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40 anni di storia del Blangé raccontati dal suo “papà”: Bruno Ceretto

40 anni di storia del Blangé raccontati dal suo papà Bruno Ceretto
Galeotti furono una gomma bucata, «due colline a forma di tette», un parroco e un panettiere. La storia del Blangé, vino icona della famiglia Ceretto che nel 2025 compie 40 anni, è un condensato di aneddoti che mescola sacro e profano. Uno spaccato della carta d’identità delle Langhe e del Roero. Due territori diventati grandi insieme a questa etichetta, che ne ha accompagnato le tappe in quattro decenni. Giungendo intatta, rilucente ed esemplificativa, sino ai giorni nostri. Protagonista assoluto della storia del Blangé è Bruno Ceretto.

«Il discorso è molto lungo: lei registra?». Camicia biancoblu, a quadretti. Cravatta d’un giallo sgargiante. Giacca in pendant a quadri beige, blu e arancioni. Del tutto a suo agio nel quartier generale della cantina, ad Alba, il papà del Blangé, 87 anni, tiene a sincerarsi che tutto sia al suo posto, prima del ciak. Un po’ come quei padri e quelle madri che non smettono di trattare i figli adulti come bambini, sistemando le pieghe dei vestiti prima di vederli uscire di casa. La storia del vino che ha reso famoso l’Arneis nel mondo – un figlio per Bruno Ceretto, che l’ha pensato, visto nascere e crescere – dev’essere narrata in maniera impeccabile. Prendendosi il tempo necessario. O, piuttosto, lasciando perdere il discorso. Nell’aria dell’ufficio ad ampie vetrate danzano gli aromi di un buon caffè. Roberta Ceretto siede accanto a Bruno. Pronta a ripercorrere un racconto che sa di fiaba.

DA LA LUNA E I FALÓ AL BLANGÉ

«Negli anni 70 – inizia il patron, con voce ferma ma accogliente – ho conosciuto un grande produttore friulano, Manlio Collavini, che è addirittura padrino di battesimo di mia figlia Roberta. Grazie a lui cominciai a frequentare il Friuli, notando il grande sviluppo che aveva il Pinot Grigio, in quel momento, sul mercato nazionale. A noi, qui nelle Langhe, mancava un bianco così. Di ritorno in treno verso Alba, avendo forato una gomma, mi torna in mente che, ne La luna e i Falò, Cesare Pavese raccontava di due colline a forma di tette, meravigliose, nei pressi di Santo Stefano Belbo. Mi dico: mentre son qui, vado a veder ’ste tette, no?».

«Arrivato alla stazione di Santa Vittoria, leggo su un grande cartellone pubblicitario: “Francesco Cinzano, dal 1850 vini e spumanti”. Tra me e me penso: caspita, ma vedi? Spumanti? Questi qui nel 1850 facevano vini bianchi o qualcosa del genere! L’indomani decido di andare nel Roero per consultare i parroci dei paesi e capire se, per davvero, qualche contadino stesse piantando uve bianche in zona. I parroci, non i postini, sono quelli che ti danno le notizie vere! Infatti scoprii che moltissimi piantavano un vitigno chiamato Arneis. Non avendo il Moscato, avevano scelto quell’uva bianca per farsi un po’ di vino dolce, per Natale».

BRUNO CERETTO COMPRA “CHICHIVEL”, LA MIGLIOR COLLINA PER IL SUO ARNEIS

Nel suo girovagare in Roero, il futuro papà del Blangé scopre un’azienda agricola con ben 5 ettari di Arneis. A Canale. «Si chiamava Cornarea – ricorda – una cantina che esiste ancora. Andai lì per comprarla, essendo ormai deciso a produrre un vino bianco. Ma non se ne fece nulla». Bruno Ceretto sa bene che i parroci non dicono la verità solo sui contadini. Sono anche le persone più adatte ad indicare quali siano i migliori vigneti della zona: quelli in cui lo sconosciuto Arneis maturava meglio.

L’assist ecclesiale di don Nino, allora parroco di Vezza d’Alba, suo ex chierico nelle estati trascorse a studiare al posto di divertirsi con gli amici – «da giovane avevo sempre molte materie rimandate a ottobre, quindi finivo in seminario!» –  si rivela vincente: «La miglior collina della zona – rammenta Bruno Ceretto – era quella che chiamavano “Chichivel”. Un appezzamento di circa 30 ettari, con addirittura 42 proprietari. Diedi subito incarico di acquistarla tutta. E da lì iniziò l’avventura». La famiglia, del resto, segue con interesse i viaggi in Roero dell’avventuriero Bruno.

L’ETICHETTA DEL BLANGÉ FIRMATA DA SILVIO COPPOLA

«Parlai con mio fratello Marcello – continua il racconto – e gli dissi che dovevamo studiare un progetto di successo e innovativo per il nostro primo vino bianco. In che senso “innovativo”? Quando vado al ristorante, mi siedo sempre in un cantuccio, in modo da osservare gli altri clienti. Avevo notato che quando arrivavano due fidanzatini, su suggerimento della donna, chiedevano spesso dei vini bianchi con delle caratteristiche molto precise. Profumati, non petillant ma che punzecchiavano leggermente, dando inizio a quelle che oggi chiameremmo “bollicine”. Vini rotondi, morbidi, di grande piacevolezza. Il vino che avevo in mente, dissi a mio fratello, introducendo di fatto quella che è un’altra grande innovazione di questa azienda nel campo dell’estetica, dovrà essere accompagnato dall’etichetta realizzata da un gradissimo designer. Che sappia creare qualcosa di innovativo, di grande bellezza ed eleganza». Quel «qualcuno» fu Silvio Coppola.

Un architetto, designer e grafico già noto, all’epoca, per aver realizzato l’etichetta del Tignanello degli Antinori. Per convincerlo a salire a bordo del progetto Blangé, Bruno Ceretto organizza un evento regale. «Era il 12 ottobre 1985 – spiega – quando lo invitai qui da noi ad Alba, insieme ad altri venti grandissimi designer ed architetti di fama internazionale. Gente che oggi chiameremmo “archistar”. L’idea era quella di un pranzo, utile a introdurre l’argomento dell’etichetta del Blangé. Ad ognuno fu consegnato un foglio bianco, ma nessuno portò a termine il “compito”. Perché? Finirono tutti sdraiati, ubriachi e a pancia piena». Tutti tranne Coppola. Che seppe resistere al fascino irripetibile dei fiumi di Barolo del 1961, serviti dallo staff di Bruno Ceretto. «In 20 si scolarono 36 bottiglie, abbinandole a bistecche di Fassona su cui feci grattare 50 grammi di tartufo per ciascuna. Ricordo ancora quando Coppola si alzò e disse: “Banda di ubriaconi, l’etichetta ce la facciamo io e Bruno Ceretto!”».

PERCHÉ L’ARNEIS DI CERETTO SI CHIAMA BLANGÉ?

Fu del noto designer l’idea di una bottiglia di vetro bianco, trasparente. «Prima di mostrarmi cosa aveva in mente per l’etichetta – prosegue il papà del Blangé – Coppola mi chiese se fossi un credente. Gli risposi con ironia: “A giorni! Oggi, per esempio, davanti al Barolo 1961, alle bistecche di Fassona e a così tanto tartufo, credo eccome!”. La domanda, però, aveva un senso. Mi disse che il suo obiettivo era quello di mostrare l’anima del vino, “perché nessuno vede la sua anima, anche se è credente”. Nacque così l’etichetta forata del Blangé, con le scritte dorate e, soprattutto, la grande “B” che lascia intravedere il colore del vino. La sua anima. Coppola mi chiese un favore: poter scrivere il suo nome, in piccolo, in un angolino. Come una sorta di firma. Lo accontentai, ovviamente. Detto ciò, l’etichetta fu costosissima: 50 milioni di lire! Fu copiatissima. Il vino ebbe un successo immediato, planetario. Lo presentammo in giro per il mondo. Purtroppo, Silvio morì prima della fine di quello stesso anno».

Ma perché l’Arneis di Ceretto si chiama Blangé? «Quando ci siamo presentati dal notaio per acquistare uno dei tanti appezzamenti di Arneis da cui ha avuto inizio la nostra avventura – risponde Bruno Ceretto – tra i venditori c’era un dirigente della Fiat, con la passione per la storia e l’etimologia. Secondo il suo racconto Napoleone, che firmò a Cherasco l’Armistizio del 1796 con Vittorio Amedeo III di Savoia, fece arrivare nella zona diverse migliaia di francesi. “Blangé” deriva dalla contrazione, in piemontese, della parola boulanger, ovvero panettiere. Una delle vigne che stavamo acquistando era di proprietà di un panettiere, nel Settecento. E così veniva identificata dalla popolazione locale, per la quale il termine era diventato una sorta di toponimo. Pane e vino, in definitiva: questo binomio ci convinse subito».

ROBERTA CERETTO E IL BLANGÉ: I NUMERI DI UN ARNEIS ICONA

«Noi siamo “barolisti” e “barbareschisti” per nascita e per convenienza, ma abbiamo gli stessi costi nel produrre una bottiglia di Blangé o di Barolo. Vogliamo che questo nostro Arneis sia un vino consumato dalle famiglie, la domenica. Apprezzandone la bontà, la qualità, la bellezza. E soprattutto il prezzo equilibrato, che dà la convinzione d’aver fatto un affare. Quel che è certo è che, senza una storia alle spalle, un vino non potrà mai avere successo». Ne è convinto Bruno Ceretto, nel commentare la storia visionaria di un’etichetta che si lega, sinuosa, a quella della sua famiglia di Langa. Un tesoro – la prima vendemmia costava già 6 mila lire, oggi il prezzo si aggira attorno ai 20 euro – che è finito tra le mani di Roberta Ceretto.

«Nel tempo – sottolinea – questo vino ha cambiato pelle mille volte. La prima bottiglia di Blangé non era né “Arneis”, né “Langhe”. Non c’era alcuna specificazione. Nel 1985 non era nemmeno Doc. Era semplicemente un “vino bianco”. In questi quarant’anni abbiamo aggiunto “Arneis” e lo abbiamo visto passare da Doc a Docg. Non ultimo, lo abbiamo imbottigliato come Roero e poi come Langhe Doc. Nell’arco di questi quattro decenni, l’etichettatura è cambiata moltissimo. La cosa straordinaria è che un vino che si ricorda per il suo nome, al di là dell’uva che lo compone e delle altre caratteristiche tecniche».

«Sono pochissimi i vini italiani, soprattutto bianchi – evidenzia ancora Roberta Ceretto – che si ricordano col loro nome di fantasia. I vari “Sassicaia” e “Tignanello”, però, partecipano a “campionati” diversi rispetto a quello del Blangé». Un’icona prodotta oggi su una superficie complessiva di di circa 100 ettari di proprietà, per 800 mila bottiglie. Sinonimo di una famiglia delle Langhe. E motore silenzioso di un Roero passato da pochi ettari di Arneis – quelli a cui dava la caccia il giovane Bruno Ceretto, all’inizio degli anni Ottanta – agli attuali 965, su un totale di 1.300. Un pezzo di storia, insomma, il Blangé. Da bere. Ascoltare. Leggere.Ceretto

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Rivincita del gianduja: la nocciola Relanghe sposa il cioccolato di Gabriele Maiolani


Chiamatela sfortuna, ma solo per tagliare corto. Fatto sta che il primo cioccolatino incartato al mondo, il gianduiotto, ha una storia amara. Parla torinese dal 1806, ma non ha una Dop. Nessuno, tra i big del dolciario piemontese, s’è mai sognato di valorizzare a dovere il cioccolato gianduja. Relanghe lancia così la rivincita. Mettendo a disposizione del maître chocolatier Gabriele Maiolani la propria Nocciola Tonda Trilobata Igp.

“Artigianalità” e “manualità” le parole d’ordine del progetto presentato ieri dalla famiglia Ceretto, tra lo stabilimento di Relanghe, a Castellinaldo d’Alba, e la “Casa dell’artista” di Alba (CN), il loft realizzato recuperando un antico casolare per ospitare “geni” di caratura internazionale, tra i vigneti della Tenuta Monsordo Bernardina.

Tutto inizia con vero e proprio colpo di karma. Il primo ed unico, nella storia sfortunata del gianduiotto. Nel 1993, assieme ad alcuni vigneti, Bruno e Marcello Ceretto acquisiscono 10 ettari di noccioleti.

Nasce così Relanghe, ormai affermato “laboratorio” artigianale per la lavorazione della pregiata “Nocciola Piemonte”. Il tutto nell’ex stabilimento del “Blangé“, nota etichetta di vino bianco da uve Arneis targato “Ceretto”.

Alla produzione di torrone, la bottega dolciaria Relanghe – nome scelto in tributo a una collina – affianca presto quella dell’olio di nocciola, in quantità risicatissime (tra i 200 e i 300 litri l’anno) in parte destinate al “Piazza Duomo” di Enrico Crippa.

L’approdo nel mondo del cioccolato sembra quasi scontato. “Abbiamo applicato la nostra esperienza di vignaioli alla lavorazione delle nocciole – spiega Roberta Ceretto, figlia di Bruno – infatti tutte le nocciole Igp che lavoriamo a Relanghe arrivano dagli 80 ettari di proprietà della famiglia e da altri conferitori tra Langhe e Roero”.

Tutte cresciute in Piemonte, tutte della varietà Tonda Gentile, tutte certificate bio. “La gianduja è realizzata con l’intenzione di avere un prodotto composto al 100% da nocciole Igp, sapientemente lavorate e calibrate per sprigionare un sapore inimitabile, una volta combinate con il cacao”, spiega ancora Roberta Ceretto.

Volevamo creare un gianduiotto straordinario risultato del matrimonio tra il miglior cioccolato e la migliore nocciola. Per questo ci siamo rivolti a un professionista assoluto come il maître chocolatier torinese Gabriele Maiolani, noto per le sue creazioni da bottega Odilla Chocolat, a Torino”.

ORO E BLU: “CON” E “SENZA LATTE”
È così che i frutti di Relanghe, raccolti tra Alba, Albaretto Torre, Sinio e Somano, si combinano con il cioccolato mono origine (Ecuador) di Maiolani. Un gianduiotto “da disciplinare originale“, prodotto proprio nel laboratorio privato del maître chocolatier torinese. Originale persino nella forma, ottenuta a mano e non grazie a degli stampi.

“Abbiamo recuperato e modificato un macchinario originale del 1919 – spiega il maître chocolatier Maiolani – installandoci un motore, una cinghia e un volano. Anche per questo la grammatura del nostro gianduiotto è particolare: 7 grammi, al posto dei 10 di quelli industriali, poi ridotti a 5, già da 20 anni”.

Il gianduja Relanghe, inoltre, è l’unico sul mercato ad avere la nocciola come primo ingrediente in etichetta, al posto dello zucchero. Due anni di lavoro per trovare la giusta “quadra”, in due versioni.

L’incarto oro-rosa indica il gianduiotto dal gusto più “comune”. Quello blu, omaggio a Torino, è il vero tributo alla tradizione: “senza latte”, esalta texture e intensità del cacao mono origine. Presto in commercio, annuncia la famiglia Ceretto, nelle migliori enoteche e drogherie nazionali.

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“La viticoltura biodinamica? Molto più del cornoletame”. Parola di Roberta Ceretto


ALBA – Hanno tutti gli occhi chiari, azzurri come il mare, i “ragazzi” della terza generazione Ceretto. I figli di Bruno e Marcello (Roberta, Federico, Lisa e Alessandro), eredi della casa vinicola fondata da Riccardo negli Trenta, in località San Cassiano ad Alba (CN), hanno ereditato la luce posta sui cru del Barolo e del Barbaresco dai genitori. E l’hanno trasformata in uno sguardo “green“, da riversare interamente sui vigneti.

La certificazione biologica dei 170 ettari risale al 2015. Ma in realtà, dal 2003, sarebbe meglio parlare di una “scientifica applicazione della biodinamica in vigna, che va ben oltre il cornoletame“. A chiarirlo è Roberta Ceretto, figlia di Bruno, mentre crescono le superfici vitate della cantina che si avvalgono di principi steineriani.

Il nostro è un approccio scientifico alla biodinamica. Fare vino significa seguirlo in tutte le sue fasi, dalla vigna alla vendita. Quello che noi facciamo è accompagnarlo dal vigneto al consumatore finale. C’è molto più del cornoletame nella nostra idea di biodinamica”, chiarisce Roberta a WineMag.it, camminando sotto le volte della cantina storica del Monsordo.


Una convinzione che affonda le radici nella storia del territorio, fatta propria dalla famiglia Ceretto in una veste moderna, ragionata. Che va ben oltre il marketing e i “bollini”, utili a far felici i sempre meno numerosi “ultrà del vino che puzza“, purché sia autoproclamato “naturale” dal produttore. Gente di cui ha parlato di recente anche Alessandro Dettori.

“Mio padre e mio zio – sottolinea Roberta Ceretto – fanno parte di quella generazione che ha ‘costruito’ le Langhe, attorno al mito del Barolo e del Barbaresco. Non erano le Langhe di Fenoglio e della ‘malora’, ma non si allontanavano molto”.

“Di certo non erano neppure le Langhe che è possibile ammirare oggi passeggiando, dove è tutto bello, si mangia bene, eccetera. Vent’anni fa, quando ho iniziato a lavorare in azienda – ricorda Roberta – per me era difficile trovare qualcosa che funzionasse qui attorno: un albergo, un ristorante. Adesso, forse, le Langhe sono il territorio dove si mangia meglio in assoluto in Italia”.

Un’evoluzione, quella delle Langhe, che ha coinvolto e travolto (positivamente) anche l’enologia. “I vini sono migliorati tantissimo – ammette la figlia di Bruno Ceretto (nella foto, sotto) – e la gente non improvvisa più, come un tempo. Mio nonno è passato da autista di una cantina a produttore di vino. Mio cugino Alessandro, invece, ha fatto l’enologica, l’università, ha fatto vendemmie in giro, dappertutto”.

L’analisi di Roberta prosegue con limpidezza e lucidità. Mentre tutt’attorno il vino riposa nelle botti: “Non dovrei dirlo, per carità: c’è anche il discorso della conversione al biodinamico nel miglioramento dei nostri vini negli anni, acclarato dalla critica internazionale. Ma c’è da dire che Alessandro è molto più preparato. Il vino del contadino, fatto a sentimento, non esiste più”.

“Noi ci avvaliamo di due biologi a tempo pieno – sottolinea Roberta Ceretto – ma non perché il nostro sia un vino artefatto: lavoriamo a stretto contatto con la natura. Però, se devi fare una vendemmia, non entri in vigneto a caso! Frasi come ‘oggi mi sembra possa andar bene’, non funzionano più. Ogni nostra barrique è siglata, un programma ci aggiorna sulla progressione della maturazione: non esiste più nulla di improvvisato“.

Secondo Rudolf Steiner, padre della biodinamica, il letame di vacca che abbia partorito almeno una volta, infilato in un corno, sotterrato e recuperato prima di Pasqua, incrementerebbe la resa del terreno. Una pratica nota come “Preparato 500”, o “cornoletame”

“Vero che poi il produttore, e l’enologo nello specifico, hanno un talento nel riconoscere le varie fasi. Ma ormai, a un brand come Ceretto, non viene perdonato più nulla, soprattutto perché produciamo vini come Barolo e Barbaresco, che non sono generalmente accessibili a tutti i portafogli. Scoccia non spendere bene 100 euro“.

Già, perché “un vestito lo puoi cambiare ricorda Roberta – ma una bottiglia di vino no. E la faccia che ci metti è la tua, da produttore. In cantina, quindi, si lavora come in un laboratorio. Questo non vuol dire modificare la natura, ma seguirla, ben oltre il cornoletame. Sfruttando la tecnologia per migliorare quel che ci fornisce”. Voce del verbo Ceretto. Amen.

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“Coltivare e custodire 2019 si tinge di rosa

Alba –  Sarà declinata al femminile la seconda edizione di “Coltivare e Custodire” – appuntamento ideato dalle Aziende Vitivinicole Ceretto e dall’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Protagoniste saranno le donne in agricoltura, di ogni età e provenienza, dedite alla produzione di cibo sostenibile.

Dalla coltivazione, alla trasformazione, alla creazione, alla divulgazione: dai campi fino alla tavola racconti, incontri, conversazioni, eventi teatrali, scambi e contaminazioni in cucina per due giorni dedicati ad esplorare i valori della terra in due luoghi d’eccezione quali Pollenzo e la Tenuta Monsordo Bernardina ad Alba.

I VALORI DELLA MANIFESTAZIONE
Coltivare e Custodire è anche un riconoscimento, a livello internazionale, in difesa dell’ambiente, dell’ecologia e dell’agricoltura sostenibile. Questi i valori fondativi della manifestazione che per due giorni vedrà studenti, cuoche, coltivatrici, vignaiole, produttrici giornaliste alternarsi e confrontarsi esplorando il tema 2019 portando la propria esperienza e il proprio agire come testimonianza di un modo concreto di lavorare la terra, rispettandola e diffondendo una diversa cultura dell’attività agricola, culinaria, gastronomica.

“Continuiamo con entusiasmo questo percorso con l’Università di Scienze Gastronomiche con cui condividiamo un genuino amore e rispetto per la terra che passa dalla cura del paesaggio, alla pratica di un’agricoltura sostenibile, al rispetto della tradizione e all’impegno a consegnare una terra sana al futuro” sostiene Roberta Ceretto, terza generazione alla guida delle Aziende vitivinicole Ceretto insieme ai cugini Alessandro, Elisa, e al fratello Federico.

“Produrre vini capaci di raccontare il nostro territorio ci ha portati a desiderare di riunire ogni anno in questi luoghi quanti condividono questa visione per raccontare le proprie esperienze e stimolare ovunque altre azioni virtuose di agricoltura possibile e sostenibile”.

“Coltivare e Custodire è ormai diventato un appuntamento fondamentale per tutta la comunità pollentina” dichiara Carlo Petrini, fondatore di Slow Food Internazionale. “Un evento che testimonia come dall’incontro con attori virtuosi del territorio possano nascere sinergie vincenti, dimostrando ancora una volta la potenza dell’enogastronomia, che unisce e crea ponti. Il tema di quest’anno poi è di una straordinaria importanza poichè le donne in agricoltura, da sempre custodi silenziose di saperi gastronomici, hanno un ruolo chiave per il futuro del cibo e del pianeta tutto. E’ giunto il momento di parlarne e di dare loro voce.”

IL PROGRAMMA
Coltivare e Custodire avrà inizio venerdì 31 maggio a Pollenzo alle ore 15.00 con il conferimento della laurea honoris causa a Vilda R. Figueroa Frade, impegnata da decenni assieme al marito – José A. Lama Martínez –  nel Progetto di conservazione degli alimenti, dei condimenti e delle erbe medicinali, incentrato sulla diffusione di una corretta cultura alimentare a Cuba, sottolineando l’importanza della conservazione degli alimenti, della sicurezza e della sovranità alimentare.

Si proseguirà sabato 1 giugno alle ore 10.30, sempre a Pollenzo, con la Tavola rotondaad ingresso libero fino ad esaurimento posti “Dai campi e dalle cucine: donne, quante storie!“. Parteciperanno: Maria Canabal, Roberta Ceretto, Vilda R. Figueroa Frade, Bela Gil, Elide Mollo. Moderatrice: Cinzia Scaffidi.

Alle ore 13.00 ci sarà il Pranzo a 8 mani: 4 donne, 4 piatti, 4 nazioni in collaborazione con la Brigata delle Tavole Accademiche. Bela Gil (Brasile), Amy Lim (Hong Kong), Elide Mollo (Italia) e Laura Rosano (Uruguay) proporranno  un loro piatto simbolo. Le info complete al sito www.coltivarecustodire.com

Il pomeriggio di sabato 1 giugno si passerà alla Tenuta Monsordo Bernardina ad Alba dove dalle 16.00 alle 21.00 si alterneranno racconti ed esperienze di pratiche etiche e sostenibili in agricoltura.

4 Conversazioni, Storie di cibo e di donne. 4 giornaliste – Simona De Ciero, Martina Liverani, Elisabetta Pagani e Sara Porro –  affiancate da 4 studentesse dell’UNISG conversano con 4 donne piemontesi – Raffaella Firpo, della Cascina Piola,  Renza Veglio, cuoca de La Terrazza da Renza,  Arianna Marengo, Pascoli di Amaltea, Mariacristina Oddero, Oddero Poderi e Cantine – impegnate nelle buone pratiche dell’agricoltura e dell’enogastronomia.

A seguire l’incontro Le buone pratiche – Coltivare e Custodire 2019. In occasione della premiazione delle tre campionesse – Laura Rosano (Uruguay), Agitu Ideo Gudeta (Etiope, che vive in Alto Adige) e il team composto da Lisa Fellman, Laura Wutrich e Giulia Crijnen (Olandesi, ex studentesse dell’Unisg) – impegnate in progetti di salvaguardia, difesa dell’ambiente e valorizzazione sociale, intervengono Bruno Ceretto e Carlo Petrini.

In questo contesto ci sarà la Mostra Eurostampa. Esposizione e premiazione dei lavori degli studenti UNISG selezionati per il Concorso Eurostampa 2019: “Women: Regenerating Food, Regenerating Earth”.

Si con conclude con la presenza eccezionale di Lella Costa che legge Il pranzo di Babette. Uno dei racconti più belli e famosi della scrittrice danese Karen Blixen affidato alla voce straordinaria di Lella Costa.

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