tanto quanto il piatto.
  • Miskolc 2015 “Bistronauta”. Ancora una volta Zweigelt in purezza. Colore e naso che ricordano il Pinot nero, affinato in legno. Ingresso di bocca su note tostate e di brace, ben abbinate ai sentori di piccoli frutti rossi. Bella freschezza per un nettare piacevole ma non piacione, che chiude su un accenno di spezia.
  • Turán 2017. Dalla varietà autoctona ungherese, Roland Borbély trae un vino dagli aromi unici nel suo genere, anche grazie all’ausilio di due tipi di legni. Il primo naso vira netto sull’origano. Lo si ritrova anche al palato, assieme alla nota di caramella mou. La nota vegetale e speziata fa da contraltare a un frutto succoso. Ne risulta un vino dalla beva instancabile, unico nel suo genere.

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Passato, presente e futuro dell’Ungheria si incrociano anche una cinquantina di chilometri a ovest di Miskolc, per l’esattezza a Mád, uno dei comuni più noti per la produzione dei vini di Tokaj-Hegyalja. La storia dell’Öreg Király dülő, letteralmente “Vigna del vecchio re” (The Old King’s Vineyard) è stata riscritta più volte.

Se oggi la collina fa parlare di sé, oltre ad offrire una vista mozzafiato, dai suoi 343 metri sul livello del mare, è grazie alla famiglia Barta, che l’ha acquistata nel 2003. Iniziando a reimpiantarla progressivamente sin dall’anno successivo, nel 2004. Un investimento ingente, a livello finanziario, quello della piccola cantina di Mád.

La Öreg Király dülő – spiega a WineMag.it Vivien Ujvári, giovane enologa di Barta Pince – era vitata sin dal 1200. A cavallo tra il 1600 e il 1700 rientrava tra i possedimenti della nobile famiglia Rákóczi, che guidò l’insurrezione del popolo magiaro contro gli Asburgo. Fu poi rasa al suolo dai russi, nella seconda metà degli anni Novanta”.

La ragione è semplice. In quegli anni, l’Ungheria era uno dei serbatoi del vino di bassa qualità destinato a Mosca. Le difficili condizioni di lavoro (63% di pendenza) e le rese basse della “Vigna del re”, segnarono la sentenza di condanna per questo pezzo di storia della viticoltura magiara, completamente estirpato.

La famiglia Barta è riuscita a riportare in vita la Old King’s Vineyard, proponendo un modello di viticoltura biologica che valorizza le terre rosse della collina, ricche di precipitazioni di ferro, nonché di minerali come la riolite e la zeolite vulcanica. Il risultato, nel calice di Barta Pince, lascia il segno.

  • Öreg Király dülő Mád Furmint 2016. Giallo paglierino. Tanto fiore, un profilo fruttato su cui spicca la pesca perfettamente matura. Il sorso è minerale e al contempo rotondo, grazie al residuo di 8,9 g/l. La chiusura, asciutta, sottolinea il concetto di un vino che vive su un equilibrio perfetto.
  • Öreg Király dülő Mád Furmint 2018. Giallo paglierino. Tocco di arancia più marcato rispetto all’assaggio precedente (cambia la vendemmia, non la vigna), sia al naso che al palato. Anche il sorso è più asciutto del precedente, a dimostrazione di una gestione ottimale dell’annata calda, a livello agronomico ed enologico. Conservate appieno, di fatto, le caratteristiche varietali. Un vino elegante, lungo negli aromi, giovanissimo.
  • Öreg Király dülő Mád Hárslevelű 2019. Un vero e proprio manifesto al vitigno, con le sue note tropicali spinte e il tocco del legno a giocare con la mineralità.

  • Öreg Király dülő Tokaji Szamarodni 2015. Naso ampio, sui fiori bianchi e sulla cera d’api, ancor più del miele. Seguono in successione e in crescendo l’albicocca e la pesca sotto sciroppo, oltre a un tocco di agrume rosa. In bocca perfettamente corrispondente. Vino che chiama il piatto e l’abbinamento con la cucina, specie quella asiatica e speziata.
  • Öreg Király dülő Tokaji Aszú 6 puttonyos 2016. Solo 768 bottiglie per questa chicca che svela un naso splendido, tinto di un colore giallo oro luminoso. Un tocco verde che ricorda la buccia di lime, difficile da trovare solitamente nella tipologia, spunta in mezzo alle note di agrume e zenzero candito. In bocca un’eccellente freschezza e lunghezza, su ritorni d’agrume che “tengono” per le briglie il sorso (e il residuo), prima di una chiusura cremosa, deliziosa, su note di frutta tropicale. Vino di prospettiva assoluta.
  • Öreg Király dülő Eszencia 2013. L’apoteosi dei vini di Tokaj, in una delle più giovani interpretazioni di Barta Pince, ancora in affinamento: basti pensare che, al momento, l’annata in commercio è la 2008. Un nettare che si attacca con le unghie alle pareti del calice, denso, tingendolo di un giallo dorato luminoso. Al naso è largo e profondo. Le note di frutta candita sono ultra concentrate; quelle di mentuccia e d’agrumi rinfrescano il giusto, attenuando la percezione dolce. La persistenza è infinita.

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È una storia di passione e tradizione anche quella di Patricius Borház, la tenuta di 85 ettari che sorge a Bodrogkisfalud, a pochi metri dalle rive del fiume Bodrog. A Dezső Kékessy e alla figlia Katinka l’onere e l’onore di portare avanti una tradizione pluricentenaria, che affonda le radici nel 1800.

La cantina, perfettamente integrata tra le vigne, vanta le più moderne tecnologie e un sistema di vinificazione incentrato sulla forza di gravità: le sale dove avviene la vinificazione sono invisibili, interrate sotto ai vigneti che circondano l’elegante estate.

“La nostra vera ricchezza – commenta a WineMag.it Péter Molnár, general manager di Patricius Borház e presidente del Tokaj Council – è l’estrema variabilità dei terreni, che cerchiamo di preservare nelle migliori annate con vini provenienti da cru o armonizzare negli assemblaggi delle uve di più vigneti, presenti con diversi cloni”.

  • Tokaj Green Furmint 2017. L’etichetta d’ingresso nel mondo di Patricius non poteva che essere un Furmint ottenuto da uve biologiche. Il naso è ricco, floreale e fruttato, mentre il palato è decisamente incentrato sulla mineralità. Un calice spensierato, testimone del terroir vulcanico.
  • Pezsgó-Sparkling Méthode traditionelle Brut 2015. Hárslevelű, Furmint e Sárgamuskotály si dividono una cuvée che ha riposato 3 anni e mezzo sui lieviti. Il risultato è un Metodo classico che riflette le caratteristiche delle tre uve simbolo di Tokaj: la frutta esotica dell’Hárslevelű, la freschezza del Furmint e l’aromaticità armoniosa del Sárgamuskotály. Bollicina cremosa in un sorso agile ma non banale.
  • Tokaji Furmint Selection 2018. Frutto, cremosità e mineralità, nonché una perfetta integrazione tra le note morbide, derivanti dall’affinamento in legno, e gli sbuffi di spezia. Un vino elegante e moderno, fresco e fruttato, che rappresenta appieno l’idea del Dry Furmint di Patricius, nella sua dimensione gastronomica.
  • Noble Late harvest 2017 “Katinka”. Furmint, Sárgamuskotály e Kövérszőlő per questa vendemmia tardiva che mira a mostrare al grande pubblico il potenziale della “muffa nobile”, la Botrytis cinerea, oltre alle capacità di conservare la freschezza da parte delle uve tradizionali di Tokaj, da “appassite”. Nonostante i 129 g/l di residuo zuccherino, il nettare si rivela infatti perfettamente equilibrato e per nulla stucchevole.
  • Tokaji Aszú 6 puttonyos 2016. Primo naso su ricordi di terra bagnata e di fungo, poi esce un frutto tutto da respirare, di albicocca e pesca sotto sciroppo. Miele, cioccolato, tabacco. Note che si ritrovano anche al palato, lungo e profondo, largo e verticale.

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Assaggi, quelli da Patricius Winery, che anticipano la “traversata d’Ungheria”. Già, perché se la parte settentrionale del Paese è perlopiù appannaggio delle varietà a bacca bianca, è il sud che si è affermato per la produzione dei vini rossi, anche a livello internazionale.

L’ultima tappa del “flipper tour” del vino ungherese è la Bordeaux d’Ungheria: Villány, a pochi chilometri dal confine con la Croazia e con la Serbia. Le 5 ore abbondanti necessarie a raggiungerla da Tokaj, sono un’ottima scusa per una sosta al Baracsi Halászcsárda, una taverna con pensione ai margini del villaggio di Baracs, lungo le rive del Danubio.

Siamo nell’altra patria del vino rosso ungherese, Szekszárd, a circa tre quarti del cammino verso Villány. Ad accompagnare la zuppa di pesce del Baracsi Halászcsárda, la tradizionalissima Bajai halászlé, sono due vini di Vesztergombi Pince.

Le redini della cantina sono oggi saldamente in mano a Csaba Vesztergombi, capace di raccogliere l’eredità del padre Ferenc (enologo ungherese dell’anno nel 1993) e della madre Piroska, dopo aver fatto esperienza all’estero. Il focus della produzione, tuttavia, è su diversi cloni del vitigno autoctono Kadarka.

I vini ottenuti da questa varietà presentano colore e sentori simili al Pinot Nero. Come il Noir risultano eleganti, caratteristici e straordinariamente longevi. Nell’interpretazione di Vesztergombi Pince, la Kadarka 2017 e la 2018 riflettono l’annata e la percentuale di uve botritizzate concesse dal meteo, in occasione della vendemmia.

Quel che è certo, è che la varietà consente la produzione di vini terribilmente moderni – nell’accezione positiva dell’avverbio – in grado di incontrare il gusto internazionale di tutte le età. Lo dimostra il pairing con il pesce, letteralmente azzeccato.

Alla stregua – per trovare un altro parallelismo con l’Italia – di una Schiava (a Caldaro, in Alto Adige), di un Bardolino (sul Lago di Garda) oppure, spostandosi in Meridione, di un Cerasuolo di Vittoria (unica Docg della Sicilia).

  • Kadarka 2018, Vesztergombi Pince. Colore tipico, rosso rubino luminoso, mediamente trasparente. Bel naso su fiori freschi, lamponi, fragolina di bosco. Vino dalla pienezza leggera e leggiadra, non ingombrante, ma totalmente riempitiva. Elegantissimo, pur trovandosi nel pieno della sua fase giovanile. Beva instancabile.
  • Kadarka 2017, Vesztergombi Pince. Il tono rubino è leggermente più carico, primo segnale (poi confermato al naso e al palato) di un vino dalla maggiore concentrazione, dettata anche dalla presenza di un 5% di uve botritizzate. Un rosso che rispecchia maggiormente le caratteristiche del vitigno “tesoro di Szekszárd”. Sorso fresco, eppure al contempo morbido e avvolgente. Eleganza da vendere, così come capacità di affrontare la sfida col tempo.

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Proseguendo verso sud, lungo la strada che da Szekszárd conduce a Villány, si trova Lajvér Borbirtok. La grande attenzione per i dettagli architettonici della cantina di Szálka, realizzata al centro di un anfiteatro di vigneti a terrazze circondati da boschi, rivela la matrice internazionale dell’azienda, sotto la guida enologica di Attila Nagy e del suo staff. Un aspetto confermato dagli assaggi.

  • Lajvér “Incognito” 2019. Una delle rare interpretazioni “in bianco” del Kékfrankos, versione esclusa dai disciplinari locali che ne giustifica il nome misterioso. Se chiudi gli occhi, di fatto, pare di avere nel calice un rosé. Ed è proprio questa la forza dell’etichetta: un bianco di carattere, dal sorso minerale e fruttato, che si divide tra l’esotico e i piccoli frutti a bacca rossa. Finale asciutto e di buona persistenza.
  • Lajvér Szekszárd Pinot noir 2017 Limited edition. Circa 2 mila bottiglie complessive per questo Pinot Nero affinato in legno, dopo una vinificazione attenta a preservarne i primari. Naso elegante, tra piccoli frutti di bosco, arancia sanguinella, spezia e macchia mediterranea, su un sottofondo di caramella mou, fondo di caffè e cioccolato. Bella presenza al palato, dopo l’ingresso sul frutto. Vino che chiama il piatto.
  • Lajvér Kékfrankos 2015 Limited edition. Solo 696 bottiglie per quest’altra edizione limitata ottenuta da un clone austriaco di Blaufränkisch. Dal bel rosso rubino si liberano note giocose di frutti rossi e spezia. L’affinamento in barrique ungheresi, protrattosi per 12 mesi, è tutt’altro che invasivo anche al palato. Il sorso è elegante, preciso, croccante, giustamente arrotondato dalla botte. Versione non banale di un vino che regge bene l’abbinamento, mostrando l’altro volto di un vitigno corposo.
  • Lajvér Szekszárd Merlot 2015 Selection. Piena maturità del frutto, nel segno di un’ottima gestione del varietale (dei primari, nello specifico). Al naso caratteristico fa eco un sorso agile ma consistente, anche grazie a un tannino piuttosto rotondo. I terziari sono tutti sulla liquirizia. Altro vino dall’alto gradiente di gastronomicità.

Vini, quelli di Lajvér, che fungono da “antipasto” all’ultima tappa. Già, perché ad attenderci a Villány c’è József Bock (nella foto, sopra). E non solo. Il 72enne, che accosta la direzione della propria cantina alla presidenza del Villányi Borvidék Hegyközségi Tanácsa – il Consorzio vitivinicolo regionale – ha chiamato a coorte altri 3 produttori della zona, per mostrare le potenzialità di un territorio che fonda tutto su un disciplinare di produzione rigorosissimo.

I vini che soddisfano i requisiti del Comitato di valutazione – spiega József Bock a WineMag.it – rientrano nelle categorie ‘Villányi classicus‘, ‘Villányi premium‘ o ‘Villányi super premium‘, sulla base delle rese, che variano da 35 a 90 quintali per ettaro, e dei parametri di qualità delle uve.

Nel 2014, per valorizzare ulteriormente i vini ottenuti da Cabernet Franc in purezza, abbiamo introdotto il marchio ‘Villányi Franc’ per le sole categorie ‘Premium’ e ‘Super Premium’. Quest’ultima contempla già di per l’esclusivo utilizzo del Cabernet Franc”.

Sono circa 10 milioni le bottiglie prodotte annualmente a Villányi. La storia di József Bock, che con la sua famiglia possedeva solo un paio di ettari di vigne negli anni Ottanta, somiglia tanto a quella di altre aziende cresciute a livello esponenziale nell’ultimo trentennio, se non altro dal punto di vista del riconoscimento internazionale.

I calici del gruppo di produttori locali chiamati a raccolta nel tempio del vino di Bock dimostrano la bontà del progetto vitivinicolo di Villányi, oltre alla linea comune intrapresa dai produttori, nel segno della qualità.

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  • Villányi Kadarka 2017, Gere Tamás és Zsolt Pincészete. Vino che lascia il segno per le sue caratteristiche uniche. Il carattere speziato è tipico del clone scelto per questa etichetta, che al naso abbina sinuosamente note di origano, piccoli frutti rossi e agrumi (ricordi di bergamotto). In bocca, la perfetta corrispondenza si misura con una facilità di beva strabordante, considerata la varietà dei sentori. Finale lungo, su ritorni di frutta rossa e rinvigorenti sbuffi speziati-vegetali.
  • Fekete Járdovány 2018, Gere Attila Pincészete. Una varietà molto diffusa in Romania, su cui la cantina punta molto, per le sue particolari caratteristiche. Corretto, trattandosi di una varietà rara mappata anche in Ungheria, cercare di semplificarne la comprensione inserendola – a livello degustativo – nel triangolo compreso tra Kékfrankos, Pinot Noir e Kadarka. E in Italia? Pare sensato il parallelismo col Grignolino del Piemonte. Sia al naso che al palato, il Fekete Járdovány 2018 di Gere mostra un equilibrio strepitoso tra spezia e frutto. Sfodera un tannino elegante e di prospettiva che si aggrappa al succo, rivelando tutto il potenziale futuro del nettare.
  • Villányi Franc 2016, Vylyan. Un vino catalogato nella tipologia “Villányi Premium” che bilancia bene le anime del Cabernet Franc, con particolare attenzione a pulizia e precisione del frutto.
  • Villányi Franc 2016, Gere Tamás & Zsolt Pincészet. Altra etichetta catalogata come “Villányi Premium”, ottenuto dalla singola vigna “Várerdő-dűlő”. Bellissimo rosso rubino, profondo ma luminoso. Primo naso sul lampone e su un tocco selvatico in cui spuntano note pregevoli di radice di liquirizia e mentuccia. Il palato è corrispondente e svela un apprezzabile accenno salino. Vino complesso, giovanissimo. In commercio la 2012.
  • Villányi Cuvée 2015 “Libra”, Bock. Uvaggio di Cabernet Franc (50%), Cabernet Sauvignon (25%) e Merlot (25%). Vino che fa della concentrazione e della rotondità il suo piatto forte. Al frutto tendente alla confettura abbina terziari di fondo di caffè e tabacco.
  • Villányi Kopár Cuvée 2017, Gere Attila Pincészete. Da poco sul mercato la nuova annata di uno dei vini simbolo della cantina. Compongono l’uvaggio Cabernet Franc (50%), Merlot (40%) e Cabernet Sauvignon (10%). Oltre all’evidentissima “gioventù”, il vino racconta una gran prospettiva. Un’etichetta destinata a diventare, nei prossimi anni, uno dei simboli dell’eleganza di Villàny. Con Bordeaux sullo sfondo.
  • Villányi Franc 2012 “Mandolas”, Vylyan. Solo barriques nuove, solo ungheresi. Scelta dei legni decisiva per questo Cabernet Franc in purezza molto condizionato dai terziari. Naso ammaliante, giocato sulle tostature e sulla spezia calda: ricordi di zafferano, fondo di caffé, terra bagnata. In bocca una struttura corpulenta. Il frutto è piano, il tannino – al momento – un po’ troppo esuberante.
  • Villányi Capella Cuvée 2009, Bock. Cabernet Franc (60%), Cabernet Sauvignon (30%) e Merlot (10%) da quelle che József Bock considera “le vigne più belle di Villány”: Ördögárok dűlőből (“Vigna del diavolo”) e Jammertál dűlőről. Un nettare che riposa 24 mesi in botti di rovere ungherese e viene prodotto solo nelle annate eccezionali, in quantità limitata (8.590 bottiglie nel 2009, in degustazione la 730). Siamo di fronte ancora una volta a un vino largo, il più concentrato e profondo della batteria, giocato su note di confettura, cioccolato, spezia calda (tra cui spicca la liquirizia) e macchia mediterranea (origano, mentuccia). Il tannino, conferito in parte dall’uva e in parte dal legno, asciuga il succo e il sorso. La freschezza è riequilibrante e il finale lungo e deciso. Un vino che ha ancora molta vita davanti.

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Ma il legame tra Villány e la viticoltura internazionale va ben oltre il calice. Il borgo di 2.500 abitanti della provincia di Baranya è noto per aver dato i natali a Zsigmond Teleki, nel 1854. A lui si devono importanti studi sulla fillossera. Ancora oggi, diverse aziende utilizzano portinnesti “resistenti” che portano il suo nome.

A Teleki, vera e propria figura mitologica del vino ungherese, è dedicata l’omonima gamma di vini di Csanyi Pincészet, una delle maggiori cantine d’Ungheria coi suoi 2 milioni di bottiglie prodotte, grazie a 370 ettari di vigneti (numero che sale a 450 ettari, considerando i vigneti di recente acquisizione e impianto).

A raccogliere l’eredità di Chateau Teleki, la cantina fondata dallo stesso Zsigmond Teleki nel 1881, è stato nel 2000 il secondo uomo più ricco d’Ungheria, Sándor Csányi, amministratore delegato del colosso bancario ungherese Otp Bank Group.

Csányi, titolare di numerose altre aziende del settore dell’agricoltura e dell’allevamento (Bonafarm Group), nonché presidente della gloriosa Federcalcio magiara (la Magyar Labdarúgó-szövetség), ha voluto realizzare una cantina con i migliori standard tecnologici, preservando il nucleo originario di Chateau Teleki.

Al suo fianco, dal 2016, un manager affermato come László Romsics e un enologo prelevato dal “vivaio” della stessa cantina, Zoltán Szakál, ormai ex allievo del veterano Antal Bakonyi. Gli assaggi dei vini di Teleki dimostrano come quantità e qualità possano fare rima, anche in Ungheria.

  • Csányi Teleki Villány RedY 2019. Lo scopo di questo blend di uve locali, alla base del brand “Redy”, è mostrare le peculiarità più fresche delle uve tipiche di Villány, dando vita a vini da bere a pochi mesi dalla vendemmia, che non necessitino dei lunghi affinamenti tipici delle varietà bordolesi. Una porta d’ingresso, insomma, al mondo dei vini rossi ungheresi. Nello specifico, l’uvaggio si compone di Blauburger, Kékfrankos e Portugieser, vinificati in acciao. Un vino che adempie appieno la sua funzione spensierata e quotidiana, nel gioco gioioso tra il frutto e la spezia. Da rivedere (ma vale per l’intera tipologia RedY di Villány) i massimali dell’alcol: 13% in volume risultano la ciliegina mancata in termini di “leggerezza”, su una torta perfetta.
  • Teleki Selection Villányi Kékfrankos 2017. Il vero vino spensierato, eppure concreto, dinamico e croccante, della cantina di Villány. Tutto frutto e spezia, per una beva dirompente e instancabile.
  • Château Teleki Villány Merlot 2015. In bottiglia da 10 mesi, dimostra di avere tutte le caratteristiche per un bell’allungo, in prospettiva. Al momento il naso è più ordinato del palato. Trait d’union i frutti rossi, col tannino a ringhiare sul succo.
  • Château Teleki Villány Franc 2017. Un Cabernet Franc letteralmente esaltato da un utilizzo del legno più che mai discreto. Ne risulta un vino dominato dal frutto, con richiami intensi a quelli di bosco e ricordi d’agrumi. Il tocco di spezia verde vivacizza, quello della liquirizia rende il quadro armonico. Bella prova, anche in prospettiva.

  • KőVilla Válogatás Villányi Franc 2015. Vino giocato sull’armonia e sull’eleganza, senza rinunciare alla struttura e al corpo. Gran gastronomicità: chiama il piatto.
  • Villányi Franc Super Premium 2015 Teleki Tradíció 1881. Un Franc al momento troppo condizionato dal legno a danno del varietale e, soprattutto, del frutto. Vaniglia e cioccolato un po’ troppo invadenti sulle note pepate e fruttate, pur presenti e distinguibili. Vino da aspettare: la stoffa c’è tutta. Il mercato non può aspettare, ma i consumatori attenti sì.
  • KőVilla Válogatás Villányi Cabernet Sauvignon Kopá 2017. In bottiglia da due mesi, rivela già un frutto pieno, succoso, oltre a un tannino a sua volta elegante. Chiusura su terziari di cacao, per un altro vino di prospettiva.
  • Villányi Cabernet Franc 2002. Vino tuttora sulla cresta dell’onda – e lo sarà ancora almeno per i prossimi 3 anni, ad alti livelli – a dimostrazione di quanto Villányi sia la patria del Cabernet Franc ungherese, ben prima della valorizzazione “ufficiale” del 2014. Colpiscono la freschezza e la succosità, ancora vive e armoniche sui terziari di cioccolato, tabacco e fondo di caffé.
  • Villányi Pinot Noir Rosé Brut 2016 Teleki Tradíció 1881. Sette grammi di residuo zuccherino per un Brut Metodo classico giocato sulla croccantezza del frutto di bosco e la vivacità e freschezza degli agrumi, più che sui sentori di lisi. Un’ottima “prima prova”, in attesa del bis della vendemmia 2018, in uscita a fine 2020.
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