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Borghese in abbazia con Birra Leffe: chi si beve lo spot?

Da poco più di un mese è in rotazione sulle principali reti televisive e sui social la nuova campagna pubblicitaria di Birra Leffe. Protagonista degli spot lo chef e personaggio televisivo Alessandro Borghese.

La serie di spot (spot 1, spot 2, spot 3) gioca su parole che evocano concetti di tradizione, scoperta, storia e cultura. Le immagini fanno altrettanto, con riprese ambientate all’interno dell’abbazia belga di Leffe e la presenza di un monaco – tale Frate Hervé – che spiega a chef Alessandro Borghese le caratteristiche della birra dell’abbazia.

Nulla di male in tutto questo. Non fosse per un dettaglio: la Birra Leffe non è prodotta in monastero, non è prodotta dai monaci e di tradizionale, ormai, le è rimasto ben poco! Leffe è infatti un marchio prodotto da AB InBev, la più grande multinazionale della birra. Un prodotto industriale.

Nulla contro Birra Leffe in sé, capace di proporsi sul mercato con etichette più che dignitose – specie al supermercato – dall’interessante rapporto qualità prezzo. Birre di cui già ci siamo occupati anche noi di vinialsuper, recensendo positivamente le versioni Royale Whitbread GoldingRoyale Mount Hood (ed altre ne seguiranno).

Troviamo però fuorviante accostare il marchio Leffe all’ambientazione monastica. Il rischio è quello di illudere il “consumatore medio”. Occorre quindi fare un minimo di chiarezza su cos’è la “birra d’abbazia” e su quali birre sono effettivamente prodotte da una comunità monastica e quali, invece, no.

BIRRA TRAPPISTA E BIRRA D’ABBAZIA
Esistono infatti birre prodotte da Abbazie. Sono le così dette “Birre Trappiste”, prodotte da monaci Cistercensi della Stretta Osservanza (o Trappisti). Una birra, per potersi definire “Trappista”, deve rispondere a tre regole.

  1. Deve essere prodotta all’interno delle mura di un’abbazia trappista, da parte di monaci trappisti o sotto il loro diretto controllo
  2. La produzione e l’orientamento commerciale devono dipendere direttamente dalla comunità monastica
  3. I ricavi devono essere destinati al sostentamento dei monaci ed alla beneficenza

Sono 11 i monasteri al mondo che rispondono a queste regole (6 in Belgio, 2 in Olanda, uno in Austria, uno negli USA ed uno in Italia). Le loro birre le riconoscete facilmente: riportano in etichetta il logo esagonale “Authentic Trappist Product”.

Differente discorso per le “Birre d’Abbazia” (come Leffe). Queste sono birre industriali che si fregiano del nome e marchio di una Abbazia, con o senza accordi commerciali con monasteri esistenti o estinti.

Birre che non necessariamente si rifanno a ricette tradizionali di quell’abbazia. Per esempio proprio le due sopra citate, Leffe Royale Whitbread Golding e Royale Mount Hood, o la nuova Leffe Ambrèe (lanciata da Borghese e Leffe attraverso i nuovi spot) rispondono a ricette di recente concezione, nate per soddisfare determinati segmenti di mercato.

LA STORIA DI LEFFE
La storia di Leffe ci aiuta a capire come un prodotto, nato fra le mura di un’abbazia, sia diventato un prodotto industriale. Fondata nel 1152, l’abbazia di Notre Dame de Leffe a Leffe, oggi quartiere di Dinant in Vallonia, iniziò a produrre birra nel 1240.

Lo scopo era quello di ottenere una bevanda sana, in un periodo di continue e pericolose epidemie. L’abbazia conobbe periodi di crescita e splendore fino alla rivoluzione francese, durante la quale il birrificio venne distrutto.

La produzione di birra ripartì solo nel 1952, grazie alla collaborazione con un birrificio di Bruxelles, successivamente acquisito dalla multinazionale AB InBev.

LUCI ED OMBRE
Un’iniziativa pubblicitaria a chiaroscuri, quindi. Accostare il nome di Leffe ai valori ed alla tradizione brassicola monacale nordeuropea è, evidentemente, una forzatura prettamente commerciale.

Dall’altro lato il fatto che uno chef “televisivo” come Alessandro Borghese metta il volto a favore di una birra che, una volta tanto, non sia la solita lager bionda, può nobilitare (speriamo) la percezione della birra al grande pubblico.

Luci ed ombre. Ombre poiché viene da chiedersi se, in un Paese che conta quasi mille birrifici artigianali che costantemente cercano tipicità e particolarità nelle loro produzioni, chef, influencer, critici gourmet e personaggi televisivi vari non possano – una volta tanto – spendere una parola a favore di un movimento in continua crescita. In continuo fermento (ci sia perdonato il gioco di parole).

Quando lo chef Carlo Cracco ha associato il proprio volto agli spot delle patatine della milanese San Carlo, da ogni dove si sono sollevate critiche. Operatori del settore e semplici consumatori sono rimasti interdetti di fronte al binomio “chef stellato – patatine in busta”.

Perché non capita altrettanto col binomio “chef – birra commerciale“? Probabilmente perché nessuno considera la birra un bene che possa essere “non commerciale”, un bere “nobile”. Ci auguriamo che questa serie di spot possa contribuire ad uscire da questa errata percezione.

Luci, quindi. Luci all’orizzonte. Vogliamo sperare che a partire da Borghese molti chef, stellati o meno, vogliano iniziare a trattare la birra alla pari del vino. Ad inserirla nelle proprie carte dei vini col rispetto che merita.

A considerarla negli abbinamenti coi loro piatti. A considerarla come ingrediente di cucina non solo per lo “stinco alla birra”. Avete notato la penuria di offerta brassicola nelle carte dei vini dei ristoranti?

E pensare che ogni regione italiana ha vari birrifici artigianali che fanno della territorialità (o anche dell’internazionalità) il loro punto di forza. Basterebbe davvero un minimo sforzo per iniziare a valorizzarli anche all’interno della ristorazione.

Ci piace pensare che anche una campagna pubblicitaria “furba”, come quella di Leffe, possa in qualche modo aiutare il mondo il della Birra ad uscire dall’anonimato.

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