Ritratti cantina LavisEclettica e spensierata. Romantica e riflessiva. Generosa e dolce. O, ancora: elegante e raffinata. Riservata e misteriosa. Decisa e dinamica. Sono le “personalità” raffigurate sulle nuove etichette della gamma di vini Ritratti di Cantina La-Vis. Ognuna a sintetizzare l’animo, anzi l’anima, di altrettanti vitigni allevati sulle colline avisane, alle porte di Trento, tra i 250 e i 550 metri di altitudine. Rispettivamente: Sauvignon Blanc, Chardonnay, Gewürztraminer. Pinot Nero, Cabernet Sauvignon e Lagrein. Tutti vendemmia 2023 i bianchi; 2022 i rossi. Una gamma rigorosamente Trentino Doc.
DALLA GDO ALL’HORECA: IL SALTO DEI RITRATTI DI CANTINA LA-VIS
Un passo in avanti che, per la cooperativa trentina, significa evoluzione. In primis nel cambio di rotta commerciale. I 6 nuovi vini, prodotti in quantità limitate – 100 mila bottiglie potenziali – e solo su una porzione selezionata – circa 100 ettari – dei 400 ettari a disposizione degli (altrettanti) soci della cantina, saranno infatti destinati in esclusiva al canale Horeca (enoteche, wine bar, ristoranti, hotel). Le annate precedenti erano invece commercializzate (anche) in Gdo, ovvero al supermercato. Il “rebranding” della linea Ritratti parte dall’estetica, con la scelta di rinnovare le etichette. Non più i dipinti di fine Ottocento del pittore trentino Giovanni Segantini, tra i massimi esponenti della corrente divisionista italiana. Ma le opere di un’artista contemporanea, di origini marchigiane, che ha scelto di vivere a Trento ormai da 10 anni: Margherita Paoletti.https://www.margheritapaoletti.it/
MARGHERITA PAOLETTI E LE ETICHETTE DEI RITRATTI CANTINA LA-VIS
Sull’etichetta del Sauvignon Blanc ecco dunque “Salvia fredda“, opera caratterizzata da tinte verdi che simboleggiano i tratti organolettici del vitigno di origine francese. Il calore del giallo sullo Chardonnay, con “Dorata“. “Aria d’estate” è il titolo del quadro raffigurato sul Gewürztraminer. Il Pinot Nero vede protagonista “Nebbia sospesa”. Cabernet Sauvignon e Lagrein, infine, “Alba e rugiada” e “Viola umana“. L’artista Margherita Paoletti, selezionata da cantina La-vis fra oltre 300 potenziali candidati, è stata accompagnata nei vigneti dove nascono i vini della linea Ritratti. Ne ha toccato la terra. E si è lasciata coinvolgere da colori e profumi. Solo dopo questa «esperienza immersiva» ha dato vita alle 6 creazioni che oggi sono raffigurate sull’etichetta e che saranno esposte in una sala dedicata della cooperativa, nella sede di La-vis.https://www.mart.tn.it/
RITRATTI LA-VIS: VINI SINTESI DEL LORO ECOSISTEMA
«La linea Ritratti di Cantina La-vis – ricorda il direttore tecnico Ezio Dellagiacoma – è nata nel 1988 ed ha saputo distinguersi, sin dagli esordi, per la qualità dei vini e per le etichette che ritraevano i dipinti di Segantini. Con l’annata 2023 dei bianchi e 2022 dei rossi abbiamo voluto rendere il progetto più attuale, coinvolgendo il Mart di Rovereto e scegliendo un’artista contemporanea che condividesse i nostri valori. In questo senso, Ritratti ha compiuto un passo in avanti nel simboleggiare il forte legame di questi 6 vini con l’ecosistema in cui nascono, ovvero le colline avisane. Ed entro la fine del 2025 presenteremo un’altra novità: una cuvée dei vitigni a bacca bianca, già imbottigliata ma, a differenza dei monovarietali, bisognosa di sostare in vetro, prima di essere commercializzata». Già pronti per essere stappati i tre bianchi e i tre rossi. Tutti vini fedeli alla varietà. Con un denominatore comune assoluto: l’agilità di beva e la gastronomicità, che li rendono – trasversalmente – ottimi alleati del segmento Horeca.https://la-vis.com/
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Ecco i migliori vini bianchi siciliani a meno di 20 euro, grazie agli assaggi alla cieca a Sicilia en Primeur 2024. Le anteprime siciliane sono l’evento enologico di punta dell’isola, che vede la partecipazione delle cantine associate ad Assovini Sicilia. Inauguriamo così le pubblicazioni dedicate al racconto dei vini della Sicilia, attraverso i migliori assaggi a Sep 2024, suddivisi per fascia prezzo.
CANTINA
ETICHETTA
ANNO
UVE
PROV
DOC / IGP
CERT.
PREZZO
CANDIDO VINI
Guardalomu
2023
Grillo 100%
PA
DOC SICILIA
BIO
7,00 €
CANDIDO VINI
Inzolia
2023
Inzolia 100%
PA
IGP Terre Siciliane
BIO
7,00 €
CANTINA CHITARRA
Cutò
2023
Grillo 100%
TP
DOC Sicilia
–
7,50 €
CANTINA CHITARRA
Cutò Inzolia
2023
Inzolia 100%
TP
IGP Terre Siciliane
–
7,50 €
CANTINA CHITARRA
Cutò Zibibbo
2023
Zibibbo 100%
TP
IGP Terre Siciliane
–
7,50 €
CANDIDO VINI
Arridi
2023
Sauvignon Blanc 100%
–
IGP Terre Siciliane
BIO
8,00 €
PRINCIPE DI CORLEONE
Ridente Angelica
2023
Grillo 100%
PA
DOC Sicilia
–
8,50 €
PRINCIPE DI CORLEONE
Bianca di Corte
2023
Insolia, Chardonnay
PA
DOC Sicilia
–
9,00 €
FEUDO ARANCIO
Grillo Feudo Arancio
2023
Grillo 100%
RG
DOC Sicilia
–
10,00 €
PRINCIPI DI BUTERA
Chardonnay
2023
Chardonnay 100%
CL
DOC Sicilia
–
11,00 €
CASA GRAZIA
Per Mari Grillo
2023
Grillo 100%
CL
DOC Sicilia
BIO
12,90 €
VALLE DELL’ACATE
Zagra Grillo
2023
Grillo 100%
RG
DOC Sicilia
–
13,00 €
TENUTE NAVARRA
Allucià
2023
Grillo 100%
CL
DOC Sicilia
–
13,30 €
TENUTE LOMBARDO
Bianco d’Altura
2023
Catarratto 100%
CL
DOC Sicilia
–
13,50 €
TENUTE LOMBARDO
Grillo d’Altura
2023
Grillo 100%
CL
DOC Sicilia
–
13,50 €
MASSERIA DEL FEUDO
Voce di Lago
2023
Grillo 100%
CL
DOC Sicilia
BIO
15,00 €
PRINCIPI DI BUTERA
Serò
2018
Inzolia 100%
CL
DOC Sicilia
–
17,00 €
MASSERIA DEL FEUDO
Hermosa
2022
Grillo 100%
CL
DOC Sicilia
BIO
18,00 €
SANTA TRESA
Vanedda (Az. Cortese)
2019
Grillo, Catarratto, Fiano
RG
IGP Terre Siciliane
BIO
18,00 €
GORGHI TONDI
Rajàh
2022
Zibibbo 100%
TP
DOC Sicilia
BIO
19,00 €
Il focus di Sicilia en Primeur 2024 è stata la vendemmia 2023. Agronomi ed enologi locali l’hanno definita «una vendemmia performante, dal profilo qualitativo e organolettico». I produttori siciliani hanno puntato sulla ricchezza varietale e sulla diversità degli areali siciliani. Mostrando capacità nel saper governare la complessa e sfidante situazione climatica. Nonostante la riduzione della quantità, con un calo certificato del 31% rispetto al 2022, vincono identità, territorio e qualità.
Migliori vini bianchi siciliani a meno di 20 euro Sicilia en Primeur 2024 Assovini
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
EDITORIALE – Mentre i fondi europei stanno dando una nuova centralità enologica (non del tutto ancora meritata) a Paesi dei Balcani e dell’ex blocco sovietico, in buona parte spesi dalle organizzazioni locali per foraggiare la stampa internazionale di settore e incoraggiarla a scrivere di “quanto siano meravigliosi” i vini oggi prodotti in quelle zone (non saranno sfuggiti ai più informati alcuni “titoloni” di pubbliredazionali apparsi, per esempio, su Decanter, oppure lo spazio crescente conquistato a Prowein da queste nazioni, con la Germania e i suoi scrupolosi intermediari a proporsi come mercato chiave dell’export Ue) è bene che gli amanti del nettare di Bacco non perdano di vista una regione vinicola su tutte in Europa. Una tra le più note, che continua a produrre vini di assoluta qualità, mai abbastanza glorificati in Italia e nel panorama mondiale e oggi da (ri)scoprire: la Loira.
Gli importatori italiani di Borgogna e Bordeaux, per non parlare di Champagne, abbondano ma non sempre riescono a convincere in termini di profondità dell’assortimento. Il motivo è che la richiesta è alta e c’è un po’ di spazio per tutti, anche per gli improvvisati. Trovare invece vini della Loira in Italia, specie nelle carte dei ristoranti, è cosa ben più complicata. Eppure questa regione andrebbe collocata, a mio avviso, almeno tra le prime tre da scoprire (o approfondire) dentro e fuori dal calice, a partire da questo 2023.
Il motivo risiede nella moderna raffinatezza della produzione dei Vignerons della Loira, capaci di sfornare vini rossi leggeri (nuovo, vero trend internazionale che sta man, mano seppellendo l’abbondare delle sovra-concentrazioni, nonché l’uso smodato delle barrique di primo passaggio, vere e proprie serial killer di primari e varietali) tanto quanto vini bianchi freschi, minerali, verticali (altro trend) e spumanti – i Crémant – di ottima levatura (valide alternative ai più costosi Champagne).
LOIRE MILLÉSIME 2023: L’ANALISI DELL’ANTERPIMA
A Loire Millésime 2023, l’anteprima vini organizzata da InterLoire – Interprofession des Vins du Val de Loire che ha visto protagonista la stampa internazionale tra il 25 e il 29 aprile scorso, la Loira ha confermato che per essere tra i migliori basta, a volte, rimanere se stessi. Soprattutto se a cambiare sono gli altri. Un cambiamento dettato principalmente dalle novità del clima. Le alte temperature stanno letteralmente “cuocendo a puntino” diverse denominazioni internazionali, in cui si assiste – tra gli altri fenomeni negativi – a un’impennata dei valori dell’alcol che contribuisce ad allontanare i consumatori da determinate tipologie, se non a costringerli a puntare su bevande diverse dal vino.
Il climate change sta invece – per molti versi – avvantaggiando la Loira, regione connotata per lo più da un clima fresco e che del “Cool Climate” – formula ormai divenuta vera e propria leva di marketing internazionale da parte di cantine e territori più avveduti e all’avanguardia – fa e farà sempre più un cavallo di battaglia. Basti pensare che InterLoire ha messo “l’acqua” al centro della sua campagna di promozione negli Usa e nei mercati target europei (tra cui non figura, per ora, l’Italia) nella duplice presenza “rinfrescante” dell’Oceano – soprattutto a ovest di Nantes, patria degli straordinari Cru del Muscadet – e dello stesso fiume Loira, che attraversa la regione contribuendo al 25% delle risorse idriche dell’intera Francia. Condizioni ideali, insomma, per reggere – anche in futuro – all’urto di stagioni calde, secche e siccitose, senza che i viticoltori locali debbano rivoluzionare di molto le pratiche agronomiche o di cantina.
CABERNET FRANC FAVORITO DAI CAMBIAMENTI CLIMATICI IN LOIRA
Dell’aumento delle temperature medie si avvantaggia soprattutto il Cabernet Franc, varietà simbolo della Loira che, in occasione della vendemmia 2021 proposta in anteprima dai produttori a Loire Millésime 2023, si presenta succoso più che mai, sapido (a volte addirittura bilanciatamente “salato”), golosissimo nelle migliori espressioni primarie del frutto.
Si passa dalla polpa rossa croccante tipica dei “leggerissimi” Saint-Nicolas-de-Bourgueil – vini tendenzialmente longilinei e slanciati nell’espressione del millesimo, seppur mai banali – alle più strutturate versioni “complesse” di Saumur-Champigny, l’Aoc che più di tutte concentra in 1.500 ettari di vigneto l’impressionante versatilità del Cabernet Franc della Loira. Non è raro trovare nella stessa gamma di una cantina vinslégers e vinscomplexes, tipologie accomunate da un’immensa “approcciabilità“, garantita dall’immancabile agilità di beva.
GLI CHENIN DI SAVENNIÈRES: UNA GARANZIA
Un motivo in più per (ri)scoprire la Loira è la versatilità della produzione. Se le modernissime interpretazioni del Cabernet Franc potrebbero rivelarsi una scoperta per il mercato italiano – incentivando così i produttori a piantare Cabernet Franc nelle aree più adatte, scommettendo su vini “croccanti”, in pieno stile francese, segmento purtroppo poco presidiato al momento nel Bel Paese – di una maggiore notorietà godono Chenin e Sauvignon Blanc. Soprattutto per quest’ultimo, la notizia è che non bisogna per forza addentrarsi negli ormai noti Sancerre o Pouilly-Fumé per trovare assoluto appagamento dei sensi, in zona. Ma andiamo con ordine.
Lo Chenin è la terza varietà più piantata in Loira, diffusa soprattutto ad Angers e Touraine. I vini più verticali e minerali, specchio fedele dei suoli, trovano casa nella Savennières Aoc, a sud di Angers, sulle rive del fiume. Solo 150 gli ettari complessivi, per lo più arroccati su speroni rocciosi a picco sul fiume. Rese molto basse e terreni composti da scisti di arenaria e rioliti vulcaniche donano caratteristiche uniche allo Chenin. E per chi è a caccia di una longevità maggiore, ci sono i Savennières Roche aux Moines (veri mattatori a Loire Millésime 2023) e i Coulée de Serrant.
TOURAINE OISLY E CHENONCEAUX: L’EVOLUZIONE DEL SAUVIGNON BLANC
Anche sul Sauvignon Blanc della Loira si potrebbero scrivere pagine e pagine, ma è sul nuovo capitolo della varietà che è giusto concentrare la massima attenzione. La nuova “frontiera” si chiama Touraine Oisly, considerata “The cradle of Sauvignon Blanc“, ovvero la “Culla” del vitigno. Siamo a ovest di Montrichard, nella parte più orientale dell’Aoc Touraine, su un areale di soli 35 ettari allevati ad oggi da 7 viticoltori. In soli 12 anni (l’Aoc Oisly è stata istituita nel 2011 e riguarda solo le migliori parcelle della Sologne Viticole) il Sauvignon qui ha trovato un profilo unico, che mette al centro finezza ed eleganza, giusta concentrazione del frutto e sapidità, costituendo ormai una validissima alternativa ad Aoc più note (e costose).
Stesso discorso vale per un’altra denominazione in crescita, istituita nel 2011 all’interno della Aoc Touraine, proprio come quella di Oisly. Al centro, ancora una volta, il Sauvignon Blanc: si tratta della della Touraine-Chenonceaux, dal nome che richiama lo splendido Château della foto di copertina. I suoli, ricchi di calcare e argilla silicea, assicurano centralità e croccantezza al frutto. Nonostante la buona concentrazione aromatica, i vini base Sauvignon qui prodotti risultano sempre freschi, connotati da un’ottima agilità di beva e gastronomicità. Nelle prossime settimane, come per le altre denominazioni, i migliori assaggi a Loire Millésime 2023.
SEMPRE PIÙ PROFILATI I CRU DEL MUSCADET
Una lunga tavolata, con i produttori e i loro vini schierati in bell’ordine. Alle loro spalle, un roll-up che mostra il nome e il suolo di ogni cru. Si sono presentati così alla stampa i Vigneron di Nantes, per dare ulteriore (meritatissimo) risalto ai loro Crus Communaux, i Cru del Muscadet. Più passano gli anni e più i produttori di questo areale francese riescono a dare un senso a quello che, solo apparentemente, potrebbe sembrare un “abuso di zonazione”.
I vini provenienti dai differenti crus communaux del Muscadet hanno un’identità singolare precisa, al netto di qualche somiglianza che potrebbe avvicinare l’espressione di un cru a quella di un altro. Dieci quelli identificati, così riassumibili grazie alle impressioni degli assaggi. Per le versioni più piene, stratificate e “potenti”: Clisson, Gorges, Mouzzillon-Tillières, Monnières-Saint Fiacre e Vallet. Per i crus del Muscadet di maggiore equilibrio e rotondità: Le Pallet, La Haye-Fouassière, Goulaine, Champtoceaux, La Haye-Fouassière e Château-Thébaud.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Sabato 22 aprile sono stati proclamati i migliori Sauvignon Blanc 2021 al 5° Concorso Nazionale del Sauvignon, tenutosi in Alto Adige. Come primo classificato il Sauvignon Maso delle Rose Alto Adige DOC di Josef Weger, al secondo posto il Sauvignon Ombrasenzombra Colli Piacentini DOC di La Tosa e al terzo posto a pari merito il Sauvignon Praesulis Alto Adige DOC di Gump Hof e il Sauvignon Andrius Alto Adige DOC di Cantina Andriano.
Il Concorso, che si è svolto il 30 marzo a Penone, è frutto di una attenta valutazione realizzata da una giuria tecnica formata da 25 degustatori. Oltre 80 i campioni di Sauvignon Blanc dell’annata 2021 che hanno preso parte al Concorso provenienti da cantine di 9 diverse zone vitivinicole: Sicilia, Marche, Emilia-Romagna, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Trentino, Alto Adige, Lombardia e Piemonte.
I MIGLIORI SAUVIGNON BLANC 2021 D’ITALIA
I° posto al Sauvignon Maso delle Rose Alto Adige DOC di Josef Weger II° posto al Sauvignon Ombrasenzombra Colli Piacentini DOC di La Tosa III° posto al Sauvignon Praesulis Alto Adige DOC di Gump Hof III° posto al Sauvignon Andrius Alto Adige DOC di Cantina Andriano
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Dal 14 al 16 marzo, 1.210 vini Sauvignon provenienti da tutto il mondo si sono contesi le ambite medaglie del Concours Mondial du Sauvignon 2023. Per la prima volta nella sua storia, la competizione si è svolta fuori dall’Europa, a Franschhoek, in Sudafrica. Non è cambiata, tuttavia, la supremazia dell’Austria, incoronata regina delle nazioni produttrici di Sauvignon Blanc (20, per la precisione, quelle in lizza) da 50 giudici internazionali.
Il miglior Sauvignon del concorso proviene di fatto dalla Stiria, la regione austriaca di Graz. Il Trofeo Dubourdieu è stato quindi assegnato al Sauvignon Blanc “Sieme Eichberg” della cantina Adam-Lieleg. All’Austria un totale di 85 medaglie, di cui 45 d’oro e 40 d’argento.
Nonostante la difficile annata 2022, la Loira (Francia) ha comunque ottenuto 77 medaglie (28 d’oro, 49 d’argento). Si tratta di una bella ricompensa per i produttori della regione che hanno dovuto fare i conti con condizioni meteorologiche avverse. Al Concours Mondial du Sauvignon 2023, la Francia ha vinto anche il Trofeo Internazionale per il miglior assemblaggio, che è andato al Saint-Lannes Sauvignon Chardonnay di Duffour Père & Fils.
RAIF 2021 DI CASTELFEDER RIVELAZIONE ITALIANA
La Spagna mantiene la sua posizione, con ben 12 medaglie, di cui quattro d’oro. La Castiglia e León è chiaramente una terra privilegiata per questo vitigno, ma nell’elenco dei vincitori sono presenti anche altre zone di produzione come la Catalogna, l’Aragona, la Navarra e la Mancia.
L’Italia si è aggiudicata 14 medaglie d’oro e 17 d’argento, con il Friuli-Venezia Giulia che si conferma territorio di produzione leader della penisola. Il Sauvignon 2021 “Raif” di Castelfeder si aggiudica tuttavia il premio Rivelazione 2023 per l’Italia, spostando il cerchio del vitigno in Trentino Alto Adige.
Il Sudafrica fa grandi progressi, tra le maggiori nazioni produttrici di Sauvignon Blanc. Ben 56 le medaglie rimasta in casa agli organizzatori del Concours Mondial du Sauvignon 2023, di cui 26 d’oro e 30 d’argento, oltre al titolo “Tonnellerie Sylvain” per il miglior vino invecchiato in botti di rovere assegnato al Villiera Bush Vine di Villiera Wines.
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È corretto trovare nel Müller-Thurgau sentori simili a quelli del Sauvignon Blanc. Bosso (“pipì di gatto”) e note vegetali sono tipiche del vitigno. A stabilirlo è una ricerca condotta dall’Istituto Agrario di San Michele all’Adige – Fondazione Edmund Mach (TN), insieme a 6 università italiane.
La notizia è stata anticipata da Mattia Clementi, ex presidente e attuale membro del Comitato Mostra Valle di Cembra, che ha parlato di fronte alla sala di esperti del settore chiamati a giudicare gli 82 vini iscritti al 19° Concorso Internazionale Vini Müller Thurgau, giovedì 17 giugno a Cembra. Altrettanto tipiche, sempre secondo l’Istituto trentino, le note di pompelmo. Meno quelle “aromatiche”.
IL PROFILO DEL MÜLLER-THURGAU
I dettagli della ricerca saranno oggetto di approfondimento durante la XXXV rassegna Müller Thurgau: Vino di Montagna, in programma a Cembra dal 30 giugno al 3 luglio. Tra gli appuntamenti da non perdere, anche l’annuncio dei vincitori del Concorso che ha visto protagonisti 55 Müller Thurgau italiani e 27 esteri (18 dalla Germania e 4 a testa da Svizzera e Repubblica Ceca).
Nato tra il 1882 e il 1891 dall’incrocio di Riesling Renano e Madeleine Royal, per mano del prof Hermann Müller, il Müller Thurgau è un vitigno che matura al meglio in montagna. In Valle di Cembra, dove occupa il 40% del vigneto complessivo, la varietà ha trovato la sua terra d’elezione, grazie a terreni porfirici e alla forte escursione termica.
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Si può combattere la contraffazione del vino grazie ad analisi con raggi infrarossi e laser. La scoperta è frutto di uno studio congiunto tra il Dipartimento di Ingegneria industriale dell’Università di Salerno, l’Istituto di Scienza e Tecnologia alimentare dell’Università di Agricoltura e Scienze della Vita di Budapest (Ungheria) e l’Istituto di Biotecnologia e Tecnologia alimentare dell’Università Industriale di Ho Chi Minh City (Vietnam).
Gli studiosi hanno applicato al vino una nuova tecnica non invasiva, utilizzata sino ad ora per indagare le funzioni cerebrali nell’uomo. Si tratta della Functional Near Infrared Spectroscopy (fNIRS), ovvero Spettroscopia funzionale nel vicino infrarosso. L’altra metodologia riguarda la più comune retrodiffusione laser.
INFRAROSSI E LASER: I DETTAGLI DELLA NUOVA RICERCA
In una ricerca pubblicata sulla rivista accademico-scientifica Processes, il team di ricercatori composto da Anita Hencz, Lien Le Phuong Nguyen, László Baranyai eDonatella Albanese (nella foto di copertina) ha posto le basi per importanti innovazioni nella lotta alla contraffazione del vino.
«L’adulterazione degli alimenti – spiegano i tre studiosi – è al centro della ricerca a causa dell’effetto negativo sulla sicurezza e sul valore nutrizionale e a causa della richiesta di protezione dei marchi e delle denominazioni di origine. I vini prodotti con uve Portugieser e Sauvignon Blanc sono stati selezionati per gli esperimenti».
«RAPIDA STIMA DELL’ADULTERAZIONE DEL VINO»
I campioni sono stati alterati con la diluizione in acqua, l’aggiunta di zucchero e una combinazione di entrambi. Gli spettri nel vicino infrarosso (NIR) sono stati acquisiti nell’intervallo 900-1700 nm. La regressione dei minimi quadrati (OLS: Ordinary Least Squares) è stata eseguita per stabilire il livello di adulterazione».
Per gli esperimenti sono stati utilizzati moduli laser a bassa potenza, utili a raccogliere «segnali di riflettanza diffusa alle lunghezze d’onda di 532, 635, 780, 808, 850, 1064 nm».
La dispersione laser, riferisce il team di studiosi di Salerno, Budapest e Ho Chi Minh City, «ha rilevato con successo lo zucchero aggiunto con l’analisi discriminante lineare (LDA), ma la sua precisione di previsione era bassa». «La spettroscopia NIR – concludono i ricercatori – potrebbe essere adatta per una rapida stima non distruttiva dell’adulterazione del vino».
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Sono 1.120 i campioni provenienti da 23 paesi produttori che hanno partecipato al Concours Mondial du Sauvignon 2022, il più grande e prestigioso concorso internazionale interamente dedicato al vitigno Sauvignon. Oltre alle medaglie d’Oro e d’Argento, il Concours Mondial du Sauvignon ha assegnato trofei speciali ai vini che hanno ottenuto i punteggi più alti nelle categorie Miglior Blend, Miglior Sauvignon barricato, Miglior Sauvignon dolce e Miglior Sauvignon del concorso.
L’Italia ha ottenuto un totale di 31 medaglie. Oltre la metà grazie ai Sauvignon friulani: Friuli Venezia Giulia (22), Trentino Alto Adige (4), Veneto (2), Lombardia (1), Piemonte (1), Silcilia (1). Il miglior Sauvignon italiano è il vendemmia 2020 di Cantina Rauscedo.
Dai risultati ottenuti all’ultima edizione del Concorso Mondiale del Sauvignon – commenta Mariano Paladin, il direttore del Consorzio tutela vini Friuli Colli Orientali e Ramandolo– fa piacere constatare che i produttori del Friuli Venezia Giulia continuano ad ottenere dei risultati importanti sia in termini numerici che di valore, questo consolida ulteriormente la lunga tradizione della nostra Regione di grandi produttori di Sauvignon sia a livello nazionale che internazionale».
I VINI IN CONCORSO
Quest’anno il concorso ha registrato un altissimo numero di iscrizioni di vini “barricati”. Ben 225 vini, ossia un quinto del totale delle iscrizioni, in larga parte provenienti dalla Stiria e da Bordeaux. Ottimi i risultati di questa categoria con il 35% di vini premiati.
I primi cinque paesi ad aver riportato il maggior numero di medaglie nell’edizione 2022 del concorso sono la Francia, l’Austria, l’Italia, il Sudafrica e la Repubblica Ceca. La regione con il più alto numero di riconoscimenti è la Valle della Loira con ben 100 medaglie. La Stiria è al secondo posto con 71 medaglie, e il Friuli e Bordeaux condividono il terzo posto con 22 medaglie ciascuno.
All’interno della Valle della Loira, le denominazioni che hanno avuto più successo sono Touraine (34), Sancerre (23) e Pouilly Fumé (12). La D.O. Touraine Chenonceaux ha avuto particolare successo: il 63% dei vini di questa denominazione è stato premiato, riportando anche il prestigioso Trofeo Denis Dubourdieu 2022 per il miglior Sauvignon del concorso, assegnato a Domaine Jean Christophe Mandard Blanc 2020.
FRANCIA E AUSTRIA SUGLI SCUDI
È un grande orgoglio per noi, produttori di vino della Touraine, essere riconosciuti tra i migliori Sauvignon del mondo – sottolinea Thierry Michaud, presidente della Aop Touraine -. Gli eccellenti risultati ottenuti al Concours Mondial de Sauvignon premiano il know-how dei nostri viticoltori e dimostrano che la Touraine è un grande terroir di Sauvignon».
Anche la D.O. Sancerre ha avuto un’elevata percentuale di successo (34%), confermato dal Trofeo Rivelazione Loira attribuito a Caillottes 2020 di Joël e Sylvie Cirotte in occasione dei tasting del Concours Mondial du Sauvignon 2022.
Con 39 medaglie d’Oro e 32 d’Argento, i Sauvignon Blancs della Stiria (Austria) hanno dimostrato ancora una volta la loro eccellenza. La Stiria ha raccolto il maggior numero di riconoscimenti nella categoria barricati (42), tra cui il trofeo Rivelazione Sauvignon barricato 2022, assegnato al Sauvignon blancRied Kranachberg Reserve 2015 di Peter Skoff. Circa il 60% dei vini stiriani premiati sono barricati.
Il terroir della regione vinicola stiriana è predestinato alla varietà Sauvignon Blanc, ciò ci permette di produrre vini di fama mondiale in tutte e tre le regioni della Stiria – evidenzia Stefan Potzinger, presidente dei vini della Stiria -. E quando così tanti viticoltori di qualità si concentrano su una varietà, il successo è inevitabile».
LE RIVELAZIONI DEL CONCOURS MONDIAL DU SAUVIGNON 2022
Il miglior vino nella categoria “Sauvignon dolce” del Concours 2022 Concours Mondial du Sauvignon 2022 viene dalla Repubblica Ceca: è il Sauvignon slámové víno 2015 di Skalák. Nella stessa categoria, sono stati premiati vini provenienti da Romania, Austria, Cile, Repubblica Ceca e Moldavia.
Il trofeo Rivelazione per il miglior Blend è stato assegnato al greco Ktima Biblia Chora White 2021 – un blend di Sauvignon Blanc e Assyrtiko. Di seguito, tutte le “Rivelazioni” del Concours Mondial du Sauvignon 2022.
Trofeo Dubourdieu 2022 (Miglior Sauvignon in gara) Domaine Jean Christophe Mandard Blanc 2020
Touraine Chenonceaux, Valle della Loira, Francia
Trofeo Tonnellerie Sylvain 2022 (Rivelazione Sauvignon barricato) Peter Skoff Sauvignon blanc Ried Kranachberg Riserva 2015
Stiria, Austria
Rivelazione Blend 2022 Ktima Biblia Chora Bianco 2021
Monte Panego, Macedonia, Grecia
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Molto più di un indizio di quali siano i migliori 10 Sauvignon Blanc italiani arriva dalla IIª edizione del Concorso nazionale del Sauvignon blanc, riservato all’annata 2018. Sul podio Ansitz Waldgries, con il Sauvignon “Myra” (90,4/100), Weingut Franz Haas con il proprio Sauvignon blanc senza nome di fantasia (90,2/100) e Kellerei Tramin con il Sauvignon Blanc “Pepi” (90,1/100). Una classifica che parla chiaramente la lingua del Südtirol.
Le prime dieci posizioni (le uniche rese note dagli organizzatori) sono infatti occupate da vini prodotti da cantine del territorio della provincia di Bolzano. I piazzamenti hanno posto sotto i riflettori alcune realtà che hanno saputo valorizzare cru e microzone nelle quali il vitigno ha trovato le condizioni ottimali per sviluppare le sue grandi potenzialità.
Il Concorso nazionale ha visto confrontarsi 85 Sauvignon blanc in rappresentanza di otto diversi territori d’Italia: Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Marche, Piemonte, Veneto, le provincie autonome di Trento e di Bolzano, con grande predominanza – c’è da dirlo – di queste ultime due.
LA CLASSIFICA DEI MIGLIORI 10 SAUVIGNON BLANC ITALIANI
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Cantina Isolabella della Croce di Loazzolo, gioiello dell’astigiano. Vendemmia 2013. Vasca numero 32: Sauvignon Blanc in purezza. Andrea Elegir, l’enologo, annusa e riannusa il nettare. Qualcosa non va. Non è profumato come all’inizio. Eureka. Bisogna evitare che il mosto entri in contatto con l’ossigeno, “bruciando” gli aromi. Nasce così Vinooxygen, la vasca di acciaio Inox da 30 ettolitri che ha rivoluzionato il Sauvignon di Isolabella. Rendendolo più profumato e più sano. Con meno solfiti di un rosso.
Il macchinario, brevettato e commercializzato da Andrea Elegir e dal fratello Luca (ingegnere meccanico), non promette miracoli. Più semplicemente, Vinooxygen consente di portare a termine l’intero processo di vinificazione senza travasi. Tutto avviene nella vasca. Dalla fermentazione alla stabilizzazione, fino all’unica “movimentazione” del vino, necessaria all’imbottigliamento.
“Rispetto al vino della stessa annata, vinificato col metodo tradizionale – precisa Andrea Elegir – si conserva il 30% in più dei profumi. Si dice che su cento aromi classici del Sauvignon, se l’enologo è bravo, riesce a preservarne il 60-65%. Grazie a Vinooxygen si sale al 90% di aromi preservati in bottiglia e, dunque, nel calice”.
“Misurando i composti solforati del Sauvignon Blanc – spiega il winemaker piemontese – si nota come ogni travaso del vino causi una perdita dal 6 all’8% degli aromi. Riducendo al minimo i travasi, si riduce anche la perdita aromatica”.
Senza ossigeno in vinificazione, inoltre, si evita di usare solfiti, se non al momento dell’imbottigliamento. “Andiamo in bottiglia con 60 mg/l – commenta Elegir, analisi alla mano – e la cosa positiva è che, a due anni dall’imbottigliamento, sul Sauvignon della vendemmia 2017, abbiamo riscontrato 54 mg/l di totale e 45 di solforosa libera. Il vino, a distanza di tempo, risulta dunque ancora protetto e fresco“.
Importante anche il riscontro del mercato. Il primo Sauvignon prodotto col metodo Vinooxygen, nel 2016, è stato venduto in quattro mesi. In precedenza, Borgo Isolabella della Croce impiegava un anno per finire le scorte dell’annata: circa 3.500 bottiglie.
“Ci è bastato farlo assaggiare ai clienti in occasione delle ultime edizioni di Vinitaly per venderlo tutto”, chiosa Andrea Elegir. Intanto, il macchinario ideato dall’enologo piemontese ha varcato i confini di Loazzolo.
Sarà presto in commercio il Timorasso 2018 prodotto col metodo Vinooxygen da Gian Paolo Repetto. Consensi anche nelle Marche, dove a utilizzare la speciale vasca è l’Azienda Vitivinicola Socci, per il Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Si chiude così la decima edizione del Concorso Mondiale del Sauvignon, con l’Italia che sale sul podio arrivando terza dopo Francia e Austria.
La manifestazione, organizzata dall’agenzia belga Vinopres si è tenuta dal 7 al 9 marzo scorsi ad Udine in Friuli Venezia Giulia, regione ospitante per la seconda volta dopo l’edizione del 2015.
Un incremento del 66% rispetto allo scorso anno in termini di medaglie vinte con a farla da padrone proprio il Friuli Venezia Giulia che si è aggiudicata i due terzi delle medaglie italiane.
I risultati dei vincitori, consultabili qui, sono stati comunicati oggi al ProWein di Düsseldorf alla presenza, oltre che degli organizzatori, anche dell’assessore regionale alle risorse agroalimentari, Stefano Zannier, dell’assessore alle Attività Produttive, Turismo e Grandi eventi del Comune di Udine, Maurizio Franz, e di Renato Pontoni della Pregi, società incaricata dall’Ersa (Ente Regionale per lo sviluppo rurale del Fvg) di organizzare in loco la manifestazione.
ORGOGLIO FRIULANO Grande soddisfazione espressa dall’Assessore Regionale alle Risorse Agroalimentari del Friuli Stefano Zannier che ha così commentato:”I risultati della 10ª edizione del Concorso Mondiale del Sauvignon ci riempiono di soddisfazione e dimostrano, ancora una volta, la qualità dei nostri vini . Le 35 medaglie che l’Italia si è aggiudicata, con un incremento di oltre il 60% rispetto alla scorsa edizione, di cui ben 26 al Friuli Venezia Giulia, sono motivo di orgoglio così come lo è sapere che il trofeo Rivelazione Sauvignon italiano è stato conferito a un’azienda vinicola del nostro territorio. Si tratta di risultati che confermano la capacità dei nostri produttori e danno lustro all’intera regione”.
LE MEDAGLIE ASSEGNATE In tutto, su 1.010 vini in gara valutati da una giuria composta da una settantina di esperti internazionali, sono state assegnate 122 Medaglie d’Oro e 180 Medaglie d’Argento a Sauvignon provenienti da Francia, Austria, Italia, Nuova Zelanda, Sud Africa, Spagna, Cile, Bulgaria, Germania, Stati Uniti, Slovenia, Slovacchia, Romania, Svizzera, Repubblica Ceca, Turchia, Grecia e Argentina.
La Francia è ancora in testa alla classifica con 157 medaglie vinte (il 24% in più, rispetto al 2018). Con 45 medaglie, l’Austria si è assicurata il secondo posto. L’Italia, con le sue 35, si è classificata terza, con un notevole incremento del 66% rispetto all’anno scorso.
Due terzi delle medaglie italiane sono state assegnate a Sauvignon provenienti dal Friuli Venezia Giulia che si è aggiudicato in tutto 26 medaglie, 12 d’oro e 14 d’argento. Con il 31% in più di medaglie rispetto all’anno precedente, la Nuova Zelanda è salita al quarto posto (21), seguita dal Sudafrica (14).
I TROFEI RIVELAZIONE E IL TROFEO DUBOURDIEU Oltre alle 302 medaglie, la giuria internazionale ha assegnato 6 trofei Rivelazione ad altrettanti vini che hanno ottenuto il più alto punteggio, distinguendosi per l’eccellenza del Sauvignon bianco nelle diverse categorie.
Unico in Italia è stato premiato come Rivelazione il Sauvignon 2018 Braida Santa Cecilia della Cantina Pitars di San Martino al Tagliamento in provincia di Pordenone.
Gli altri Trofei rivelazione sono stati assegnati a Sauvignon non barricato Weingut Dreisiebner Stammhaus, 2017 Sauvignon blanc Hochsulz, Stiria meridionale, Austria; Sauvignon barricato St. Supery Estate Vineyard & Winery, Dollarhide Sauvignon Blanc 2017, Napa Valley, Stati Uniti; Blend Château Magence, 2015 Château Magence, Graves, Francia;Sauvignon biologico Domaine des Emois, 2018 Domaine des Emois, Sancerre, Francia.
Trofeo Dubourdieu 2019 creato nel 2017 come tributo al prof. Denis Dubourdieu, padrino della prima edizione del concorso, è Domaine Delobel, 2017 Cuvée Exponentielle, Touraine, Francia. Il Trofeo va al vino capace di rivelare l’essenza più pura e raffinata del Sauvignon.
IL CONCORSO MONDIALE DEL SAUVIGNON La decima edizione del Concorso è stata ospitata per la seconda volta in regione dopo la prima nel 2015, con il supporto organizzativo della Pregi e la collaborazione di Regione, Ersa, Comune di Udine e Consorzi delle Doc Fvg.
Una tre giorni che ha visto, oltre alle degustazioni ospitate a palazzo D’Aronco, sede del Comune di Udine, anche un ricco programma di visite guidate, conferenze, visite guidate alla scoperta delle eccellenze enogastronomiche artistiche e paesaggistiche del Friuli Venezia Giulia.
Un programma che si è concluso con la cena di gala al Castello di Spessa con un menù firmato anche dallo chef stellato Alberto Tonizzo.
Tra i soggetti che hanno contribuito alla manifestazione Anag assaggiatori di grappe, Assoenologi, Ais, i ragazzi dello Stringher e dello Ial, il Consorzio del San Daniele e del Montasio, il personale dell’hotel Astoria, guide, interprete e i quattro relatori della conferenza-degustazione con cui il 7 si è aperta la manifestazione udinese (Marco Simonit, Rodolfo Rizzi, Enzo Di Zorzi e Fulvio Mansutti).
Nel 2020, il Concours Mondial du Sauvignon tornerà in Touraine, già sede della competizione nel 2013.
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COSTA VESCOVATO – Che poi, la vita, è un po’ per tutti come un’autostrada: piena di caselli. Ti fermi. Paghi. Se ti va bene ti danno il resto. E riparti. Altrimenti rimani lì. Fregato. Un infinito susseguirsi di stop and go. Da una parte chi dà. Dall’altra chi riceve. Fino alla prossima sbarra abbassata.
I panni del casellante, Daniele Ricci, se li è tolti volentieri. Nei primi anni Duemila. Per inseguire – fuor di metafora – un sogno chiamato Timorasso. Oggi, il 55enne vignaiolo è tra i riferimenti assoluti della piccola Denominazione piemontese portata in auge negli anni Novanta dal pioniere Walter Massa. Siamo sui Colli Tortonesi, in provincia di Alessandria. Per l’esattezza a Costa Vescovato.
Un campanile segna il paesaggio, all’orizzonte, tra le vigne appese alle colline che si alternano al bosco. Qualche sali e scendi e un tratto sterrato che macchia le gomme dell’auto di bianco, prima di raggiungere Daniele Ricci all’Agriturismo Cascina San Leto. Il “giocattolo” di famiglia, che suggella una vita di sacrifici, aperto due giorni a settimana, solo nel weekend.
I vini di Ricci, che oltre a diverse tipologie di Timorasso produce Barbera, Croatina e Nebbiolo, sono tra i più “naturali” della zona. Ma senza alcuna bandiera ideologica: “Avrei aderito alla Fivi – chiosa il vignaiolo – soprattutto per via dell’amicizia con Walter. Ma ultimamente hanno un po’ perso lo spirito iniziale e preferisco starne fuori, come sto fuori da qualsiasi altra associazione”.
Nessuna aggiunta di solforosa in cantina e rispetto massimo per il vigneto, con trattamenti che si riducono a rame e zolfo. Ma non è sempre andata così per il vignaiolo, che arriva all’appuntamento in pantaloncini corti e canottiera bianca, dalla vigna.
“Quando facevo ancora il casellante e la viticoltura era un’attività per così dire ‘secondaria’, portata avanti con mio padre – racconta Daniele Ricci – si lavorava come lavoravano gli altri: con la testa nel sacco. Senza porsi alcun problema ‘filosofico’. Non dimentichiamoci che siamo gente degli anni Ottanta, che ha bruciato tutto quello che poteva bruciare”.
“Io sono figlio del consumismo più sfrenato. Mio padre Filippo lavorava al Consorzio agrario. E per lui la novità erano i diserbanti ultimo modello, tutti i prodotti di sintesi che pensava fossero il meglio”
“Poi – continua il vignaiolo – il mio fisico particolarmente sensibile ha iniziato a dare i primi segni di cedimento. Davo i sistemici e sentivo una pressione al petto. Davo il diserbante nel grano e stavo male, pur indossando il casco per non respirarlo”. Ma la vera svolta è avvenuta alla nascita di Matteo (nella foto, sotto).
Oggi ha 22 anni e studia brillantemente enologia. “Da piccolo girava per i nostri campi, attorno all’attuale agriturismo. E io lo riprendevo: non puoi, non puoi! Una volta mi ha chiesto: perché non posso uscire? E da lì mi è scattata una molla. Ho detto basta. Succeda quel che succeda, basta con questi prodotti”.
“Ci dicevano che tutto sarebbe seccato – continua Ricci – senza l’aiutino dei sistemici. Ma era una balla. Era terrorismo. Ma fare vini naturali, per qualcuno, voleva dire fare vini con difetti. E ancora adesso, in certi contesti, essere biologici è penalizzante”.
Per questo non è presente alcun bollino sulle etichette dei vini di Daniele Ricci. Eppure l’azienda (15 ettari di cui 10 vitati, per 40 mila bottiglie complessive) è certificata biologica dallo scorso anno, al termine dei tre anni di conversione.
GLI ESORDI AL SUPERMERCATO
Nel percorso che ha portato Daniele Ricci ai fasti attuali, con la presenza di alcune sue etichette nelle carte del vino di molti ristoranti stellati, c’è anche un periodo nella Grande distribuzione organizzata.
“Erano gli anni Novanta – ricorda Ricci -. Grazie all’intermediazione di un broker abbiamo iniziato a lavorare con Finiper, ovvero Iper, la Grande i, che aveva capito l’importanza di avere in assortimento prodotti locali, quando ancora non era di moda al supermercato”.
Punti vendita come quelli di Tortona, Rozzano e Serravalle Scrivia, aiutano Ricci a farsi conoscere. “Ma mi sono accorto che non era il mio mondo. E ne sono uscito piuttosto velocemente, in quattro o cinque anni”.
“Nello stesso periodo, un’altra piccola catena di supermercati di Roma, oggi assorbita da Conad, volle i nostri vini. Il proprietario aveva anche un paio di enoteche nella capitale e ci commissionò due etichette diverse per i due canali, per lo stesso vino: un Timorasso”.
“Siamo andati avanti così, ancora per qualche anno. Tutto faceva mucchio: si portavano a casa due soldini e si reinvestivano. Tanto lo stipendio da casellante c’era. Mia moglie era tranquilla. Un anno compri la terra, un altro il trattore, un altro lo cambi: sempre senza soldi. Adesso è comico parlarne, ma allora no”.
Una svolta “naturalista”, quella di Daniele Ricci, che si può definire completata dalla realizzazione di una tettoia, immersa nel vigneto, sotto alla quale sono state interrate tre anfore da 10 ettolitri.
“La mia idea, anzi la mia fissa, era quella di fare il vino nella vigna. Fondamentale l’incontro con Josko Gravner, da cui andai negli Novanta, proprio con Walter Massa”
L’uva, raccolta nei vigneti attigui, viene diraspata e vinificata a “Chilometro zero” nei tre recipienti di terracotta di fabbricazione toscana, originari di Impruneta (FI). Nasce così “Io cammino da solo“, il Timorasso in anfora di Daniele Ricci. Cento giorni di macerazione sulle bucce e 12 mesi di affinamento ulteriore in botti di castagno.
Un vino non filtrato, non chiarificato. Ottenuto ovviamente con lieviti indigeni, così come tutti quelli di Daniele Ricci e della sua Azienda agricola di Costa Vescovato. Il tempo, sotto a quella tettoia, sembra essersi fermato al 1929.
L’anno in cui i nonni del vignaiolo, Carlo e Clementina, cominciarono a coltivare i terreni di marne Tortoniane di San Leto. Una calamita che ha riportato Daniele Ricci tra il verde dov’era cresciuto. Strappandolo anno dopo anno dall’asfalto del’autostrada.
LA DEGUSTAZIONE VsQ Metodo classico 2014 “Donna Clem”. Metodo classico base Timorasso, 36 mesi sui lieviti, dosaggio zero. La base è ottenuta dalla cuvée dalle uve di due cru: San Leto (vigne vecchie) e Giallo di Costa (90 giorni di macerazione sulle bucce).
Ad occuparsi della spumantizzazione è Dogliotti Vini 1870, cantina di Castagnole delle Lanze (AT) che ha nel suo portafoglio diverse realtà dell’Alta Langa. Le prove sono iniziate nel 2009, ma l’uscita sul mercato (con appena 2 mila bottiglie) risale al Vinitaly 2017.
Perlage fine, che stuzzica il palato in un gioco curioso con la “grassa” abbondanza del Timorasso. Il sorso, grazie al non dosaggio, mantiene tuttavia la verticalità che ci si deve aspettare dall’uvaggio. Finale amarognolo e salino, che racconta la fase fenolica di raccolta di un Timorasso spumantizzato ancora in fase di evoluzione.
Derthona 2016. Vinificato con macerazione di 3 giorni sulle bucce e affinamento di 12 mesi in botti di acacia da 700 litri. E’ il vino d’ingresso nell’universo di Daniele Ricci, che non a caso ha il colore dell’oro.
Un Eldorado chiamato Timorasso che qui mostra la sua faccia più giovane, ma non per questo timida. Darà il meglio di sé a partire dai prossimi tre-quattro anni, ma già oggi comincia a mostrarsi per quel che sarà.
Colli Tortonesi Doc 2013 “San Leto”. Eccolo qui, sua maestà il Timorasso. Vinificato con macerazione di 3 giorni sulle bucce, 12 mesi sulle fecce nobili e almeno 24 mesi di ulteriore affinamento in bottiglia.
Naso che si spinge a toni netti di idrocarburo che sono la cifra del vitigno. Un Timorasso giocato su una balsamicità che, per certi versi, ricorda quelli prodotti nell’unica sottozona della Denominazione, la Val Borbera (600 metri slm). Conservando tuttavia gli sbuffi florali tipici della media collina (300 metri slm).
Un palato che si diverte a esaltare a corrente alternata salinità e grassezza balsamica, evidenziando fasi larghe (quasi morbide) e fasi acide (dure) del sorso. Sinonimo di un nettare che migliorerà ulteriormente in vetro, ma solo per chi avrà il coraggio di conservarlo in cantina.
Giallo di Costa 2013. Il vino a cui è più affezionato il produttore. Timorasso vinificato con macerazone di 90 giorni sulle bucce a cappello sommerso e 24 mesi di affinamento in bottiglia.
Ci sentiamo di concordare con Ricci, perché quest è un vino che fa facilmente innamorare di questa straordinaria uva a bacca bianca autoctona dei Colli Tortonesi.
Un Timorasso semplice, tutto sommato. Giocato su intensi sentori erbacei, agrumati e di radice di liquirizia, con ottima corrispondenza naso-bocca. Pregevole la chiusura, carica e salina.
Rispetto 2017. Novanta per cento Sauvignon Blanc, completato da un 10% di Riesling italico. Tra le sperimentazioni del vignaiolo Daniele Ricci, anche questa, riuscitissima. Dimenticatevi, però, i tipici tratti del Sauvignon.
Soprattutto al naso, l’ottimo grado di maturazione di uve alla raccolta ha giocato in maniera fondamentale nella riuscita di un bouquet davvero seducente, quasi femminile. Si tratta, di fatto, del vino dalla beva più “easy” di Daniele Ricci.
Un complemento di gamma che non snatura la filosofia del produttore piemontese, dal momento che la macerazione di 20 giorni sulle bucce resta parte integrante della vinificazione.
Colli Tortonesi Doc 2012, Io Cammino da solo. Vinificato con macerazione di 100 giorni sulle bucce in anfore di terracotta interrate e ulteriore affinamento in botti di castagno, per 12 mesi. E’ l’orange wine di casa Ricci. Il vino, che al momento, sorprende di più.
Al naso l’impronta ossidativa è netta, ma integrata alla perfezione in un corredo di . Netti anche i sentori di legno, che contribuiscono a rendere avvolgente, anche al palato, questo orange di carezzevole potenza.
DUE NOVITA’ IN ARRIVO
In quel laboratorio a cielo aperto che sono le vigne di Daniele Ricci, sono due le novità in arrivo. La prima sarà “C.C.C.”, che sta per “Come un Cane in Chiesa”. “E’ come mi hanno fatto sempre sentire, anche prima di trasformarmi in una specie di santone. Io ero, sono e resterò sempre un cretino: un uomo semplice!”, spiega il vignaiolo.
Vendemmia 2011 per il Timorasso “C.C.C.”, che sarà imbottigliata a febbraio. Si tratterà del capitolo 2, dopo “Rebus”, l’etichetta enigmatica che riportava gli anni di nascita dei componenti della famiglia Ricci (in quel caso di trattava di un Timorasso in magnum, dimenticato in cantina, al buio completo, per 8 anni).
La seconda novità si tinge di rosso. Sarà un Nebbiolo particolare. “Una prova”, che aspira a sondare le capacità dei Colli Tortonesi di produrre etichette in grado di fronteggiare le Langhe, in termini di finezza. Un’evoluzione, insomma, dell’attuale Nebbiolo “San Martino” di Daniele Ricci.
L’affinamento in 14 barrique delle vendemmie 2016 e 2017 è tuttora in corso: il vino non sarà messo in commercio prima di 4 anni. Per assaggiarlo, dunque, bisognerà attendere il 2020. Non resta che aspettare.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Un altro bell’evento, questa volta in un territorio meno “global” della media come Trento, con protagonisti i vignaioli artigiani. Vinifera Forum, dal 21 al 25 marzo, ha posto l’accento sul “vino artigianale”, con particolare attenzione alle Alpi e al Nord Italia.
Una viticoltura eroica raccontata da tante etichette presenti sul catalogo di Proposta Vini. Tra quelle presentate lo scorso mercoledì da Italo Maffei al Circolo Santa Maria di Rovereto (TN), segnaliamo la straordinaria Boschera di Eros Zanon.
Un Colli Trevigiani Igt frizzante ottenuto dall’omonimo vitigno, di cui sono presenti solo 6 ettari in tutta Italia. Siamo nella zona di Valdobbiadene e i ceppi di Boschera sono stati scoperti e conservati da Zanon tra filari di Glera.
Ne scaturisce un vino vivo, dal naso succoso di frutta a polpa bianca. Un bel palato minerale, verticale, accompagna verso una chiusura e agrumata e vegetale. Beva semplice, ma tutt’altro che banale: un vino quotidiano di assoluto livello.
Giovedì 22 marzo la visita all’azienda agricola Elisabetta Foradori a Mezzolombardo (TN). La nota produttrice trentina, artefice del successo del Teroldego nel mondo e promotrice della viticoltura biodinamica, ha aperto le porte a un nutrito gruppo di visitatori.
Un vero e proprio mausoleo i locali storici della cantina. Uno di quei posti in cui cala il silenzio, quasi per magia e per rispetto dei nettari che riposano in bottiglia, o sono in maturazione nelle oltre 120 anfore di terracotta spagnola Padilla: un marchio di fabbrica della Foradori.
Una vignaiola che, grazie alle selezioni massali sul Teroldego, operate sin dal 1984, regala al mondo del vino italiano vere e proprie chicche. Vini di prospettiva, pensati per evolversi nel tempo, subendone le curve e i sali e scendi.
Di fatto, oggi, il vino più “pronto” tra i rossi degustati è certamente il Vigneti delle Dolomiti Igt Foradori 2016. L’etichetta storica dell’azienda, prodotta sin dal 1960. Naso infinito: cannella, finocchietto, radice di liquirizia, ginger e richiami che ricordano l’agrume maturo, in particolare l’arancia rossa.
Vena floreale di viola e minerale profonda che si ritrova anche al palato, decisamente verticale. Tutto si gioca su note di frutta a bacca rossa come melograno e ribes: l’acidità torna a parlare di agrumi e il tannino fa presagire buone prerogative di affinamento del nettare in bottiglia.
Strepitosi anche i due cru di Teroldego firmati da Elisabetta Foradori: Sgarzon 2015 e Morei 2016. Tra i due, è il primo a convincere di più, in questa fase. Un naso solare, ricco, concentrato come il colore che dipinge il calice, un rosso purpureo impenetrabile.
Palato vibrante, giocato su un’acidità che ricorda più la buccia rossa che la polpa d’agrume. Leggera percezione tannica, ben integrata col sorso. Morei è invece ancora un po’ chiuso, con le parti vegetali e speziate in attesa di confondersi amabilmente col frutto.
Il Granato 2015 è, in assoluto, il Teroldego di casa Foradori che parla più di futuro. Un vino, oggi, da dimenticare in cantina e riscoprire evoluto entro una decina d’anni. Bello constatare la presenza, assieme, di note terrose ghiaiose ed eteree che ricordano tabacco dolce e fumè, in un quadro fruttato di ribes e ciliegia.
Eugenio Rosi, Viticoltore Artigiano – Cantina di Affinamento. Entrare a Palazzo Demartin, in via 3 novembre a Calliano, piccolo borgo di 2 mila anime alle porte di Trento, in Vallagarina, è come fare un tuffo nel passato.
Rosi apre la porta e invita all’interno di quella che sembra, di primo acchito, la bottega di un falegname. E lui, Mastro Geppetto. Capelli lunghi brizzolati, raccolti in una coda. Sorriso timido, stretta di mano calda.
Si percorrono due corridoi pieni di cartoni, poggiati su un pavimento della fine del Quattrocento. Ti senti un po’ Pinocchio, tra le mani del genio. L’ambiente ti avvolge, come in un sortilegio. Un antico portone di legno conduce alla panica della balena.
Ventidue gradini di pietra, in pendenza, conducono nella barricaia. Al centro una tavola di legno, come fosse un altare, con decine di bottiglie alla rinfusa. Eugenio Rosi si posiziona al centro. E versa, versa. Versa. E racconta.
Si inizia con il blend Anisos 2015: Nosiola (50%) Pinot Bianco (30%) e Chardonnay (20%), allevati tra i 400 e gli 800 metri. La prima poesia in un calice che si colora di macerazione e profuma di fiori di montagna come un campo. In bocca, l’acidità della Nosiola la fa da padrona, smussata dalla fine eleganza degli altri due vitigni.
Dorato il colore di Anisos 2009 (“orange” è una definizione che a Rosi non piace, “anche se so benissimo che stiamo parlando di quello”, ammette). Naso di quelli che ti tengono incollato al bordo come un bambino che guarda fuori dal finestrino, mentre guida papà. Miele, scorza d’arancia, anice stellato, zenzero.
La predominanza della Nosiola, in bocca, si fa sentire: prima amara, poi arrotondata dall’azione mitigatrice di Pinot Bianco e Chardonnay. Un vino lunghissimo, che conta pure su uno spunto tannico nel retro olfattivo.
“Ci sono i vini artigianali e i vini industriali – spiega Eugenio Rosi – senza vie di mezzo. Non che il primo sia migliore. L’artigiano produce cose uniche. Dall’altra parte si agisce su ‘ricette’ precostituite”.
“E’ tutta una questione di persone – sostiene Rosi che, da giovane enotecnico, ha rinunciato a un posto di lavoro sicuro per seguire il sogno della viticoltura eroica – perché nell’industria la persona diventa un semplice ‘esecutore’. Spesso vengo in cantina con l’idea di fare dei lavori: poi assaggio e lascio lì, non tocco niente. Provate a farlo in un’industria: sarebbe impossibile”.
Si prosegue con Riflesso Rosi 2016, Merlot e Cabernet in prevalenza, con una punta di Marzemino. I tre uvaggi macerano con le vinacce del bianco: si ottiene così il colore perfetto. Pare d’essere in un bosco, nonostante la leggera volatile: piccoli frutti rossi che dominano anche il palato, dritto, sincero. Rinvigorito dalla spezia leggera del Marzemino.
Il meglio di questo vitigno, in purezza, lo esprime la vendemmia 2015 di Poiema. Rosso impenetrabile e un naso più fruttato e meno speziato rispetto ai Marzemino di Isera. In bocca splendido equilibrio: amarena, uvetta, lampone, prugna, ma anche mela renetta.
Le note dolci sono dovute al leggero appassimento cui vengono sottoposte le uve per circa 30-40 giorni, per un buon 30%. Uve su cui, in seguito, avviene la rifermentazione della “base”.
Una tecnica con cui Rosi sopperisce ai problemi di maturazione (e dunque di asperità) del Marzemino, donandogli maggiore piacevolezza e facilità di beva, ma senza perdere neppure un minimo di tipicità.
Forse, però, il vero asso nella manica di questo vignaiolo artigiano della Vallagarina è il blend 2013, 2014 e 2015 di Cabernet Franc, in stile “solera”. Naso tipico, bocca di una finezza rara, capace di esprime i sentori caratteristici del vitigno in un sorso aggraziato, posato, allo stesso tempo potente e raffinatissimo.
Le uve provengono più da un clos che da un cru. Il giardino di una villa tutelata dalle Belle Arti, dotato di un terreno di sabbia profonda, quasi da cava. Vinificazione in vasche di cemento a cappello sommerso, dopo una cernita spasmodica delle uve, i primi di ottobre.
Fermentazione spontaea, con il vino nuovo immesso sul “vecchio”, assieme al suo corredo di lieviti vitali, freschi. Un filo di solforosa in botte e il risultato di un’eccellenza rara tra i rossi italiani.
Un livello su cui si assesta anche Esegesi 2013, blend di Cabernet Sauvignon (80%) e Merlot (20%) che si riassume nella massima di Rosi: “Il vino è interpretazione, emozione ed equilibrio”.
“Ma se tornassi indietro – ammette il vignaiolo – non so se rifarei le stesse scelte. Ho sacrificato e sto sacrificando la mia famiglia, i miei tre figli. Io e mia moglie Tatiana siamo partiti da zero, qui. Più ci guardiamo attorno, più ci rendiamo conto che l’errore più grande sia stato quello di non partire”.
In Vallagarina o in Liguria, la battaglia sarebbe rimasta la stessa: “Concentrarsi nel fare vini più buoni degli altri (industria, ndr) facendo crescere nel consumatore la consapevolezza e la conoscenza fondata, tangibile del senso della nostra attività”.
Amare considerazioni per un dolce finale, con lo splendido Marzemino passito 2013: un inno a profumi carezzevoli e finissimi di frutta a polpa rossa e nera, con richiami decisi a datteri e fichi. Corrispondente al palato, dove sfodera un tannino piuttosto vivo.
I MIGLIORI ASSAGGI A VINIFERA FORUM – SALONE DEI VINI ARTIGIANALI ALPINI
Bello vedere tanti giovani a caccia di calici pieni di contenuti e di storie, ancor più che di vino, al Salone dei Vini Artigianali Alpini. Vinifera Forum si è chiusa così, tra sabato 24 e domenica 25 marzo.
Un migliaio gli ingressi alla degustazione che ha visto protagonisti 50 artigiani del vino provenienti soprattutto da Trentino, Alto Adige e Veneto, ma anche da Lombardia, Friuli, Piemonte, Liguria, Slovenia e Austria.
Bello, anzi stupendo, lo scambio con molti vignaioli: tutti meno “ultrà” rispetto a tanti bevitori enofighetti di “vino naturale”. La necessaria rivoluzione culturale del vino italiano, utile ad accompagnare il mercato verso il successo che merita, si favorisce così.
Con eventi di nicchia ma ragionati. Peccato solo per la scarsa adesione di tanti “big” trentini a questo Forum, ampiamente compensata da qualche mostro sacro altoatesino (terra più generosa di quanto possano far presumere certi stereotipi).
Bellissimo vedere produttori affermati come Haderburg, Patrick Uccelli e Martin Abraham sostenere la “causa” di un’associazione di eno appassionati che amano il proprio territorio e le tradizioni: perché questo è l’Associazione di promozione culturale Centrifuga, ideatrice e artefice del programma di Vinifera 2018. Ecco i migliori assaggi.
SPUMANTI 1) Metodo Classico Vsq “Man 283” 2013, Giuliano Micheletti. Dosaggio zero biodinamico, tradotto: Chardonnay dritto al cuore. Suoli calcarei profondi, su argilla, che si esprimono sopratutto in un palato dritto, verticale, sottile, corroborato da una piccola (ma sapientissima) aggiunta di muscoloso Pinot Nero.
Un metodo classico talmente vibrante al naso da sembrare dosato con qualche mistica pozione d’alpeggio. Vino dal rapporto qualità prezzo imbarazzante: 25 euro per portarselo a casa. Chapeau.
2) Metodo Classico Trento Doc Dosaggio Zero “Maso Nero” 2012, Az. Agr. Zeni. Pinot bianco in purezza per questo prezioso sparkling che si discosta dalle caratteristiche usuali trentine, non solo per via della scelta dell’uvaggio.
Prodotto per la prima volta nel 2010, era stato pensato originariamente per essere dosato come Brut, con aggiunta di liqueur. Dagli assaggi, Rudy Zeni e la sua famiglia hanno compreso le potenzialità espresse dal Pinot Bianco. Optando per valorizzarle appieno. Nature, appunto.
Una scelta azzeccatissima, dal momento che il legno utilizzato per metà della fermentazione – seppur di secondo e terzo passaggio – aveva già ammorbidito il sorso, conferendogli un’opulenza perfettamente integrata con le note esotiche mature. Super.
3) Metodo Classico Trento Doc Nature Riserva 2012, Marco Tonini. Un vulcano questo vignaiolo, affabile come la sua batteria di Trento Doc, dall’ottimo rifermentato all’eccellente Riserva che, da poco, ha iniziato a commercializzare (prima la produceva solo per gli amici).
La Riserva Nature 2012 di Tonini è uno di quegli spumanti che vorresti avere sempre in casa: una beva tesa e molto elegante, su note fruttate mature corroborate da ottima vena balsamico-vegetale e minerale.
4) Vino Spumante Brut Nature “Silvo”, Villa Persani. Un Metodo Ancestrale coi fiocchi quello proposto da Villa Persani in una comoda bottiglia da 0,50. “Non solo per discostarlo dai Metodo classico – spiega Silvano Clementi – ma soprattutto perché lo abbiamo pensato come lo spumante perfetto per un aperitivo intimo, per due persone”. Anche il prezzo è ottimo: 8 euro in cantina.
Con Villa Persani siamo a Pressano di Lavis, vicino Trento. L’azienda si è specializzata nell’allevamento di varietà resistenti (Piwi). “Silvo”, di fatto, è un metodo ancestrale con tappo a corona ottenuto da Souvignier gris e Aromera. Bel sorso per questo sparkling dai connotati aromatici, agrumati e minerali.
5) Prosecco Frizzante “Di Fondo”, Bresolin Enrico. Il tipico Prosecco da “shakerare” prima dell’uso, per rimescolare i depositi presenti sul “fondo” e godersi appieno tutto il parterre aromatico. A produrre “Di Fondo” sono tre giovani: Enrico (25), Matteo (26) e Davide (35), nella loro azienda biologica di Maser, sui Colli Asolani.
Bel Prosecco frizzante il loro, capace di risvegliare, dal torpore dei lieviti ammassati alla base della bottiglia, sentori che vanno ben al di là di quelli classici della Glera. E dunque, oltre alla frutta a bacca bianca come la pera Williams, ecco richiami spiccatamente floreali ed erbacei, oltre a una leggera vena di radice di liquirizia.
VINI BIANCHI 1) Pinot Blanc 2015 “Art”, Weingut Martin Abraham. Tutti capolavori assoluti i vini di Martin Abraham, vignaiolo altoatesino tanto schivo quanto pronto a raccontare le sue “creature” con un calore che in pochi riescono a trasmettere.
Questa volta segnaliamo la versione che fa legno del suo Pinot Bianco In Der Lahm, vendemmia 2015, che nasce da una selezione della stessa vigna. Due anni sulle fecce, senza travasi, anche la malolattica in legno nuovo.
Ne risulta un naso ancora un po’ troppo condizionato da questa scelta, che tuttavia guarda al futuro e alla longevità di un’etichetta destinata ad affinarsi ulteriormente nel tempo.
Il palato, invece, è un’esplosione. La componente minerale fa da cornice a richiami fruttati a metà tra l’agrume e la pera. Straordinario l’equilibrio tra la cremosità dell’alcol e le durezze. Il finale, lunghissimo, è tutto giocato sulle spezie, quasi piccanti. Un vino dal valore assoluto.
2) Vino bianco biologico 2016 “Monte del Cuca”, Menti Giovanni. Cambiamo zona e cambiamo radicalmente tipologia di bianco. Con “Monte del Cuca” siamo in Veneto, nella zona di Gambellara.
Si tratta di un 100% uve Garganega, raccolte a mano nella prima metà di ottobre, diraspate e fatte fermentare sulle proprie bucce, senza l’aggiunta di lieviti e senza controllo della temperatura.
Le uve restano in acciaio per circa due anni, prima dell’imbottigliamento, senza filtrazione e senza aggiunta di solfiti. Ne scaturisce un “orange” dal naso tra i più belli dell’intera Vinifera (e non solo). Come rotolarsi in un campo di fiori, alle pendici di un vulcano.
Il suolo fa la sua parte soprattutto al palato, conferendo all’assaggio una struttura verticale. Ma la lunga macerazione regala al contempo grassezza a una beva instancabile. Nel retro olfattivo anche una leggera percezione tannica.
3) Riesling 2012 “Limen Bianco”, Giuliano Micheletti. Oltre al Metodo Classico segnalato sopra, Micheletti conquista il podio anche tra i bianchi, con uno splendido Riesling 2012 che regala sentori di idrocarburo, resina, erbe. Un bianco più che mai vivo, sulla cresta dell’onda anche al palato, dove mostra uno splendido bouquet di frutta matura.
4) Sauvignon Blanc 2014 “Garnellen Anphora”, Tropfltalhof. Più difficile da pronunciare che da apprezzare, il vino in anfora di Tropfltalhof. Siamo a Caldaro, in Alto Adige. La vena agrumata tipica del vitigno non manca. Ma, per il resto, questo è uno di quegli assaggi da conservare nella cartella “Sauvignon Blanc” della memoria. Nome del file: “Eccezioni”.
I 21 mesi in anfore di tre tipi (due spagnole, alla Foradori ma di due produttori diversi, e una toscana) uniti ai 7 complessivi sulle bucce, conferiscono a questo Sauvignon una concentrazione organolettica unica, sia al naso sia al palato. Ottima la scelta di raccogliere all’ultimo la varietà, ottenendo una maggiore pienezza.
La bocca, in particolare, è tesissima. Sul filo di agrumi come lime, e pompelmo che accentuano la salivazione. Seguono spezie, sentori erbacei d’alpeggio e di pietra focaia, prima di un finale caldo. Solo 800 le bottiglie prodotte nella scarna vendemmia 2014, che fanno lievitare il prezzo a 41 euro.
5) Sampagna 2016, I Canevisti. Sampagna è il nome con cui, in dialetto veneto, si identifica la Marzemina bianca. Solo uno dei vitigni autoctoni della zona di Breganze, in Veneto, che il gruppo di amici vignaioli “I Canevisti” sta cercando di recuperare e valorizzare.
Andando oltre alcune punte di volatile, il vino che convince di più al banchetto di Vinifera è la Sciampagna 2016. Il risultato ottenuto con il lavoro su questo vitigno è a dir poco eccezionale.
Un naso infinito, ampio, giocato principalmente sulle erbe e sugli agrumi. Corrispondente al palato, dove sfodera altrettanta ampiezza. Da bere a fiumi, una volta riusciti a staccare il naso dal calice.
VINI ROSATI 1) Rosato di Dolcetto “?” 2017, Forti del Vento. Il nome di fantasia, i due amici Marco Tacchino e Tomaso Armento, devono ancora trovarlo per il loro rosato da uve Dolcetto, vinificato e affinato in anfore di terracotta da 300 litri.
Un rosato di quelli veri, di sostanza. A partire dal colore carico, senza compromessi provenzali. Mille bottiglie prodotte, in totale. Una bella chicca.
2) Riviera del Garda Classico Doc Valtenèsi Chiaretto “La moglie ubriaca” 2017, La Basia. Ha bisogno di ancora un po’ di “bottiglia” questa “moglie ubriaca”. Ma, barcollando, riuscirà certamente ad arrivare in porto: frutto, sostanza e mineralità ci sono tutte. Devono solo raddrizzarsi. E lo faranno entro qualche mese.
Terreni calcarei per dare al verticalità al calice di questa chicca di casa La Basia, azienda agricola condotta grande passione da Davide, Irene, Carla, Giacomo, Emilio e papà Antonio, che hanno preso in mano l’azienda alla morte di mamma Elena.
VINI ROSSI 1) Igt Terrazze Retiche di Sondrio, Pizzo Coca. Elogio alla semplicità. Segnaliamo questo vino per la sua capacità di arrivare al cuore, con grande semplicità. E’ il vino d’entrata (10 euro) di Pizzo Coca, realtà di appena 1,7 ettari vitati, vocata al biologico.
Siamo in Valtellina, uno dei simboli della viticoltura eroica in Italia. Qui, Lorenzo Mazzucconi, con un amico, ha deciso di mettere le radici, di ritorno da diversi viaggi di formazione enologica, in giro per il mondo.
Il monte Pizzo Coca è sullo sfondo dei vigneti e vigila sul futuro di questa combriccola, che ha da poco trovato un locale da adibire a cantina: l’ex latteria del Paese. Tutto attorno i vigneti, a Ponte, Tresivio, Poggiridenti e Montagna in Valtellina.
Il Nebbiolo di questo Igt Terrazze Retiche di Sondrio è lavorato solo in acciaio. Il risultato è un’esplosione tutt’altro che banale di frutto, di una grandissima pulizia. Un vino quotidiano con i contro fiocchi. Avanti così!
2) Piemonte Doc Albarossa 2013 “Altaguardia”, Forti del Vento. Torniamo in Piemonte, di nuovo a casa di Forti del Vento a Castelletto d’Orba, in provincia di Alessandria. Tra i rossi presenti a Vinifera Forum, infatti, spicca l’Albarossa 2013 “Altaguardia”.
Albarossa è il nome del vitigno frutto dell’incrocio tra Barbera e Nebbiolo. Un concentrato di Piemonte, insomma, reso possibile dell’ampelografo Giovanni Dalmasso. “Altaguardia” 2013 è un rosso ancora giovanissimo, ma di grande prospettiva.
Nel calice, evidente la “lotta” tra l’acidità intrinseca al vitigno e richiami vagamente surmaturi, più che concessi visto l’equilibrio raggiunto. Due, tremila bottiglie l’anno per l’Albarossa di Forti del Vento, allevata a un’altezza di 7-800 metri. Da comprare oggi e tenere in cantina.
3) Sorni Rosso Trentino Dop 2015 “Grill”, Eredi di Cobelli Aldo. Avete presente il Teroldego? Ma sì, quel rosso trentino che spesso comprate al supermercato. Ecco, scordatevelo. Il vitigno Teroldego è la base ampelografica della Dop Sorni.
E la Eredi di Cobelli Aldo lo interpreta alla sua maniera. Splendidamente. Le viti affondano le radici in terreni di gesso, che conferiscono al calice una mineralità spiccata.
Un Teroldego dall’ossatura ben definita, che non manca di sfoderare, al palato, un tannino austero e un frutto perfettamente delineato, pulito. Un altro grande vino di prospettiva, che incarna alla perfezione il senso di questo Salone dei Vini artigianali alpini.
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Il nome Piemonte deriva dal latino Pedemontium, cioè la regione situata “ai piedi dei monti”. In origine tale nome era limitato a un territorio molto più ristretto dell’attuale, compreso tra il corso superiore del Po e il Sangone.
In seguito si estese sempre più, seguendo le fortune dei Savoia, fino a comprendere il Canavese, il Monferrato, le Langhe, le valli alpine, il Vercellese e il Novarese.
Proprio le Langhe e il suo vitigno principe, il Nebbiolo, sono l’oggetto del nostro wine tour. L’etimo del nome “Langa”, che in piemontese indica proprio la collina, è incerto. L’ipotesi più accreditata è quella di “lanka” con il significato di “conca, avvallamento”.
Le Langhe sono una regione del Piemonte situata a cavallo delle provincie di Cuneo e di Asti, confinante con altre regioni storiche del Piemonte, quali il Monferrato ed il Roero ed è costituita da un esteso sistema collinare delimitato dai fiumi Tanaro, Belbo, Bormida di Millesimo e Bormida di Spigno.
IL NEBBIOLO
L’origine del nome, un tempo scritto “Nebiolo”, pare derivare dal latino “nebia”, probabilmente dovuto al fatto che il periodo di raccolta è quello in cui le prime nebbie iniziano a salire dal fiume Tanaro verso la sommità delle colline.
Un’alternativa a tale ipotesi è collegata alla pruina biancastra che ricopre gli acini: la “pruina”, una cera secreta che produce un rivestimento biancastro sugli acini, concentrando sulla loro superficie i lieviti.
Il termine Nebbiolo apparve per la prima volta nelle Langhe il primo dicembre 1431, ed era riferito ad una varietà di vitis vinifera che qui aveva trovato il suo habitat naturale, e dai cui grappoli si otteneva un vino già allora lodato ed apprezzato.
In tutto il territorio delle Langhe il Nebbiolo viene considerato il re dei vitigni: ad esso vengono riservati i terreni migliori, vale a dire i versanti collinari esposti a mezzogiorno, con altitudine compresa tra i 200 e i 400 m slm.
Si tratta di una varietà molto vigorosa che richiede potatura lunga con 10-12 gemme, il cui bisogno di spazi si accentua grazie alla sterilità delle prime 2-3 gemme, che impediscono un infittimento d’impianto sul singolo filare; a tale scopo è possibile ridurre la distanza tra i filari.
Le Langhe si sono formate durante il Miocene (da 15 a 7 milioni di anni fa), per sedimentazioni successive di rocce prevalentemente terrigene (conglomerati, arenarie, argille).
I terreni delle zone del Barolo e del Barbaresco, formatisi in età Elveziana (era geologica che va da 15,97 a 13,82 milioni di anni fa, e Tortoniana, che va tra 7, 24 e 11,60 milioni di anni fa) sono composti da marne argillo- calcaree sedimentarie intervallati da strati di sabbia più o meno compatta e da arenarie di colore grigio- bruno.
BAROLO E BARBARESCO I terreni delle zone del Barolo e del Barbaresco si sono venuti a formare in Età Elveziana e Tortoniana e sono prevalentemente composti da marne argillo- calcaree sedimentarie, intercalate in strati di marne più o meno importanti di colore grigio- azzurro (dette Marne di Sant’Agata) e da strati di sabbia o arenarie di colore grigio- bruno e giallastro ( le così dette Arenarie di Diano).
Le Marne di Sant’ Agata che troviamo nei comuni di La Morra e Barolo danno origine a vini eleganti, profumati dalla maturazione un po’ più veloce, mentre le Arenarie di Diano (presenti nelle zone di Castiglione Falletto e in parte in quelle di Monforte) danno origine a vini più alcolici, più robusti e più longevi. Nella zona del Barbaresco predominano le Marne di Sant’Agata di origine tortoniana.
Nell’ambito di una zona completamente caratterizzata dal clima continentale temperato, i dati termici dimostrano che il comprensorio del Barbaresco gode di temperature lievemente superiori, rispetto ai comuni di Barolo con conseguente anticipazione della maturazione delle uve e della vendemmia di circa una settimana.
Nelle Langhe il mese più piovoso è maggio che registra precipitazioni medie vicine ai 100 millimetri, seguito da aprile (circa 80) e settembre (vicino ai 70). È evidente che l’influenza della pioggia può essere notevole sia in fase di fioritura (dove è in grado di determinare riduzioni produttive anche consistenti) sia in fase di raccolta (dove periodi di pioggia prolungata possono comportare problemi di muffe o marciumi).
Più in generale, modificando sensibilmente la qualità del prodotto finale. L’eccesso di pioggia nel periodo pre vendemmiale può, provocare una caduta di acidità non supportata da un incremento di zuccheri. Il Nebbiolo è senza dubbio un vitigno resistente, la zona è caratterizzata da una luminosità decisamente alta, che garantisce l’ottimale svolgimento della fotosintesi clorofilliana.
Altro fenomeno meteorologico di particolare rilievo è costituito dalla grandine, che può avere conseguenze sia sulla quantità dell’uva: in annate particolarmente flagellate si può arrivare a riduzioni complessive del 20-30%, con alcune zone in cui l’uva viene completamente rovinata, come è avvenuto nei raccolti del 1986 e del 1995. Per fortuna, la grandine non si avverte mai in modo generalizzato su tutta la zona, limitandosi a qualche fascia collinare.
GASTRONOMIA NELLE LANGHE: GLI ABBINAMENTI CIBO-VINO “Non di solo pane vive l’uomo”, Matteo 4,4 e Luca 4,4. Ma resistere, in Langa, è quasi impossibile. La cucina piemontese ha sicuramente risentito, nel corso dei secoli della vicinanza di quella francese, ma pur subendone l’influsso, ha conservato una sua inconfondibile fisionomia di schiettezza ed originalità.
Il Piemonte è una regione che offre ai visitatori una vastissima gamma di antipasti caldi e freddi, come i crostini di tartufo d’ Alba, il carpaccio di carne cruda condita con olio extra vergine d’oliva e una spolverata di pepe nero, i salumi crudi e cotti nel cui impasto viene messo spesso del vino nobile maturo come Barolo, Barbaresco, e Barbera d’Alba. Per gli antipasti sarebbe opportuno stappare un buon Barbera.
Tra i primi piatti, i più importanti e ricercati sono gli agnolotti del plin, nome che deriva dal gesto fatto per chiudere la pasta, ripiena in più versioni con carne magra, arrosto o al tartufo.
Da non dimenticare i tajarin al tartufo, pasta fatta in casa con 30 tuorli d’ uovo per chilo di farina, tagliata molto fine, condita con abbondante burro, parmigiano reggiano e sottili scaglie di tartufo. Da abbinare un Barbaresco.
Passando alle pietanze più ricercate dagli amanti della buona cucina, ricordiamo il brasato al Barolo, manzo marinato e stufato lentamente nel vino omonimo da abbinarsi con lo stesso Barolo con cui si è marinata la carne.
GAJA: LA STORIA La famiglia Gaja si stabilì in Piemonte a metà del diciassettesimo secolo. Cinque generazioni si sono alternate nella produzione di vino da quando Giovanni Gaja, nel 1859, fondò la cantina a Barbaresco, nelle Langhe.
Il bisnonno di Angelo, Giovanni, titolare di una fiorente attività di trasporti che sa far rendere il duro lavoro suo e dei suoi figli, cinque maschi e due femmine. tanto da lasciare in eredità una cascina ad ognuno di loro. Tre dei suoi figli la dilapideranno al gioco.
Fu nonna Tildin, vedova dal 1944, a reggere le redini della cantina che allora vendeva vino soltanto a privati. Privati illustri, come i Somaini di Milano, gli Zegna, i Nasi: famiglie con lo chef in cucina e la cantina colma di grandi vini francesi, che ordinavano le damigiane di Barbaresco per il consumo “da pasto”.
Il vino si vendeva, dunque, con cadenze tranquille, senza affanni: poteva restare anche dieci anni in vasca, in attesa che arrivassero i compratori. Già da allora, per volere di nonna Tildin si seguiva una politica di rigore di produzione, votata all’alta qualità.
Quando Angelo Gaja entra in azienda, nel 1961, trova una situazione economica invidiabile, un nome già famoso in Italia, oltre a 33 ettari di splendide vigne nell’areale di Barbaresco. Quando nel 1965-66 sente l’esigenza di entrare nella grande ristorazione, ha già a disposizione un’eccellente gamma di vini.
Poi nascono i cru: il primo, Sorì San Lorenzo, è del 1967. Nel 1970 entra in azienda l’enotecnico Rivella; nasce nello stesso anno Sorì Tildin, seguito nel 1978 da Costa Russi. Nel territorio delle Langhe vi sono terreni ed esposizioni dalla vocazione straordinaria, non soltanto atti a produrre grandi vini, da varietà autoctone, ma anche in grado di esprimere vini di qualità superiore anche da varietà non tradizionali, quali: Chardonnay e Sauvignon blanc.
LA DEGUSTAZIONE 1) BARBARESCO 2011 DOCG Uve: Nebbiolo 100% Titolo alc. Vol. 14,5%. Barrique e botte grande. Prezzo: 135 euro
Nel calice si presenta di colore rosso rubino, i suoi profumi sono di note scure, eleganti e profondi. Si percepiscono nettamente sentori di humus, funghi, sottobosco, foglie, in successione si presentano note fruttate di giuggiole, e note floreali di violetta oltre ad una leggera volatile.
Alla gustativa non delude rispecchiando alla perfezione tutto ciò che si è percepito all’olfattiva: il tannino è presente, ma non invadente, la freschezza e l’acidità si sorreggono e spalleggiano formando in degustazione due binari paralleli e ben distinti.
2) SORI’ SAN LORENZO 2011 LANGHE NEBBIOLO DOC Uve: Nebbiolo 95% Barbera 5% Titolo alc. Vol 14,5% Barrique e botte grande. Prezzo: 300 euro Granato non impenetrabile. Forte presenza di note scure di humus foglia di tabacco, legno di cedro; in seconda battuta sentori di erbe aromatiche. Le componenti olfattive sono di notevole spessore ed eleganza.
Anche all’assaggio a farla da padrona sono queste note scure: sapido e piacevolmente tannico, chiude con un finale di bocca pulito.
3) SORI’ SAN LORENZO 2004 LANGHE NEBBIOLO DOC Uve: Nebbiolo 95% Barbera 5% Titolo alc. Vol 14,5% Barrique e botte grande. Prezzo: 220 euro Granato luminoso. Impianto olfattivo molto generoso e complesso con note di arancia rossa, bouquet salino-salmastro con sentori di conchiglia, salamoia. Alla gustativa vi è una buona interazione tra parte acida, sapidità e tannino. La parte acida si percepisce in maniere preponderante sorreggendo l’intero vino.
4) GAYA&REY 1993 MAGNUM Uve: Chardonnay 100% Titolo alc.Vol 13,5% Botte grande.
Colore oro-verde brillante. Naso burroso, fumè, minerale con sentori riconoscibili nella frutta secca, frutta esotica, canna di fucile. Alla gustativa si percepisce una buona tridimensionalità, con freschezza centrale che racchiude una buona morbidezza e sapidità con una nota lunga burrosa in chiusura.
CANTINA CAVALLOTTO, TENUTA VITIVINICOLA BRICCO BOSCHIS La Tenuta Cavallotto si trova alle porte di Castiglione Falletto, nel cuore della zona del Barolo, sul Bricco Boschis, ed occupa una superficie di 23 ettari vitati.
I Cavallotto sono proprietari e produttori da generazioni: Giacomo ed i figli Giuseppe e Marcello acquistano nel 1928 la tenuta Bricco Boschis ed insieme continuarono a lavorare come viticoltori nei vigneti attorno alla cantina.
A quel tempo, gran parte delle uve era venduta alle cantine commerciali e solo una parte di essa vinificata nella proprietà per la vendita in bottiglia e in damigiana.
Nel 1944, Giuseppe e i figli Olivio e Gildo decisero di vinificare interamente le uve prodotte e nel 1948 nacque, ufficialmente, la Cantina Cavallotto con la commercializzazione delle proprie bottiglie etichettate. Ad oggi i figli di Olivio, Laura e i fratelli Giuseppe ed Alfio, entrambi enologi continuano a vinificare esclusivamente le uve prodotte nella tenuta e da loro dipende l’impostazione tecnica dell’azienda e la produzione dei vini.
Il pregio di questi vini deriva da un’interessante combinazione di svariati fenomeni: l’uomo con il suo attaccamento alla terra e a una civiltà contadina che dalla terra ha tratto le sue origini più remote; la lunga esperienza sul vino maturata negli anni; gli sviluppi costanti e la crescita della tecnica enologica e agronomica; e soprattutto, le condizioni pedoclimatiche di cui gode questa zona di Langa.
LA DEGUSTAZIONE 1) BARBERA D’ALBA SUPERIORE 2011 Vigna del Cuculo Uve: Barbera 100% Titolo alc. Vol. 14,5% Maturazioni in botte di Slavonia per 2 anni. Prezzo: 24 euro Rosso granato. Al naso si percepisce nettamente un frutto croccante molto accentuato (ciliegia, fragola, marasca), ma anche sentori di terziarizzazione quali cuoio, pellame, spezie dolci (ginepro). Alla gustativa si percepisce un tannino lieve e vellutato ed una marcata acidità. Un vino di gran classe.
LANGHE NEBBIOLO 2011 Uve: Nebbiolo 100% Titolo alc Vol. 14,5% Botte grande per 18 mesi. Prezzo:17 euro Colore granato. All’olfattiva si percepiscono sentori scuri e che escono con difficoltà dopo una lunga areazione nel bicchiere, di china, spezie, liquirizia, frutti maturi di prugna, ciliegia, pera. Alla gustativa si percepisce un calore leggermente cadente sull’acidità. Sfuma con erbe mediterranee. Lascia in bocca una sensazione alcolica troppo presente.
BAROLO RISERVA VIGNOLO 2008 Uve: Nebbiolo 100% Titolo alc. Vol. 14,5%. Quattro anni in grandi botti di rovere di Slavonia da 50 hl. Prezzo: 75 euro Rosso granato. Bouquet fruttato floreale si percepiscono note delicate e gradevoli di rosa, miele, prugna matura, giuggiole. Al gusto è “monocorde” esclusivamente fruttato con un tannino presente, ma levigato e piacevole. Uno splendido vino, un Barolo di assoluto riferimento.
CONCLUSIONI
Il 22 giugno 2014 durante la trentottesima sessione di comitato Unesco a Doha, le Langhe sono state ufficialmente incluse, insieme a Roero e Monferrato nella lista dei beni Patrimonio Mondiale dell’Unesco.
Svegliandosi a La Morra, spostando le tende oscuranti per far entrare la luce del giorno, ti si palesa davanti uno spettacolo mozzafiato, con vigneti a perdita d’occhio. Ricoperti da una nebbia fitta, ma sottile.ù
A rendere emozionante questa visuale è stata proprio la nebbia. Nebbia che nei giorni successivi riesce a farsi odiare, restandoti incollata addosso. Un po’ come il sole delle Puglie, che ti entra nelle ossa, ma con effetti differenti.
Che il Barolo sia il re dei vini è ormai noto a tutti. Ma quello che non sanno tutti è che anche la cucina langarola non è da meno. E si sposa magnificamente con un qualsiasi vino ottenuto da Nebbiolo. Che sia Barolo, Barbaresco, giovane o invecchiato.
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Dwight Stanford, un lavoro ce l’aveva. In America. Chirurgo generale. Apriva e ricuciva pazienti, nella sua clinica di Kansas City, Missouri. Poi, la svolta. Anche Antonella Lonardo, un lavoro l’avrebbe avuto. Una cattedra all’Università di Napoli. Docente ordinaria, dopo la laurea in Archeologia. Ebbene. Ci ha rinunciato. Ancor prima di cominciare. Il richiamo della terra è una questione di vita o di morte per i vignaioli Fivi. L’americano che molla tutto e si trasferisce a Offida, nella sperduta provincia di Ascoli. E l’avellinese che dopo tanti sacrifici sui libri capisce cosa vuole davvero: proseguire il cammino segnato dai genitori, titolari di un’azienda agricola ben avviata, a Taurasi. Storie di vino. Storie di vignaioli che, nel weekend scorso, si sono resi protagonisti del Mercato dei Vini della Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti (Fivi), nei padiglioni di Piacenza Expo, pronto ora allo storico sbarco nella capitale, Roma, il 13 e 14 maggio 2017 all’Eur.
“Sopra la stessa zolla. Sotto la stessa goccia. Nello stesso letame”: questo il messaggio lanciato dai viticoltori nel corso della sesta edizione della manifestazione, che ha chiuso con più di 9 mila ingressi la due giorni nel capoluogo emiliano (+50% rispetto all’edizione 2015). Citazione della retroetichetta delle bottiglie di Prosecco di Luigi Gregoletto, vignaiolo Fivi dell’anno. Un segnale forte, in un periodo in cui il vino e i vignaioli sono sotto accusa, in particolare nella zona di Conegliano-Valdobbiadene. In un’arena piena di colleghi il vignaiolo di Miane, premiato come Vignaiolo dell’anno, ha commosso i presenti con il suo discorso. Un inno alla terra e al suo rispetto.
“Dalla mia vita e dalle mie esperienze – ha raccontato Gregoletto – posso dire che la terra va rispettata, va amata, perché la terra è madre e sa ricompensare. Anche oggi che produrre molto è facile e produrre poco è altrettanto facile. Produrre equilibrato nel rispetto della terra, della sua conservazione e della qualità del prodotto, è molto più difficile. Ma sono convinto che questa sia la via da affrontare e sono altrettanto convinto che la terra non delude. La terra ti può fare meno ricco, ma sicuramente più signore”.
I MIGLIORI VINI DEGUSTATI Signori vini, quelli in degustazione al “Mercato” di Piacenza. I bianchi di Ermes Pavese, vignaiolo valdostano di Morgex, mostrano tutte le potenzialità del vitigno autoctono Prié Blanc. Il metodo classico Pas Dosé, 24 mesi sui lieviti si rivela complesso, sapido, minerale, di persistenza balsamica. Più pronto del Pas Dosé 18 mesi, ancora giovane, come evidenzia un’acidità spiccata e di prospettiva. Anche Nathan, il barricato di casa Pavese, è un buon compagno da dimenticare in cantina e riscoprire tra qualche anno.
Dalla Valle D’Aosta ci spostiamo in Friuli Venezia Giulia, dai Vignai Da Duline. La cantina di Villanova (Udine), visitata nelle scorse settimane da Angelo Gaja e dal suo staff, porta sugli scudi Malvasia Istriana e, soprattutto, Friulano Giallo: antico biotipo di Tocai, risulta meno produttivo ma più resistente alle malattie. Duecento ceppi in totale, che nelle annate migliori i coniugi Lorenzo Mocchiutti e Federica Magrini tramutano in magnum d’occasione. Memorabile la vendemmia 2015 di Giallo di Tocai, in degustazione: note speziate di zenzero e curcuma si legano a doppio filo ai terziari conferiti dal legno. Naso rigoglioso, cui fa eco un palato morbido, ricco, carico di vitalità. Da provare anche Morus Alba, unione tra i cru di Malvasia Istriana e Sauvignon che esprime l’idea di territorialità dei Vignai Da Duline.
Un passo più in là ecco Weingut Abraham. A presentarla Martin Abraham. Personaggio schivo, presenta in degustazione una batteria interessantissima. Tra i Pinot Bianco svetta la vendemmia 2013. Lungo periodo sulle fecce e due anni in botte seguono una raccolta dei migliori grappoli, da viti del 1955. L’acidità spiccata gioca con note esotiche che, tanto al naso quanto in bocca, spaziano dal mango alla banana. Un Pinot Bianco salino, che darà il meglio di sé nei prossimi due, tre anni. Solo 600 le bottiglie prodotte. Una vera perla.
Straordinario anche il Traminer 2014 di Martin Abraham. Meno aromatico di quanto ci si possa aspettare, spariglia le carte con un olfatto tipico e un palato che, al contrario, spinge maggiormente sulla mineralità. La vendemmia 2013 di Traminer è ancora più concentrata, ma conserva i medesimi tratti. Ottimi anche i rossi del vignaiolo altoatesino di Appiano (Bolzano). Upupa Rot 2013 è il blend tra Schiava (95%) e Pinot Nero (5%), vino “dritto” sulle acidità più che sulle note fruttate tipiche dei due vitigni. Sublime il tannino espresso, così come elegante risulta quello del 100% Pinot Nero 2013, timido in ingresso, pronto poi ad aprirsi sul classico bouquet di sottobosco.
Ecco dunque Edi Keber, friulano di Cormons, Gorizia. Il suo Collio 2015 è fresco e fruttato. In degustazione anche una più evoluta vendemmia 2012, che mostra tutta la potenzialità d’invecchiamento dell’uvaggio storico Tocai, Malvasia Istriana e Ribolla. Giallo dorato, naso minerale che richiama il terroir, frutta meno stucchevole e meglio bilanciata da un’acidità viva. “Un vino da aspettare”, come conferma al banco il giovane vignaiolo Kristian Keber.
Non poteva mancare la Lombardia, con una vera e propria “chicca”. E’ Bastian Contrario, 100% Trebbiano dell’azienda Lazzari di Capriano del Colle, provincia di Brescia. Novecentotrenta bottiglie, numerate. La vendemmia in degustazione è la 2014. Giallo dorato, naso di miele millefiori e tipica nota botritica. Al palato pieno, sapido ed elegante. Morbido, nonostante l’acidità spiccata. Fondamentali i diradamenti dei tralci di Trebbiano, in vigne di età superiore ai 20 anni. “L’obiettivo – spiega Davide Lazzari – è quello di ridurre il carico produttivo fino a non più di 60 quintali di uva per ettaro: si spinge così sulla surmaturazione con vendemmia tardiva a fine ottobre. Attendiamo dunque l’attacco botritico, che contribuisce a un’ulteriore concentrazione delle rese. Il 50% del mosto fermenta direttamente nella barrique in cui resterà in affinamento per 12 mesi”. L’abbinamento perfetto? Quello con i formaggi grassi delle valle Orobiche.
Ecco dunque l’incontro che non t’aspetti. Quello con Ps Winery di Offida, Ascoli Piceno. Una cantina a metà tra le Marche e gli Stati Uniti d’America. Chiedere per credere ai due soci fondatori, Raffaele Paolini e Dwight Stanford. Galeotto fu il master di Scienze Gastronomiche organizzato da Slow Food del 2006, presso la Reggia di Colorno. I due si conoscono lì e la passione per il vino fa il resto.
“Dopo 25 anni di lavoro in clinica ero un po’ stanco – spiega Dwight (nella foto con la moglie, conosciuta al Bravio delle Botti di Montepulciano) – volevo un anno sabbatico. Ho deciso così di aderire al master di Slow Food. Mi avevano assicurato che tutte le slide sarebbero state in inglese. Ma quando sono arrivato, mi sono reso conto che non era così! Passavo i pomeriggi a tradurre i pochi appunti, studiando su Internet cosa fosse esattamente, per esempio, il Parmigiano Reggiano. Proprio in quei giorni mia madre è venuta a mancare e ho deciso di reinvestire l’eredità, assieme ai soldi che avevo messo da parte in tanti anni di lavoro, nell’acquisto di alcuni terreni, assieme al mio compagno di corso Raffaele”. I due scelgono i cloni, le varietà. E trasformano interi campi coltivati a erbe mediche in vigna. “Il primo anno è stato fantastico – ammette Dwight – anche se abbiamo dovuto mandare via l’enologo. A quello poi ho ovviato io, laureandomi in enologia”.
Da provare l’Incrocio Bruni 54 di Ps Winery, dal prezzo strabiliante di 10 euro (in cantina). Si tratta del risultato dell’incrocio, per impollinazione, di Verdicchio di Jesi e Sauvignon Blanc. “Una pianta legnosissima – spiega Raffaele Paolini – tutt’altro che elastica, già a maggio. Delicatissima nel periodo della fioritura, ha un grappolo spargolo”. Solo 14, in tutta la regione, le cantine che lo allevano. Ps Winery ne ha 1.500 ceppi, distribuiti su un quarto di ettaro. Di colore giallo paglierino con riflessi dorati, il Marche incrocio Bruni 54 Igt di Ps Winery richiama il Verdicchio e la sua carica minerale, al naso. Al palato è un concentrato di struttura e di calore, ben espresso dagli oltre 15 gradi di percentuale d’alcol in volume. La sapidità è il secondo tratto distintivo del magnifico terroir Marche, espresso anche in questo Incrocio.
Di Ps Winery splendido anche il Syrah 2013 (24 mesi tra barrique e tonneau). Ai frutti rossi maturi rispondono a livello olfattivo percezioni floreali di viola, che poi lasciano spazio a complessi terziari di vaniglia, tabacco, liquirizia. Non manca uno spunto vegetale, che richiama la macchia mediterranea (alloro, rosmarino). Di grande freschezza in ingresso, rivela al palato la potenza (elegante) di un tannino ben bilanciato che nobilita la beva e chiama il sorso successivo. Ancora verde il tannino del Montepulciano 2011 Igt di Ps Winery: altro prodotto di assoluto valore, ma da attendere.
Rimaniamo nelle Marche per scoprire un altro vignaiolo che ha fatto della sperimentazione il proprio credo. E’ Giuseppe Infriccioli dell’Azienda agricola biologica Pantaleone, che lascia a bocca aperta con il suo Bordò. Si tratta di un biotipo storico appartenente alla famiglia dei Grenache. Utilizzato in purezza (100%), dà vita all’Igt Marche Rosso La Ribalta, di cui apprezziamo in particolare le vendemmie 2012 e 2010.
Di colore rosso rosso granato intenso, impenetrabile, si rivela speziato al naso: alle note fruttate rosse fanno da preponderante contorno liquirizia, chiodi di garofano, ginger e una spruzzata di pepe nero. Il tannino è presente, ma non disturba la beva in una vendemmia 2012 che, a conti fatti, risulta di grande eleganza e avvolgenza, anche nel finale tendente nuovamente al fruttato. Più complessa, come da aspettative, l’evoluzione della vendemmia 2010. Naso e bocca tendono al peperone verde e al cetriolo sotto aceto. Tutt’altro che un difetto, anzi: vino da provare, almeno una volta nella vita, per accompagnare grigliate, stufati, arrosti, brasati, cacciagione e selvaggina, nonché formaggi stagionati.
E’ di Contrade di Taurasi – Cantine Lonardo, provincia di Avellino, l’ultimo vino che segnaliamo tra i migliori assaggi al Mercato dei Vini Fivi 2016. Ventimila bottiglie la produzione totale della cantina oggi condotta in regime biologico dall’ex archeologa Antonella Lonardo, avviata dal padre Alessandro Lonardo e dalla madre Rosanna Cori: lui professore di Lettere in pensione e sommelier, lei insegnante di educazione Tecnica a Napoli. Cinque ettari, coltivati prettamente ad Aglianico. Ed è proprio un Taurasi Docg a centrare nel segno. Si tratta del cru Coste, vendemmia 2011.
Vino elegante, maestoso, che esprime tutta la magnificenza del grande vitigno avellinese. Difficile non pensare a una ricca tavola imbandita, sorseggiandolo a Piacenza: perfetto l’abbinamento con piatti elaborati a base di carne (dal brasato alla selvaggina) o accostato a formaggi stagionati. “L’annata 2016 è stata dura – commenta Rosanna Cori – le piogge ci hanno fatto temere addirittura per l’intero raccolto. Abbiamo vendemmiato quasi grappolo per grappolo, non appena compariva un po’ di sole. Il nostro enologo si è meravigliato quando ha visto le condizioni perfette delle uve condotte in cantina”.
Contrade di Taurasi produce vino ma svolge anche un ruolo sociale ed educativo nell’avellinese, nell’indole dei suoi fondatori. “Ogni anno ospitiamo un tirocinante dell’Università di Palermo – evidenzia ancora Rosanna Cori – che può formarsi al fianco del nostro piccolo staff scientifico, di cui fanno pare il professor Giancarlo Moschetti e il professor Nicola Francesca, microbiologi dell’Università di Palermo”. Loro il merito di aver estratto i lieviti indigeni che rendono così unici i vini di Cantine Lonardo, capace – se non bastasse – di recuperare anche un vitigno abbandonato come il Grecomusc, unico bianco di questa validissima realtà avellinese.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Centosessantadue vini degustati in diciotto differenti cantine, poste su un percorso di circa 250 chilometri. Sono i numeri più significativi del wine tour di vinialsupermercato.it in Svizzera, dal 24 al 30 luglio. Una settimana di peregrinazioni tra le splendide vie del “vino eroico” dei cantoni Valais (Vallese), Vaud e Geneve (Ginevra). Vigne a picco sul nulla, divise da cascate, costrette a fare i conti con il gelo invernale così come con il caldo torrido estivo. Vigne che costringono alla raccolta manuale delle uve. Vigne nelle quali i viticoltori locali vivono e, come successo a luglio a Fully, nei pressi di Sion, muoiono di lavoro. In due parole: viticoltura eroica. Ci hanno aperto le porte piccole realtà a conduzione famigliare, così come grandi gruppi cooperativi attenti più alla qualità che alla quantità del vino imbottigliato. E minuscole cantine, la cui produzione finisce – pressoché interamente – sulle tavole di lusso dei ristoranti stellati Michelin. Un tuffo in una realtà, quella del vino svizzero, a noi tanto vicina eppure ancora praticamente sconosciuta. Un wine tour che ci ha portato a toccare con mano la decrescita registrata per il secondo anno consecutivo, nel 2015, dai vini svizzeri nella Gdo (Coop Schweiz, Spar Handels, Volg per citarne alcuni, mentre Migros non vende alcolici). Una tendenza inversa al consumo di vini locali, in crescita dello 0,8%, come evidenzia una ricerca condotta da Philippe Delaquis per l’Osservatorio svizzero del mercato del vino (Osmv). Con i vini bianchi che restano i più venduti nei supermercati elvetici, mentre le vendite dei rossi Aoc (l’Appellation d’origine contrôlée che equivale alla Doc italiana) calano del 13%, a fronte di un aumento dell’1,8% del consumo di vino rosso svizzero. Sta pagando, insomma, il tentativo di recupero dei vitigni autoctoni svizzeri condotto da diverse cantine visitate. Oltre alla valorizzazione di uvaggi prima destinati alla sola produzione di vino sfuso o da “da tavola”.
“Visto le scarse riserve a disposizione e le incertezze legate al franco forte – evidenzia Philippe Delaquis in una nota dell’Osmv – il vino svizzero oggi cerca un’alternativa alla grande distribuzione. Per questa ragione l’Osmv, dal primo aprile 2016 ha deciso di raccogliere anche i dati presso i produttori, le cantine e di stimare ogni tre mesi, anche attraverso la Mercuriale, le tendenze di consumo. Questi dati esistono dal 2012 per i vini del cantone Vaud, ma l’Osservatorio intende ora estendere questa raccolta a tutte e 6 le regioni vitivinicole svizzere”. In generale, i vini importati provengono dall’Italia (71 milioni di litri), seguita dalla Francia (circa 40 milioni di litri) e dalla Spagna (circa 37 milioni di litri). Dal Portogallo sono stati importati circa 11 milioni di litri di vino. Se paragonate alle importazioni, le esportazioni risultano modeste: 227.500 litri in meno rispetto al 2014. Complessivamente, nel 2015 il volume d’esportazione è stato a 1,3 milioni di litri, cifra che comprende anche i vini esteri importati e riesportati, come evidenzia in una nota l’Ufag, Ufficio Federale dell’Agricoltura Svizzera. Una vendemmia non eccezionale in termini di quantità, quella del 2015: 85 i milioni di litri prodotti. Ma ottima dal punto di vista qualitativo. I giorni di sole sono stati molti. Ed è così che, tra le cantine, abbiamo potuto degustare uno straordinario vino bianco biologico senza solfiti a 15,5%. Proprio sul grado zuccherino, in particolare sulla possibilità di estendere ai vini Aoc l’autorizzazione di introdurre artificialmente zucchero, è in corso in Svizzera una battaglia tra piccoli viticoltori e grandi gruppi, a colpi di carte bollate presso i rispettivi governi federali.
ST JODERN KELLEREI, VISPERTERMINEN (VALAIS) Quale posto migliore per iniziare il wine tour se non i vigneti della St Jodern Kellerei, considerati tra i più alti d’Europa? Siamo a Visperterminen, piccolo Comune di 1.500 anime arroccato sui monti a sud del Rodano (Rhone). La zona meridionale dell’imponente corso d’acqua – che nasce in Svizzera e si spegne nel Mediterraneo, dopo aver attraversato il Sud della Francia – è considerata quella sfavorevole per la viticoltura vallese (5.100 ettari totali). Ma l’esposizione a Sud dei circa 50 ettari di vigneti della St Jodern Kellerei – cifra che si raggiunge sommando una miriade di piccoli appezzamenti di terreno, appartenenti ad appassionati abitanti del posto – costituisce un miracolo della natura che, assieme allo straordinario terroir, contribuisce a rendere magici i vini. Un’area vitivinicola che, di per sé, meriterebbe il riconoscimento di quella che in Italia è la Docg. I terreni, composti prevalentemente da sabbia, ardesia e argilla, sottendono al clima secco di una vallata che è la meno piovosa dell’intera Svizzera. Fendant, Johannisberg (Sylvaner), Gewurztraminer, Resi (Rèze), Pinot Nero, Gamay, Gamare e Syrah i vitigni allevati. Ma a farla da padrona, con circa un terzo delle bottiglie prodotte (100 delle 450 mila totali) è certamente l’Heida (Savagnin Blanc), il “vino delle Alpi”. All’enologo di formazione italiana Michael Hock (nella foto), 34 anni, il compito di fare gli onori di casa. “St Jodern Kellerei – spiega – è una cooperativa completamente differente rispetto al concetto di cooperativa italiana nel ramo del vino. Quando sono venuto via dall’Italia, dove in seguito agli studi presso l’Università di Torino ho lavorato per la Vignaioli Piemontesi, ho portato qui l’expertise acquisita. Ma sono rimasto sconvolto, positivamente, dall’attaccamento alla terra di ognuna delle famiglie che conferiscono le proprie uve a questa cantina. Nella maggior parte dei casi si tratta di persone che svolgono prevalentemente altri lavori, ma che comunque amano a tal punto le loro viti da trattarle come figlie. Il 99% di quello che conferiscono al momento della vendemmia, che qui si svolge manualmente, approssimativamente dal 25 settembre al 7 novembre, è letteralmente perfetto dal punto di vista fitosanitario: un sinonimo della gioia della tradizione e della voglia di portare avanti con successo il frutto delle terre ereditate di generazione in generazione”.
L’enologo Michael Hock ci ha messo comunque del suo, trasformando la St Jodern Kellerei in una cantina vocata alla produzione di vini veri, originali, tradizionali. Vini che parlano del terroir, del microclima di Visperterminen. E che esprimono al meglio l’unicità del vitigno, non solo nel caso di autoctoni superlativi come il Resi, da cui St Jodern ottiene meno di 2 mila bottiglie l’anno, di cui tre quarti già venduti prima della vendemmia. Il giro d’affari della cooperativa si aggira sui 4,5 milioni di euro, con una fetta del 40% proveniente dal canale Horeca (ristorazione) e dalle enoteche. Quarantamila bottiglie all’anno finiscono poi sugli scaffali della Gdo, in cui è Coop a farla da padrona con la sua linea “Pro montagna” (4 i vini St Jodern presenti in assortimento). Numeri raggiunti “nel rispetto totale delle famiglie conferitrici – spiega Hock -. Basti pensare che paghiamo un quintale di Heida più di quanto venga pagato un quintale di Nebbiolo destinato alla produzione del Barolo, assicurando circa 7,50 franchi al Kg, ovvero più di 6 euro”.
ST JODERN KELLEREI – BEST WINES Heida Veritas 2013, 14,5% – Vino bianco ottenuto da vite a piede franco centenaria, che genera acini e grappoli minuscoli. Garantita così la letterale esplosione della tipicità del vitigno. St Jodern affina in giare di terracotta questo vino, per mantenere ulteriormente intatte le caratteristiche dell’uva. Di un bel giallo carico, al naso evidenzia note floreali fresche e fruttate (albicocca). Annuncia già all’olfatto una mineralità che ritroveremo anche al palato, sotto forma di una sapidità di rara pregevolezza. Vino di grande persistenza. Fuori dalle righe, un fuoriclasse.
Pinot Nero 2015, 13,8% – Affina in acciaio questo Pinot Nero St Jodern, cui viene aggiunta una percettibile quantità di Gamay, che solitamente si aggira attorno all’8-10%. Bel rosso rubino brillante, regala un naso tutta frutta e mineralità. E’ questo, insomma, il filo conduttore dei vini St Jodern. La centralità del frutto (bacche rosse, canoniche) anche al palato gioca sinuosamente con una pregevole sapidità. Tannino piuttosto leggero, ma non siamo certo nell’area dei Pinot Nero di Salgesh. Un vino di montagna, naturale, non costruito. Da apprezzare per la verità territoriale che racconta. E per la sfida che rappresenta per St Jodern, nel futuro: migliorare ulteriormente la produzione dei rossi, portandoli ai livelli straordinari dei bianchi di casa Visperterminen.
ALBERT MATHIER ET FILS, SALGESCH (VALAIS) Abbiamo nominato prima i Pinot Nero della zona più vocata, Salgesch. Ed eccoci dunque alla Albert Mathier et Fils, casa vinicola di grande tradizione nel Vallese, oggi guidata da Amédée Mathier, nipote del fondatore. A condurci nella visita della cantina e nella degustazione è Patrick Jost (nella foto). In un territorio dove il Pinot Nero è la “specialità della casa”, Mathier è riuscita a distinguersi con uno straordinario progetto: quello della vinificazione in anfore di terracotta interrate. Sul retro della cantina, infatti, si possono scorgere le cinque postazioni in cui si trova il vino. Ogni “kvevri” – questo il nome georgiano delle anfore, localmente ridefinite con l’onomatopea “tschatscha” – può contenere fino a 1800 litri. Si tratta di un blend tra Resi (Rèze) ed Ermitage (Marsanne) per il bianco (che in realtà assume il colore tipico degli orange wine dei nostri friulani Josko Gravner e Sasa Radikon), e di Syrah in purezza per il Vin D’Amphore Noir. Dopo la vinificazione in anfora, momento in cui risultano fondamentali i ripetuti batonnage, il vino affina in botti di acacia e ciliegio. Regalando agli intenditori dei nettari unici e rari, di grandissima complessità (64 euro il prezzo di una bottiglia). Vini ossidativi, dunque, di cui vengono prodotte solamente 800 “pezzi” per tipologia, ognuno dei quali ha contribuito a rendere famosa nel mondo questa cantina vallese. Trenta gli ettari di terreni vitati su cui può contare la Albert Mathier et Fils, con un potenziale annuo che si aggira attorno alle 500 mila bottiglie. Tutti vini di grande pulizia e perfezione enologica quelli di questa cantina di Salgesch, che tuttavia non lasciano l’impronta territoriale sperata. Il “plus” di questa winery è proprio quello offerto dalle giare, vero colpo di genio di Amédée Marhier, assieme al tentativo di sviluppare l’enoturismo realizzando un salotto esterno alla cantina, abbellito dalle opere di alcuni artisti locali, dove presto sarà possibile consumare al calice la produzione della cantina. Segnaliamo a questo proposito due vini.
ALBERT MATHIER ET FILS – BEST WINES Malvoisie Flétrie 2014, 14,2% – Pinot Grigio, vendemmia tardiva. Buon vino da dessert, in grado di accompagnare anche formaggi a pasta semidura. Bel corpo e persistenza, esprime una dolcezza pacata, non invadente. Gradevoli le note di albicocca e miele che accompagnano prima l’olfatto e poi il palato verso una buona persistenza retro olfattiva. Rhoneblut 2013 Vinum Lignum, 13,5% – Fa parte della gamma di vini affinati in legno questo Pinot Noir in purezza di casa Mathier. Fratello maggiore della versione base, per complessità ed eleganza. Pregevole tannino, note fruttate chiare e distinte. E una freschezza espressa da un’acidità spiccata: ottime le potenzialità di una lunga vita in bottiglia, in ascesa. Il fondatore della cantina ha voluto chiamare questa linea “Rhone-blut” per sottolineare il suo attaccamento alla terra d’origine: “Rhone” è il fiume Rosano, “blut” il sangue. “Scorre come un fiume il sangue in questo vino”.
CAVE DU RHODAN, SALGESCH (VALAIS) Il titolare della Cave du Rhodan è assente al momento del nostro arrivo e il personale presente non parla inglese. Veniamo comunque invitati alla degustazione dei vini di questa premiatissima cantina vallese, capace di aggiudicarsi riconoscimenti a livello internazionale. Semplice ed efficace la filosofia da queste parti: Sandra e Olivier Mounir producono “vino sostenibile da agricoltura sostenibile”. La produzione infatti si fregia della certificazione biodinamica.
CAVE DU RHODAN – BEST WINES Petite Arvine 2015, 13,5% – Medaglia d’argento al Decanter 2016, non a caso. Profumato di fiori e frutta fresca al naso, morbido e rotondo al palato, sfodera come d’improvviso, accendendosi d’un tratto, un corpo e una struttura inimmaginabili in precedenza. Note fruttate eleganti anche nel retro olfattivo, ottima la persistenza.
Merlot Barrique 2014, 14% – Naso di liquirizia che colpisce ancor prima d’averne scorto il colore nel calice, che si tinge d’un bel rosso rubino con riflessi granati. Ritroviamo la medesima piacevolezza e concentrazione delle tinte fruttate riscontrato in tutto il resto della produzione Cave Du Rhodan, evidentemente a premiare l’ottimo lavoro in vigna e una padronanza totale delle difficoltà intrinseche alla viticoltura biodinamica. Barrique presente, distinta nei sentori terziari conferiti al nettare. Ma utilizzata, anche questa, con grande garbo. Tannino elegante e ottima persistenza. Gran bel rosso. Da degustare, magari, anche tra qualche anno.
KREUZRITTER KELLEREI, SALGESCH (VALAIS) E’ il giovane Jonas Leo Cina (nella foto), quarta generazione di una famiglia di viticoltori dal cognome diffusissimo a Salgesch e nel Vallese, a condurci alla scoperta dei vini della Kreuzritter Kellerei di Unterdorfstrasse, 32. Duecentomila bottiglia prodotte annualmente, per una realtà che è sulla cresta dell’onda dal 1917. Che oggi può contare anche su un hotel, l’Arkanum, in cui è possibile dormire in letti ricavati da tonneau dismesse. L’hotel sorge proprio sulla vecchia cantina, che nel 1985 è stata abbandonata per far spazio all’innovativo progetto di accoglienza dei turisti. La produzione della Kreuzritter Kellerei è tutta interessante e Jonas non teme il confronto con gli altri 49 viticoltori del paese. Ma ha un sogno. “Vorrei che tutto il Vallese fosse più unito – commenta – come lo siamo noi qui a Salgesch: un paese di 1500 abitanti, con 50 cantine attive sul territorio! Nel villaggio accanto, dove si inizia a parlare francese al posto del tedesco, c’è molta gente gelosa del nostro terroir e del nostro clima. Vorrei che si capisse che abbiamo tutti gli stessi problemi, tutti le stesse difficoltà. Confido molto nel lavoro delle nuove generazioni in questo senso”. Due i vini della cantina Kreuzritter che ci sentiamo di consigliare: non a caso sono entrambi vini rossi.
KREUZRITTER KELLEREI – BEST WINES Salquenen Cuvée d’Amitié 2014, 13% – Il giovane Jonas Leo ha introdotto questa deliziosa Cuvée da qualche anno nell’assortimento della propria cantina. Un successo lampante: le 1.500 bottiglie prodotte annualmente finiscono subito sold out. Prenotate ancor prima di essere imbottigliate. Si tratta di un Cabernet Sauvignon affinato 6 mesi in barrique, dove trova compimento la stessa vinificazione. Lampone, ribes, cioccolato, tabacco dolce al naso. Una vena vegetale che richiama la foglia del pomodoro e il peperone. In bocca la frutta a bacca rossa. Ad anticipare una chiusura elegantemente speziata. Vino di grande longevità.
Pinot Noir Le Refuge 2014 – Nessun affinamento in barrique, invece, per questo pregevole Pinot Nero tutto frutta ed eleganza del tannino. Ci sorprende il colore, veramente troppo carico per un Pinot Noir. Finché Jonas Leo non dichiara la presenza di un 5% di Diolinoir, varietà autoctona spesso utilizzata nei blend vallesi per la massiccia presenza di antociani, composti responsabili del colore rosso del vino. Le Refuge rispecchia le caratteristiche peculiari del terroir, guadagnandosi un posto d’onore tra i Pinot Noir di Salgesch.
DOMAINES ROUVINEZ, SIERRE (VALAIS) “La passione per l’eccellenza”. Questo lo slogan della famiglia Rouvinez, capace di abbracciare 12 domini dislocati nel Vallese, per un totale di 87 ettari. Un’avventura che affonda le radici nel 1947 per volere del fondatore, Bernard Rouvinez, che oggi può contare sui figli Dominique e Jean-Bernard, entrambi enologi. “Ad ogni vino la sua terra migliore per esprimersi”, sintetizza l’ottima Yannick Poujol (nella foto), responsabile Accoglienza della cantina di Chemin des Bernadienes 45, Sierre. “Single grape from single domain“. E una blend line a completare l’offerta, tra cui spicca a livello di notorietà conquistata in Svizzera l’assemblaggio di Cornalin, Humane Rouge, Syrah e Pinot Noir: il corposo Le Tourmentin, che ha visto la luce nel 1983. Il tour si svolge in quella che è la cantina storica della famiglia Rouvinez, oggi casa eletta dei vini da affinamento in legno. Una nuova struttura è stata realizzata negli anni Novanta a Martigny, uno dei centri di interscambio commerciale principali per la sua posizione strategica tra il Vallese e il cantone Vaud. Seicentomila le bottiglie prodotte annualmente da Rouvinez. “Ognuna, a suo modo – evidenzia Yannick Poujol – è in grado di esprimere al meglio le peculiarità dei vitigni. Non a caso in Vallese, pur essendoci solo 500 ettari vitati, possiamo contare ben 10 terroir diversi. Ed è lì che coltiviamo le nostre uve, a un’altezza variabile tra i 400 e i 1000 metri d’altezza”. Di assoluta perfezione e pulizia enologica, ai Rouinez va riconosciuto il grande merito di portare nel calice le caratteristiche intrinseche del Vallese.
DOMAINES ROUVINEZ – BEST WINES Coeur de Domaine, 14,5% – Strepitoso blend ottenuto dall’assemblaggio di un 70% di Petite Arvine, un 20% di Heida e un 10% di Hermitage (Marsanne), provenienti da tre differenti domaine, tra i quali è stato selezionato accuratamente, acino per acino, il meglio della produzione. Lo suggerisce lo stesso nome di fantasia dato a questo bianco poderoso per struttura, ma tutt’altro che invadente nonostante l’alcolicità sostenuta. Sfodera sia al naso sia al palato note elegantissime di limone e frutta a polpa bianca, che impreziosiscono una beva di persistenza infinita: vino sinuoso, di grande complessità, robusto e allo stesso tempo delicato come una nuvola che ti s’infila nel palato. Compagno perfetto per una cena a base di pesce.
Merlot Bio 2014, 14% – Tra gli ottimi rossi di Rouvinez (avremmo potuto citare per esempio l’Humane Rouge 2014 o il Cornalin 2014, o lo stesso, ottimo, Le Tourmentin Valais Aoc 2013) scegliamo di premiare a pieni voti il Merlot biologico, vendemmia 2014: letteralmente da applausi. Per la perfezione delle distinte note fruttate. Per la pulizia dell’olfatto tutto. Per la perfetta armonia ed equilibrio tra il corpo “grasso” e l’alcolicità. Per il semplice fatto che fa sognare d’aver di fronte un piatto di carne succulenta. Da divorare tra un sorso e l’altro.
CHATEAU CONSTELLATION, SION (VALAIS) C’è anche spazio per un curioso tuffo nella cronaca giudiziaria elvetica in occasione del wine tour di vinialsupermercato.it in Svizzera. Ci imbattiamo casualmente in Chateau Constellation, cantina che non avevamo in programma di visitare. Impossibile non notare l’imponente struttura, costruita con le sembianze di un castello, che domina il panorama in direzione Nendaz. Scopriamo così che Chateau Constellation è il nome scelto dal principale azionista, Dominique Giroud, per la sua “riconsacrazione” nel mondo del vino elvetico, dopo le accuse per frode, falsificazione di merci e contraffazione che lo hanno visto al centro di uno scandalo senza pari, per presunti reati commessi a cavallo tra il 1997 e il 2013. La stampa svizzera ha rinominato la vicenda Affaire Giroud. Tra le accuse, anche quelle di aver tagliato del St Saphorine del Vaud (vino bianco pregiato, ricavato da una sottozona della Aoc Lavaux) con del Fendant del Vallese. All’epoca, l’imprenditore era titolare della Giroud Vin SA, che ha dichiarato la bancarotta. Tra i dipendenti in forza a Chateau Constellation, almeno un paio sono italiani. E dall’Italia provengono molti vini oggi in vendita nel sontuoso “salotto” borghese allestito a Sion da Dominique Giroud: perché è così che andrebbe definito il piano terra del “castello”, dove è sorta una vera e propria enoteca con spazio ristorazione (tavola fredda). E ai piani alti, sale per ricevimenti, matrimoni, occasioni speciali. Ovviamente all’insegna del lusso. Cordialissimo il personale che ci guida nella visita delle cantine e dell’immensa struttura. Nonché nella degustazione dei vini. Un po’ meno memorabile la preparazione enologica degli addetti, che forse da queste parti non deve contare più di tanto. Vini di puro commercio, di fatto, quelli che degustiamo a Constellation. Destinati ad accontentare – immaginiamo – palati internazionali radical chic, alla ricerca di curiosi “pezzi svizzeri” da aggiungere a una spocchiosa collezione di “vini dal mondo”. Vini, quelli di Chateau Constellation, che la catena di supermercati svizzeri Denner ha tolto dall’assortimento dei propri punti vendita, in seguito all’Affaire Giroud. Modalità Svizzera: on.
SELECTION EXCELSUS JEAN CLAUDE FAVRE, CHAMOSON (VALAIS) Dal vino come business, al vino come ragione di vita. Eccoci a Chamoson, nel nostro incedere dal Vallese verso il canton Vaud. Tappa imprescindibile del nostro wine tour, la cantina Selection Excelsus di Jean Claude Favre (nella foto). Personaggio istrionico, Jean Claude ha organizzato in ogni minimo dettaglio il nostro incontro. Con tanto di traduttori per colloquiare in lingua inglese. “I vini Selection Excelsus sono l’espressione fedele d’un terroir d’eccezione”. Così Jean Claude ci introduce idealmente nel suo regno di Chamoson, il Comune con la maggiore superficie vitata del Valais. Un territorio fortemente frammentato. I proprietari di vigneti sono circa 1200. E diversi appezzamenti sono di soli 100 metri quadrati. Un affare di cuore la viticoltura, da queste parti più che altrove. Una situazione simile solo a quella di Visperterminen. In questo puzzle, Selection Excelsus può contare su circa 6 ettari vitati (45 mila bottiglie). Tutti situati sulla conoide alluvionale che rende speciale – in termini di terroir – questo villaggio svizzero. Solo il 10% delle vigne di Chamoson si trovano infatti su terrazzamenti eroici. Eroica è stata invece l’impresa di Jean Claude Favre, che è riuscito a trasformare la cantina fondata nel 1980 dal padre (conferitore d’uve) in una delle più rinomate della Svizzera. Allargando il business a Paesi come Germania e Italia. Come? “La produzione – spiega l’eclettico vigneron – si basa principalmente sulla valorizzazione dei singoli vitigni. Solo due i blend: un bianco e un rosso, entrambi indicati col nome di fantasia ‘1955’, codice postale di Chamoson. Fondamentalmente faccio vini che piacciono a me. E’ questa la mia filosofia. E infatti, tra le varietà, è possibile riscontrare, oltre a quelle tipiche come il Johannisberg e il Fendant, anche il Pinot Blanc e il Pinot Gris: semplicemente perché li amo!”.
SELECTION EXCELSUS – BEST WINES Humagne Blanche 2014, 12,5% – Mineralità, frutto, utilizzo non invasivo della barrique. Che cosa manca a questo Humagne Blanche per essere definito perfetto? Niente. Ottenuto dalla più antica varietà di cui si abbia notizia Nel Vallese (“Registre d’Anniviers”, 1313), contiene molto più ferro rispetto agli altri vini. Tanto da essere soprannominato “vino della nascita”. Alle giovani donne che partoriscono negli ospedali vallesi ne viene tradizionalmente offerto un calice a scopo ricostituente. Riti e usanze a parte, quello di Selection Excelsus è un Humane Blanche eclettico, impreziosito dalla barrique e capace di accompagnare aperitivi, pesce e crostacei, dall’antipasto ai primi. Perfetto anche con i piatti a base di formaggi locali. La spiccata acidità fa sì che l’Humagne Blanche Selection Excelsus possa essere conservato in cantina per anni, prima di essere degustato su note più evolute. In gioventù si mostra aromatico, ma di un’aromaticità estremamente fine. “Eccelsa”, per restare in tema.
Cornalin 2015, 13% – La pazienza è la virtù dei saggi. E di chi ama il vino, aggiungiamo noi. Dare tempo al Cornalin 2015 di Selection Excelsus è quasi un obbligo morale. Se non altro per rispetto delle viti storiche, impiantate nel 1978, su cui può contare Jean Claude Favre per la produzione di questo straordinario rosso di prospettiva. Piante capricciose, difficili da coltivare. Quattromilacinquecento le bottiglie prodotte in media ogni anno, con rese di 30-35 quintali. Dire Cornalin a Chamoson è come dire Nebbiolo a Barolo. Ma quello di casa Favre ha una marcia in più rispetto a quello dei vicini. Un naso di ciliegie e note floreali di sambuco precedono un palato di struttura, buona acidità e tannini pregevolissimi. Già apprezzabile con piatti importanti a base di carne, va – come anticipato – dimenticato in cantina e riscoperto tra almeno 4-5 anni. Come minimo, ovviamente.
DOMAINE DE BEUDON, FULLY (VALAIS) Appena travolta da una tragedia immane, come quella della scomparsa di Jacques Granges – deceduto in seguito a un incidente avvenuto proprio tra le vigne – veniamo accolti a Beudon dalla moglie del vigneron, Marion Granges-Faiss (nella foto). Quella tra le “vigne del cielo” di Fully, per noi di vinialsupermercato.it, è stata di fatto un’esperienza umana straordinaria, oltre che professionale. Dell’incontro con Marion abbiamo già trattato nel nostro ampio reportage. Ricordiamo qui che la produzione del Domaine de Beudon, certificata biodinamica, rientra nel circuito dei viticoltori Triple A. Le vigne, tutte situate a un’altezza compresa tra i 600 e i 900 metri, con pendenze da scalatore, danno vita a vini dagli eccezionali profumi e aromi. Vini estremamente longevi, capaci di scardinare di netto certe leggi non scritte del vino svizzero, secondo le quali – per esempio – un Fendant “va bevuto giovane”.
DOMAINE DE BEUDON – BEST WINES Fendant 2004– Nel calice si presenta ancora d’un bel giallo paglia, con riflessi verdolini. Al naso l’impagabile freschezza delle note fruttate (albicocca) e uno spunto vegetale che costituirà ilfil rouge, preziosissimo, di tutta la produzione del Domaine de Beudon. Un contrasto solo apparente, in quadro in cui anche la mineralità gioca un ruolo fondamentale. Un vino d’agricoltura, d’artigianato. D’arte.
Riesling Sylvaner 2004 – Ottenuto da un appezzamento di 1,6 ettari situato interamente a 800 metri d’altezza, risulta aromatico come un giovane Moscato al naso, nonostante i 12 anni, con un tocco di miele delicato e fine. Lunghissimo in bocca, chiude su note amarognole che ricordano vagamente il rabarbaro.
Petite Arvine 2014– Premiato come miglior vino bianco bio della Svizzera. Lo degustiamo leggermente fuori temperatura. Ma ne apprezziamo comunque la freschezza. Bel naso, a cui risponde in bocca una portentosa struttura e calore: verbena, timo, limone. La sensazione è quasi balsamica.
Constellation 2007 – E’ il riuscitissimo blend tra Pinot Noir, Gamay e Diolinoir, varietà autoctona del Vallese. Un vino sensualissimo. Dai profumi vellutati di frutta (piccole bacche rosse) al riconoscibilissimo sentore di rosa. Un vino sinuoso, del fascino della discretezza. Anche al palato. Dove chiude con le canoniche note di erbe officinali, persistenti, lunghe.
LA CAVE DES CHAMPS CLAUDY CLAVIEN, MIEGE (VALAIS) Ormai pronta a prendere le redini della cantina al fianco del padre, Shadia Clavien (nella foto) ci accoglie nella sala degustazioni de La Cave des Champs, a Miege nel Vallese, da vera padrona di casa. La giovane, 23 anni, sta completando gli studi nella prestigiosa Alta Scuola di Viticoltura ed Enologia di Changins, a Nyon, canton Vaud. Il polo universitario più accreditato dell’intera Svizzera in materia enologica. E tra un paio d’anni sarà pronta a seguire le orme di quello che, in terra elvetica e non solo, è considerato un guru del vino: Claudy Clavien. Abbiamo ormai abbandonato da una decina di minuti il rettilineo che taglia in due il cantone, correndo parallelo al reno. Avventurandoci nelle tortuose stradine che conducono da Sierre a Crans Montana. Fino a giungere a Miege. Pittoresco paesino di 1.500 anime, a 700 metri sul livello del mare. Anche qui, quella che ormai è una consuetudine: più vigne che campanelli delle abitazioni. Dei 130 ettari vitati del paese, La Cave des Champs può contare su 10. Con una capacità produttiva annua che si assesta, in media, sulle 700 mila bottiglia. “Grazie a un attento lavoro in vigna – spiega Shadia Clavien – cerchiamo di tradurre in bottiglia sia le caratteristiche di struttura sia quelle di freschezza del vino, a seconda dell’uvaggio. Mio padre ama i vini sottili e strutturati ed è per questo che lavoriamo con botti di alta qualità, cercando di conferire al vino ulteriore complessità e un lento e promettente invecchiamento”. In effetti è vasta la produzione de La Cave des Champs che si avvale dell’utilizzo di barrique. E ad ogni sorso è evidente il grande potenziale dei vini firmati da Claudy Clavien. Vini territoriali, da aspettare in cantina per anni. Vini che, bevuti oggi, esprimono un tannino di grande potenzialità e sentori terziari vanigliati un po’ troppo aggressivi, almeno per il gusto italiano. Una gamma che, dall’anno prossimo, si arricchirà del frutto della prima vendemmia di Merlot, impiantato per la prima volta tre anni fa.
LA CAVE DES CHAMPS, BEST WINES Fendant 2015, 11,5% – Per finezza, il miglior vino da uve Chasselas degustato in Svizzera in occasione del nostro wine tour. E parliamo della “finezza” della semplicità, non della complessità. Si tratta infatti del vino bianco più diffuso in questa regione. Un vino leggero, da pasto. Che in casi come questo, rarissimi, si eleva all’ennesima potenza. Naso tutta frutta e fiori freschi. E facilità di beva straordinaria, resa tutt’altro che banale dalla ‘grassezza’ delle note fruttate, che conferisco grande morbidezza a un palato di velluto. Ottimo come aperitivo, il Fendant 2015 La Cave Des Champes può aspirare ad accompagnare addirittura piatti di pesce. Da provare.
Cornalin 2015, 13% – Vitigno difficile da coltivare, è una delle sfide più interessanti per Claudy Clavien la produzione in purezza del Cornalin. Molti altri lo hanno estirpato. Tanta frutta nel naso e in bocca, per un vino che vale di degustare per giungere – idealmente – all’esatto compresso tra la freschezza di un Pinot Nero e la complessità e struttura d’un Syrah. Tannino straordinario per finezza.
Diolinoir 2014, 13% – Ha bisogno di qualche minuto nel calice per aprirsi completamente e sprigionare le proprie potenzialità il Diolinoir di Claudy Clavien. Si tratta di un ‘incrocio’ ottenuto dalle varietà Diolly e Pinot Noir, introdotto nel Vallese negli anni Settanta. Naso interessante dominato dai piccoli frutti a bacca rossa, sfodera l’ennesimo tannino elegante di casa La Cave, mostrando ampi margini di potenziale invecchiamento. Già oggi piacevolissimo, regala una bocca ricca e piena e un retro olfattivo degno di nota.
Carminoir 2014, 13% – Se avete da giocarvi una sola fiche, bene: puntate tutto sul Carminoir di Claudy Clavien, delizioso incrocio tra Pinot Noir e – questa volta – Cabernet Sauvignon. Quantomeno per la sua unicità. Bel naso elegante su note fruttate che, presto, rivelano d’essere in ottima compagnia di sentori speziati di liquirizia e aromi di caffè (12 mesi di affinamento in barrique). In bocca è suadente, morbido, rotondo nonostante la buona struttura. Svela, solo nel finale, uno spunto leggero di liquirizia dolce. Grande persistenza. Perfetto per accompagnare piatti anche strutturati a base di carne, è un altro vino capace di invecchiare bene negli anni.
CLOS DE TSAMPÉHRO, FLANTHEY (VALAIS) Sono vini in giacca e cravatta, quelli di Clos de Tsampéhro. La penna è quella di Emmanuel Charpin (nella foto), artefice con i suoi tre soci Joel Briguet, Christian Gellerstad e Vincent Tenud, di un vero e proprio miracolo enologico. La cantina di Flanthey, che divide i locali con la consociata Cave La Romaine di Joel Briguet, apre ufficialmente i battenti nel 2013. Si brinda con le bottiglie della prima vendemmia, la 2011. Il target è subito evidente. Alta gamma. La produzione Clos de Tsampérho, ben presto, cattura le attenzioni dei ristoranti svizzeri più accreditati. Non passa inosservata agli stellati Michelin. Che fanno a gara, uno dopo l’altro, per aggiudicarsi i vini della nuova casa vinicola di Flanthey. Un successo arrivato presto, prestissimo. Ai nastri di partenza. Non a caso condividiamo la degustazione dei vini Clos de Tsampéhro con Pierre Edouard Coullomb, head sommelier dell’Hotel Les Sources des Alpes, cinque stelle di Leukerbad. Che presto avrà in carta queste “chicche”, ottenute da 2,5 ettari vitati complessivi, per un totale di 9500 bottiglie prodotte nel 2015. E’ Emmanuel Charpin a guidarci alla scoperta del cuore pulsante della cantina: la barricaia. Centoventi piccole botti, in cui riposano per un minimo di due anni i nettari in seguito alla vinificazione, avvenuta rigorosamente in legno (botti grandi di rovere). “Tsampérho – spiega Charpin – ha come unico obiettivo la qualità assoluta, senza il minimo compromesso. Ciò si traduce in basse rese in vigna, nella migliore selezione delle uve ma, ancor prima, in trattamenti di tipo biologico per prevenire le malattie della vite, al posto di combatterle”. Clos de Tsampéhro è infatti una delle dieci cantine della Svizzera che si avvalgono di elicotteri per i trattamenti agricoli. Alla giovane cantina di Flanthey va anche riconosciuto il grande merito d’aver promosso il recupero del Completer, vitigno autoctono del Vallese a bacca bianca, ormai sparito. Le barbatelle provengono dal canton Grigioni, dove invece è ancora allevato. Di seguito i migliori vini degustati, tenendo presente, però, che l’assaggio è avvenuto direttamente dalle barrique. I vini 2016 di Clos de Tsampéhro, tutti eccellenti, devono ancora essere imbottigliati.
CLOS DE TSAMPÉHRO, BEST WINES Tsampérho blanc 2015, ?% – Le premesse in barrique sono ottime per questo straordinario assemblaggio delle varietà Heida (70%) e Reze (30%). Vinificazione totale – 15/18 mesi – in botte, dopo la raccolta manuale dei grappoli e la pressatura soffice. Alla complessità e alla finezza degli aromi del primo uvaggio si sommano i muscoli e le caratteristiche più ruvide del secondo, sopratutto in termini d’acidità. Il risultato, al naso, è pressoché aromatico: frutta a polpa bianca, albicocca, fiori d’acacia. In bocca regna un perfetto equilibrio, con prevedibile predominanza delle note morbide e vellutate dell’Heida. L’acidità del Reze dona ulteriore freschezza e complessità alla beva. E ne fa un vino atto all’invecchiamento, che immaginiamo verterà su tinte – ancora più spiccate – di idrocarburo. Chapeau.
Completer 2014, ?% – Suadente e vellutato al naso, si conferma tale anche al palato. Le note di idrocarburo, qui già ben distinte, fanno spazio anche a sentori di pietra focaia. L’alcolicità è spiccata, assestandosi oltre i 15% in volume. Ma l’equilibrio è letteralmente perfetto. Un vino che fa vibrare il palato per le note evolute che parlano d’agrumi, per l’acidità piacevolmente citrica, per lo spunto gassoso percettibile anche nel retro olfattivo. Un capolavoro. Da aspettare ancora qualche mese, prima dell’imbottigliamento dalla barrique. E poi per anni, in cantina. Se si è capaci.
Tsampéhro III 2014, 14,2% – Il numero III indica la terza vendemmia della casa vinicola, che ha scelto di incartare la bottiglia con una carta velina fine, su cui è stampata la mappa dei vigneti. Una prima impressione che deve far pensare alla territorialità di questo blend rosso, che in una degustazione alla cieca potrebbe essere scambiato – senza vergogna – per un Super Tuscan. A comporre l’assemblaggio sono Cornalin (che fa la parte del leone), Merlot, Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon. “Vogliamo vini perfetti – evidenzia Emmanuel Charpin mentre versa il prezioso nettare nel calice – ma che siano anche piacevoli da bere”. Missione compiuta, Emmanuel. Perché Tsampéhro III 2014 lo puoi accostare a piatti saporiti a base di carne. Ma si presta alla perfezione anche come vino da meditazione, dopo pasto. Il compagno perfetto di un buon libro. Un vino rosso dominato dal fil rouge delle note fruttate grasse e dalla struttura del Cornalin, cui si sommano le note speziate del Merlot e quelle vegetali e fresche dei due Cab. Un vino che racconta – al naso e al palato – sentori di confettura di amarene e prugna, impreziositi da varietali speziati al pepe nero e terziari come liquirizia e cuoio. Evidente la propensione di questo blend all’ulteriore affinamento in bottiglia, fino a 15 anni.
NEYROUD FONJALLAZ, CHARDONNE (VAUD) Jean Francoise e Anne Neyroud, marito e moglie, sono i titolari di questa storica cantina di Chardonne, prima tappa di vinialsupermercato.it nel cantone Vaud. Fondata nel 1901, l’attuale struttura è stata acquistata dalla famiglia dalla famiglia Neyroud nel 1938. La vera svolta nel 1962, quando il padre di Jean Francoise abbandona le attività collaterali legate al bestiame per dedicarsi anima e cuore alla sola viticoltura. Ci troviamo nel cuore delle terrazze di Lavaux, che dominano la parte centro-orientale del Lago di Ginevra, ai piedi del Monte Pèlerin. Un luogo unico, patrimonio mondiale dell’Unesco. I terreni vitati della Neyroud Fonjallaz, che ammontano a circa 7,5 ettari, si trovano tutti in sottozone elette alla viticoltura del Lavaux, come Saint-Sephorine, Calamin e Dézeley.
NEYROUD FONJALLAZ, BEST WINES Dézeley 2015, 12,5% – Dopo i primi bianchi a base Chasselas, più destinati all’aperitivo che ad accompagnare un pasto completo, ecco un Dézeley di buona finezza, sia al naso sia al palato. Dominano la scena note fruttate di buona eleganza, che richiamano il melone e i frutti esotici. Buona anche la persistenza.
Saint-Sephorine Pinot Noir 2015, 12,8% – Un Pinot Noir in purezza che, al naso, regala le classiche note di sottobosco, con predominanza dei piccoli frutti a bacca nera su quelli a bacca rossa (più mora che lampone e fragolina). Un bel tannino elegante segue il valzer della frutta, prima di una piacevole chiusura su tinte minerali e sapide. Bella esaltazione del terroir di Lavaux in questo rosso di casa Neyroud-Fonjallaz. Semplice e genuino come la famiglia che lo produce.
JACQUES & AURELIA JOLY, GRANDVAUX (VAUD) Ad accoglierci, nella “casa-cantina” di Grandvaux, a pochi passi dal pittoresco centro storico del villaggio elvetico che s’affaccia su un lago di Ginevra mozzafiato, è un ragazzetto in pantaloncini corti, a petto nudo. Buon inglese. E la maturità d’un adulto: “Mi metto una maglietta e chiamo papà. Solo un momento”. Jacques Joly è in vigna quando suoniamo al campanello. Ci mette poco ad arrivare, seguito poi dalla moglie. Nel frattempo Gerome, il figlio 15enne, ci fa accomodare nella sala degustazione. Una bella famiglia del vino svizzero, i Joly. “Our wine, our life“, si legge sulla brochure di presentazione. E in effetti è questa la prima impressione. Tre ettari di terreni, per una produzione di circa 25 mila bottiglie l’anno. Terreni che non sono di proprietà di Jacques e Aurelia. Ma che, forse, un giorno lo diventeranno. La cantina, sorta nel 2008, ha già saputo imporsi nel panorama nazionale, aggiudicandosi diversi premi enologici (Lauriers d’Or Terravin). Inoltre, il governo cantonale ha premiato i Joly per il loro impegno nella promozione dell’enoturismo locale, che dallo scorso anno ha subito un’impennata nel Lavaux. La produzione dei Joly, del resto, è in grado di offrire una valida fotografia delle sfaccettature che assume il vitigno Chasselas (chiamato Fendant nel Vallese) nelle 8 diverse sottozone di produzione del Lavaux (830 ettari ripartiti su 6 Comuni rivieraschi). Qualche esempio? Il cru Dézaley dà vita a Chasselas che assumono sentori spiccatamente minerali, che sfociano nella pietra focaia. A Calamin, l’altro cru, la massiccia presenza d’argilla nel suolo regala vini complessi, soprattutto dal punto di vista olfattivo. E a Villette, l’area più estesa con i suoi 175 ettari, la sabbia compie l’esatto opposto: vini di facile e pronta beva, poco atti all’invecchiamento, ma molto fruttati.
JACQUES & AURELIA JOLY, BEST WINES Epesses Lavaux Aoc La Destinée 2015, 12% – Un gran bell’esempio della complessità offerta allo Chasselas dai terreni argillosi della sottozona Epesses. Al naso note fruttate eleganti e mineralità spiccata. Le stesse che si ritrovano in un palato di grande equilibrio. Pregevole anche il finale: La Destinée chiude, lungo e persistente, su note di melone maturo. L’ennesimo vino bianco svizzero che può aspirare a qualcosa di più del semplice abbinamento in occasione dell’aperitivo. L’Arpent 2014, 13,5% – Riuscitissimo blend tra Garanoir (80%) e Syrah (20%), L’Arpent è un rosso poderoso, ottenuto da seconda rifermentazione in barrique. La vinificazione delle uve avviene separatamente e il mix del Syrah con la varietà locale Garanoir viene effettuato solo in seguito a una selezione accurata della barrique nella quale le uve del vitigno francese esprimono il tannino e la morbidezza desiderata. Ne scaturisce un vino dall’imponente impronta olfattiva: alle note di confettura di more fanno eco intensi richiami al cuoio, alla liquirizia e al cioccolato. Con l’ossigenazione, L’Arpent si apre anche a sfumature fumé. Buona morbidezza al palato, dove il tannino risulta effettivamente equilibrato. L’utilizzo della barrique è perfetto: le note vanigliate fanno solo da contornom nel finale e nel retro olfattivo, al ritorno delle note fruttate di mora.
CAVE PHILIPPE BOVET, GIVRINS (VAUD) Vale proprio la pena di percorrere ogni singolo chilometro delle strade anguste che tagliano in due il distretto di Nyon, staccandosi dalla E62, fino a giungere alla cantina di Philippe Bovet. Siamo a Givrins, cuore pulsante del vino del Vaud, lontano dai terrazzamenti tipici del lago di Ginevra (Lavaux). E quella di Philippe Bovet (nella foto) non è una cantina. Non è un’azienda. E’ un sogno ad occhi aperti. E quello che sta combinando da queste parti Bovet, è qualcosa a metà tra l’opera d’arte d’un visionario. E la follia. Philippe Bovet, il Maradona del vino svizzero: lo rinominiamo così al termine della nostra visita in cantina. Un soprannome che va ben oltre la leggera somiglianza tra il vigneron – ex maestro di sci e tuttora grande amico del campione olimpico Didier Défago – e il Pibe de Oro. Ma andiamo con ordine. Sono le 10.30 quando giungiamo a Givrins. Ad occuparsi di noi è Baptiste Moreau (nella foto, sotto), bischero di 21 anni che ha mollato la cantina del padre, produttore di Chablis in Francia, per andare a studiare a Changins. “Troppa teoria e poca pratica”: un fardello, quello della scuola d’alta formazione in Viticoltura ed Enologia, che Baptiste ha liquidato in pochi mesi. Trovando comunque un posto d’onore nella cantina di Bovet. Del resto, il vino ce l’ha nel sangue, Baptiste. Che con destrezza ed estrema preparazione ci guida nella visita della cantina. Grande importanza per il progetto di Bovet rivestono le barrique in cui affinano vini che fino a pochi anni fa erano praticamente sconosciuti in Svizzera. Parliamo del Malbec, su tutti. “Sono un grande amante dell’Argentina e del suo vino principe – spiega Bovet – così ho deciso di tentare di allevarlo qui, a partire dal 2009”. Tra gli 8 ettari di terreni della Cave (5 in conversione biologica), in grado di assicurare una produzione annua di 80 mila bottiglie (numero che sale a 200 mila considerando le vinificazioni effettuate per conto di altri viticoltori della zona), Bovet può contare su 5 differenti cloni di Malbec. Quattro dei quali provengono direttamente dall’Argentina, o meglio dalla cantina Tempus Alba di Mendoza.
Quello piantato nel 2009 arriva invece dalla Francia (Montpellier). Il Malbec di Bovet affina tre anni in barrique. E finisce sold out ancor prima di essere riversato in bottiglia. Una fortuna poter degustare da una delle piccole botti la vendemmia 2014, che sarà “pronta” nel 2017. Ottimo, sempre dalla barrique, anche il Viognier 2015, ottenuto da una particella costituita da viti di 20 anni posta sotto la chiesa di Givrins. Ma in realtà, Bovet ha reso famosa la Svizzera del vino per un altra produzione: quella del Gamay. Avete capito bene. Proprio per il Gamay, considerato il ‘vino rosso da tavola’ degli svizzeri. “Quando ho iniziato a produrre Gamay affinato in barrique, riducendo di molto le rese in vigna – spiega Philippe Bovet – in molti in Svizzera pensavano fossi diventato pazzo. Ho proposto il mio Gamay ad alcune degustazioni professionali: pensavano si trattasse di Syrah. Invece era proprio Gamay”. Il Gamay è la sintesi della filosofia produttiva della Cave Bovet, che punta a valorizzare al massimo il singolo vitigno, “che deve parlare di sé, della terra da cui nasce, ed esprimere nel calice tutto il suo potenziale”. “E’ così che ho vinto un sacco di premi, parlando della purezza di ogni vitigno prodotto”, commenta col sorriso stampato sul viso il viticoltore. La Cave Philippe Bovet produce assieme ad altri tre produttori svizzeri due vini – un bianco e un rosso – frutto di un assemblaggio segreto: “Les 4 Elements”. Si tratta del tentativo di unire lo spirito d’innovazione, il savoir faire e l’expertise in materia enologica di Bovet e degli altri produttori svizzeri Guy Cousin (Vignoble Cousin, Concise – canton Vaud), Stéphane Gros (Dardagny, canton Geneve) e Cave Christophe Jacquod (Bramois – canton Valais) che condividono la medesima filosofia. Sono loro i “quattro elementi”: acqua (Bovet), terra (Cousin), fuoco (Gros) e aria (Jacquod). L’unico vino capace di unire il meglio delle produzioni di quattro distinti cantoni. Molto più di una semplice operazione di marketing. “Nei mesi che precedono la vendemmia – spiega Bovet – osservo le uve e i loro mutamenti e stilo una lista di cose che vorrei sperimentare. A fine vendemmia mi rendo conto d’aver realizzato neppure la metà delle cose che mi ero prefissato. Per chi vuole innovare e sperimentare, soprattutto in Paesi come la Svizzera, dove il clima è particolare e spesso avverso, ogni vendemmia passata è una vendemmia persa. Perché? Perché siamo viticoltori e non cuochi: noi non possiamo rifare una ricetta venuta male, cambiando semplicemente gli ingredienti”. Goal. Palla di nuovo al centro.
CAVE PHILIPPE BOVET, BEST WINES Chenin Blanc 2015, 13,9% – Imbottigliato da circa tre mesi, lo Chenin Blanc 2015 di Philippe Bovet esprime già bene il suo potenziale, che non potrà che esplodere ulteriormente con l’ulteriore affinamento. Il vitigno, originario della Valle della Loira, si racconta nel calice sotto una delle sue poliedriche forme: quello della complessità e della qualità assoluta, a dispetto di chi bistratta i nettari ottenuti da questa nobile bacca bianca. Bovet attende sino all’ultimo minuto la maturazione in vigna, spingendola sino al limite. La vendemmia 2015, del resto, è stata molto favorevole. Giallo paglierino, con riflessi dorati. A un naso complesso di frutta esotica, con il melone che spicca sulle altri frutti come il mango, fa eco una mineralità che segna uno stacco con altri Chenin Blanc degustati in Svizzera, oltre a un corpo di tutto rispetto. La buona acidità lo rende vino atto a un degno invecchiamento, superiore anche ai 5 anni.
Verticale di Gamay, 2010 / 2015 – Viaggio nelle ultime cinque annate della varietà che ha reso famoso Bovet – a buona ragione – in Svizzera e nel mondo. Si comincia dal frutto spinto all’ennesima potenza del Gamay 2015 Pacifique (14%). La vinificazione in acciaio regala un naso e una bocca a base di frutti rossi: consistenti, pieni, ricchi, persistenti. Elegante il tannino, come mamma l’ha fatto. Il Gamay 2014 Atlantique (13,4%) affina invece in barrique. Stessa pulizia delle note fruttate, che sfociano sia al naso sia al palato in terziari di speziati. Botte per nulla invadente nel conferimento di leggere note vanigliate. Si tocca il cielo con un dito con il Gamay 2011 di Bovet: mix perfetto di eleganza e finezza, espressione del magnifico terroir locale. E’ la vittoria di Davide su Golia. La vittoria della qualità sulla quantità. La scommessa vinta da Bovet. Ottimo anche il Gamay 2010, che si fa grasso con le sue note intense di marmellata di prugna e datteri. Unica pecca, quello svanire un po’ frettolosamente nel retro olfattivo: un sogno a bocca piena, che svanisce troppo presto.
DOMAINE MERMETUS, ARAN VILLETTE (VAUD) Il sole luccica sul lago di Ginevra e lo spettacolo che offre la natura, tra le vigne del Domaine Mermetus, è degno d’un quadro impressionista. In mezzo alla cornice si muove una figura piccola, composta. Ci viene incontro. E’ Claire (nella foto), la padrona di casa. Che ci accoglie col sorriso, pronta a guidare con grande professionalità la degustazione. Una fortuna, per il marito Henry Chollet e per il figlio Vincent, poter contare sull’apporto di questa dama del vino svizzero, che conosce bene come le sue tasche la terra e le mille sfumature del vino del Lavaux. Siamo ad Aran Villette, poco lontano da uno svincolo autostradale della E62. Eppure regna il silenzio. Delle auto, neppure l’ombra. Il tetto di Domaine Mermetus e le sue pareti bianche spuntano come per magia tra le vigne della “maison”, poco prima che la collina, scoscesa ma non ripidissima, baci l’acqua del lago di Ginevra. Siamo a casa di un produttore che, grazie al suo profondo attaccamento alla terra d’origine, è tra i fondatori dell’Association Plant Robert – Robez – Robaz. Henry Chollet, marito della splendida Claire, è tra i pionieri che nell’aprile 2002, a Cully, sottoscrivono l’impegno formale nella riscoperta di un vitigno autoctono ormai quasi scomparso: il Plant Robert – Robez -Robaz, per l’appunto. Un vitigno a bacca rossa, della famiglia del Gamay, coltivato nel Lavaux tra il 18° e il 19° Secolo e salvato dall’oblio, in extremis, nel 1966 dal vigneron Robert Monnier. Densità d’impianto minima di 7.500 piante per ettaro, con resa massima di 0.7 litri per metro quadrato e densità del mosto minima di 85° Oechsle: queste le regole del ‘gioco’ dell’associazione, che per garantire l’autenticità del prodotto si rifà all’Organisme Intercantonal de Certification (Oic), a sua volta rispondente al Service d’Accréditation Suisse (Sas). Una speciale “fascetta”, simile al contrassegno di Stato apposto sui vini Docg in Italia, viene apposta sulle bottiglie di Plant Robert autentico. Una missione, quella di Domaine Mermetus, che oggi viene portata avanti con entusiasmo dal figlio di Henry e Claire Chollet, Vincent, in collaborazione con la moglie. Sette ettari totali, suddivisi in 35 particelle. Capaci di trasformarsi in 33 diverse cuvée interamente elaborate, dalla vigna alla bottiglia, dalla famiglia Chollet.
DOMAINE MERMETUS, BEST WINES Vase n° 10 2015,12,8% – E’ lo Chasselas in purezza che, da queste parti, definiscono “gastronomico”. Ovvero il più complesso. Quello che, per caratteristiche, è adatto ad accompagnare un pranzo o una cena, al di là dell’aperitivo. Dopo aver degustato l’ottimo Les Terrasses de Valérie 2015 (Chasselas d’Epesses intenso, grasso, minerale), passiamo con curiosità a Vase n° 10 e ce ne innamoriamo. Di un bel giallo paglierino carico, risulta intenso al naso, ma con la classica nota esotica (melone) che si fa attendere rispetto ad altri Chasselas, piacevolmente sovrastata dalla spiccata mineralità, che poi troveremo anche al palato. Chiude fruttato, con note che ricordano la banana matura. Vase n° 10 è ottenuto senza malolattica, per garantirne la purezza e la struttura ideale per l’accompagnamento gastronomico. La terra ricca di argilla e limo, in cui affondano le radici le viti, è il segreto di questo ottimo bianco svizzero.
Viognier Essence lémanique 2015, 14,9% – Avete letto bene. Un Viognier dall’accentuata alcolicità, eppure così bevibile, per nulla stucchevole o da capogiro. A nostro parere, assieme al recupero del Plant Robert, è questo il vero capolavoro di Domaine Marmetus. Un vitigno, il Viognier, che i Chollet allevano da oltre 20 anni. E un nome, Essence lémanique, scelto non a caso: Lemano è il nome originario del lago di Ginevra, di cui questo vino sembra esprimere l’essenza. La sintesi perfetta. Un po’ come se i Chollet fossero riusciti a condensare, in un’unica bottiglia, tutte le caratteristiche dei terroir del Lavaux. In questo Viognier troviamo la freschezza delle note fruttate riscontrabili nei bianchi della sottozona Villette. Ma anche la complessità dei vini d’Epesses e Calamin. E infine la mineralità e le note evolute dei migliori Dézalay. D’un giallo dorato già di per sé invitante, si presenta al naso con più albicocca che pesca. In bocca morbido, intenso. Con l’alcolicità a fare da cornice, calda ma equilibrata, alle note fruttate. Lungo finale, con spruzzata leggera di pepe bianco. Il compagno perfetto per gustare piatti speziati della cucina indiana.
Plant Robert Le Chant de la terre 2014, 13% – Il “Canto della terra”. Altro nome azzeccato per un vino – questa volta rosso – che parla della tradizione più profonda e dell’amore e dell’attaccamento alle origini della viticoltura del Lavaux. Per comprendere appieno le caratteristiche di questo Plant Robert bisogna conoscere il Gamay, di cui è la versione “esplosa”: più frutta, più spezie. E uno spunto animale, rustico, tradizionale, tipico dei vini veri, sinceri. Non artificiali, autentici. In una parola: naturali. Di un rosso rubino profondo, poco trasparente, Le Chant de la terre si presenta al naso col megafono: piccoli frutti a bacca rossa e nera (lampone, more) accompagnano una speziatura accentuata di pepe e chiodi di garofano. Caratteristiche che ritroviamo anche al palato, dove si comprende come il Plant Robert sia un vino d’attendere qualche anno, prima che esprima appieno tutto il suo potenziale. Col passare dei minuti, l’ossigenazione del nettare nel calice contribuisce a esaltare note più morbide e grasse al naso, che sfociano addirittura nel balsamico delle resine d’abete. Un vino rustico, ma elegante. Un ossimoro con cui accompagnare portate di carne importanti, come per esempio la selvaggina d’agnello.
DOMAINE HENRI CRUCHON, ECHICHENS (VAUD) Ultima tappa prevista tra le cantine del Vaud, prima di spostarci e chiudere il wine tour nel cantone Ginevra, è il Domaine Henri Cruchon di Echichens. Siamo nel distretto di Morges, a casa di una famiglia di viticoltori appassionati, giunta ormai alla terza generazione. Un vero e proprio riferimento nella zona. Ai 12 ettari del Domaine vanno a sommarsi infatti altri 42 ettari vitati di proprietà di altre famiglie, unite in una sorta di cooperativa Il fondatore, Henri Cruchon, può contare sull’apporto dei due figli Michel (viticoltore) e Raoul (enologo), su quello delle loro mogli Anne e Lisa (impiegate amministrative) e, dal 2010, anche sull’apporto della nipote Catherine Cruchon, enologa con esperienze formative anche in Italia, nel Piacentino. Tutti e 12 gli ettari di proprietà sono certificati biodinamici, così come 32 dei 42 ulteriori ettari delle famiglie conferitrici. “La terra non ci appartiene – spiega Catherine – noi siamo i suoi custodi. La coltiviamo, dunque, con l’idea che dobbiamo garantirne la longevità, con pratiche di totale rispetto nei confronti della natura”. Il contesto è quello dell’Aoc Morges, compresa tra la città di Losanna e il fiume Aubonne. La denominazione più estesa del canton Vaud. E’ qui che i viticoltori hanno riscoperto e valorizzato il Servagnin, varietà autentica di Pinot Nero, introdotto in Svizzera proprio a partire da Morges.
DOMAINE HENRI CRUCHON, BEST WINES Altesse 2015, 15,5% (senza solfiti, non filtrato) – Rimaniamo letteralmente folgorati di fronte a questo bianco senza solfiti di casa Cruchon. Altesse è il nome del vino ma anche quello della rarissima varietà Altesse, coltivata solamente nella Savoia francese, luogo dal quale proviene. I grappoli maturi prendono le sembianze del Gewurztraminer una volta maturi: quel bruno rossastro che è gli ha fatto guadagnare il soprannome “La Roussette” da parte dei locali. In realtà la traduzione corretta sarebbe “Sua Altezza”. Un appellativo più che azzecato. Nel calice l’Altesse 2015 del Domanine Henri Cruchon si presenta d’un giallo dorato carico. Al naso l’acqua del mare: una percezione salmastro-minerale di rara pregevolezza, unita a richiami esotici, agrumati (limone) ed erbacei (fieno). Al palato l’alcolicità calda non disturba una beva morbida, straordinariamente rotonda e avvolgente. Anzi, esalta le note di miele e cedro, di eleganza sublime, che sembrano disciogliersi nel sale di cui è ricco anche il palato, oltre al naso. Straordinario il lavoro effettuato in vigna dai Cruchon con questo rarissimo uvaggio, sin dal 1998, anno della prima produzione. Un’attenzione che poi si trasferisce in cantina, dove gli acini vengono pressati interi e vinificati in serbatoi da 500 litri. Lunga fermentazione, che comprende la malolattica.
Pinot Noir Champanel 2014, 13% – Fa parte dei Gran Cru della casa vinicola di Echichens, questo Pinot Nero che reca appunto il nome della vigna Champanel, divisa a metà tra la varietà a bacca rossa e il locale Chasselas. Il terroir Champanel è caratterizato da un profondo terreno argilloso-calcareo, che si trova su una morena formatasi 10 mila anni fa per l’attività dei ghiacciai. Non a caso, da questa posizione si può ammirare il Monte Bianco, al di là del Lago di Ginevra. “Al fine di mettere in evidenza il carattere pieno di questo Grand Cru – spiega Catherine Cruchon – le viti, tutte di 30 anni, sono coltivate nel rispetto dei ritmi lunari, ovviamente senza utilizzo di prodotti chimici”. La vendemmia viene compiuta a mano, su rese molto basse. In seguito alla vinificazione tradizionale, il vino matura per 18 mesi, di cui 12 in botti di rovere. Ne scaturisce un Pinot Nero validissimo: imbottigliato solo da due mesi, quello che degustiamo mostra grandi margini di miglioramento nel medio-lungo periodo (6 anni) evidenziando carattere e finezza rappresentati benissimo da un tannino da ricordare.
DOMAINE DU CENTAURE, DARDAGNY (GENEVE) Per raggiungere Dardagny, il navigatore ci conduce al confine con la Francia, per poi farci rientrare in territorio elvetico in seguito a un brevissimo tratto di superstrada. Stranezze della tecnologia a parte, Dardagny è una tappa imprescindibile del nostro wine tour: l’ennesimo Comune con più vigne che campanelli, designato a rappresentare l’altissimo livello qualitativo dei vini del cantone di Ginevra. La prima delle due cantine visitate è Domaine du Centaure, il regno di Claude Ramu e dei suoi figli Nicolas e Julien (nella foto). A guidarci nel tour della winery è proprio quest’ultimo. Una cantina moderna, realizzata nel 1980 e sempre in continua evoluzione dal punto di vista tecnologico. Oggi i Ramu, famiglia storica, presente a Dardagny sin dal 1400, arrivano a produrre circa 200 mila bottiglie dai 20 ettari di proprietà, cui vanno a sommarsi gli 8 in locazione. “In tutti questi anni – tiene a sottolineare Julien Ramu – siamo sempre stati indipendenti, senza mai aderire a nessuna cooperativa. Fummo noi a introdurre il metodo Guyot in Svizzera, nel 1925 con Edmond Ramu, nostro capostipite. E fu sempre lui a piantare il primo Gamay e Pinot Nero, nel 1936”. Una storia curiosa quella dei Ramu, che negli anni Cinquanta trova in Charles Ramu un altro innovatore: pilota di auto da corsa in Italia con Alfa Romeo, rifiutò la chiamata in Formula 1 per tornare tra le sue vigne di Dardagny. Introdusse così Aligoté, Pinot Grigio, Gewurztraminer e Moscato, ottenendo diverse medaglie d’oro. Ma fu Claude Ramu a cambiare il nome dell’azienda in Domaine du Centaure, nel 1982. Assegnando al pittore Serge Diakonoff il compito di realizzare le caratteristiche etichette dei suoi nuovi vini.
DOMAINE DU CENTAURE, BEST WINES Pinot Gris Les Chant des Sirènes, vins doux – Vino dolce ottenuto grazie all’appassimento delle uve per due mesi su graticci. Una volta raggiunto il grado zuccherino desiderato, mediante disidratazione, gli acini di Pinot Grigio vengono pressati e, in seguito alla fermentazione, posti ad affinare in barrique per 20 mesi. Bel giallo dorato, al naso sprigiona la freschezza delle note di brutta a polpa bianca (pera, banana) e d’albicocca. Lo apprezziamo per la grande pulizia al palato e per la scelta maestrale di un grado zuccherino non stucchevole: un’operazione non riuscita ad altri viticoltori svizzeri.
Garanoir-Gamaret barrique Légende 2014 – More, pepe, spezie. Il blend tra le varietà locali Garanoir e Gamaret è riuscitissimo al Domaine Du Centaure. Un vino tannico, di corpo, capace di sfoderare un grande carattere. Uno di quei vini da aspettare, anche se già in grado di accompagnare più che bene piatti saporiti a base di carne, come la selvaggina.
DOMAINE LES HUTINS, DARDAGNY (GENEVE) Si conclude qui il nostro wine tour in Svizzera. E non poteva che terminare in una delle cantine svizzere che fanno della qualità il proprio baluardo. Seconda ed ultima tappa a Dardagny è Domaine Les Hutins, cantina storica che oggi è retta dall’ingegnere Jean Hutin e dalla figlia enologa Emilienne Hutin Zumbach (nella foto). Ormai la quinta generazione di una famiglia di viticoltori. L’anno della svolta, da queste parti, è il 1982. Quando Jean inizia a impiantare Sauvignon Blanc. Molti altri seguono poi il suo esempio in Svizzera, dal Ticino alla Svizzera tedesca. “La nostra filosofia produttiva – spiega Emilienne – prevede la massima attenzione in vigna, nel rispetto dell’ambiente. Stiamo portando avanti la produzione integrata, con 3,5 ettari sui 20 totali coltivati in biodinamica, pur senza certificazione. Il nostro vino deve parlare della terra e dell’andamento dell’annata, senza artifici. E’ un vino vero, insomma”. Quindici le varietà allevate, che danno vita a 27 differenti etichette, equamente suddivise tra bianchi e rossi. I terreni si trovano a un’altezza di 430 metri sul livello del mare. Tutti in piano, a esclusione dei 2 ettari in pendenza suddivisi tra Sauvignon, Syrah, Merlot e Viognier, nei pressi del fiume Rodano.
DOMAINE LES HUTINS, BEST WINES Sauvignon Blanc 2014, 13,5% – Ottenuto dalle vigne vecchie, questo Sauvignon Blanc affina in barrique per 12 mesi. Vino molto più diretto e schietto del suo parente non affinato in barrique (di cui però abbiamo degustato la vendemmia 2015, 14,5%), esprime sentori fruttati meno esuberanti, ponendosi di diritto come vino gastronomico. Pregevole la chiusura su note di limone, che lo rende ancora più interessante. L’affinamento viene compiuto in barrique da 500 litri, senza aver prima svolto malolattica. Legni che sono stati selezionati con cura da Emilianne e reperiti dopo una lunga ricerca atta a esaltare le caratteristiche del vitigno internazionale e le peculiarità del terroir di Dardagny.
Chasselas Bertholier 2015 13 % – E’ lo Chasselas top di gamma di Hutins. E si sente. Non il solito vino “leggero”, da aperitivo, bensì un nettare che mostra buona struttura e consistenza. L’erba in campo non viene diradata, ad esclusione della base della pianta, con dosi minime d’erbicida. Fermentazione lunga, che si aggira attorno ai due mesi per questo Chasselas gastronomico. Naso floreale (tiglio) con richiami minerali che poi si riscontrano nuovamente al palato, dove la salinità precede una chiusura fruttata, ma di sostanza.
Bertholier Rouge 2014, 13,5 – Altro top di gamma di Hutins. Si tratta dell’assemblaggio tra Gamaret (70%), Merlot (15%) e Cabernet Sauvignon (15%) vinificati in barrique. Le tre varietà che compongono il blend effettuano assieme la fermentazione. Nel calice, Bertholier Rouge si presenta d’un rosso intenso, poco trasparente. Intenso è anche il naso, che da un principio fruttato (bacche rosse) si evolve con l’ossigenazione verso tinte balsamiche, mentolate. Si sprigiona a quel punto anche la caratteristica nota vegetale del Sauvignon, che apprezziamo particolarmente. Al palato si conferma vino di sostanza e di corpo, capace di accompagnare degnamente piatti complessi a base di carne e selvaggina. La verticale compiuta da Hutins ne dimostra la longevità, con l’annata 2005 ancora straordinariamente viva nel calice.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Sarà una vendemmia da ricordare quella del 2016 per la Grecia. Alla Douloufakis Vineyards di Creta le operazioni di raccolta delle uve sono iniziate il 4 agosto, con “ottime prospettive”. Lo rende noto Nikos Douloufakis, titolare di una delle cantine più rinomate dell’isola greca. “Quest’anno – spiega Douloufakis, formatosi come enologo ad Alba, in Piemonte – il tempo è stato molto favorevole per la coltivazione della vite. Abbiamo avuto un’estate relativamente fredda, finora. Nel mese di luglio, i venti freschi provenienti da nord hanno mitigato le temperature. Pertanto le uve hanno raggiunto un buon livello di maturazione e il mosto dovrebbe essere di ottima qualità”. La sfida più difficile e stimolante, per i viticoltori dell’isola del Minotauro, è stata la scelta del giorno in cui iniziare la vendemmia. “Qui da noi – spiega Nikos Douloufakis – controlliamo costantemente i livelli di zucchero, acidità e maturità fenolica delle uve. Livelli che si sono mostrati sorprendenti, tanto da farci pensare di scegliere la data del 4 agosto per l’inizio delle operazioni di raccolta delle uve. Prima di qualsiasi altro anno”. La vendemmia è iniziata dalle varietà Chardonnay e Moscato Bianco di Spina (Moscato Spinas, che prende il nome dall’omonimo villaggio della prefettura di Heraklion). “Successivamente – annuncia Nikos Douloufakis – procederemo con Malvasia di Candia, Sauvignon Blanc e Liatiko. A seconda del grado di maturità, continueremo con Vidiano, Vilana, Kotsifali, Syrah e Cabernet Sauvignon. Il raccolto di quest’anno dovrebbe essere completato con la varietà Mandilari”. In Grecia, dopo Creta, l’isola di Santorini. Il 9 agosto sono iniziate le operazioni per la raccolta del prezioso Assyrtiko.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Sentiamo spesso parlare di vini neozelandesi. Vini che, ormai, è facile reperire anche sul mercato italiano. Vinialsupermercato.it, come al solito, cerca di aiutarvi nelle scelte in campo enologico. E oggi racconta di un Sauvignon Blanc proveniente proprio dalla Nuova Zelanda. Si tratta del Sauvignon Blanc 2013 Insight, “single vineyard” Marlborough, prodotto dalla cantina Vinultra nella Waihopai Valley. Il vino si presenta di un colore giallo paglierino, di buona limpidezza. Al naso esprime un bouquet estremamente ampio e accattivante, molto “femminile” e floreale. Si passa dal passion fruit alla classica foglia di pomodoro, fino alle note di zenzero fresco. Un naso prezioso, che anticipa un sorso ancora più soddisfacente. La frutta esotica torna prepotentemente, il che potrebbe far risultare questo vino stucchevole. Ma immediatamente sopraggiungono note agrumate di pompelmo rosa, a bilanciare il tutto. Completano il quadro note speziate e minerali. Il ritorno, una volta deglutito il vino, è di quello di piacevoli e persistenti foglie di pomodoro, oltre agli onnipresenti agrumi e alle spezie.
LA VINIFICAZIONE L’azienda Vinultra è situata a Malborough, sulla East coast della Waihopai Valley, uno dei territori più conosciuti e vocati alla coltivazione della vite in Nuova Zelanda. Il vitigno scelto per la produzione di questa etichetta si sviluppa su due terrazze differenti: quella inferiore è estremamente ricca di sassi, un terreno limoso e argilloso. Quella superiore, invece, sempre composta di argilla e limo, presenta in abbondanza grandi blocchi di ghiaia, in questo caso friabile. Il sistema di allevamento è la controspalliera e la raccolta delle uve Sauvignon Blanc avviene tra la fine del mese di aprile e l’inizio di maggio. La diraspatura è seguita da una pressatura con pressa pneumatica. Le uve subiscono poi criomacerazione per 48 ore, processo utile alla conservazione degli aromi varietali dell’uva. La fermentazione avviene in vasche d’acciaio e il vino riposa sur lies, ovvero “sulle bucce”, per diversi mesi prima di essere imbottigliato.
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