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Il vigneto centenario della Barbera d’Alba “Pre-Phylloxera” Elvio Cogno

Il vigneto centenario della Barbera d Alba Pre-Phylloxera Elvio Cogno valter fissore
Nascosto, protetto, inarrivabile. Il vigneto centenario in cui prende vita la Barbera d’Alba Pre-Phylloxera” di Elvio Cogno sembra la congegnata antitesi dei vigneti di chi ha messo Ravera sulla mappa del Barolo. Non ci arrivi, se non accompagnato. Preso per mano da chi ne ha voluto, fortemente, il salvataggio. L’esatto opposto delle vigne di Nebbiolo che circondano fiere, quasi a girapoggio, la cantina di Novello (CN).

La Barbera “Pre-Phylloxera” di Elvio Cogno, del resto, è un manifesto al vivere lento. Fuori dai radar. Fuori dalle rotte del vino comune, mainstream. Un po’ opera d’arte. E un po’ follia. In pochi avrebbero deciso di preservare quel mazzo di filari – nove, per l’esattezza, a 520 metri di altitudine in località Berri, nel Comune di La Morra – capaci di restituire appena 20-30 quintali di resa di qualità eccezionale.

Eppure, basta guardare come s’illuminano gli occhi di Giacomo Vaira (nel video, sotto) tra i più giovani del team di Elvio Cogno, per capire quanto la scelta di non estirpare sia stata azzeccata. Anzi proiettata, paradossalmente, al futuro. Poco più di tre mila metri di superficie su suoli prevalentemente di sabbia, con limo e calcare, sono il segreto della longevità di questo “museo a cielo aperto”.

Le viti a piede franco e maritate arrivano a superare i 120 anni, regalando una produzione di 1.800 bottiglie di Barbera d’Alba “Pre-Phylloxera” l’anno. Una «vendemmia speciale» per chiunque abbia «la fortuna e l’onore» di poter scegliere i grappoli migliori, da piante divenute monumenti alla natura e alla sua resilienza. Per tenerle in vita, la Elvio Cogno adotta costosi accorgimenti.

L’ENDOTERAPIA PER SALVARE IL VIGNETO CENTENARIO DI BARBERA

Le piante che mostrano segni di flavescenza dorata e mal dell’esca vengono sottoposte a una sorta di “lavanda gastrica”. «Attraverso un tubicino innestato nel tronco – spiega Valter Fissore, Deus ex machina della Elvio Cogno – mettiamo in circolo una soluzione di rame ed oli essenziali di alghe che entrano nei vasi linfatici, a una pressione di 10-15 bar».

È una tecnica agronomica innovativa e molto costosa, chiamata endoterapia. Un 40% delle piante trattate negli ultimi anni si è ripresa bene. Salvare questi monumenti naturali ha molto più valore che rimpiazzare le piante malate con nuove barbatelle: è un dovere, che risponde anche a criteri di sostenibilità economica, viste le incognite del reimpianto».

Nell’area adiacente al vigneto “Pre-Phylloxera”, Elvio Cogno si appresta a impiantare qualche filare di Barbera a piede franco ottenuta dalla selezione del vigneto centenario originario. Un modo per preservare il patrimonio della vecchia vigna, giunto fino ai nostri giorni. E continuare a produrre un vino unico nel panorama piemontese, italiano ed internazionale.

Come spiega Valter Fissore (nella foto, sotto), l’etichetta incuriosisce tanto i buyer italiani quanto quelli esteri. In Italia è Sarzi Amadè a curarne la distribuzione. Circa 600 le bottiglie che rimangono nel Bel paese, assegnate con dovizia dalla Elvio Cogno. Ma la Barbera d’Alba “Pre-Phylloxera” è una chicca che piace anche negli Usa, così come nei Paesi del Nord Europa, Norvegia in testa, e in Giappone.

BARBERA D’ALBA PRE-PHYLLOXERA ELVIO COGNO: L’ASSAGGIO

La vendemmia 2020 è in esaurimento e la 2021 sarà disponibile a partire dalla prima metà del 2023. Il vino affina un anno in botte grande di rovere, senza perdere alcuna caratteristica che la rende unica. Al netto delle differenze tra annata ed annata, all’assaggio alla cieca può confondere.

Il fil rouge che lega le varie vendemmie (winemag.it ha potuto degustare la verticale 2018, 2019, 2020) sono i rimandi a note pepate (pepe nero) che stuzzicano la straordinaria integrità del frutto, scuro e rosso. Un tocco di elegantissima tannicità guida il sorso, accompagnando freschezza e bevibilità eccezionale, segno tipico di tutti i vini di Elvio Cogno.

L’ottima stratificazione e, ancor più, la profondità, rischiano di confondere nel blind tasting, avvicinando questa Barbera d’Alba ad alcuni dei tratti tipici del Rodano francese, tra il frutto goloso e croccante del Grenache e la spezia scura del Syrah. La verità, invece, è un’altra: la Barbera d’Alba “Pre-Phylloxera” di Elvio Cogno è un vino uguale solo a se stesso. Specchio fedele di quel vigneto centenario da cui prende vita. Nascosto, protetto. Inarrivabile.

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I Moratti in Sardegna con Bentu Luna: solo vecchie vigne tra Barigadu e Mandrolisai

Solo vecchie vigne, da un minimo di 35 fino ai 115 anni di età, allevate anche ad alberello: Bovale sardo, Cannonau, Monica, Pascale, Cagnulari, Carignano e Barbera. Bentu Luna, il nuovo progetto enologico della famiglia Moratti al centro della Sardegna, si presenta sul mercato con questo primato invidiabile.

Un unicum in Italia, che dimostra l’attenzione di Gabriele Moratti e dell’ad di Stella Wines Gian Matteo Baldi nei confronti del grande patrimonio dei vecchi vigneti italiani, da preservare e valorizzare.

La cantina ha sede a Neoneli, in provincia di Oristano, mentre l’attività si sviluppa tra il Barigadu e il paesaggio policolturale del Mandrolisai, uno dei quattordici in Italia iscritti al Registro nazionale dei Paesaggi rurali d’interesse storico e l’unico della regione.

«I vigneti – spiega Gian Matteo Baldi – sono il frutto di una cultura millenaria rimasta pressoché invariata, fondata sul concetto di non proprietà e di naturale ereditarietà familiare che rischiava di essere abbandonata poiché non creava più reddito. Insieme ai contadini e agli abitanti di Neoneli abbiamo concordato per la gestione condivisa dei vigneti, così da integrare la manodopera e il sapere locale con le nostre competenze tecniche e tecnologiche».

La struttura organizzativa dell’azienda, come per la tenuta Castello di Cigognola in Oltrepò Pavese, si presenta snella e intergenerazionale, con giovani professionisti coadiuvati da consulenti esterni di caratura internazionale.

L’enologa in loco è Emanuela Flore, affiancata dall’agronomo Giovanni Bigot e da altri professionisti tra cui l’enologo Beppe Caviola come responsabile dei blend. Dalla gestione dei vigneti all’architettura della cantina, fino ai materiali utilizzati per il confezionamento dei vini, tutto è pensato in ottica di sostenibilità e risparmio energetico.

Al fine di tutelare l’integrità di suolo, piante e grappoli, all’interno della vigna non sono ammessi macchinari ma solo uomini e animali. La raccolta è manuale, così come la pressatura.

Ciascuna particella è vinificata separatamente all’interno di vasche in cemento crudo di piccole dimensioni, per rispettare le specificità di ogni microzona. Tutti i vini sono a fermentazione spontanea, con pied de cuve altamente selezionato e curato al fine di evitare problematiche.

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Il Verdicchio dei Castelli di Jesi, ovvero la versatilità fatta vino

Sei vini, sei sfumature, sei diverse interpretazioni di un unico vitigno. Il Verdicchio dei Castelli di Jesi è il primo solista ad esibirsi sul palco dei dodici digital tasting organizzati dall’Istituto Marchigiano di Tutela Vini (Imt). Lo ha fatto, ieri pomeriggio, come meglio non poteva: ovvero mostrando, a chi avesse ancora dubbi, la sua innata versatilità.

Un vitigno capace di rimanere se stesso, perfettamente riconoscibile nel calice, anche a fronte di raccolta tardive o “muffate”, altimetrie dei vigneti più elevate rispetto alla media o utilizzo del legno come contenitore per l’affinamento.

Che si svegli tardi, si metta in mostra in “montagna” o si copra il viso con la sciarpa della botte grande, il Verdicchio dei Castelli di Jesi è insomma in grado di palesare la propria voce in maniera nitida, come pochi vitigni sanno fare a livello internazionale.

Missione compiuta, insomma, per la prima diretta streaming voluta con la stampa di settore dal direttore dell’Imt, Alberto Mazzoni, collegato dallo Studio Marche di Palazzo Baleani di Jesi. Un ciclo di incontri utile a tenere alta l’attenzione sulle denominazioni del vino delle Marche, in realtà tra le meno penalizzate dall’emergenza Covid-19.

A confermarlo è lo stesso Mazzoni, che indica proprio nella versatilità del Verdicchio dei Castelli di Jesi la ragione della tenuta della Denominazione, nell’annus horribilis segnato da una pandemia che lascerà strascichi pesanti all’intero settore.

Merito di oltre 15 anni di lavoro verso la “qualità totale” e di una forte comunione d’intenti tra grandi e piccole aziende. «Solo per il Verdicchio dei Castelli di Jesi – conferma il direttore dell’Istituto Marchigiano Vini – negli ultimi dieci anni è stata contingentata la produzione, triplicata la superficie media di ettari vitati per azienda e rinnovato oltre un quarto del vigneto complessivo, mentre l’imbottigliamento fuori zona è calato del 75%».

«Si è scelto di scommettere sulle peculiarità del vitigno – continua Mazzoni – andando oltre l’immagine del vino beverino che lo aveva reso famoso, valorizzando quindi tutti i suoi punti di forza, a partire dalla grande personalità, per produrre un vino unico e inimitabile tra i grandi bianchi italiani: un “rosso vestito di bianco”, di grande struttura e mineralità, con una forte capacità di invecchiamento ma allo stesso tempo versatile, con le sue infinite varianti, dalle bollicine al passito».

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Scelte, queste, che stanno pagato sul piano dell’affermazione qualitativa multicanale del prodotto, capace di reggere all’urto delle chiusure dell’Horeca anche grazie alla sua buona nomea e riconoscibilità nella Grande distribuzione organizzata.

Il tutto all’ombra di un Istituto Marchigiano di tutela vini che gioca il ruolo di guardiano, nel segno di un «impegno anche sul fronte del valore e sull’aspetto commerciale e di marketing, in Italia come all’estero».

Non sarà un caso, infatti, se il 2021 costituirà l’anno dell’adeguamento del disciplinare di produzione alle nuove esigenze di mercato, ben al di là dell’affermazione delle versioni di Verdicchio dei Castelli di Jesi con tappo a vite (Stelvin), utili a penetrare mercati maturi e meno schizzinosi rispetto a quello italiano, riguardo a questa tipologia di tappatura.

Ecco convivere così, quasi all’unisono, sul palco del Verdicchio dei Castelli di Jesi (Doc classico Superiore, per l’esattezza) allestito dall’Imt, la sapiente combinazione early, mediumlate harvest del “Bacareto” 2019 di Piersanti, con la freschezza e le note d’anice e finocchietto selvatico – da vero vino di montagna – di “Misco” 2019 di Tenuta di Tavignano.

O, ancora, la coscienziosa combinazione delle “Tre Ripe” 2019 di Pievalta (nient’altro che tre vigneti), con l’interpretazione che esalta salinità e floreale del “Ghiffa” 2018 di Cantina Colognola – Tenuta Musone.

Infine, la bellezza unica e inimitabile del “Vecchie Vigne” 2018 di Umani Ronchi – vino teso sulla salinità come una corda di violino, addolcito dalla pienezza e persistenza aromatica delle note fruttate – col gioco prezioso tra note primarie e terziarie del “Grancasale” 2018, targato Casalfarneto.

Sei vini, sei sfumature, sei diverse interpretazioni di un unico vitigno che sembra parlare la lingua, anzi “le” lingue, del pubblico e dire: “Se non ami il Verdicchio, è un problema. Tuo”.

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A casa di Davide Spillare: il discepolo di Maule è diventato grande

Un’accoglienza genuina e spontanea quella di Davide Spillare, giovane classe ’87. Un vignaiolo vero, che t’accoglie dalla campagna, con le mani (pulite) di terra. Mentre s’avvicina, il panorama si apre alle sue spalle: vista mozzafiato dall’azienda agricola fondata 10 anni fa, frutto di una tradizione di famiglia.

Siamo a Gambellara, in provincia di Vicenza. A sinistra si ergono i Colli Berici, a destra si distende la Valchiampo e la Valpolicella. A Davide si deve la virata radicale dell’azienda, trasformata in una delle più fulgide realtà italiane della viticoltura biodinamica. Una svolta abissale: il bisnonno Cristiano, infatti, conferiva le uve alla cantina sociale del posto.

I vigneti di pianura, a 180 metri sul livello del mare, si nutrono di terreni argillosi, molto ricchi. Quelli in collina mangiano tufo, detto “togo” nel dialetto locale: forte componente rocciosa e vulcanica, che dà vita a vini con una spiccata mineralità. Le rese si aggirano sugli 80 quintali per ettaro in pianura e 30-40 quintali per ettaro in collina.

Dopo la scuola di Agraria, Davide Spillare si cimenta nel mondo del vino grazie agli insegnamenti del maestro Angiolino Maule, oggi patron di VinNatur, e parte per il suo viaggio sperimentale ricco di soddisfazioni, ma anche  di alcune delusioni. Ad oggi può vantare rapporti commerciali ed esportazioni in Canada, Giappone, Danimarca, Svezia, USA, Londra e Parigi.

La sua filosofia segue i canoni dell’agricoltura biodinamica del ‘900, basata sulle teorie di Rudolf Steiner. “Una dottrina che dev’essere comunque rivisitata – spiega Spillare – poiché la terra di oggi non è la terra di cent’anni fa”. Davide lavora la terra in modo “non convenzionale”, ossia “naturale”. Evitando l’uso dei diserbanti chimici e limitandosi a trattamenti con rame e zolfo in basse concentrazioni, solo fino alla fioritura, per combattere il temuto oidio.

LA DEGUSTAZIONE
La degustazione avviene in una piccola cantina, tra le barrique in legno di rovere usate, disposte sul perimetro. Al centro una botte su cui poggeranno i calici. Il primo vino è uno spumante, “L1“, dedicato alla vertebra fratturata durante un incidente in vigna su un trattore, dove Davide rischiò la vita.

“L1” è ottenuto al 95% da uva Garganega e al 5% da Durella, che conferisce acidità. Dopo la prima fermentazione, il mosto è posto in bottiglia a rifermentare per un anno. I lieviti sono ovviamente indigeni. La beva è semplice e scorrevole: un vino fresco, adatto a un aperitivo.

Si prosegue con un bianco fermo, “Crestan“, dal nome del bisnonno: Garganega in purezza da uve di pianura, pressatura diretta e fermentazione in acciaio, 11.31% vol. Nel calice si presenta di colore dorato, al naso intenso, con un bouquet che spazia da note speziate a note floreali. Al palato corrispondente, sulla linea di una semplicità non banale.

Il terzo calice è di “Rugoli” 2016, nome ispirato dalla strada del Rugolo: Garganega proveniente da collina, di cui il 70% effettua una fermentazione in acciaio e pressatura diretta.

Il restante 30% esegue una macerazione per 5 giorni a contatto con le bucce e affinamento in legno per circa 10 mesi (12.8% vol).

Al naso si presenta più complesso del precedente, mantenendo però una buona spalla acida e una spiccata mineralità.

Si prosegue con “Vecchie Vigne“, in onore della vigna più vecchia su cui può contare Davide Spillare: 60 anni di età. Macerazione di 5 giorni e poi un breve passaggio in legno. Affinamento in bottiglia per un anno. Naso complesso, sentori di caramello, note leggermente tostate.

Il “Rugoli 2007” è una chicca dell’azienda: al naso si percepisce intenso e complesso con sentori di castagna e uva passa, Pieno e avvolgente al palato. Una piacevole sorpresa.

Il rosso dell’azienda si chiama “Rosso Giaroni“, ottenuto da uve Merlot in purezza. Al naso si avvertono sentori erbacei e legnosi, al palato risulta fresco e sapido, ben equilibrato.

Concludiamo la degustazione didattica con la ciliegina sulla torta, il “Racrei”: deriva dall’anagramma di “Creari”, comune di Vicenza. Vino dolce, Garganega in purezza, 4 mesi di appassimento.

Tra un calice e l’altro, una riflessione di Davide Spillare  sintetizza lo spirito della sua cantina: “La terra mi è stata prestata e io la dovrò restituire integra o migliore”. Il manifesto di un’azienda agricola divenuta uno dei punti di riferimento del panorama dei vini naturali italiani.

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