EDITORIALE –Caro Report ti scrivo, così mi distraggo un po’. E siccome sei molto lontano, più forte ti scriverò. Muoia Sassicaia, con tutti i Ben Ryé. Ma prima puoi spiegarci, una volta per tutte: perché? Fra citazioni letterali e rivisitazioni in salsa Rai, “L’anno che verrà” di Lucio Dalla calzerebbe a pennello per commentare la puntata I furbi del passito, andata in scena domenica 2 febbraio sulla tv nazionale. Se non fosse che, nel testo della canzone del 1979, la televisione ha detto che il nuovo anno porterà una trasformazione. Il nuovo anno è arrivato. Ma la litania di Report non è cambiata: sceglie uno stagno bello grande e lancia dentro una pietra di mezze informazioni e allusioni spacciate per scandali. Più per sentire il tonfo che fa, che per fare vera informazione. A meno che l’obiettivo non sia quello di portare avanti la battaglia dei “vinnaturisti”. Già perché di tutto si può accusare Report, tranne che di mancanza di coerenza.
REPORT E IL PARTITO DEI VINNATURISTI
Anche l’ultimo show del duo Ranucci-Bellano ha avuto come baricentro un atto di accusa, bello pesante, contro due brand che hanno scritto – stanno scrivendo e scriveranno, piaccia o no a Report – la storia del vino italiano nel mondo. Ovvero Donnafugata, che produce l’icona Ben Ryé, presente in gran parte dei ristoranti stellati (e non solo), italiani ed internazionali, così come in alcune insegne Gdo. E Cantine Pellegrino, nota per il Marsala e per il passito di Pantelleria, disponibile in varie fasce prezzo e tipologie, in supermercati ed enoteche. A fine 2024 era toccato a Sassicaia – mostro sacro di Bolgheri, di proprietà della famiglia Incisa della Rocchetta – finire sotto accusa. Nelle scorse ore è stato il turno delle due icone dell’industria vinicola della Sicilia. Il nodo della questione – lo ripeterò finché non mi stanco – dev’essere proprio questo.
RAI 3, REPORT E L’ODIO VINNATUISTA SPACCIATO PER INCHIESTA GIORNALISTICA
Chiunque bazzichi per fiere del settore, o abbia a che fare con produttori e amanti del vino naturale, sa che aziende-brand come Tenuta San Guido, Donnafugata e Pellegrino sono considerate alla stregua del diavolo in un segmento che innalza ad emanazioni di divinità alcuni difetti come brett, volatili e puzze di merda di stalla riscontrabili in più d’un “vino naturale”. Sfottere Sassicaia e Ben Ryé è un atto di rivoluzione tra vinnaturisti, paragonabile a quello dell’adolescente che fuma al parchetto coi coetanei, in sfregio ai genitori. Il ridicolizzare il successo commerciale di un vino o di una intera denominazione, per il solo gusto di farlo, è il sintomo più fieramente palesato dell’onanismo vinnaturista. Fenomeno di nicchia, che dilaga sempre più anche grazie a chi, per canone preso, ha deciso di parteggiare per questi ultras del vino, sulla tv nazionale.
IL SILENZIO DEI “VINNATURISTI DELL’EDITORIA”
Mentre vien da chiedersi quali saranno le prossime etichette commerciali nel mirino, emergono però due conclamati fatti. Sul cemento delle “serre” in cui appassisce il Ben Ryé, versato sui terreni del Parco Nazionale isola di Pantelleria – vincolo che, fino a prova contraria, dovrebbe preservare da qualsivoglia colata di calcestruzzo ed opere murarie – il titolare di Donnafugata, Antonio Rallo, tace. Trincerandosi, interpellato da Winemag attraverso il proprio ufficio stampa, dietro un laconico «no comment». Un vero peccato per l’occasione persa, che sarebbe stata utile a chiarire l’unico vero punto dolente (presumibilmente) toccato da Report nel servizio. A far ancora più “rumore” è il silenzio dei tromboni siciliani: ovvero quella stampa (di settore) che si spaccia per “nazionale”, appena può. Ma che quando si tocca l’isola, con argomenti scomodi o pericolosi per equilibri e adv, non ha neppure la decenza di scribacchiare due righe.
L’EX SINDACO 5 STELLE: «LE SERRE DI DONNAFUGATA? COME FORNI»
Vinnaturisti dell’editoria di vicinato, con la penna che funziona a targhe provinciali alterne, a seconda del vento che tira sull’isola: emuli di molti altri, dal centro al nord Italia. Nel servizio I furbi del passito, spazio infine per una vecchia conoscenza di Winemag: l’ex sindaco 5 Stelle di Pantelleria, Vincenzo Campo (2018-2023), a cui il duo Ranucci-Bellano si è sentito in dovere di dare la parola – sulla tv nazionale! – per consentirgli di paragonare (sentite bene…) le serre di Donnafugata a dei «forni». Alludendo, così, a un mancato rispetto del disciplinare di produzione del Passito di Pantelleria, da parte della nota cantina dei Rallo (ipotesi che risulta, carte alle mano, del tutto infondata). Un intervento utile ad introdurre una delle beghe più assurde dell’Italia del vino dei nostri tempi: la cosiddetta «sicilianizzazione dello Zibibbo». Un’altra storia di provincia, da scolarsi insieme a un buon Sassicaia, o Ben Ryé. Nella speranza di distrarsi un po’.I furbi del passito Report
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
EDITORIALE – Ha fatto scalpore l’ultima “inchiesta giornalistica” di Report, andata in onda il 22 dicembre. La trasmissione di Rai Tre è tornata a parlare di vino, a distanza di quasi un anno dalla puntata del 19 dicembre 2023, a cui fece seguito il “sequel” del febbraio 2024. Buona la terza? Neppure per idea. Report ha riproposto l’ennesimo pessimo servizio pubblico, mescolando sapientemente qualunquismo e noia mortale. Nel servizio “Vino su misura“, il duo Bellano-Ranucci getta il solito sasso nello stagno. Arrivando sì a circostanziare – come mai fatto prima – le presunte accuse. Ma compiendo il consueto errore – innanzitutto giornalistico! – di generalizzare e rendere il “mezzo gaudio”, mal comune. E se fosse proprio questo il punto? Se fosse questo lo scopo di una tv nazionale che dimostra di essere sempre più allo sbaraglio e in balia delle correnti? Quello che non abbiamo ancora capito di Report, ma che risulta piuttosto evidente a bocce ferme, è che l’interesse reale non è fare informazione o inchiesta, ma portare l’acqua al mulino di una retorica che Report non ha certo inventato, in cui il programma di Rai Tre si è “ficcato” a pieni polmoni. Sin dal dicembre 2023.
REPORT E LA RETORICA DEGLI ULTRA VINNATURISTI
Fateci caso. Tutto inizia con l’attacco alle Docg. Si prosegue con la ghigliottina di imbottigliatori ed enologi, definiti “piccoli chimici”. E il sipario, per ora, si chiude su Bolgheri, Sassicaia, Chianti Classico e Ornellaia. Report non ha alcuna intenzione di informare i telespettatori o di renderli più consapevoli nelle scelte. Lo scopo di Bellano e Ranucci è bruciare in piazza le Cattedrali del vino cosiddetto convenzionale. Un po’ come fece Martin Lutero nel dicembre 1520, con la bolla papale che ne annunciava la scomunica.
La retorica a cui si è accodato Report è quella degli ultra vinnaturisti. Di quelli che, da anni, provano a fare proseliti dichiarando la superiorità dei lieviti indigeni sui lieviti selezionati; delle fermentazioni spontanee su quelle controllate; dei corni di vacche vergini sul biologico certificato. Facile immaginare Bellano e Ranucci brindare più alle polemiche generate dal servizio all’interno del settore che ai risultati dell’audience. Col calice colmo d’un vino pieno di difetti spacciati per terroir, nel nome della Madonna del Brett. Maledicendo Cotarella e compagnia bella.
MA L’ULTIMA PUNTATA DI REPORT NON È TUTTA DA BUTTARE
Detto ciò, banalizzare la terza “sparata” del programma, mettendo sotto al tappetto i documenti forniti dalla fonte anonima, equivarrebbe a trattare il caso con la medesima superficialità degli autori del programma. Nella puntata del 22 dicembre, Report attacca una zona e una denominazione (Bolgheri) che nel 2019 ha messo nero su bianco la propria decisione di crescere, nel nome del mercato. I produttori, riuniti in Consorzio, l’hanno definita poeticamente «terza era»: quella in cui diversi ettari storicamente rivendicati Toscana Igt sono stati “tramutati” in Doc, senza ricorso alle consuete graduatorie. Il motivo? Consentire di aumentare la produzione di Bolgheri – ovvero il numero di bottiglie – per sostenere il positivo trend biennale dell’aumento dei prezzi in Horeca (+10% dal 2017 al 2019) e la crescita nella grande distribuzione organizzata (il mondo dei supermercati) pari al 19% in cinque anni (2015-2019).
Il tutto, a 25 anni esatti dal riconoscimento ufficiale della denominazione di origine controllata. Rai Tre scoperchia poi l’annoso tema della “vendita della carta”, che si trasforma in vino Doc e Docg, trasportato in cisterna lungo la rete autostradale italiana, generalmente da sud a nord. Problematiche che tutti, nel settore, conoscono. E alle quali, forse, sarebbe l’ora di trovare una soluzione drastica, definitiva. Semplificando normative e rendendo più agile, per i consumatori, il concetto stesso di vino, oggi assassinato quotidianamente da troppe ed inutili denominazioni di origine, indicazioni geografiche (vere o «presunte») e cantori al soldo delle cantine e dei distributori.
Una rivoluzione necessaria ad evitare che il manipolo di incendiari che considera Report una manna diventi un esercito, capace di allontanare anche gli ultimi bevitori da un settore che avrà pure tanti scheletri nell’armadio, ma che è anche – e soprattutto – qualità da raccontare e promuovere. In sintesi? Lasciamo pure che i preti vadano a processo. Ma salviamo la Cattedrali dal rogo.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
EDITORIALE – Collio Bianco vino da uve autoctone? Il modello è «Barolo, non Sassicaia». Così Andrea Drius della cantina Terre del Faét sintetizza il progetto portato avanti con Edi Keber, Fabijan Muzic, Cantina Produttori di Cormons, Maurizio Buzzinelli, Fabijan Korsic, La Rajade e Marcuzzi Viticola. L’idea di un Collio Bianco ottenuto con i soli tre vitigni autoctoni Friulano (ex Tocai), Ribolla gialla e Malvasia Istriana si avvicina più alla tipicità territoriale espressa dalle menzioni geografiche del Nebbiolo da Barolo, che all’uvaggio bordolese dell’etichetta simbolo di Tenuta San Guido. «L’obiettivo – spiega Drius – è tornare alla tradizione e all’uvaggio storico del territorio, senza sostenere che il nostro vino sia migliore degli altri. E senza chiedere che venga preclusa la possibilità di produrre Collio Bianco anche con i vitigni internazionali».
COLLIO BIANCO VINO DA UVE AUTOCTONE: CHE CONFUSIONE
Chi decida cos’è «tipico» e cosa non lo sia, in una terra come il Collio in cui i vitigni internazionali sono presenti – e molto ben acclimatati – sin dall’Ottocento, è il vero nodo della questione. Fatto sta che, personalmente, anche dopo l’intervista rilasciatami da Andrea Drius – giovane e appassionato vignaiolo, chiaramente innamorato della propria terra – resto dell’idea che il progetto di un “Collio Bianco – vino da uve autoctone” faccia, come già detto in passato, acqua da tutte le parti. Almeno così presentato e proposto al pubblico, ormai da qualche annetto. Non è un caso che giornali generalisti con cui il gruppo di produttori si è confrontato nelle ultime settimane, abbiano combinato un pasticcio gigante nell’interpretare (malissimo) le parole del gruppo di produttori del Collio.
IL PASTICCIO DEL CORRIERE: «VERO COLLIO» SOLO CON UVE AUTOCTONE?
«I moschettieri del vero Collio», ha (colpevolmente) titolato il Corriere, nel suo inserto Extra di lunedì 2 dicembre. Instillando così nei lettori il dubbio che, sul mercato, esista anche un “finto Collio“: ovvero quello prodotto da decine di altri produttori locali che (legittimamente) scelgono di utilizzare nel blend le uve internazionali ammesse dal disciplinare in vigore dal 1991 (33, gli anni di Cristo). Un insulto, bello e buono, alla schiera di produttori che, negli ultimi decenni, hanno dato una dignità locale assoluta, “colliana” volendo coniare un eufemismo, a varietà internazionali come Sauvignon Blanc, Pinot Grigio, Riesling, Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc e, non ultimo, il Pinot Nero.
IL COLLIO BIANCO È GIÀ UN BRAND
Sono nate così etichette iconiche come Col Disôre di Russiz Superiore, Vintage Tunina di Jermann (pur Igt) o Studio di Bianco di Borgo del Tiglio – per citarne alcuni – che hanno reso le 6 letterine della splendida parolina “Collio” (così semplice da pronunciare, anche per gli stranieri – chiedere per credere ai siciliani che hanno dovuto cambiare nome al Cattarratto) un sinonimo internazionale di “grandi vini bianchi”, annoverabili tra i fine wines italiani di dignità galattica. Il progetto “Collio Bianco vino da uve autoctone” complica il concetto esistente, semplicissimo, di “uvaggio” del Collio Bianco.
Ed è per certi versi “arrogante”: non certo nelle intenzioni dei produttori, che continuano a sostenere di non voler alcuno scontro col resto dei colleghi o con il Consorzio, ma “nell’effetto che fa” la narrazione di un Collio Bianco intrinsecamente elitario, in quanto proposto come “storico” e “tradizionale” in un’epoca in cui lo storytelling della storicità e della tradizione, sin troppo spesso, si beve, da solo, tre quarti di bottiglia.
I NUMERI DEL COLLIO E DEL COLLIO BIANCO DA UVE AUTOCTONE
Prima di passare alle domande (e soprattutto alle risposte) rivolte ad Andrea Drius di Terre del Faét, ecco qualche cifra. Nel Collio sono presenti circa 1.240 ettari di vigneti. Nel 2023, la produzione complessiva è stata di 7,3 milioni di bottiglie. Di queste, sono 295.780 le bottiglie di Collio Bianco Doc (circa il 4% della produzione totale). Nel 2023, le aziende che aderiscono al gruppo “Collio Bianco vino da uve autoctone” hanno prodotto il 27,7% della tipologia, per una cifra che supera le 82 mila bottiglie.
Numeri che risultano oggi più sostanziosi – «oltre la metà della produzione totale», secondo le stime di Drius – grazie all’adesione di altre aziende avvenuta nel corso del 2024. A pesare sul totale in maniera decisiva è il sostengo al progetto della cooperativa Cantina Produttori di Cormons, l’azienda con più ettari vitati in tutta la zona del Collio Goriziano (120 soci e circa 330 ettari vitati fra le Doc Collio, Isonzo e Aquileia, per un totale di 2 milioni di bottiglie complessive prodotte nel 2024).
COLLIO BIANCO VINO DA UVE AUTOCTONE: INTERVISTA AD ANDREA DRIUS
Iniziamo con un inquadramento della vostra realtà. Siete un’associazione formale o un “semplice” gruppo di produttori che condivide una visione sul Collio Bianco da sole uve autoctone (Friulano, Ribolla, Malvasia istriana)?
Abbiamo pensato di costituire un’associazione, ma per il momento abbiamo deciso di non formalizzare in nessun modo la cosa. La nostra idea è quella di un gruppo aperto a chiunque apprezzi il progetto e ne condivida l’obiettivo, ovvero valorizzare il Collio. Siamo un “gruppo spontaneo” e aperto, chiunque voglia farne parte è ben accetto.
Tutte le aziende del gruppo fanno parte del Consorzio Tutela Vini Collio?
Sì, tutte le aziende sono iscritte al Consorzio.
Quando e da chi è nata, per l’esattezza, l’idea di promuovere il Collio Bianco da sole uve autoctone? Come è avvenuto il coinvolgimento degli altri produttori?
L’idea iniziale è nata da una mia chiacchierata con Kristian Keber della cantina Edi Keber. Utilizzava una scritta, sul suo Collio Bianco, che mi piaceva molto: “Vino del territorio”. Tra un bicchiere e l’altro, in maniera del tutto spontanea, gli ho chiesto di poter utilizzare la stessa scritta sulle etichette dei miei vini (Terre del Faét, ndr). La sua risposta è stata: “Sei matto? Magari tutti scrivessero una cosa del genere!”. Così, insieme, abbiamo deciso di contattare altre realtà che potevano essere d’accordo con questa idea. Ecco quindi che il gruppo si è delineato con l’adesione di Fabijan Muzic e Produttori di Cormons. Dalla piccola scritta, presente sulla retro etichetta, siamo passati a qualcosa di maggiore impatto. È nata così l’idea dell’etichetta frontale con la scritta Collio in primo piano, a livello visivo, seguita dalla formula “Vino da uve autoctone”. Un modo per consentire alla bottiglia di raccontarsi “da sola”.
I vitigni internazionali sono stati introdotti nel Collio principalmente tra la seconda metà dell’Ottocento e del Novecento. Si trattava, per lo più, di varietà a bacca rossa del taglio bordolese (Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot) oltre che del Pinot Nero. Poi, all’inizio del Novecento e con rinnovato interesse nel Dopoguerra, fu la volta degli internazionali a bacca bianca, come Chardonnay, Pinot Bianco, Sauvignon e Pinot Grigio, che in molte aree italiane vengono considerati (e spesso descritti dagli stessi produttori) se non “autoctoni”, ormai come “locali”, per il perfetto acclimatamento e la tradizione consolidata nella loro vinificazione, da soli o in uvaggio. Il disciplinare del Collio Bianco include i vitigni internazionali dal 1991. Perché cambiare oggi?
Personalmente non ho una storicità così importante, ma posso raccontare i miei 10 anni di esperienza della mia cantina. La nostra intenzione non è togliere nulla a nessuno, o svilire il vino di altri. Tantomeno vogliamo dire che non si debba fare nessun altro uvaggio o tipo di blend al di fuori del “Collio Bianco vino da uve autoctone”. Un uvaggio autoctono, legato alla storia del Collio, non è in contrapposizione con l’idea di produrre un grandissimo “bianco aziendale”. Le due cose sono complementari: da una parte la massima espressione aziendale, con la massima libertà di scegliere le uve migliori a livello aziendale; dall’altra l’idea di creare qualcosa che possa essere più identitario e confrontabile e, a nostro avviso, anche più facile da comunicare.
L’unica cosa “democratica”, in grado di spiegare il territorio in maniera più uniforme, è il ricorso alla storicità della zona, andando a riproporre il vino della tradizione. Il Collio è molto frammentato a livello di numero di aziende e ognuna punta su cose diverse. Per questo, il Collio Bianco vino da uve autoctone è una piccola àncora per un racconto comune da proporre al pubblico, in modo molto facile e diretto, perché non si basa su un’idea aziendale ma sul territorio. La nostra speranza è che tra 20, 30 40 anni ci si interessi poco delle varietà con cui è prodotto il Collio Bianco. Ma si sappia cosa aspettarsi. Dall’altro lato continuerebbero ad esistere i grandi blend aziendali, con i loro nomi di fantasia.
Non credete di correre il rischio che la vostra “battaglia” rispecchi più interessi particolari – del vostro gruppo di aziende – che di territorio? Mi spiego meglio: salta all’occhio il fatto che il vostro gruppo punti tutto sui vitigni, ovvero sulla base ampelografica di una tipologia, il Collio Bianco per l’appunto. In altri territori, invece, ci sono gruppi di produttori che fanno “pressione” sui Consorzi per potare avanti tematiche come produzione biologica, sostenibilità, riduzione dell’impronta carbonica delle aziende. Oppure, sempre sul fronte produttivo, molti vignaioli e cantine avvedute chiedono il riconoscimento di sottozone, cru, parcelle. I vitigni internazionali nel Collio Bianco sono davvero un problema? Per chi?
La scritta “vino da uve autoctone” è una piccola spiegazione, ma il nostro obiettivo è creare un bianco che abbia forte identità, per parlare sempre meno delle uve. Quello che per noi è importante è slegarci dalle tante varietà utilizzate, con un “Collio vino della tradizione”. Il focus non è sul “vino da uve autoctone”. Il nostro gruppo parla sempre e solo di Collio, di territorio. Con altri tipi di vini ci si sofferma invece sulle tecniche di vinificazione o su altri aspetti che noi raramente affrontiamo, nel presentare il nostro progetto. Non vogliamo togliere né, paradossalmente, aggiungere nulla. Il Collio fatto in questo modo, volendo, è già tranquillamente all’interno del disciplinare. La nostra idea è che sarebbe bello riuscire a creare qualcosa di più confrontabile, parlando sempre meno delle uve. Non credo che questo porti confusione, anzi. Porta curiosità. Non abbiamo inventato nulla.
Per fare un esempio stupidissimo, ma di impatto, la nostra speranza è di “fare il Barolo” e non il Sassicaia. Cru, sottozone eccetera sono tutte cose affascinanti. Penso che a noi manchi lo step precedente. Giustissimo parlare di sottozone a Barolo, territorio con un’identità molto forte che consente il racconto delle piccole differenze che esistono tra una sottozona e l’altra. La gente, soprattutto del settore, ha molto ben in testa cos’è Barolo. Noi siamo al passaggio precedente. Sarebbe molto più importante creare una grande identità di territorio. Per farlo, basta un prodotto che lo racconti e che ne diventi l’immagine. In questo momento, a mio avviso, solo la Ribolla Gialla fa pensare al Collio: Friulano e Malvasia molto meno. Dobbiamo trovare qualcosa che faccia da filo conduttore, da collante, per poi, nel passaggio successivo, raccontare le differenze tra Cormons, Oslavia e San Floriano… Va costruito qualcosa che ci unisca.
Il vostro fine ultimo è modificare il disciplinare attuale, per fare in modo che il “Collio Bianco” sia solo da uve autoctone, oppure propendete per l’introduzione di una nuova tipologia con queste caratteristiche?
Da parte nostra non c’è alcuna volontà che il Collio Bianco diventi “solo da uve autoctone”. La storia dei grandi uvaggi va rispettata e quindi crediamo nel valore dei binari complementari ma separati, anche nella stessa azienda. Sul primo binario un vino da uve autoctone. E su un altro un blend che rispecchi lo stile e il meglio dell’azienda. Come gruppo non abbiamo mai proposto l’inserimento di una nuova tipologia. Ovviamente, se questa idea di vino fosse un giorno formalmente inserita nel disciplinare, si tratterebbe della chiusura del cerchio. Del coronamento. In questo momento, la cosa più importante è coinvolgere più aziende possibili, per far crescere il progetto. Se ne sta discutendo anche all’interno del Consorzio. Vedremo come andrà avanti, ma non c’è l’idea di modificare il Collio Bianco esistente.
Il dialogo con il cda del Consorzio Vini Collio è aperto?
Siamo in una situazione di fine mandato. Molti sono d’accordo con noi. Qualcuno, come sempre accade, è meno convinto. Ma siamo agli inizi. A livello consortile, sarà importante il prossimo mandato. Dalla prossima primavera capiremo se c’è la volontà di ragionare a livello formale sul progetto, insieme al prossimo cda del Consorzio. Credo sia impossibile mettere d’accordo tutti. L’importante sarà non impantanarsi cercando l’approvazione totale. Questo causerebbe immobilismo, col rischio che la questione venga accantonata. Formalmente, la dicitura “vino da uve autoctone” potrebbe rivelarsi sbagliata, perché anche un Ribolla 100% potrebbe avere quella dicitura. Ma è secondario che porti questa o quella scritta. Nel 2017, per un vino simile a quello da noi proposto era stata avanzata l’ipotesi di chiamarlo “Gran Selezione”, ma la cosa è finita nel dimenticatoio. Di fatto sarebbe questa la nostra idea: Friulano dal 50 al 70%, e un 15-30% di Ribolla-Malvasia, con uscita sul mercato a 24 mesi. Il nome verrà trovato. L’importante è che sia ben visibile la scritta “Collio”.
Estremizzando il concetto: siete pronti a scelte drastiche, come uscire dal Consorzio, qualora la vostra proposta non fosse presa seriamente in considerazione?
Siamo aziende singole con un’idea comune e ognuno, a seconda dei propri rapporti con i membri del Consorzio, deciderà cosa fare. Tutto sommato, quello che proponiamo è già previsto dall’attuale disciplinare. Bisogna cercare di essere costruttivi e non vedo per quale motivo dovremmo arrivare ad uno scontro. Qualcuno forse storce il naso perché il nostro progetto viene percepito bene. Ma dobbiamo uscire dall’ottica che se si parla bene dei vicini, questo tolga qualcosa a me. Il focus è il Collio: chiunque lo faccia emergere come eccellenza, lo fa per tutti.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
È giallo sul nome del nuovo direttore del Consorzio Tutela Vini Oltrepò pavese. Riccardo Binda avrebbe accettato l’incarico da oltre una settimana. L’annuncio ufficiale da parte dell’ente di Torrazza Coste (Pavia) tarda però ad arrivare. Lo stesso vale per la smentita del direttore (potenzialmente) uscente, Carlo Veronese, che preferisce non rilasciare commenti, tanto sul suo presente quanto sul suo futuro. Secondo verificate indiscrezioni raccolte da winemag.it, l’arrivo del nuovo direttore Riccardo Binda e l’annuncio ufficiale del suo nuovo incarico di direttore del Consorzio Tutela Vini Oltrepò pavese sarebbero in bilico per via delle resistenze del Consorzio Bolgheri e Bolgheri Sassicaia, dal quale proviene.
BINDA IN OLTREPÒ? BOLGHERI NON MOLLA
L’ente toscano presieduto da Albiera Antinori non vorrebbe privarsi di Binda, che ricopre il ruolo di direttore dal gennaio 2014 ma che ha origini oltrepadane, per l’esattezza di Voghera. Da qui il giallo sul nuovo direttore del Consorzio Oltrepò pavese, dopo le rivoluzionarie elezioni dello scorso marzo che hanno portato all’elezione della nuova presidente Francesca Seralvo (Tenuta Mazzolino). Una scelta che ha fatto vacillare – sin dalle prime ore – la possibile riconferma del direttore Carlo Veronese, uomo ritenuto da molti vicino alla corrente che ha sostenuto – senza successo – il terzo mandato della presidente uscente Gilda Fugazza, considerata la figura più apprezzata dal mondo degli imbottigliatori operanti in Oltrepò.
LE SFIDE DI RICCARDO BINDA IN OLTREPÒ PAVESE
Di certo, per Riccardo Binda, l’avventura in Oltrepò pavese costituirebbe una sfida professionale dalle tinte completamente differenti rispetto a quelle di Bolgheri e Sassicaia. Non solo dal punto di vista della percezione delle denominazioni a livello di marketing nazionale e internazionale, ma anche del valore medio di mercato effettivo della produzione, sostenuta nel pavese da molti meno brand blasonati e da cantine che operano in assenza di una chiara piramide della qualità, ancora tutta da costruire nel pavese. Altro nodo che attenderebbe il nuovo direttore Riccardo Binda è quella dell’export dei vini dell’Oltrepò pavese, per via del peso meno rilevante della produzione oltrepadana rispetto a quella di Bolgheri e Sassicaia. Elementi che portano l’ennesimo “giallo pavese” ad infittirsi. Giorno dopo giorno.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
«Datemi 150 mila euro in bitcoin o brucio il vigneto del Sassicaia». Ha avuto esito negativo il tentativo di estorsione ai danni di Tenuta San Guido da parte di un 47enne residente a Trieste, identificato e fermato dai carabinieri. L’uomo ha agito via email, dimostrando di conoscere alla perfezione la famosa proprietà di Bolgheri.
Il 47enne, già noto per reati simili ai danni di aziende del settore agroalimentare, prendeva di mira non solo le cantine, ma anche le insegne della grande distribuzione organizzata. Fondamentale ai fini della sua identificazione la denuncia presentata ai carabinieri livornesi dalla famiglia Incisa della Rocchetta.
L’accusa nei confronti dei 47enne è di tentata estorsione per i fatti che risalgono alla fine di marzo 2022, quando i dirigenti di Tenuta San Guido hanno ricevuto diverse e-mail criptate in cui si intimava di versare «150 mila euro in bitcoin nel giro di pochi giorni per non vedere bruciato il vigneto del Sassicaia». I vertici dell’azienda non hanno ceduto al ricatto e si sono rivolti alle forze dell’ordine, consentendo l’identificazione del triestino.
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Il mercato dei fine wines di fama internazionale non conosce crisi e la vendita al calice è uno strumento che ne incoraggia le vendite. Lo testimonia a winemag.it Francesco Tognoni, titolare di Enoteca Tognoni, vero e proprio luogo cult nel centro di Bolgheri. «Sono ormai trent’anni che vendiamo al calice i grandi vini della zona – spiga l’imprenditore toscano -. In questo periodo, vendiamo tre bottiglie al giorno di vini come Sassicaia, che conserviamo in speciali dispenser».
Ho capito tanti anni fa che Bolgheri è un territorio dal potenziale enorme – continua Francesco Tognoni – e che stappando vini, si sarebbero venduti facilmente. Oggi questa zona è famosissima e, come me, altri colleghi hanno scelto di vendere grandi vini al calice. Riusciamo quindi a stappare volumi importanti, di etichette molto conosciute e rinomate».
ENOTECA TOGNONI: VINI DI BOLGHERI AL CALICE E OTTIMA CUCINA
A distinguere la proposta di Enoteca Tognoni è un’intera pagina di vini icona di Bolgheri, proposti appunto al “bicchiere”. I clienti possono scegliere tra 5 o 10 centilitri. Abbastanza per poter assaporare etichette per molti inarrivabili, in abbinamento all’ottima cucina proposta dalla stessa enoteca, in Strada Lauretta, 5.
«Trent’anni fa – racconta Tognoni – c’erano molte meno b0ttigilie di oggi, ma stappavo già Tignanello, Sassicaia, Ornellaia, Paleo. Avevo capito che lo straniero a cui veniva concessa la possibilità di assaggiare vini importanti, poi ne comprava almeno una cassa. Un’utopia per gli italiani, a quei tempi, comprare una cassa di Sassicaia. Oggi, invece, questo succede regolarmente».
Gli stranieri mangiano magari un piatto in meno, ma scelgono una bottiglia importante, al tavolo. Prima di andare via ne comprano spesso una cassa, o due. Quelli che ci danno più soddisfazioni sono gli avventori del Nord Europa e gli americani. Tantissimi vengono in zona per il mare, per l’arte e per la cultura. Molti anche solo per il vino».
SASSICAIA AL CALICE DA TRENT’ANNI A ENOTECA TOGNONI
Francesco Tognoni entra poi nel dettaglio delle rotazioni dei fine wines al calice, da Enoteca Tognoni: «In un periodo come questo, quindi tra luglio e agosto, si stappa la media di tre bottiglie di Sassicaia al giorno. Ornellaia segue a ruota, con due bottiglie al giorno. Sassicaia resta ancora l’etichetta che la gente vuole bere di più».
Da una bottiglia si ricavano 7 calici “interi”, da 10 cl, e 14 “mezzi” da 5 cl, apprezzati in egual misura dalla clientela. «Qualcuno sceglie quattro calici piccoli – spiega Tognoni – per provare diversi vini. Altri propendono per due calici grandi dello stesso vino, che già conoscono».
IL FUTURO DI BOLGHERI
Secondo l’imprenditore toscano, forte di un 2021 da record assoluto di incassi, il futuro continuerà a regalare soddisfazioni. «Penso che fino a metà ottobre lavoreremo molto, forti della reputazione che si è conquistata questa zona della Toscana, negli anni. Bolgheri – continua – è ormai la zona più importante d’Italia per i vini da taglio bordolese. Tutto il mondo li vuole. Purtroppo i prezzi aumentano ogni anno, per logiche di domanda e di offerta».
«Di conseguenza – conclude il titolare di Enoteca Tognoni – anche noi enotecari e ristoratori dobbiamo adeguarci ai rincari delle cantine. Malgrado ciò, tutti gli anni finiamo il vino assegnato. A settembre 2022 avrò ormai finito Sassicaia 2019, nonostante le quantità assegnateci siano cospicue, grazie al rapporto ormai trentennale con la famiglia di Tenuta San Guido». Insomma, in alto i calici. Finché ce n’è.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
È del Domaine Leroy la bottiglia che ha raggiunto la cifra record di 67.375 euro durante l’asta “L’essenziale – vini italiani e francesi da cantine selezionate” della casa d’aste Pandolfini, il 27 e 28 aprile a Firenze. Si tratta di una bottiglia di Musigny Gran Cru 2008 la cui somma ha superato i valori di stima inziali compresi tra i 30 e i 60 mila euro.
L’asta che comprendeva 573 lotti tra vini italiani e francesi si è conclusa con un incasso complessivo di 1.485.785 euro, pari al 218% delle stime. «Una vendita eccezionale che conferma ancora di più la tenuta del settore in questo momento di instabilità globale, e che premia la ricerca costante dei migliori prodotti in circolazione», ha commentato il capo dipartimento di Pandolfini, Francesco Tanzi.
Tra le altre cifre “importanti” le annate 1990, 2000, 2001 e 2004 di Romanée Conti Domaine de la Romanée Conti Côte de Nuits Grand Cru vendute a 21.438 euro. Restando in Francia, a 22.462 euro, pari al + 42% della stima massima, è stata venduta una bottiglia del 2004 di Chevalier-Montrachet Leroy Domaine d’Auvenay Côte d’Or Grand Cru.
Per le bottiglie italiane, ben oltre la stima massima di 6 mila euro, una magnum di Sassicaia della Tenuta San Guido del 1985, aggiudicata per 9138 euro. Tra i vini piemontesi spicca uno storico formato Quarto di Brenta di Barolo Bricco Boschis Vigna San Giuseppe Riserva Cavallotto 1997 da 12,5 litri battuto a 3.575 euro e subito dietro il Barolo Docg Riserva Monfortino 2004 di Conterno a 3.185 euro.
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FOTONOTIZIA – È scaricabile sul sito ufficiale del Consorzio di Tutela la nuova mappa dei vigneti di Bolgheri e Sassicaia. «Mi fa piacere condividere la nuova mappa dei nostri vigneti a seguito del censimento viticolo generale fatto quest’estate», ha annunciato il direttore Riccardo Binda.
Per quanto riguarda la mappa in 3D, l’ultima versione disponibile risale al 2019. Si tratta del risultato della collaborazione del Consorzio Tutela Bolgheri e Sassicaia con Alessandro Masnaghetti, sulla base del censimento fatto tra il 2017 e il 2018. L’ente toscano sta al momento valutando di aggiornare al 2021 anche la versione 3D.
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Società italiana ma con sede fittizia in Svizzera, per abbattere i costi e presentarsi sul mercato dell’esportazione del vino con prezzi molto competitivi. Uno stratagemma che non è passato inosservata al Nucleo Polizia Economico Finanziaria della Guardia di Finanza di Asti.
La società dovrà rispondere di un milione di euro di imposte non versate e dell’evasione dell’Iva pari a 1,5 milioni di euro. I fatti oggi accertati risalgono al periodo 2018 – 2020.
Si inseriscono nel più ampio sistema di aziende dedite alla falsificazione di vini pregiati italiani come Sassicaia e Tignanello, scoperto nel dicembre scorso in provincia di Asti.
Tra Nizza Monferrato e Canelli era stata individuato il laboratorio-cantina per la falsificazione dei vini di marchi italiani pregiati. Le analisi hanno dimostrato che i vini toscani e della Valpolicella (Amarone), nonché della zona di Barolo, in Piemonte, erano stati sofisticati con dell’uva Barbera.
La società di commercio all’ingrosso era gestita da due imprenditori italiani. Le indagini, coordinate dalla Procura della Repubblica di Asti, hanno portato all’esecuzione della misura degli arresti domiciliari nei confronti di 5 indagati.
Obbligo di dimora per ulteriori quattro persone, accusate a vario titolo di falso e frode in commercio in ambito nazionale e internazionale nel settore vitivinicolo. Contestati anche reati tributari, per riciclaggio ed autoriciclaggio.
Con i dati acquisiti durante le perquisizioni, a fine 2020, è stato possibile accertare la residenza fiscale sul territorio nazionale di una delle società coinvolte nell’esportazione del vino. Aveva sede fittizia in Svizzera, ma sede direttiva, amministrativa e operativa sul territorio italiano.
Con questa operazione, la Guardia di Finanza ha messo fine a una vera e propria forma di concorrenza sleale. Proprio grazie all’indebito risparmio fiscale, le aziende coinvolte potevano permettersi di praticare prezzi fuori mercato. Danneggiando, soprattutto nel momento della pandemia, gli imprenditori che rispettano le regole.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Il Consiglio di Amministrazione del Consorzio per la Tutela dei vini Doc Bolgheri e Doc Bolgheri Sassicaia ha scelto Valoritalia, società leader in Italia nelle certificazioni del comparto vitivinicolo, per gestire nei prossimi 3 anni le verifiche e i controlli contemplati dal Disciplinare.
«Siamo molto soddisfatti di questa collaborazione che speriamo sia l’inizio di un lungo percorso insieme – commenta Albiera Antinori, Presidente del Consorzio – Valoritalia in fatto di esperienza e competenze nell’ambito della certificazione è un’eccellenza assoluta e siamo certi che grazie al loro supporto le nostre denominazioni potranno crescere ulteriormente. L’efficienza nella fornitura e analisi dei dati produttivi, inoltre, ci consentirà di operare ancora meglio e con maggior tempismo per mettere in atto le future strategie del territorio».
L’affidamento dell’incarico è un obbligo di legge e prevede ispezioni nei vigneti e in cantina, analisi chimiche e valutazioni organolettiche al fine di accertare la conformità al Disciplinare di ogni prodotto che aspira ad utilizzare il nome di queste prestigiose denominazioni. Alle funzioni ispettive si aggiunge una procedura di controllo documentale che permette di ottenere la completa tracciabilità di tutte le partite di prodotto immesse sul mercato.
Ogni anno le aziende che usano le denominazioni Bolgheri e Bolgheri Sassicaia producono e commercializzano, mediamente, circa 7 milioni di bottiglie, ognuna delle quali viene tracciata dalla vigna all’uscita dalla cantina attraverso una serie scrupolosa di verifiche che ne assicurano origine e qualità. Procedure complesse, che tuttavia consentono a operatori e consumatori di ottenere le indispensabili garanzie per prodotti di così elevata qualità e prestigio.
Considerate le sue delicate funzioni, nella scelta dell’Ente a cui affidare l’incarico il Consorzio ha privilegiato i criteri di esperienza, competenza e affidabilità, ponendosi l’obiettivo di migliorare le proprie capacità di governo delle denominazioni attraverso l’analisi dei dati derivanti dall’attività di controllo.
Un campo nel quale Valoritalia senza dubbio eccelle, avendo sviluppato negli anni un gestionale informatico, “Dioniso“, che oggi permette alla società di gestire 229 denominazioni vitivinicole per 5.000 differenti tipologie di vino, oltre a tracciare circa 1,7 miliardi di bottiglie l’anno.
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Il condizionale è d’obbligo, visto il mix tra letale tra Bacco e Finanza. Ma acquistare vino italiano in Bitcoin e con le principali criprovalute internazionali potrebbe presto diventare possibile, grazie ad Italian Wine Crypto Bank (Iwcb).
Il progetto, illustrato oggi da in un webinar da Rosario Scarpato (interventuto in diretta da Dubai, dove vive e lavora) e i soci Davide Casalin e Alessandro Brazzini – tre figure chiave della rivoluzionaria “Criptobanca del vino italiano” – dovrebbe prendere avvio il 4 aprile 2021, con l’emissione dei primi token e l’apertura delle porte ai primi correntisti virtuali.
Quella che presentiamo oggi – ha precisato Scarpato – è la Fase 1 dell’Italian Wine Crypto Bank. Qualora dovessimo trovare l’appoggio delle cantine italiane, il prossimo anno potremmo dare avvio alla prima iniziativa su scala mondiale che lega il vino alle principali criptovalute, tra cui figurano appunto gli ormai noti Bitcoin”.
Come funzionerà la cripto banca? Grazie a un “algoritmo” basato su 20 parametri, la società di Hong Kong a cui fa capo l’Italian Wine Crypto Bank ha individuato circa 200 vini di cantine italiane “dal valore affidabile nel tempo”.
Non si tratta di Sassicaia e Tignanello – ha sottolineato Scarpato (nella foto, sotto) – anche avremo anche loro. Piuttosto di vini meno noti di cantine che non necessariamente hanno brand internazionalmente riconosciuti, in grado tuttavia di garantire alti standard di qualità e un valore certamente crescente nel tempo, con l’affinamento”.
Le cantine che aderiranno autonomamente o saranno invitate da Iwcb sino ad aprile 2021, godranno dei particolari vantaggi riservati ai membri fondatori. Tutto quello che dovranno fare sarà fornire il vino e spedirlo al magazzino di Londra, “un luogo perfettamente attrezzato per la conservazione e lo stoccaggio”.
La banca pagherà le cantine fondatrici in euro e fornirà inoltre dei token omaggio, ovvero dei “gettoni” da spendere all’interno della blockchain dell’Iwcb: un “ambiente digitale” con transazioni sicure e garantite sui vini disponibili a catalogo.
Con un investimento minimo di circa 500 euro e il pagamento di una quota annuale, semplici amanti del vino, investitori puri o figure interessate alle criptovalute (mentre scriviamo 1 bitcoin vale 18.477,70 euro), entreranno a far parte del Club dei Soci Esclusivi Iwcb.
Potranno scegliere di ritirare in ogni momento i vini acquistati e da noi immagazzinati – ha spiegato Rosario Scarpato – oppure attendere che il valore salga e scambiarli con altri correntisti. Saremo pronti a offrire qualsiasi tipo di consulenza ai clienti, dall’accesso al Club al post vendita”.
Lo scopo principale dell’Italian Wine Crypto Bank non sarà tuttavia la commercializzazione, che avverrà tramite l’invio del catalogo ai soci. “Tantomeno la speculazione”, ha spiegato il trio di promotori.
Siamo coscienti che il vino italiano sia un prodotto vivo ed è sulla sua promozione che si fonda l’Iwcb. Entrando a far parte del nostro portafoglio solo sulla base di rigidi parametri legati al valore e alla qualità nel tempo dell’etichetta, le cantine potranno godere di una promozione costante, diretta e indiretta e su scala mondiale”.
“Secondo diverse ricerche – ha concluso Scarpati – il mondo degli investitoti delle criptovalute sta assumendo sempre più peso sociodemografico, oltre a godere di ottime capacità di acquisto. Proprio a questo genere di figure, oltre che agli amanti del vino, si rivolge il nostro innovativo progetto, che è prima di tutto un’iniziativa di comunicazione del vino italiano nel mondo”. Il countdown è già iniziato.
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Operazione contro il vino contraffatto in Italia. Nel mirino dei falsificatori, questa volta, brand noti come Gaja, Antinori, Ornellaia e Masseto. Sassicaia, Tignanello, Sito Moresco, Amarone della Valpolicella e Ripasso i vini contraffatti da nove persone indagate e oggetto di misure cautelari in varie provincie italiane, nell’operazione coordinata dalla Procura di Asti.
In azione, ieri 10 dicembre, i Carabinieri del Nas e del Comando provinciale di Cuneo, nonché i Finanzieri del Comando provinciale di Asti. Cinque gli arresti domiciliari e quattro gli obblighi di dimora fra il Piemonte, Genova, Pesaro-Urbino, Milano, Roma e Brindisi.
Associazione a delinquere, riciclaggio, auto-riciclaggio, contraffazione di altri pubblici sigilli, frode nel commercio di bevande e contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di origine alimentare sono le accuse, oltre all’utilizzo e all’emissione di fatture false per operazioni inesistenti.
Un’indagine allargata alla Svizzera, in particolare al Canton Ticino, dove il sodalizio criminale avrebbe preso avvio nel 2016. Ben 54 mila le bottiglie di vino contraffatte con cui la banda avrebbe avviato il business, riuscendo a realizzare un giro d’affari di 932 mila euro in due anni, sino al 2018.
Nel corso dell’ultimo anno, risultano sequestrate complessivamente 15 mila bottiglie, 10.600 etichette contraffatte, 8.393 contrassegni di Stato di vini Doc e Docg, 165.320 capsule con marchi e loghi di aziende e oltre 200 chili di sostanze vietate in ambito enologico (aromi, sciroppi, coloranti), per un valore di rivendita pari a 200 mila euro.
“L’attività – spiega il procuratore di Asti Alberto Perduca – è stata orientata alla tutela della concorrenza e del sistema imprenditoriale sano, allo stato fortemente provato dalla sensibile contrazione dell’economia dovuta all’attuale emergenza sanitaria, nonché del Made in Italy agroalimentare e dei consumatori, potenziali destinatari di prodotti privi dei requisiti minimi di qualità e sicurezza”.
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Interviene anche il presidente del Consorzio sul caso del Brunello di Montalcino contraffatto smerciato in Cina da falsari italo-cinesi, assieme a Sassicaia e Chianti. “Non possiamo permettere che una goccia di vino contraffatto possa danneggiare la storia, la reputazione e il lavoro espressi in milioni di bottiglie del nostro vino di punta – commenta Fabrizio – valuteremo se costituirci parte civile a tutela della nostra Denominazione, delle imprese del vino e dei consumatori”.
“Questo tipo di azioni illegali – ha proseguito Bindocci – sono oggi ancor più odiose e vigliacche vista la congiuntura che stiamo vivendo; per questo ci sentiamo doppiamente riconoscenti nei confronti dei Nas di Firenze. Il marchio consortile è registrato in circa 90 Paesi del mondo, ciò al fine di garantire ai consorziati un ulteriore scudo alla protezione già comunque accordata dal riconoscimento della Denominazione di origine Brunello di Montalcino”.
“L’attività di lotta al sounding e alla contraffazione è totale e in costante evoluzione – continua Bindocci – e mai come oggi la battaglia si svolge sul online. Proprio sul web – ha aggiunto – dovremmo infittire le maglie come sistema Paese, opponendo sistemi sempre più innovativi di controllo a tutela e salvaguardia non solo del nostro vino ma anche di tutti i campioni del made in Italy”.
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FalsoSassicaia, Brunello di Montalcino e Chianti di noti marchi, confezionato “ad arte” in Italia e venduto in Cina, a ignari acquirenti. Non solo: i falsari si sono presentati addirittura a un’importante Fiera del vino in Cina, esponendo i tarocchi. A porre fine all’ennesimo traffico illecito di vino Made in Italy sono stati i Carabinieri del Nas di Firenze, in collaborazione con i militari del Nas di Padova e dei rispettivi comandi carabinieri provinciali.
L’operazione “Geminus“, coordinata dalla Procura della Repubblica di Pistoia, ha condotto in mattinata a quattro decreti di perquisizione nei confronti di tre indagati e di una società di import-export con sedi in Italia e in Cina.
I tre perquisiti di nazionalità cinese sono indagati, insieme ad altre quattro persone di nazionalità cinese e italiana, per aver prodotto, imbottigliato e commercializzato, in particolar modo all’estero, “vino con false indicazioni relative a denominazioni di origine geografica garantita e tipica”.
Il tutto “utilizzando in etichetta marchi, segni distintivi e caratteristiche grafiche e tipografiche che indebitamente imitano marchi registrati e il design del packaging di vini pregiati prodotti in Toscana”. Nel mirino dei falsari, dunque, vini Doc, Docg e Igt.
L’indagine ha preso avvio a marzo 2019 in seguito a una segnalazione pervenuta al Nas di Firenze da parte della stessa Tenuta San Guido di Bolgheri (Marchesi Incisa della Rocchetta). I militari, grazie a materiale fotografico, hanno potuto constatare l’esistenza di “copie” di Sassicaia e di altri vini toscani di pregio al banco di un espositore, durante The China Food and Drinks Fair (CFDF TaoWine), che si tiene ogni anno a Chengdu, in Cina.
Le conseguenti indagini avviate dal Nas hanno permesso di individuare il punto di origine delle bottiglie: un’azienda agricola in provincia di Pistoia, con ramificazioni anche in provincia di Siena, in particolare nel Chianti e a Montalcino.
I militari hanno quindi identificato il portale online utilizzato per vendere, a prezzi d’affare, i vini taroccati. Un’attività dimostrata anche dall’esistenza di pregresse importanti movimentazioni di vino Chianti in partenza dal pistoiese verso Hong Kong e la Cina continentale.
Grazie a diversi appostamenti i carabinieri del Nas, assieme al personale dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, sono riusciti a intercettare al porto di La Spezia alcune partite di bottiglie di vino rosso spedite verso quelle destinazioni, prive dell’etichetta frontale.
Con i riscontri acquisiti nel corso dell’indagine, con la fattiva collaborazione dei legittimi titolari dei marchi, il Nas è riuscito a ricostruire i rapporti tra l’azienda toscana ed alcune società di import-export di merci varie con sede in Italia e in Cina, gestite da cittadini asiatici.
Le aziende, già in affari tra loro dal 2015, grazie all’intermediazione del mediatore pratese, avevano realizzavano l’accordo per inviare in Cina, a partire dal 2018, bottiglie munite di sola retro-etichetta, triangolate cartolarmente su società di comodo con sede in Hong Kong.
A destinazione, con la connivenza del produttore italiano, venivano apposte le etichette frontali create tipograficamente ad imitazione di quelle dei vini italiani. I vini così prodotti erano poi commercializzati da un’ulteriore società cinese, ritenuta collegata alle altre, destinandoli al mercato cinese e al mercato online tramite una delle più note piattaforme asiatiche di e-commerce.
COLDIRETTI: “TOLLERANZA ZERO SULLE FRODI” “Le frodi – sottolinea Coldiretti nel commentare l’operazione – rischiano di dare il colpo di grazia alle esportazioni di bottiglie di vino italiano in Cina dove, dopo anni di costante crescita, sono praticamente dimezzate con un crollo del 44% nel 2020 anche per effetto dell’emergenza Covid-19″.
“Il gigante asiatico – sottolinea la Coldiretti – per effetto di una crescita ininterrotta della domanda è entrata nella lista dei cinque Paesi che consumano più vino nel mondo ma è in testa alla classifica se si considerano solo i rossi. Le bottiglie italiane sono particolarmente apprezzate tanto da attirare l’attenzione del lucroso business del falso Made in Italy agroalimentare che nel mondo vale oltre 100 miliardi di euro“.
Secondo Coldiretti “serve tolleranza zero sulle frodi che mettono a rischio lo sviluppo di un settore che è cresciuto puntando su un grande percorso di valorizzazione qualitativa che ha portato il vino italiano a raggiungere il record storico nelle esportazioni per un valore stimato in 6,4 miliardi nel 2019 ma che ora soffre le pressioni determinate dall’emergenza Covid con un calo del 3,3% nel 2020″.
“Le frodi – continua la sigla – mettono a rischio un motore economico che con il vino ha generato oltre 11 miliardi di fatturato lo scorso anno e offre opportunità di lavoro nella filiera a 1,3 milioni di persone, con la produzione tricolore destinata per circa il 70% a vini Docg, Doc e Igt con 332 vini a denominazione di origine controllata (Doc), 73 vini a denominazione di origine controllata e garantita (Docg), e 118 vini a indicazione geografica tipica (Igt) riconosciuti in Italia e il restante 30 % per i vini da tavola”.
L’operazione del Nas di Firenze arriva a pochi giorni da un altro duro colpo inferto dalle forze dell’ordine ai falsari del vino italiano, in particolare del Sassicaia. Le bottiglie tarocche, simili all’originale dal punto di vista estetico, contenevano vino siciliano.
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Fruttava 400 mila euro al mese la contraffazione di uno dei vini più pregiati al mondo, il toscano Bolgheri Doc Sassicaia, che invece era vino siciliano. La Guardia di Finanza di Firenze ha sgominato la banda di trafficanti internazionali, proprio nelle scorse ore.
Due gli arrestati, residenti in provincia di Milano. Unidici, inoltre, gli indagati nell’indagine coordinata dalla Procura della Repubblica di Firenze e dal Gip Giampaolo Boninsegna. Gli inquirenti definiscono “sofisticata e accurata” la falsificazione di bottiglie di vino recanti il noto marchio registrato “Doc Bolgheri Sassicaia”.
In particolare, nel mirino dei trafficanti erano finite le annate tra il 2010 e il 2015. Nell’ordinanza emessa dal Gip fiorentino si rileva che “sussiste anche l’aggravante della organizzazione stabile, giacché le attività osservate sono poste in essere in maniera sistematica, cioè con carattere stabile e non occasionale, nonché in maniera organizzata, con preordinata pianificazione di medio termine e nella prospettiva di un ulteriore sviluppo, per il futuro, per l’esito positivo conseguito”.
L’acquisto del vino utilizzato per confezionare il prodotto avveniva dalla Sicilia, le bottiglie invece provenivano dalla Turchia e la produzione di etichette, tappi, casse e carta velina era incentrata in Bulgaria. Le bottiglie di vino contraffatte riproducevano falsamente gli ologrammi e i segni distintivi originali di Tenuta San Guido e venivano vendute a livello internazionale.
Nel corso delle indagini, svolte per oltre un anno dai militari della Compagnia di Empoli, a fine settembre sono stati sequestrati nella provincia di Milano circa 80 mila pezzi contraffatti tra etichette, bottiglie, tappi, casse di legno e altri oggetti utilizzabili per confezionare circa 1.100 casse di vino Sassicaia 2015, per un totale di 6.600 bottiglie.
Il valore di mercato, laddove il prodotto fosse stato originale, si sarebbe avvicinato ai 2 milioni di euro. La tempestività dell’intervento ha consentito, tra l’altro, di intercettare la consegna di un ordine di 41 casse di Sassicaia 2015 già confezionate e pronte per essere vendute.
Da quanto emerso, la produzione e vendita del mercato illecito parallelo si attestava su circa 700 casse di vino contraffatto al mese, per un totale di 4.200 bottiglie, con un introito illecito stimato che si aggirava sui 400 mila euro.
Secondo le ricostruzioni investigative, diversi clienti tra cui, in particolare, coreani, cinesi e russi avevano già fatto ordini per un migliaio di casse mentre una piccola parte sarebbe stata destinata al territorio nazionale.
All’interno del magazzino utilizzato per l’attività illecita, i due arrestati si occupavano dell’imbottigliamento, dell’apposizione delle etichette e della carta velina sulle bottiglie nonché del successivo assemblaggio della cassa.
Al contempo sono state eseguite anche perquisizioni nei confronti di ulteriori quattro soggetti, ritenuti dei collaboratori dei due arrestati nella immissione del prodotto sul mercato.
Lo stesso vale per un quinto soggetto, che aveva procurato il vino da travasare nelle bottiglie vuote importate dalla Turchia. Ad oggi, nell’ambito di quella che è stata chiamata operazione “Bad Tuscan”, risultano indagate 11 persone che, a vario titolo e in vario modo, si ritiene abbiano preso parte alla produzione e commercializzazione del vino contraffatto.
“Una frode che avrebbe potuto danneggiare e svilire l’immagine del vino toscano – commenta Francesco Colpizzi, presidente della Federazione Vitivinicola di Confagricoltura Toscana – ringraziamo la Guardia di Finanza che ha permesso di sgominare un’organizzazione che agiva a livello internazionale al fine di falsificare e commercializzare il vino doc Bolgheri Sassicaia, un’eccellenza dell’enologia non solo italiana, ma mondiale”.
“Serve tolleranza zero sulle frodi che mettono a rischio lo sviluppo di un settore che è cresciuto puntando su un grande percorso di valorizzazione qualitativa – è il commento della Coldiretti nazionale – che ha portato il vino italiano a raggiungere il record storico nelle esportazioni per un valore stimato in 6,4 miliardi nel 2019 ma che ora soffre le pressioni determinate dall’emergenza Covid-19″.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
È una sorta di preludio al celebre Sassicaia, il Toscana Igt 2017 “Le Difese” di Tenuta San Guido. Un entry level che evidenzia le grandi attitudini bordolesi del territorio di Bolgheri, in una veste adatta a molti palati.
Ottenuto da un 70% Cabernet Sauvignon e un 30 % Sangiovese, “Le Difese” – in vendita anche al supermercato, nelle vetrine “chiuse a chiave” dei punti vendita più forniti e all’avanguardia – convince per l’ottimo rapporto qualità prezzo.
LA DEGUSTAZIONE
Alla vista si presenta di un rubino luminoso, trasparente. Naso di buona intensità e finezza, che si evolve bene con l’ossigenazione, senza snaturarsi. Frutti rossi come il ribes, ma anche neri come la mora selvatica.
Il sottofondo rivela un utilizzo non invasivo del legno, suggerito da richiami leggeri di vaniglia. Vi si elevano ricordi di macchia mediterranea, come rosmarino e alloro. Non mancano richiami floreali alla viola e alla rosa, accenni alla liquirizia nera e leggeri sbuffi pepati.
Ingresso di bocca su una buona struttura, costruita da un’ossatura fresca e sapida che accompagna il sorso sino a una chiusura asciutta, di buona persistenza anche se non di grandissima complessità. Il centro bocca è dominato dalla frutta. Questo il momento in cui calice trova la perfetta corrispondenza gusto olfattiva.
Tannini fini e distesi, anche se non del tutto addomesticati, rendono il sorso setoso, senza rinunciare a un minimo di “graffio”, che torna utile nel pairing. Perfetto l’abbinamento con i piatti a base di carne, meglio se alla griglia. “Le Difese” 2017 non disdegna la selvaggina o i formaggi saporiti, specie se ben stagionati.
LA VINIFICAZIONE Prodotto per la prima volta nel 2002, “Le Difese” 2017 di Tenuta San Guido è figlio di un’annata giudicata “molto particolare” dagli agronomi ed enologi di Bolgheri. Una delle più siccitose, dopo la 2003.
A mitigarla, le brezze marine diurne, alternate alle brezze di terra notturne, che hanno dato refrigerio ai vigneti, evitando alle piante di andare in “stress”. L’andamento climatico ha influito negativamente sulle rese, mediamente più basse del 20% rispetto ad un’annata normale, ma non sulla qualità dei mosti.
In particolare, i terreni su cui insistono i vigneti destinati a “Le Difese” registrano una forte presenza di zone calcaree, ricche di galestro e di sassi, solo parzialmente argillosi. Si trovano a un’altitudine compresa fra i 100 e i 300 metri sul mare, con esposizione a Sud / Sud-Ovest.
Il sistema di allevamento è il cordone speronato, con una densità d’impianto che varia da 5.500 a 6.250 ceppi per ettaro. La vinificazione prevede innanzitutto una attenta selezione dei grappoli, tramite tavolo di cernita.
Pressatura e diraspatura soffice delle uve anticipano la fermentazione in tini di acciaio inox, a temperatura controllata (29-30°C) senza aggiunta di lieviti selezionati. Segue una macerazione sulle bucce per 10-13 giorni per il Cabernet Sauvignon e per circa 13-15 giorni per il Sangiovese.
Fondamentali le successive fasi di rimontaggio e deléstage, volti ad ammorbidire i tannini. Anche la fermentazione malolattica viene svolta in acciaio. Una volta terminata, il vino atto a divenire “Le Difese” affinata per circa 8 mesi in barrique di rovere.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
BOLZANO – Nel 2015 era toccato ai vini di Bordeaux. Degustati alla cieca da una trentina di professionisti del settore, in un confronto con i tagli bordolesi altoatesini del team “Cortaccia Rossa“, i vini di Cantina Kurtatsch, Peter Dipoli, Baron Widmann e Tiefenbrunner avevano sbaragliato le etichette di Pomerol, St. Emilion, Pauillac, Margaux e St. Estèphe.
L’ascia del blind tasting, dopo aver falcidiato la Francia dei Cabernet Sauvignon, dei Cabernet Franc e dei Merlot premiati e strapagati a livello mondiale, ha mietuto una vittima eccellente nell’edizione 2019 di “Cortaccia Rossa”, andata in scena ieri pomeriggio al Centro di Sperimentazione Laimburg di Ora, in provincia di Bolzano.
Si tratta del Sassicaia 2016 di Tenuta San Guido, a cui la giuria internazionale – tra cui anche noi di WineMag.it – composta da stampa, sommelier e buyer, ha assegnato la (misera) media di 87,5 punti. Nulla di strano, se non fosse che si tratta della stessa vendemmia giudicata 100/100 da Robert Parker.
Bottiglia sfortunata? Non si direbbe, dal momento che il numero dei giurati è tale da giustificare l’apertura di almeno tre bottiglie della stessa etichetta. Allora, il sospetto, è proprio che la degustazione alla cieca giustifichi la défaillance del “mostro sacro” firmato Tenuta San Guido.
Come è facile intendere, l’edizione 2019 di “Cortaccia Rossa” ha visto protagonista il confronto tra i vini delle quattro cantine altoatesine unite per promuovere le varietà bordolesi dell’areale di Cortaccia (BZ) e il territorio di Bolgheri, ben più affermato a livello nazionale e internazionale.
Quattro “flight”, ovvero quattro sessioni di degustazione alla cieca, in ognuna delle quali si celava un solo vino dell’Alto Adige, accanto a tre vini provenienti dalla nota Denominazione toscana e – nuovamente – dalla Francia (Saint-Émilion, Pessac-Léognan e Saint Estéphe).
Nel primo flight la spunta l’Alto Adige Südtirol Doc 2016 “Frauenriegel” di Weingut Peter Dipoli (Merlot e Cabernet Franc). La media complessiva finale è di 89,3. Naso spiccatamente erbaceo, profondo, sulla spezia nera più che sul frutto. Presenza di Merlot piuttosto preponderante (55% a fronte di un 43% di Franc).
In bocca corrispondente, con frutto rosso e la rinnovata verve erbacea. Gran freschezza, ma un alcol che si deve integrare meglio in un palato in cui la maturità del frutto domina l’ingresso, per poi lasciare spazio alla spezia.
Secondo posto per il Bolgheri Doc 2016 “Camarcanda” (media “Cortaccia Rossa” 88,4/100). Medaglia di bronzo, a pari merito con 87/100, per l’Aoc Saint-Émilion Premier Grand Cru Classé 2016 “Chateau Canon La Gaffelière” e l’Igt Toscana 2016 “Oreno” di Tenuta Sette Ponti.
Interessante il risultato del secondo flight, dove a spuntarla è il Bolgheri Doc Superiore 2016 “Guado al Tasso” (90/100 la media dei degustatori di “Cortaccia Rossa” 2019). Secondo posto per l’Igt Toscana Cabernet Sauvignon 2016 dell’Azienda agricola Isole e Olena (media di 89,1/100).
Terzo l’Alto Adige Südtirol Doc 2016 “Auhof” di Weingut Baron Widmann (88,9 di media): bello il gioco tra morbidezza alcolica, spezie calde e vena erbacea. Vino di grande godibilità e prontezza al palato, dove manca però, per via i un frutto piuttosto maturo (fragola e lampone), un po’ di freschezza.
Quarto ed ultimo, sempre nel terzo flight, l’Aoc Pessac-Léognan 2016 “La Chapelle de la Mission Haut-Brion” con una media di 88,2/100 assegnata dai degustatori di “Cortaccia Rossa” 2019.
Penultimo flight dominato dal Langhe Doc 2016 “Darmagi” 2016 di Gaja (90/100), seguito dall’Alto Adige Südtirol Doc Riserva 2016 “Frienfeld” di Kellerei/Cantina Kurtatsch (89,8/100) tra i più schietti testimoni dell’attitudine di Cortaccia alla “bordolesità”, non ultimo in termini di potenzialità nel lungo affinamento in bottiglia.
Terzo posto per l’Aoc Saint Estèphe 2016 “Chateau Cos d’Estournel” (89,6/100). Quarto ed ultimo posto della batteria assegnato, appunto, al Sassicaia 2016 di Tenuta San Guido, con 87,5/100.
Quarto ed ultimo flight appannaggio dei cugini d’Oltralpe, che la spuntano con l’Aoc Pauillac Grand Cru Classè 2015 “Ch. Pichon Longueville Baron” (90,3/100 assegnati dalla giuria presente a “Cortaccia Rossa” 2019).
A seguire l’Alto Adige Südtirol Doc Riserva 2015 “Vigna Toren” firmato Tiefenbrunner – Schlosskellerei Turmhof (90/100). Bel frutto e spezia nera al naso, bella succosità al palato: un vino che, senza rinunciare a una grandissima godibilità e bevibilità, eccelle in freschezza e mineralità, in una chiusura lunghissima.
Medaglia di bronzo per il secondo Bolgheri Doc Sassicaia in degustazione a “Cortaccia Rossa” 2019: la vendemmia 2015 dell’etichetta di Tenuta San Guido (89,4/100, contro i 97/100 di Robert Parker e i 98/100 di James Suckling). Quarto ed ultimo piazzamento per l’Igt Vigneti delle Dolomiti 2015 “Tenuta San Leonardo”, unico trentino in gara.
IL COMMENTO
“La cosa importante di Cortaccia Rossa – sottolinea Peter Dipoli – è dimostrare che i quattro produttori aderenti a questa iniziativa non hanno invidia uno dell’altro. Nel mondo del vino, spesso, si ha paura di rimetterci qualcosa agendo in sinergia con i vicini di casa. Per noi non è così”.
“I 45 ettari attuali di varietà bordolesi presenti a Cortaccia – continua Dipoli – dimostrano a noi stessi, agli esperti e agli opinion leader del settore che i nostri vini meritano attenzione e hanno un rapporto qualità prezzo incredibile, se comparati con quelli di altri territori ormai affermati in cui si allevano Cabernet e Merlot”.
Le difficoltà dei produttori altoatesini sono soprattutto legate alla mancanza di un “brand bordolese”. “Devi portare la cartina geografica per vendere nel mondo il taglio bordolese della nostra zona – chiosa Dipoli – soprattutto in una fase come quella attuale, in cui sono i vini bianchi che tirano il mercato dei vini dell’Alto Adige”.
Siamo troppo piccoli per avere visibilità all’estero – conclude il vignaiolo – ma ‘Cortaccia Rossa’, con le sue degustazioni comparative svolte rigorosamente alla cieca, è un piccolo passo per dire al mondo che ci siamo anche noi: abbiamo poco vino in confronto ad altri territori, ma costiamo meno di un terzo di quelli con cui ci confrontiamo”.
Il prezzo medio delle etichette “bordolesi” di qualità dell’Alto Adige, di fatto, si aggira attorno ai 40 euro. Nulla in confronto ai blasonati rossi di Bolgheri come il Sassicaia, il cui valore oscilla al netto dei giudizi delle guide.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Sarà il ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali Maurizio Martina ad aprire il 72° Congresso nazionale dell’Associazione enologi enotecnici italiani (Assoenologi), in programma dal 17 al 19 novembre alla Leopolda di Firenze.
Sarà il congresso della “sostenibilità a tutto tondo”. Un tema unico, affrontato da diversi punti di vista, per fare chiarezza su una parola sulla bocca di tutti, ma di cui spesso non si comprende appieno il significato.
Dopo il ministro e la prolusione del presidente di Assoenologi, Riccardo Cotarella, alla cerimonia inaugurale interverranno numerosi rappresentanti di istituzioni locali, nazionali e internazionali. Ai saluti del sindaco di Firenze, Dario Nardella, dell’assessore regionale all’Agricoltura Marco Remaschi, del coordinatore degli assessori regionali Leonardo Di Gioia, e dell’assessore al turismo, fiere e congressi, Anna Paola Concia, faranno seguito gli interventi dei vertici delle più importanti organizzazioni di filiera.
Ovvero Massimiliano Giansanti, presidente di Confagricoltura, Roberto Moncalvo, presidente di Coldiretti, Secondo Scanavino, presidente della Cia. Sandro Boscaini, presidente di Federvini, annuncerà il recente accordo fatto con Assoenologi per migliorare i servizi alle Imprese attraverso la professionalità degli Enologi.
Sarà quindi la volta di Gaetano Marzotto e Claudio Marenzi, rispettivamente past president e presidente di Pitti Immagine, e del presidente della Camera di Commercio di Firenze Leonardo Bassilichi. Seguirà l’intervento del presidente della locale sede di Assoenologi Ivangiorgio Tarzariol. Saranno presenti inoltre Alessandra Ricci, amministratore delegato della Simest e Donatella Carmi Bartolozzi, vicepresidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, quali partner istituzionali del congresso, insieme a Banca Cr Firenze e Federvini.
Nell’ambito della serata la consegna del Premio Assoenologi Versini del valore di 7.500 euro a Daniela Fracassetti, dell’Università di Milano per il lavoro “Il gusto di luce nel vino bianco: meccanismi di formazione e prevenzione” e la consegna degli attestati di “Soci Onorari” di Assoenologi a Maurizio Martina, Dario Nardella, Marco Remaschi, Anna Paola Concia e Gaetano Marzotto, “per la professionalità, la passione e l’impegno profusi in azioni e progetti dedicati alla valorizzazione del settore vitivinicolo” e quale “segno di riconoscimento per la concreta e personale attenzione data alla associazione nazionale di categoria dei tecnici vitivinicoli”.
TEMA UNICO: LA SOSTENIBILITA’ Tra il pomeriggio di venerdì 17 e le mattine di sabato 18 e domenica 19 novembre, si alterneranno sul palco undici relatori. “Fra carbon footprint, riduzione degli input e tutela del paesaggio e della biodiversità – dice Riccardo Cotarella, presidente di Assoenologi (nella foto) – il tema della sostenibilità alimenta pareri discordi. Per cui è un argomento sul quale si avverte la necessità di fare chiarezza. Essere ‘sostenibili’ significa lavorare per sottrazione, riducendo l’emissione del gas serra e, unitamente, razionalizzare il consumo d’acqua e di agrofarmaci”.
“Il termine si coniuga perfettamente all’ecosistema e all’ambiente – continua Cotarella – ma è anche un modus operandi che si estende, in senso più globale, anche all’ambito economico, sociale e soprattutto culturale, essendo tutti questi elementi strettamente correlati e interdipendenti”.
A dipanare questa aggrovigliata matassa, sulla quale c’è poca uniformità di vedute, sono stati chiamati, per la parte viticola, Ruggero Mazzilli, fondatore di Spevis, Stazione sperimentale per la viticoltura sostenibile, il francese Nicolas Joly, della Coullè de Serrant, che segue i principi steineriani della biodinamica e Steve Matthiasson, enologo della Napa Valley, coautore del “Codice di condotta sostenibile”, il manuale standard per la viticoltura sostenibile in California.
Raffaele Borriello, direttore di Ismea, indicherà la via della sostenibilità economica attraverso la conoscenza dei dati del mercato. Alla coordinatrice del Settore vitivinicolo di Alleanza Cooperative Italiane Agroalimentare, Ruenza Santandrea si è chiesto invece di parlare di sostenibilità della cooperazione, mentre all’editore Andrea Zanfi, autore di numerosi libri sul vino e i suoi territori, di comunicazione, fra la sostenibilità della cultura e del sociale.
Oscar Farinetti, presidente di Eataly, racconterà la propria esperienza imprenditoriale, mentre Renzo Cotarella, enologo amministratore delegato di Marchesi Antinori, ci parlerà della scelta sostenibile in cantina e dei relativi costi. Attilio Scienza affronterà poi il tema della genetica e del suo contributo sostenibile, parlando dei nuovi portinnesti resistenti alle malattie e alla siccità, in particolare l’M4, che si è rivelato nettamente superiore ai portinnesti noti da tempo, confermando le sperimentazioni preliminari fatte negli anni precedenti.
L’ANTEPRIMA In anteprima assoluta al 72° Congresso di Assoenologi, Stefano Vaccari, capo Dipartimento dell’Icqrf del Mipaaf, presenterà i primi dati della Cantina Italia forniti dai registri telematici, con lo scopo di “offrire agli operatori una prima, sommaria serie di dati da valutare più nella prospettiva delle potenzialità del registro in termini conoscitivi”.
Nella prima sessione dei lavori che anticipa la cerimonia inaugurale di venerdì 17 novembre il presidente di Equitalia, Riccardo Ricci Curbastro presenterà il progetto di Certificazione della filiera vitivinicola quali soggetti sostenibili.
Alterneranno i lavori congressuali alcune degustazioni dei vini più rappresentativi del territorio, con un focus particolare su Sassicaia e Tignanello, alla presenza dei marchesi Piero Antinori e Nicolò Incisa della Rocchetta, che nell’occasione riceveranno l’attestato di Soci Onorari di Assoenologi.
Paese ospite di questa edizione congressuale il Portogallo, a cui sarà dedicata una specifica sessione, con analisi sensoriali di alcuni dei vini più blasonati. Presenti due gradi enologi portoghesi: Jose Maria Soares Franco, di Portugal Ramos, e David Guimaraens, della Taylor’s Fladgate.
In programma anche un concerto “Omaggio al Vino”, di cantanti e pianisti dell’Accademia del Maggio Fiorentino, nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio e una ricca serata di gala condotta da Bruno Vespa, con la straordinaria partecipazione di Carlo Conti e Peppino di Capri.
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Sassicaia superstar a Vinitaly, con una degustazione dal titolo insolito per quello che negli anni, grazie alla capacità del marchese Mario Incisa della Rocchetta, alla lungimiranza di suo figlio Nicolò e alla maestria dell’enologo Giacomo Tachis, è diventato uno dei più prestigiosi simboli del Made in Italy.
L’appuntamento che questa mattina al 51° Vinitaly ha coinvolto giornalisti, sommelier, enologi, pochi e fortunati wine lover, oltre a cinque ambasciatori del vino italiano nel mondo, diplomati alla Vinitaly International Academy (VIA), che ha organizzato la degustazione insieme alla Tenuta San Guido, era un seminario sul tema “Indietro nel tempo con il Sassicaia – le annate dimenticate”.
“Annate non dimenticate, ma considerate un po’ più ‘piccole’ rispetto alle altre”, spiega Priscilla Incisa della Rocchetta, che ha ricordato la nascita del Sassicaia come “vino da bere in famiglia, voluto dal nonno Mario Incisa della Rocchetta, che comprese come il territorio di Bolgheri fosse vocato alla coltivazione di vigneti come il Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc”. Solamente dal 1968 il Sassicaia si apre al mercato e dal 1994 trascina il territorio alla conquista della Doc Bolgheri.
“È un prodotto che rappresenta le nostre origini e la nostra famiglia – ha continuato Incisa della Rocchetta -. Negli anni si è trasformato in uno dei simboli del Made in Italy di alto livello nel mondo e per noi è una grande responsabilità portare avanti questo progetto, seguendo sempre le filosofie originali”.
A rendere omaggio al Sassicaia era presente anche il direttore generale di Veronafiere, Giovanni Mantovani. «La degustazione di oggi organizzata da Vinitaly International Academy è una straordinaria occasione per un incontro con il Sassicaia, nato grazie all’intuito di Mario Incisa della Rocchetta, che creò un vino sul modello bordolese e che divenne un vino-icona».
“La storia della Tenuta San Guido – ha proseguito Mantovani – si incrocia con un altro grande uomo, l’enologo Giacomo Tachis, che abbiamo ricordato l’anno scorso a Vinitaly. Grazie a loro il Sassicaia è divenuto un modello che non solo ha dato vita ai cosiddetti ‘Super-Tuscan’, ma ha creato dal nulla il distretto vitivinicolo di Bolgheri, nella Maremma che prima non aveva alcuna storia e che è diventata uno dei grandi territori del vino. Oggi siamo a celebrare i 50 anni di commercializzazione del Sassicaia e la 30ª partecipazione a Vinitaly”.
Un vino che è un simbolo, in grado di competere anche in chiave economica con i grandi vini francesi e che sostiene il confronto senza alcun complesso di inferiorità. “È uno dei grandi vini ricercati in Cina, proprio per la sua qualità e la grande storia alle spalle”, ha ricordato Stevie Kim, managing director di Vinitaly International Academy, presente insieme al direttore scientifico di VIA, Ian D’Agata, che ha condotto la degustazione insieme a Carlo Paoli, direttore generale tecnico di Sassicaia e Tenuta San Guido.
Per gli amanti di date e numeri, le annate degustate, di altissimo livello, nonostante siano figlie di «stagioni complicate sul versante meteorologico», hanno spiegato Ian D’Agata e Carlo Paoli, sono state: 1992, 1994, 2002, 2005, 2007, 2008, 2010, 2014.
I NUMERI
Tenuta San Guido produce ogni anno a Bolgheri 180-200 mila bottiglie di Sassicaia. “Poco più della metà viene esportata e il resto rimane in Italia – ha precisato Priscilla Incisa della Rocchetta -. È una scelta, perché è un prodotto italiano e riteniamo che chi viene nel nostro Paese lo debba trovare”. Una curiosità. Mario Incisa della Rocchetta fu il proprietario di un altro simbolo italiano: il cavallo Ribot, uno tra i galoppatori più forti di tutti i tempi.
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Tre vini eterni, come la fama del loro padre e inventore. È morto venerdì notte a San Casciano Val di Pesa, in provincia di Firenze, il più noto fra gli enologi italiani: Giacomo Tachis. Malato da tempo, lascia la famiglia a 82 anni, a poco più di 6 anni dall’interruzione dell’attività lavorativa. I funerali sono stati celebrati oggi pomeriggio alle 15, nella chiesa di Santa Maria ad Argiano San Casciano. Di origini piemontesi, l’enologo Tachis è toscano d’adozione. Sarà ricordato per Sassicaia Bolgheri Solaia e Tignanello, vini unici prodotti nella zona del Chianti. Sulla scomparsa di Tachis è intervenuto il ministro delle Politiche agricole, Maurizio Martina: “Il mondo del vino perde uno dei suoi più importanti maestri, protagonista indiscusso del rinascimento del vino italiano. Ha saputo reinterpretare il ruolo stesso dell’enologo. Un uomo di grandissima cultura che ha fatto della qualità una pratica quotidiana, diventando un punto di riferimento per le nuove generazioni di enologi. Se oggi il vino italiano è riuscito a raggiungere certi traguardi – ha aggiunto Martina – è anche per merito di uomini come Giacomo Tachis e Luigi Veronelli che, in anni duri, hanno saputo accompagnare il rilancio di questo settore. Dobbiamo fare in modo che la loro eredità possa essere uno stimolo a fare sempre meglio”. (foto Rainews.it)
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