Difficili. Aristocratici. Semplici. Contadini. Cinque calici. Numero dispari. Dentro, solo Gaglioppo. E’ una “verticale obliqua”. Black out. Come d’improvviso, il Mercato dei Vini Fivi sembra assumere le forme di una delle opere di Escher. Un labirinto. Prima mentale, visivo. Poi, gusto olfattivo. Tutto sembra studiato per confondere, a quel festival dell’ossimoro che è stata la degustazione con il produttore Francesco De Franco di ‘A Vita – Vignaioli a Cirò.
Specie se quei vini li hai appena degustati – fuori temperatura – al banchetto dell’azienda produttrice. E non t’hanno fatto una buona impressione, lontano dall’ambiente ovattato della Sala degustazioni dei padiglioni fieristici di Piacenza.
L’ultimo dei quattro “appuntamenti con il vignaiolo” sul calendario degli organizzatori, tra sabato 26 e domenica 27 novembre. Qui, il vino viene servito a gradazione perfetta. E fa il suo: sconvolge. In positivo. Per armonica contrapposizione di note stonate. Per quella capacità di mettere d’accordo tutti. Mostrando con semplicità mille sfaccettature diverse. Ma nello stesso quadro.
LA DEGUSTAZIONE
Calabria Igp Rosato 2015, Cirò Doc Rosso Classico 2012, Cirò Doc Rosso Classico Superiore 2013, Cirò Doc Riserva 2008 (Magnum), Cirò DOC Riserva 2010 (Magnum). Questa la batteria, raccontata da Francesco De Franco assieme all’amico e collega campano Bruno De Conciliis. Il vignaiolo di Prignano Cilento, Salerno, ricorre alla musica per descrivere il Gaglioppo di De Franco. E fa benissimo. Perché quelle di ‘A Vita non sono “etichette”. Sono spartiti. Riproduzioni fedeli dell’incoscienza. Dell’autore. E di Madre Natura.
Due elementi, uomo e terra, sembrano incontrarsi nei calici che assumono le fatture d’un girone dantesco. Al primo sguardo. Alla prima olfazione. Al primo sorso. Si finisce sempre più risucchiati verso l’ignoto. “Cerco di raccontare un territorio sconosciuto e le potenzialità del Gaglioppo”, dice al tavolo dei relatori un timido Francesco De Franco, quasi nascondendosi dietro all’asta bassa e stretta del microfono. Annuisce, facendosi ancora più piccolo, mentre il collega De Conciliis ne decanta l’opera. Non è un animale da palco, De Franco. Ma da campagna, sì.
IL RITRATTO
Basta sentirlo mentre parla della sua terra. La Calabria. Mentre racconta di quelle “vigne fronte mare”, a 300 metri dalla riva, sembra di sentire lo scrosciare delle onde dello Ionio sui muri freddi dei padiglioni Expo Piacenza. Chiudi gli occhi, mentre parla di quella “stretta pianura con i mari sui due lati, di terra d’argilla e calcare”. Anche perché, mentre De Franco illumina del sole calabrese la Sala degustazioni, in bocca ci sono i suoi vini. Iodio allo stato puro. Vini tesi, tra l’asprezza dei paesaggi disegnati a parole. E la viscosità marina, simile a quella dell’olio d’oliva. Tannini e frutta a bacca rossa si giocano le parti in grassetto sullo spartito, in ognuno dei cinque vini di ‘A Vita in batteria. E così, il Rosato 2015 pare “un piccolo, giovane guerriero” dai muscoli d’acciaio. Destinato a conquistare il mondo.
Nel 2013 le note di china e rabarbaro sono evidenti. Drogano l’olfatto. T’incollano il naso al calice. Il 2012 è pura follia. “Un vino che non vederò mai”, ammette d’aver pensato il viticoltore mentre lo imbottigliava. Poi, un’evoluzione inattesa in bottiglia. Che, oggi, porta le note grevi a farsi (relativamente) più morbide. Come la china, che si tramuta in zenzero. E’ la storia, in sintesi, di tutta una produzione. Il primo anno (vedi Rosato 2015) il tannino sembra costituire un elemento a sé nei vini di ‘A Vita. “Io li chiamo ‘vini del sorriso'”, ammette. Vini disturbanti, che al posto di dissetare, asciugano. Tolgono linfa vitale al succo. Ma dal secondo anno in poi, mineralità e acidità tornano a prevalere, a conti fatti. Bagnando e rinfrescando un tannino da elisir di lunga vita.
Un continuo rimando a leggerezza e pesantezza. Vini musicali, appunto. Da sincope. Come il 2008. Quello che assume le tinte più profonde. Grevi, al naso: rabarbaro (ancora lui), ma anche liquirizia e cuoio. Macerazione sulle bucce lunga 20 giorni e successivo affinamento in legno nuovo non tradiscono. Alcol attenuato da un’annata non caldissima, tannini pure. E’ il vino di più “facile” beva di ‘A Vita. Quello che esprime note quasi “dolci” al palato. Un Cirò Riserva aperto a note minerali, fresche. Deliziose. Così come appagante è la freschezza vegetale del Cirò Riserva 2010. Tutto giocato su frutta rossa, timo e mirto.
Il bello è che De Franco fa sembrare tutto semplice. Come lui. Come l’incedere di un quattro quarti su un metronomo appena tarato. “Non cerco nessun tecnicismo – spiega – piuttosto il mio obiettivo è quello di raccontare il Gaglioppo e Cirò, con le caratteristiche che assume di annata in annata, a fronte delle condizioni climatiche”. I vini di ‘A Vita sono vini fatti in casa. “Non ho rifermenti in zona o modelli da seguire – continua il vignaiolo Fivi – perché a Cirò ci sono grandi cantine o contadini che producono per sé e per le loro famiglie. Per questo sono libero di esprimere, semplicemente, quello che offre la terra”. “Mi piacerebbe che i miei vini fossero ricordati nel tempo perché raccontano la vera Cirò”. Grazie per il viaggio, Francesco De Franco.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Trovarsi alla Terra Trema ogni anno è come passare una serata con gli amici lontani, con cui ti ritrovi raramente. Legno. Luci soffuse. Musica in sottofondo. Un buon bicchiere di vino. E chiacchiere. Tante chiacchiere. In particolar modo se, per te, è il sesto anno consecutivo. Ma siamo alla 12° edizione. La numero 10 al Leoncavallo di Milano. E si vede. Finalmente il bicchiere non è quello classico, da degustazione della festa del paese. E’ un calice!
Gli amici sono quelli di sempre, ma ogni anno conosci qualcuno di nuovo. Perché la manifestazione conta ben 90 produttori, in media, all’anno. Tutti Vignaioli, contadini, amanti della terra. Del suo profumo e del suo calore. Lo trasmettono. Anche solo da come ti parlano. Tutto attorno, un ambiente che li mette a loro agio. Come in campagna. Nulla di sfarzoso.
Niente distoglie il visitatore da quei faretti. Puntati solo su di loro. I protagonisti. Al fianco dei loro vini. Bisogna solo avvicinarsi e parlare. Non aspettano altro che raccontarti la loro passione. La loro fatica.
LA DEGUSTAZIONE
L’inizio è quello di sempre, con i vignaioli che poi si incontrano anche in cantina, durante l’anno. Si parte col Pecorino dell’Azienda Agricola Fiorano di Cossignano (AP), il Donna Orgilla 2015. Giallo paglierino con riflessi verdognoli, naso floreale ed erbaceo, caldo figlio di un’annata tosta. In bocca sapido e molto minerale. E’ capitato negli anni di degustare magnum con qualche anno sulle spalle. E questa vigna riesce col tempo a sfoderare evoluzioni Riesliniane.
Da lasciare a bocca aperta. Peccato che Paolo, co-titolare dell’azienda, non ne abbia portate in degustazione. Altro Pecorino di casa è il Giulia Ermina, con fermentazione in tonneaux francese e maturazione “sur lies” per 12 mesi, più 8 di affinamento in bottiglia. Una piccola chicca, per chi ama il sentore terziario appena percettibile del legno, sempre ben bilanciato da una buona acidità. Vero e proprio contraltare della freschezza di Donna Orgilla.
Nuova tappa ma ancora Pecorino. Stavolta Il Fiobbo di Vini Aurora ad Offida (AP). Questo è un gioiellino e basta. Perfetto, intrigante, complesso nei sentori gusto-olfattivi ma allo stesso tempo beverino. Anche qui riflessi verdognoli tipici del vitigno. Naso di mela verde, agrumi, fieno ed erbe aromatiche. Finale rinfrescante.
Facciamo un passo più a nord, sempre Marche. Stavolta quella del Verdicchio. Corrado Dottori di Cupramontana (AN). Azienda La Distesa, è in ritardo. Il banchetto è ancora vuoto. E allora ne approfittiamo per assaggiare i Verdicchio di La Marca di San Michele, che porta il Capovolto 2015 e il PassoLento 2014, in magnum. Capovolto 2015 è quello che non ti aspetti. Annata calda, siccitosa. Ma la vendemmia è stata anticipata di più di un mese, con inizio a fine agosto. E qui si trova la chiave di tutto. Qui non c’è macerazione e non c’è passaggio in legno.
Solo acciaio. E 8 mesi sulle fecce nobili. E’ un vino che esprime il varietale del Verdicchio. Da bere a secchi in estate. PassoLento 2014 è invece il fratello maggiore… inizia la fermentazione in acciaio poi passa in botti di rovere da 10 hl dove finisce la fermentazione e matura per 9 mesi sulle fecce fini. Poi attende altri 9 mesi in bottiglia. E’ molto più complesso e strutturato con un corpo caldo nonostante l’annata fresca, di 13% vol. Un vino che ancora deve evolvere.
Lasciamo le Marche e andiamo in Sicilia, regione rappresentata a La Terra Trema da ben 15 produttori. Nino Barraco e Marilena Barbera fanno da capofila. Barraco schiera una batteria di 10 e forse più vini in degustazione. Uno più buono dell’altro. Merita una nota particolare il rosso Milocca 2006 da vendemmia tardiva di Nero D’Avola. Una perla. Affinato in castagno da 205 litri per 24 mesi. C’e tutto: pepe, cacao, ciliegie, anice stellato. In bocca dolce e sapido, suadente. Tra i bianchi, non si può scegliere. Ognuno ha le proprie peculiarità. Il Catarratto, lo Zibibbo in secco, il Grillo. Sono tutti deliziosi. Acidità e sapidità la fanno da padrona, ma non coprono mai i varietali. Qui Nino Barraco ha trovato la giusta alchimia.
Da Marilena Barbera è facile perdere la testa. Per lei, per il suo amore per il proprio lavoro, per la sua terra. E per i suoi vini. Inzolia 2015 è quasi salmastro. E per Marilena questa è la chiave. Ammette infatti che il sale stimola le papille gustative e le rende più recettive ai sentori. Rendendo la beva molto più interessante e appagante. Ma da Marilena Barbera, quest’anno, c’è una sorpresa: l’Arèmi, blend con una piccola percentuale di Zibibbo. Vino imbottigliato quella stessa mattina, come racconta entusiasta la vignaiola, proprio per portarne un campione alla fiera. Niente vendita. Ma è facile immaginare che chiunque l’abbia assaggiato si sia appuntato il numero della cantina. Per ordinarne un bancale. Un vino che non puoi non amare: fresco, sapido, con quella nota aromatica dello Zibibbo di Menfi, nel sud più profondo.
Lasciamo Marilena Barbera ma rimaniamo in Sicilia. Per una scoperta. 2012 Etna Rosso – Eno-trio, Nerello Mascalese in purezza da vigne a piede franco in contrada Calderara. Versante nord-ovest dell’Etna. E’ amore a prima olfazione.
Età media delle piante: 80-90 anni. Rese da 600g/1kg per pianta. Siamo al top. Affinamento in tonneaux e barrique di secondo, terzo passaggio per 12-18 mesi, più altri 6 in bottiglia. Boom. Naso commovente, con frutto dolcissimo e speziato, ciliegia, china, noce moscata, carbone, fumo e questa dolcezza intossicante che fa pensare alle pesche mature.
Notevole, veramente notevole. Bocca (per fortuna) idem: il tannino morbido accarezza il palato, poi è dolce, setoso e lungo. Poi un Traminer Aromatico, da vigne a 1000m d’altezza sull’Etna. Anche qui siamo su rese bassissime, ma con densità di impianto leggermente superiore al Nerello. Vino elegante, aromatico, delicato. Con note floreali, fruttate e con sentori di spezie. Altra bel prodotto.
Risalendo lo stivale cadiamo nella tentazione di qualche bella bollicina. Di Lambrusco, però. Il vino giusto, per spezzare e preparare il palato ai rossi corposi. Denny Bini è un personaggio da amare. Un Emiliano Doc, di Reggio. La Rosa dei Venti lo puoi bere anche a colazione. Lambrusco varietà Grasparossa, rosato rifermentato in bottiglia. Macerazione di 2 ore senza controllo. Secco, leggermente amaro, con un accenno di tannino. Bellissimo. Ponente 270 Lambrusco dell’Emilia, “come lo si fa a Reggio”, ci racconta. Cinque giorni di macerazione, mischiando tutte le varietà di Lambrusco: Lambrusco Grasparossa, Malbo Gentile, Lambrusco Salamino, Lambrusco di Sorbara. Pieno, ma morbido. Libeccio 225, il suo Lambrusco, il Grasparossa. Qui siamo a 10 giorni di macerazione , il colore lo rivela. Rifermentato in bottiglia. Bel corpo e una bevibilità che non ti stanca mai. Un po’ come La Terra Trema. Imperdibile, l’anno prima. Come l’anno dopo.
Medico per vocazione e sommelier per passione. Mi sono poi riscoperto medico per passione e sommelier per vocazione. Sostieni il nostro progetto editoriale con una donazione a questo link.
“Scandalo epocale in grande distribuzione: gli spumanti Ferrari in promozione a 10 euro”. Ogni anno, di questi tempi, i soloni del vino italiano si svegliano dal letargo. E pontificano. Postando tarantiniane fotografie di supermercati. Immagini crude, da censura. Che mostrano sanguinolente scene del crimine: gli eleganti “astucciati” della nota casa spumantistica trentina, in promozione. Che shock. Roba pulp. Per cuori forti. Scene da vietare ai minori.
Almeno quanto i commenti che seguono le immagini. Teatro dello scandalo sono i vari gruppi di discussione creati su quei moderni bar e osterie che solo gli “studiati” chiamano “social network”. “Sarà qualche bancale dimenticato in cantina, ossidato naturalmente”, sostiene baldo, il più intelligente. “Soprattutto in vista del Natale, se non se lo compra nessuno, mi sa che fanno prima ad abbassare la serranda”, ribatte un altro analista di microparticelle atomiche.
“Ferrari vale dalla Linea Maximum in su, quella è gassosa”, chiosa il milionario che fa colazione con i Tarallucci della Mulino Bianco (oggi senza olio di palma, se vi fosse sfuggito) pucciati nel Dom Pérignon, appena sciabolato. E così via. Per sfortuna loro, qualcuno prova a farli ragionare, anche in osteria. Pardon, sui social network. Ma chi, meglio di Massimiliano Capogrosso, Direttore commerciale di Ferrari Trento, può mettere i puntini sulle “i” sull’eno-cinepanettone che ogni anno, sotto Natale, va in onda sui social?
Veronese, quarantanove anni, una passione per il mondo vinicolo che ha segnato anche la sua carriera. Capogrosso proviene infatti da altre importanti realtà venete del settore, prima Valdo e poi Bertani. E’ approdato alle Cantine Ferrari dieci anni fa, per ricoprire il ruolo di Direttore vendite. Maturando col passare del tempo un’esperienza che, un anno fa, ha convinto la Famiglia Lunelli a nominarlo Direttore commerciale.
Dieci domande, dieci, quelle che gli rivolgiamo. Domande a cui Capogrosso risponde con dovizia di particolari. Dimostrando che per Ferrari – al contrario di molti altri “big” – la Gdo, è tutt’altro che un tabù.
1) Ferrari in Gdo: perché? Da quando? Ferrari è il brindisi italiano per eccellenza, da sempre celebra appuntamenti istituzionali, sportivi e culturali tra più importanti del nostro Paese, così come i momenti più belli della vita di molti italiani. Vogliamo dunque che possa essere acquistato sia nel canale moderno che in quello tradizionale. E’ sempre stato così e ancora oggi l’azienda si impegna per dare a entrambi i canali distributivi la stessa importanza.
2) La gestione del “prezzo promo”: viene concordato di anno in anno con le varie catene, oppure si tratta di un’attività che prescinde dai contratti, gestita autonomamente dalle insegne?
Il Ferrari è uno di quei prodotti immancabili sulle tavole degli italiani durante le ricorrenze e spesso, dunque, viene utilizzato come “prodotto civetta”. E’ una scelta autonoma di ogni catena, che decide di impostare la propria campagna promozionale come ritiene più giusto per la sua clientela, a cui, in questo modo, può offrire un prodotto di altissima qualità a un prezzo davvero vantaggioso.
3) I volumi di Ferrari in Gdo In Italia la nostra presenza si distribuisce in egual misura tra Gdo e Horeca. Si tratta di due mondi diversi, ma per noi ugualmente importanti, con logiche di vendita differenti tra loro.
4) In Gdo quale “tipologia” di prodotti Ferrari? Provocazione: quelli di “serie b”? La regola imprescindibile di Casa Ferrari è quella di produrre solo prodotti di eccellenza, pertanto non parlerei assolutamente di prodotto di serie A e serie B. Basti pensare che la nostra referenza più classica, il Ferrari Brut Trentodoc è stato nominato recentemente “Miglior Blanc des Blancs al Mondo” a una competizione internazionale, tra le più importanti al mondo, dedicata solo alle bollicine: The Champagne&Sparkling Wine World Championships.
5) Ma le critiche arrivano sempre, puntuali e monocordi Come ricordavo prima, Ferrari è un prodotto leader di mercato, che spesso dunque le catene della Grande Distribuzione utilizzano per attirare il consumatore. Sicuramente quello natalizio è il periodo più “sfruttato” per questo genere di promozioni, ma non possiamo che vedere queste operazioni come un indicatore dell’importanza del nostro marchio.
6) Ferrari intende proseguire il rapporto con la Gdo, intensificarlo/allentare la presa? La politica commerciale delle Cantine Ferrari sarà quella di continuare a seguire con attenzione e uguale dedizione sia il canale Gdo sia il canale Horeca, in quanto riteniamo che entrambi siano fondamentali per il successo del nostro Gruppo.
7) Il ruolo di Ferrari nel panorama delle “bollicine” italiane ed europee Ferrari è leader del mercato delle bollicine in Italia, con 4,5 milioni di bottiglie vendute all’anno e un incremento a doppia cifra dal 2015. All’estero continuiamo a crescere da anni e senza dubbio questo ultimo dato è indicatore anche dell’incredibile incremento della notorietà e dei volumi di vendita delle bollicine italiane nel mondo. Il Trentodoc, la prima Doc nata in Italia esclusivamente per il Metodo Classico, rappresenta il 35% della produzione nazionale di questa tipologia di bollicine e può vantare la propensione all’export più elevata, il 22% ( dati 2015 dell’Osservatorio Trentodoc). Ferrari è certamente trainante nell’accrescere a livello internazionale la conoscenza di queste straordinarie “bollicine di montagna”, che nascono più di un secolo fa proprio dall’intuizione di Giulio Ferrari.
8) Ferrari in Gdo anche con vini rossi fermi: una panoramica dei prodotti “collaterali” alle bollicine E’ un’importante conferma che stiamo percorrendo la strada giusta. È opportuna però in questo caso una precisazione: i vini fermi trentini, toscani e umbri, non sono Ferrari (marchio dedicato esclusivamente alle bollicine Trentodoc), ma vanno sotto il marchio collettivo Tenute Lunelli. Si tratta comunque di un numero ridotto di bottiglie, il cui canale di distribuzione preferenziale è quello delle enoteche e dei ristoranti d’eccellenza, anche se può capitare di trovare alcune referenze in GDO.
9) Se la sente di dare qualche consiglio all’Oltrepò Pavese, patria del Pinot Nero, che prova faticosamente ad affermarsi e a diventare “grande”?
L’Oltrepò Pavese non ha sicuramente bisogno dei miei consigli, è un territorio di eccellenza e patria di grandi vini, ha solo bisogno di esprimere al meglio la sua personalità. Ogni territorio vocato alla produzione di vino ha delle caratteristiche uniche e irripetibili e proprio su queste credo sia necessario puntare: è la varietà la vera bellezza del nostro Paese.
10) Cosa beve a tavola, tutti i giorni, il direttore commerciale di Ferrari? Acquista vino al supermercato Personalmente acquisto vini anche al supermercato, spesso mi capita di acquistare persino il Ferrari, quando non mi trovo a Trento. Per una cena tra amici amo portare il Ferrari Demi-Sec, la nostra bollicina più amabile e dalla marcata rotondità: il Trentodoc perfetto per esaltare il fine pasto, dal dolce alla frutta. (foto gallery Archivio Fotografico Cantine Ferrari)
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
La Valtellina è una rinomata terra di vini rossi fermi, prodotti principalmente da uve Nebbiolo (localmente chiamato Chiavennasca), a partire da quelli da tavola – non complessi – fino ai grandi Sforzati, vini strutturati e di grande qualità. Cercando attentamente ci si può imbattere in produzioni davvero interessanti. Come questo spumante Metodo Classico Brut Rosé millesimo 2010 (sboccatura 2016) prodotto dalla Casa Vinicola Aldo Rainoldi, da un 92% Nebbiolo, un 4% di Pignola e un 4% Rossola (queste ultime uve assolutamente autoctone della lombarda Valtellina).
Il vino mostra una veste rosa con tonalità ramate vivaci e con bollicine discretamente fini. Il naso ha un’ottima intensità, con piacevoli profumi agrumati soprattutto di arancia rossa, di fragoline di bosco, note floreali dolci di fiori di arancio, con i classici sentori di crosta di pane da Metodo Classico e un intrigante sfondo di erbe aromatiche.
In bocca spicca la freschezza gustativa e una bella sapidità, con buona struttura e una morbidezza presente che da equilibrio, invogliando ad altri assaggi. Ottima persistenza, con aromi coerenti ai sentori olfattivi, soprattutto quelli agrumati.
LA VINIFICAZIONE Lo spumante Brut Rosé Rainoldi è prodotto da uve coltivate nei comuni di Ponte in Valtellina e Teglio, in vigneti situati tra i 600 e 730 metri sul livello del mare, esposti a sud e con terreno sabbioso-limoso derivato da rocce granitiche sfaldate. La vendemmia viene effettuata nella seconda metà di ottobre. Per ottenere il colore rosato sopra descritto, viene effettuata una veloce macerazione delle uve a freddo, con successiva pressatura. Il vino base rimane per qualche mese in acciaio a maturare e viene poi imbottigliato con i lieviti, con la quale ha inizio la seconda fermentazione e il seguente affinamento che si protrae per almeno 36 mesi.
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E’ il “Cru” di Casa Testa, il vino più “esclusivo”. Quello nato da vigneti che godono della migliore esposizione. Parliamo del Gutturnio Superiore Doc la Gobba, prodotto e imbottigliato all’origine dalla Casa Vinicola Cav. Italo Testa Snc di Castell’Arquato, in provincia Piacenza. Abituati dai supermercati – specie nel Nord Italia – a vini Gutturnio mossi, spesso venduti a prezzi risicati che ne denotano la scarsissima qualità, il passaggio a un Gutturnio Superiore, senza “effervescenza”, può costituire un’esperienza unica per i winelovers meno esperti. Una sorta di scoperta delle potenzialità di uvaggi spesso bistrattati, per logiche di commercio, come Croatina e Barbera. Chiariamo, innanzitutto, che al contrario dei “cugini effervescenti”, il Gutturnio Superiore Doc si presta a diversi anni di invecchiamento, proprio perché vinificato alla maniera dei grandi rossi italiani.
Sotto la lente di ingrandimento di vinialsupermercato.it finisce, di fatto, la vendemmia 2011. Tredici gradi e mezzo il titolo alcolometrico. Vino importante, dunque. Che si presenta nel calice di un rosso tra il rubino e il porpora, con riflessi granati. Al naso è schietto, mediamente fine: gli uvaggi si distinguono chiaramente, attraverso note che risultano pulite, nonostante il tempo trascorso in bottiglia. E’ il primo segnale della sublimazione di un prodotto storicamente “contadino” come il Gutturnio, vino della tradizione piacentina, che con il Superiore La Gobba si toglie di dosso le vesti polverose. E indossa la cravatta della domenica.
Al naso fa eco un palato di grande energia. Buona struttura, buon corpo. Con i profumi di ciliegia e prugna che si tramutano in gusto, giocando testa a testa con i fiori di viola e le note evolute di sottobosco (mirtillo, lampone maturo). Spazio, con l’ossigenazione, anche per terziari raffinati di vaniglia e cioccolato, avvolti al palato in tannini morbidi ma tutt’altro che spenti, uniti alla grande freschezza (e chi se l’aspettava, ancora?) conferita da un’acidità autorevole. L’idillio piacentino, da affiancare a importanti portate di carne rossa, dall’arrosto alla cacciagione, passando per la griglia. Alla temperatura dei grandi rossi: 18-20 gradi.
LA VINIFICAZIONE
Non è un caso se il Gutturnio Superiore Doc La Gobba della Casa Vinicola Testa viene prodotto solo nelle annate climaticamente fortunate. Quelle in cui il blend ottenuto al 70% da uve Barbera e al 30% da uve Croatina (Bonarda), garantisce i risultati migliori in bottiglia. I vigneti sono di tipo argilloso e calcareo, con esposizione privilegiata a Sud. L’allevamento a Guyot semplice. La tecnica di vinificazione prevede una pigiadiraspatura delle uve, accuratamente raccolte a mano, la fermentazione con lieviti selezionati in tini di acciaio a temperatura controllata e la macerazione per circa 20 giorni.
L’estrazione di colore, aromi e struttura tannica sono garantiti da rimontaggi giornalieri che evitano la creazione di sgradevoli sentori. L’affinamento si protrae per almeno 38 mesi, con passaggio di 4-6 mesi in botti di rovere di Slavonia, prima di un ulteriore affinamento in bottiglia che precede la commercializzazione. Ottimo vino, il Gutturnio Superiore La Gobba, dopo i 4-5 anni dalla vendemmia.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
(Leggi qui gli ultimi sviluppi della vicenda). Il fascino a stelle e strisce del “Black Friday” lascia il segno in Veneto. L’Auchan di Mestre è stato costretto al ritiro immediato di una partita di Amarone della Valpolicella. Il punto vendita della catena francese esibiva interi pallet del più nobile dei vini veneti, al prezzo shock di 8,49 euro per l’annata 2008.
L’etichetta incriminata è quella dell’Amarone della Valpolicella Doc Classico “Argento” di Vini S.C.I.C. Srl, riconducibile alla famiglia produttori Bixio, che controlla tra l’altro Poderi San Bonifacio, azienda distribuita da Mondello Wines Srl di via Villabella nell’omonimo Comune alle porte di Verona.
Tra gli avventori del supermercato, nel venerdì dei prezzi folli che in questo 2016 ha coinvolto anche il Belpaese, forse anche qualcuno interessato a documentare l’ennesimo schiaffo a una Denominazione già maltrattata in Europa e negli Stati Uniti.
Il vino, come dimostrano le foto pubblicate in esclusiva da vinialsupermercato.it, era in vendita al 50% rispetto al prezzo pieno. Immediata la segnalazione a Siquria, Società italiana per la qualità e la rintracciabilità degli alimenti Spa, l’organismo di certificazione riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole nato nel 2009 da un progetto condiviso dal Centro Vini Veneti (CE.VI.VE.), ente impegnato nell’attività di valorizzazione delle denominazioni di origine venete, con C.S.I. Spa, società leader nell’ambito della certificazione e della qualificazione dei sistemi di gestione della qualità e di prodotto, operante anche a livello europeo ed internazionale.
Le indagini sono tuttora in corso sul lotto ritirato e vedono coinvolto il Corpo Forestale dello Stato e la Guardia di Finanza. I militari dovranno stabilire la validità delle certificazioni, oltre alla fattura di vendita della partita di Amarone della Valpolicella al Gruppo Auchan Spa, che ha sede a Rozzano, nel Milanese. A destare sospetti è chiaramente il prezzo stracciato di Argento 2008. Meno di 9 euro risultano al limite del “sottocosto” e più comuni al costo di un Ripasso nella grande distribuzione organizzata. Le rese al 40%, i costi relativi all’affinamento, l’ammortamento, il packaging e i costi del capitale umano necessario alla distribuzione e pubblicizzazione del prodotto risulterebbero così compromessi.
“Non ci risulta di aver distribuito in Auchan alcun Amarone e non produciamo un Amarone denominato Argento”, è il commento di Davide Camarda, che esclude un interessamento della famiglia Bixio nelle operazioni in corso.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Dwight Stanford, un lavoro ce l’aveva. In America. Chirurgo generale. Apriva e ricuciva pazienti, nella sua clinica di Kansas City, Missouri. Poi, la svolta. Anche Antonella Lonardo, un lavoro l’avrebbe avuto. Una cattedra all’Università di Napoli. Docente ordinaria, dopo la laurea in Archeologia. Ebbene. Ci ha rinunciato. Ancor prima di cominciare. Il richiamo della terra è una questione di vita o di morte per i vignaioli Fivi. L’americano che molla tutto e si trasferisce a Offida, nella sperduta provincia di Ascoli. E l’avellinese che dopo tanti sacrifici sui libri capisce cosa vuole davvero: proseguire il cammino segnato dai genitori, titolari di un’azienda agricola ben avviata, a Taurasi. Storie di vino. Storie di vignaioli che, nel weekend scorso, si sono resi protagonisti del Mercato dei Vini della Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti (Fivi), nei padiglioni di Piacenza Expo, pronto ora allo storico sbarco nella capitale, Roma, il 13 e 14 maggio 2017 all’Eur.
“Sopra la stessa zolla. Sotto la stessa goccia. Nello stesso letame”: questo il messaggio lanciato dai viticoltori nel corso della sesta edizione della manifestazione, che ha chiuso con più di 9 mila ingressi la due giorni nel capoluogo emiliano (+50% rispetto all’edizione 2015). Citazione della retroetichetta delle bottiglie di Prosecco di Luigi Gregoletto, vignaiolo Fivi dell’anno. Un segnale forte, in un periodo in cui il vino e i vignaioli sono sotto accusa, in particolare nella zona di Conegliano-Valdobbiadene. In un’arena piena di colleghi il vignaiolo di Miane, premiato come Vignaiolo dell’anno, ha commosso i presenti con il suo discorso. Un inno alla terra e al suo rispetto.
“Dalla mia vita e dalle mie esperienze – ha raccontato Gregoletto – posso dire che la terra va rispettata, va amata, perché la terra è madre e sa ricompensare. Anche oggi che produrre molto è facile e produrre poco è altrettanto facile. Produrre equilibrato nel rispetto della terra, della sua conservazione e della qualità del prodotto, è molto più difficile. Ma sono convinto che questa sia la via da affrontare e sono altrettanto convinto che la terra non delude. La terra ti può fare meno ricco, ma sicuramente più signore”.
I MIGLIORI VINI DEGUSTATI Signori vini, quelli in degustazione al “Mercato” di Piacenza. I bianchi di Ermes Pavese, vignaiolo valdostano di Morgex, mostrano tutte le potenzialità del vitigno autoctono Prié Blanc. Il metodo classico Pas Dosé, 24 mesi sui lieviti si rivela complesso, sapido, minerale, di persistenza balsamica. Più pronto del Pas Dosé 18 mesi, ancora giovane, come evidenzia un’acidità spiccata e di prospettiva. Anche Nathan, il barricato di casa Pavese, è un buon compagno da dimenticare in cantina e riscoprire tra qualche anno.
Dalla Valle D’Aosta ci spostiamo in Friuli Venezia Giulia, dai Vignai Da Duline. La cantina di Villanova (Udine), visitata nelle scorse settimane da Angelo Gaja e dal suo staff, porta sugli scudi Malvasia Istriana e, soprattutto, Friulano Giallo: antico biotipo di Tocai, risulta meno produttivo ma più resistente alle malattie. Duecento ceppi in totale, che nelle annate migliori i coniugi Lorenzo Mocchiutti e Federica Magrini tramutano in magnum d’occasione. Memorabile la vendemmia 2015 di Giallo di Tocai, in degustazione: note speziate di zenzero e curcuma si legano a doppio filo ai terziari conferiti dal legno. Naso rigoglioso, cui fa eco un palato morbido, ricco, carico di vitalità. Da provare anche Morus Alba, unione tra i cru di Malvasia Istriana e Sauvignon che esprime l’idea di territorialità dei Vignai Da Duline.
Un passo più in là ecco Weingut Abraham. A presentarla Martin Abraham. Personaggio schivo, presenta in degustazione una batteria interessantissima. Tra i Pinot Bianco svetta la vendemmia 2013. Lungo periodo sulle fecce e due anni in botte seguono una raccolta dei migliori grappoli, da viti del 1955. L’acidità spiccata gioca con note esotiche che, tanto al naso quanto in bocca, spaziano dal mango alla banana. Un Pinot Bianco salino, che darà il meglio di sé nei prossimi due, tre anni. Solo 600 le bottiglie prodotte. Una vera perla.
Straordinario anche il Traminer 2014 di Martin Abraham. Meno aromatico di quanto ci si possa aspettare, spariglia le carte con un olfatto tipico e un palato che, al contrario, spinge maggiormente sulla mineralità. La vendemmia 2013 di Traminer è ancora più concentrata, ma conserva i medesimi tratti. Ottimi anche i rossi del vignaiolo altoatesino di Appiano (Bolzano). Upupa Rot 2013 è il blend tra Schiava (95%) e Pinot Nero (5%), vino “dritto” sulle acidità più che sulle note fruttate tipiche dei due vitigni. Sublime il tannino espresso, così come elegante risulta quello del 100% Pinot Nero 2013, timido in ingresso, pronto poi ad aprirsi sul classico bouquet di sottobosco.
Ecco dunque Edi Keber, friulano di Cormons, Gorizia. Il suo Collio 2015 è fresco e fruttato. In degustazione anche una più evoluta vendemmia 2012, che mostra tutta la potenzialità d’invecchiamento dell’uvaggio storico Tocai, Malvasia Istriana e Ribolla. Giallo dorato, naso minerale che richiama il terroir, frutta meno stucchevole e meglio bilanciata da un’acidità viva. “Un vino da aspettare”, come conferma al banco il giovane vignaiolo Kristian Keber.
Non poteva mancare la Lombardia, con una vera e propria “chicca”. E’ Bastian Contrario, 100% Trebbiano dell’azienda Lazzari di Capriano del Colle, provincia di Brescia. Novecentotrenta bottiglie, numerate. La vendemmia in degustazione è la 2014. Giallo dorato, naso di miele millefiori e tipica nota botritica. Al palato pieno, sapido ed elegante. Morbido, nonostante l’acidità spiccata. Fondamentali i diradamenti dei tralci di Trebbiano, in vigne di età superiore ai 20 anni. “L’obiettivo – spiega Davide Lazzari – è quello di ridurre il carico produttivo fino a non più di 60 quintali di uva per ettaro: si spinge così sulla surmaturazione con vendemmia tardiva a fine ottobre. Attendiamo dunque l’attacco botritico, che contribuisce a un’ulteriore concentrazione delle rese. Il 50% del mosto fermenta direttamente nella barrique in cui resterà in affinamento per 12 mesi”. L’abbinamento perfetto? Quello con i formaggi grassi delle valle Orobiche.
Ecco dunque l’incontro che non t’aspetti. Quello con Ps Winery di Offida, Ascoli Piceno. Una cantina a metà tra le Marche e gli Stati Uniti d’America. Chiedere per credere ai due soci fondatori, Raffaele Paolini e Dwight Stanford. Galeotto fu il master di Scienze Gastronomiche organizzato da Slow Food del 2006, presso la Reggia di Colorno. I due si conoscono lì e la passione per il vino fa il resto.
“Dopo 25 anni di lavoro in clinica ero un po’ stanco – spiega Dwight (nella foto con la moglie, conosciuta al Bravio delle Botti di Montepulciano) – volevo un anno sabbatico. Ho deciso così di aderire al master di Slow Food. Mi avevano assicurato che tutte le slide sarebbero state in inglese. Ma quando sono arrivato, mi sono reso conto che non era così! Passavo i pomeriggi a tradurre i pochi appunti, studiando su Internet cosa fosse esattamente, per esempio, il Parmigiano Reggiano. Proprio in quei giorni mia madre è venuta a mancare e ho deciso di reinvestire l’eredità, assieme ai soldi che avevo messo da parte in tanti anni di lavoro, nell’acquisto di alcuni terreni, assieme al mio compagno di corso Raffaele”. I due scelgono i cloni, le varietà. E trasformano interi campi coltivati a erbe mediche in vigna. “Il primo anno è stato fantastico – ammette Dwight – anche se abbiamo dovuto mandare via l’enologo. A quello poi ho ovviato io, laureandomi in enologia”.
Da provare l’Incrocio Bruni 54 di Ps Winery, dal prezzo strabiliante di 10 euro (in cantina). Si tratta del risultato dell’incrocio, per impollinazione, di Verdicchio di Jesi e Sauvignon Blanc. “Una pianta legnosissima – spiega Raffaele Paolini – tutt’altro che elastica, già a maggio. Delicatissima nel periodo della fioritura, ha un grappolo spargolo”. Solo 14, in tutta la regione, le cantine che lo allevano. Ps Winery ne ha 1.500 ceppi, distribuiti su un quarto di ettaro. Di colore giallo paglierino con riflessi dorati, il Marche incrocio Bruni 54 Igt di Ps Winery richiama il Verdicchio e la sua carica minerale, al naso. Al palato è un concentrato di struttura e di calore, ben espresso dagli oltre 15 gradi di percentuale d’alcol in volume. La sapidità è il secondo tratto distintivo del magnifico terroir Marche, espresso anche in questo Incrocio.
Di Ps Winery splendido anche il Syrah 2013 (24 mesi tra barrique e tonneau). Ai frutti rossi maturi rispondono a livello olfattivo percezioni floreali di viola, che poi lasciano spazio a complessi terziari di vaniglia, tabacco, liquirizia. Non manca uno spunto vegetale, che richiama la macchia mediterranea (alloro, rosmarino). Di grande freschezza in ingresso, rivela al palato la potenza (elegante) di un tannino ben bilanciato che nobilita la beva e chiama il sorso successivo. Ancora verde il tannino del Montepulciano 2011 Igt di Ps Winery: altro prodotto di assoluto valore, ma da attendere.
Rimaniamo nelle Marche per scoprire un altro vignaiolo che ha fatto della sperimentazione il proprio credo. E’ Giuseppe Infriccioli dell’Azienda agricola biologica Pantaleone, che lascia a bocca aperta con il suo Bordò. Si tratta di un biotipo storico appartenente alla famiglia dei Grenache. Utilizzato in purezza (100%), dà vita all’Igt Marche Rosso La Ribalta, di cui apprezziamo in particolare le vendemmie 2012 e 2010.
Di colore rosso rosso granato intenso, impenetrabile, si rivela speziato al naso: alle note fruttate rosse fanno da preponderante contorno liquirizia, chiodi di garofano, ginger e una spruzzata di pepe nero. Il tannino è presente, ma non disturba la beva in una vendemmia 2012 che, a conti fatti, risulta di grande eleganza e avvolgenza, anche nel finale tendente nuovamente al fruttato. Più complessa, come da aspettative, l’evoluzione della vendemmia 2010. Naso e bocca tendono al peperone verde e al cetriolo sotto aceto. Tutt’altro che un difetto, anzi: vino da provare, almeno una volta nella vita, per accompagnare grigliate, stufati, arrosti, brasati, cacciagione e selvaggina, nonché formaggi stagionati.
E’ di Contrade di Taurasi – Cantine Lonardo, provincia di Avellino, l’ultimo vino che segnaliamo tra i migliori assaggi al Mercato dei Vini Fivi 2016. Ventimila bottiglie la produzione totale della cantina oggi condotta in regime biologico dall’ex archeologa Antonella Lonardo, avviata dal padre Alessandro Lonardo e dalla madre Rosanna Cori: lui professore di Lettere in pensione e sommelier, lei insegnante di educazione Tecnica a Napoli. Cinque ettari, coltivati prettamente ad Aglianico. Ed è proprio un Taurasi Docg a centrare nel segno. Si tratta del cru Coste, vendemmia 2011.
Vino elegante, maestoso, che esprime tutta la magnificenza del grande vitigno avellinese. Difficile non pensare a una ricca tavola imbandita, sorseggiandolo a Piacenza: perfetto l’abbinamento con piatti elaborati a base di carne (dal brasato alla selvaggina) o accostato a formaggi stagionati. “L’annata 2016 è stata dura – commenta Rosanna Cori – le piogge ci hanno fatto temere addirittura per l’intero raccolto. Abbiamo vendemmiato quasi grappolo per grappolo, non appena compariva un po’ di sole. Il nostro enologo si è meravigliato quando ha visto le condizioni perfette delle uve condotte in cantina”.
Contrade di Taurasi produce vino ma svolge anche un ruolo sociale ed educativo nell’avellinese, nell’indole dei suoi fondatori. “Ogni anno ospitiamo un tirocinante dell’Università di Palermo – evidenzia ancora Rosanna Cori – che può formarsi al fianco del nostro piccolo staff scientifico, di cui fanno pare il professor Giancarlo Moschetti e il professor Nicola Francesca, microbiologi dell’Università di Palermo”. Loro il merito di aver estratto i lieviti indigeni che rendono così unici i vini di Cantine Lonardo, capace – se non bastasse – di recuperare anche un vitigno abbandonato come il Grecomusc, unico bianco di questa validissima realtà avellinese.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Avevamo un po’ dimenticato i vini sardi, per lasciarci conquistare da qualche bianco del nord-est o qualche rosso del sud-est. Ma siamo sempre pronti a scoprire nuove realtà enologiche come il Vermentino di Sardegna Doc Don Giovanni, prodotto dalla cantina sociale di Mogoro. Alla vista si presenta di un colore giallo intenso che richiama il dorato, con una limpidezza e una brillantezza molto apprezzabili. L’esame olfattivo è spiazzante, in positivo. Sentori di passion fruit e banana si mescolano a quelli di fiori di sambuco.
Quindi note di frutta e floreali che non ci saremmo aspettati in questo vermentino, che fa tornare alla mente qualche buon Sauvignon, dai profumi bilanciati e gradevoli. La prima sensazione che si avverte in ingresso, al palato, è il gran corpo del Vermentino di Sardegna Doc Don Giovanni. Naturalmente fa seguito una sapidità spiccata e molto percettibile, che sconfina nella mandorla e accompagna un pizzico di balsamicità, data da sentori di zenzero.
LA VINIFICAZIONE
Questo vino nasce nei vigneti del Don Giovanni del comune di Mogoro, in provincia di Oristano, che si sviluppano su una superficie sia collinare sia pianeggiante, su un suolo mediamente calcareo alternato a sabbie quaternarie. Il clima nel quale la vite si sviluppa è ovviamente mediterraneo, con inverni miti ed estati calde, mitigate da un vento salino di Maestrale. La raccolta delle uve avviene manualmente, con un ammostamento condotto entro poche ore dalla vendemmia. Dopo una breve macerazione pellicolare, la vinificazione prosegue evitando il contatto con l’ossigeno, per preservare le caratteristiche gusto-olfattive del vitigno. Continui battonage in serbatoi di acciaio accompagnano per 40 giorni la fermentazione.
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
(4 / 5) Fa parte della linea “Pasqua Indipendents” la Lugana Doc 2015 Villa Borghetti. Sotto la lente di ingrandimento di vinialsupermercato.it uno dei prodotti ‘base’ della nota cantina di Verona. Un vino che offre il meglio di sé nei primi 2-3 anni dall’imbottigliamento.
LA DEGUSTAZIONE
Nel calice, la Lugana Doc 2015 Villa Borghetti si presenta di un giallo paglierino limpido, trasparente, di intensità chiara e consistenza scorrevole.
E’ al naso che offre il meglio di sè. Note floreali e fruttate fresche si confondono amabilmente con una profonda vena minerale, salina. Sullo sfondo, con l’ossigenazione, si elevano sentori di camomilla di campo che ben si abbinano alle iniziali percezioni di albicocca e fiori di mandorlo. Al palato la carica dello iodio, classico sale da cucina, mostra tutte le potenzialità del terreno dal quale è ottenuta questa Lugana. Un sapore secco ma avvolgente. E un’acidità che dona freschezza alla beva, chiamando il sorso successivo.
Non solo mineralità per questo prodotto targato Pasqua Vigneti e Cantine Spa che mostra correlazione tra olfatto e gusto, ripetendosi nelle note di frutta a polpa gialla. Il finale, sempre tendente al sapido, rivela un risvolto amarognolo, tipico della mandorla. La Lugana Doc 2015 Villa Borghetti, alternativo aperitivo, si abbina ad antipasti, primi piatti leggeri, secondi di pesce o carne bianca e alle verdure. La temperatura di servizio ideale è di 10-12 gradi.
LA VINIFICAZIONE I vigneti che danno vita a questa Lugana sono situati a sud del Lago di Garda, fra l’omonimo Comune di Lugana e Sirmione. Il terreno, di natura calcarea-argillosa, è prevalentemente pianeggiante verso il lago e collinare nella parte sud. Le uve utilizzate sono quelle autoctone di Trebbiano di Lugana, in purezza (100%). La vinificazione prevede, in seguito alla pigiatura, una macerazione a freddo per 6-8 ore. Il mosto che se ne ottiene viene poi decantato. Il prodotto, parzialmente illimpidito, viene fatto fermentare con lieviti selezionati alla temperatura controllata di 16-17 gradi. A fine fermentazione il vino decantato viene conservato in serbatoi di acciaio a 10-12 gradi. Segue, dopo la stabilizzazione, l’imbottigliamento.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Se glielo chiedi, la prende alla larga. Ti parla delle “tante porte prese in faccia negli anni scorsi” e, sopratutto, del “cambio di mentalità degli importatori”. Tutte cose vere. Ma se il Ruchè di Castagnole Monferrato, minuscola e giovane Docg piemontese, è oggi conosciuto (e apprezzato) in tutto il mondo, gran parte del merito va a Luca Ferraris, titolare dell’omonima “Agricola” di località Rivi, 7. Reduce da una full immersion in Oriente, su e giù da un aereo all’altro – dall’Hong Kong International Wine and Spirits Fair a Bangkok, passando per Singapore – Luca Ferraris è impegnato in cantina quando squilla il telefono.
“E’ stato un tour molto impegnativo ma anche molto soddisfacente – commenta il viticoltore -. Sono ormai 8-9 anni che bazzichiamo quei mercati e abbiamo sempre avuto dei problemi. Ci chiedevano stupiti se in Italia ci fosse il vino, abituati com’erano a bere esclusivamente francese, fino al 2008. Nel tempo siamo riusciti ad affermarci, in generale come vino italiano. Oggi, addirittura, incontriamo importatori che ammettono che stavano cercando, tra tutti i vini, proprio il nostro Ruchè”. E’ cresciuta la consapevolezza del cliente orientale o sono migliorati i piemontesi esportatori? “Direi entrambi – risponde Ferraris -. Noi ci abbiamo dato dentro a testa bassa, senza mai mollare. Ma anche gli importatori iniziano a capire il vino. Abbiamo assistito a una scrematura incredibile nelle importazioni. Fino a cinque o sei anni fa, qualsiasi corporate acquistava vini perché era chic e di moda. Oggi, chi compra sa dove rivenderlo. E ripete gli ordini, cosa che non succedeva in passato, quando assistevamo a sterili ordini a spot da parte di aziende sempre diverse”.
Sono lontani, insomma, i tempi in cui il Piemonte esportava esclusivamente Moscato, Malvasia e Barbera modern style. Del resto, il Ruchè si presta deliziosamente alla cucina asiatica. “La cucina asiatica di alto livello, quella ‘stellata’ – precisa Luca Ferraris – è il cliente potenzialmente più interessato al nostro prodotto. Un vino così aromatico e speziato si abbina benissimo ai piatti orientali, soprattutto se fusion. Poi non bisogna dimenticare che la cucina italiana, nel mondo, la fa da padrona”.
Anche a Bangkok, mega regione urbana in cui si condensano 30 milioni di persone. “Basti pensare – continua Ferraris – che l’imprenditore thai, oggi, investe in cuochi e chef italiani per aprire ristoranti tricolore nella capitale della Thailandia. Perché va di moda, ma anche perché a Bangkok, effettivamente, è pieno di italiani. Il Made in Italy, in particolare quello del food, sta tirando moltissimo. E il vino segue questa scia. Se da un lato, in questi mercati, la forbice tra ricchi e poveri si sta aprendo sempre di più, dall’altro è consistente, numericamente, la classe media che ha voglia e coraggio di investire”.
I NUMERI DEL RUCHÈ La Docg di Castagnole produce, ad oggi, 800 mila bottiglie scarse. Ferraris, nel 2017, punta a 130 mila bottiglie. Circa il 20% della produzione totale. “L’Export – spiega il titolare – riguarda il 65-70% della produzione del nostro Ruchè. Nonostante questo, la denominazione non esporta più del 30%. Rimane comunque salda la posizione sul mercato italiano, come riferimento. Noi, come azienda, puntiamo invece a esportare il 55% della nostra produzione totale all’estero, con punte del 70% per il Ruchè, mentre ad oggi ci assestiamo sul 45%. All’inizio vendevamo bottiglie a 13 euro che venivano rivendute a 400 euro all’estero. Il prezzo del Ruchè base si assesta adesso sui 9-10 euro, mentre il top di gamma tocca quote di 19-20 euro. Rivendute rispettivamente a 25 e 50 euro”.
“A livello di comunicazione – precisa Ferraris – il Consorzio ci ha dato la possibilità di partecipare a fiere di settore, in gruppo. Dunque, avanzandone. Direi che siamo stati bravi noi, dal punto di vista della comunicazione aziendale. Su mercati così lontani, vale più l’iniziativa del singolo. Nella produzione del Ruchè, poche aziende sono in grado di fare investimenti tali, anche a livello chilometrico, da Castagnole Monferrato. La degustazione in Svizzera è un discorso. Le fiere a Hong Kong, piuttosto che in Giappone o negli Stati Uniti, sono un’altra storia. Ci va una massa critica che consenta tali investimenti”.
Un futuro luminoso, dunque, quello del Ruchè. “Spero che continui la crescita registrata in questi anni – ammette Luca Ferraris – e, anche se mi guardano tutti con gli occhi sbarrati, la Docg potrebbe puntare a produrre nel 2017 un milione di bottiglie prodotte, mantenendo una qualità molto elevata”. Basti pensare che la Ferraris, il prossimo anno, volerà da 80 a 130 mila bottiglie. Con un incremento, entro il prossimo febbraio, da 16 a 26 ettari vitati a Ruchè (passando da 33 a 43 ettari complessivi), sui 136 ettari totali della denominazione.
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Ci avviciniamo a un vitigno che da sempre affascina i winelovers e che sta vivendo un periodo di grande interesse e studio: il Nebbiolo delle Langhe, uno dei grandi vitigni italiani, capace di regalare grandi bottiglie nelle sue migliori annate. In particolare, sotto la lente di ingrandimento di vinialsupermercato.it finisce il Langhe Nebbiolo Doc 2013 Filari Corti dell’azienda Agricola Brandini di La Morra, Cuneo.
Nel calice il vino si presenta di un colore rosso rubino luminoso, con lievi riflessi granati. Archetti ben evidenti in seguito alla rotazione, non celano una buona scorrevolezza. Il naso è molto intrigante, con note di spezie e noce moscata.
L’amarena accompagna questo ricco bouquet, avvolto in sentori di salvia e pepe nero. Passiamo poi alla parte gustativa: una beva fresca colpisce il palato, assieme a una buona sapidità. Troviamo poi un tannino che ben si fa apprezzare, sulle note di ribes. Un palato di buona persistenza, che si arricchisce di alcuni sentori tendenti al fungino. Il retrogusto è quello tipico del vitigno, con confettura di frutti rossi che accompagnano la bella esperienza gustativa.
LA VINIFICAZIONE
L’azienda Agricola Brandini di La Morra ha sposato un progetto giovane e biologico per la produzione dei propri vini, tutti classici delle Langhe: dal Barolo al Nebbiolo, passando per Barbera e Dolcetto. Tutti aderent ai principi di “Vino libero”. In questo caso il Nebbiolo Filari Corti segue una vinificazione in vasche d’acciaio a temperatura controllata. Il vino matura per 12 mesi in grandi botti di rovere francese.
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Ci sono bottiglie di cui t’innamori al primo sorso. E ce sono altre di cui, poi, non faresti più a meno. Questa è la storia di un vino da avere sempre in cantina. Magari a partire dalle prossime feste di Natale. E’ la storia del Pinot Nero Metodo Classico Pas Dosé Roccapietra Zero, di Cantina Scuropasso (Scorzoletta di Pietra dè Giorgi, Pavia). Quarantotto mesi sui lieviti per questo spumante dell’Oltrepò Pavese, privo di dosaggio zuccherino. Una di quelle etichette che, calice tra sorso e olfatto, ti portano con la mente altrove. Magari ai banchi di una degustazione alla cieca, dove – ne siamo certi – si mimetizzerebbe al cospetto di una batteria di Champagne. Già, lo Champagne. Quel prodotto che ci fanno pagare caro, tanto in enoteca quanto al supermercato. Ma che, in realtà, in Francia, si porta a casa con poche decine di euro.
Piccole produzioni di piccoli vigneron, capaci di assicurare (ma solo al consumatore più attento e, soprattutto, curioso) “poca spesa e tanta resa”. Non a caso l’Oltrepò e l’area dello Champagne si trovano tra il 40° e il 50° parallelo, l’area più prolifica al mondo per la viticoltura, in termini di qualità. E allora è impossibile non accostare seriamente questo Metodo Classico di Pinot Nero oltrepadano alle produzioni francesi. Anche perché – udite, udite – questa bottiglia si mette in frigorifero (quello di casa propria) per soli 10-12 euro. Come lo Champagne dei vigneron.
Di francese, il produttore Fabio Marazzi – un omone tanto grande quanto buono – ha l’eleganza e l’educazione, che poi trasferisce al proprio vino. Un vino, lo immaginiamo, coccolato grappolo per grappolo, in vigna, prima e durante la vendemmia. E pupitre dopo pupitre, in cantina. Coccole e parole: Marazzi deve proprio essere uno di quei viticoltori che parlano alle bottiglie. Amore e umiltà. Due vitamine che sembrano trasferite in purezza nel Pinot Nero Metodo Classico Pas Dosé Roccapietra Zero di Cantina Scuropasso.
Il colore, nel calice, è quello della paglia d’un fienile, su cui una nobile lussuriosa deve aver smarrito polvere d’oro, distratta dal mugnaio. Il perlage è meravigliosamente fine e persistente. Le catenelle riluccicano come gli ornamenti natalizi delle città del Nord Europa: ordinate, precise. In un contorno di limpidezza brillante.
Al naso la schiettezza del Pinot Nero, spiccata, penetrante. Capace di assumere tinte balsamiche, con l’aiuto dell’ossigeno. Al palato una freschezza invidiabile (sboccatura 6/14), lunga, che accompagna un finale al contempo minerale e (nuovamente) velatamente balsamico. Il compagno perfetto, a tavola: quello che riesce ad essere formale, se gli viene richiesta la compostezza, la struttura e la complessità degna di portate sublimi. Ma allo stesso tempo – poliedrico Metodo Classico come pochi – la capacità di scendere in gola facile, semplice, tutto sommato beverino (merito della straordinaria freschezza). La bollicina di Natale. La bollicina dell’Oltrepò della qualità.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Trecentoquarantamila bottiglie. Si assesta su queste cifre la produzione di vino novello da parte di Cavit, Cantina Viticoltori del Trentino. Cifre in decremento. Così come in picchiata risultano, su scala nazionale, le vendite di vino novello. Una crisi senza fine, quella del corrispettivo italiano del Beaujolais nouveau francese. Il primo nettare della vendemmia, ottenuto (almeno parzialmente) mediante macerazione carbonica, ha perso il fascino di 10 anni fa. In Italia se ne producevano 10 milioni di bottiglie. Oggi 2 milioni. Il minimo storico, come sottolinea la stessa Coldiretti.
“Indubbiamente – spiega Susi Pozzi, direttore Marketing Italia di Cavit S.C. – il mercato del Novello negli anni ha subito un ridimensionamento, sia dal punto di vista delle bottiglie totali sia del numero di produttori. E’ un prodotto che ha raggiunto la fase di maturazione e declino. Le motivazioni sono diverse: un calo generalizzato del consumo di vino, la perdita ‘dell’effetto attesa’, dopo la modifica della data del cosiddetto ‘deblocage‘ del 6 novembre, una costante rincorsa all’anticipo del Natale che ha eroso ‘spazio/tempo’ alla vendita di questo prodotto, in particolare nel canale Gdo”.
Eppure, per Cavit, la produzione di vino novello rappresenta un segmento importante. “Il nostro novello Fiori d’Inverno è leader nel canale Gdo – precisa ancora Pozzi – mentre Terrazze della Luna è dedicato al canale Horeca. Il novello, per Cavit, rappresenta ancora un prodotto importante, che sosteniamo con eventi ad hoc per comunicare al consumatore e agli opinion leader la peculiarità dell’uva Teroldego, particolarmente adatta alla tecnica della macerazione carbonica, oltre alle caratteristiche distintive dei nostri Novelli”.
IL NOVELLO DI CAVIT L’Igt Vigneti delle Dolomiti “Fiori d’Inverno”, destinato ai supermercati, è un vino di pronta beva, preparato e proposto al consumatore già un mese dopo la fine della vendemmia. La zona di produzione è il Campo Rotaliano, nei comuni di Mezzolombardo, San Michele all’Adige e tra le colline coltivate a vite di Roverè della Luna. In particolare, “Fiori d’Inverno” nasce dalle uve di due vigneti autoctoni trentini: Teroldego e Schiava Gentile, che contribuiscono al blend rispettivamente al 70 e al 30%.
La tecnica usata per la vinificazione del Teroldego è la macerazione carbonica: le uve, perfettamente sane e mature, vengono fatte sostare intere e non pigiate in tini di acciaio inox in ambiente saturo di anidride carbonica. Durante questo periodo avviene la fermentazione intracellulare con estrazione delle sostanze aromatiche più delicate presenti nella buccia. Dopo qualche giorno l’uva viene pressata e il mosto fatto fermentare a temperatura controllata. Unito alla Schiava gentile (che dunque non subisce macerazione carbonica) viene poi sottoposto a un breve affinamento in tini di acciaio inox, prima dell’imbottigliamento e della commercializzazione. Dati analitici: alcool 11,50% vol., acidità totale 4,8 g/l, estratto secco netto 26 g/l, zuccheri residui 7 g/l.
Caratteristiche organolettiche: colore rosso rubino, vivo e brillante. Profumo netto, marcatamente fruttato con sentore di lampone e fragola tipico dei vini ottenuti in macerazione carbonica. Sapore secco, piacevolmente equilibrato, di corpo leggero, ma elegante e vivace. Temperatura di servizio: 12-14° gradi.
Il Novello di Teroldego Igt Vigneti delle Dolomiti “Terrazze della Luna” è vinificato e proposto al consumatore appena dopo un mese dalla vendemmia. “A torto – spiega Susi Pozzi – per la sua giovinezza, è considerato di ‘relativa’ qualità: è invece il frutto di un’attenta selezione delle uve, di una raffinata tecnica enologica e di un efficiente servizio al consumatore più curioso”. La zona di produzione è sempre quella del Campo Rotaliano in Trentino, ossia l’area vitata delimitata dalle Borgate di Mezzolombardo, Mezzocorona e San Michele all’Adige, collocata lungo i fiumi Adige e Noce. “L’esperienza – evidenzia Pozzi – ha dimostrato che il vitigno più adatto all’elaborazione del vino Novello è l’autoctono Teroldego, opportunamente selezionato e vinificato in purezza. La particolare resistenza ‘meccanica’ della buccia consente di mantenere integri gli acini durante la prima fase di vinificazione in macerazione carbonica delle uve intere. Particolare questo molto importante per i processi enzimatici che avvengono in questa prima fase all’interno dell’acino e che conferiscono al vino quel particolare sentore fruttato e fresco, tipico del novello”.
Il metodo di elaborazione è quello della macerazione carbonica. I grappoli maturi e perfettamente sani vengono posti interi, e non pigiati, in piccoli tini di acciaio inox. La macerazione in ambiente chiuso, in totale assenza di ossigeno, favorisce l’estrazione delle sostanze aromatiche e coloranti dalle bucce. Dopo alcuni giorni si passa alla pigiatura delle uve, avviando il mosto alla fermentazione a temperatura controllata. Un breve affinamento in recipiente d’acciaio inox precede imbottigliamento e commercializzazione.
Caratteristiche organolettiche: colore rosso rubino, vivace e brillante; profumo netto con marcato sentore fruttato che ricorda i frutti di bosco e in particolare il lampone. Sapore fresco, armonico, delicato e piacevole. Dati analitici: alcool 12,00% vol, acidità totale 5 g/l, estratto netto 26 g/l, zuccheri residui 6 g/l. Temperatura di servizio: 12-14° gradi.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
(1,5 / 5)Nella giungla dei vini al supermercato è facile perdersi. E’ ancora più facile perdere la rotta quando ci si addentra nel tortuoso mondo dei vini francesi del supermercato. Ma la bussola impazzisce, letteralmente, sul Riesling Réserve 2014 Pierre Sparr. Doveroso sottolineare, in primis, che non si tratti di un prodotto “Aoc”, ovvero d’Appellations d’origine contrôlée, il corrispettivo transalpino della “Doc” italiana. Bensì di una semplice Appellation Alsace Contrôlée: formula con la quale viene genericamente identificato il vitigno alsaziano utilizzato per la produzione, in questo caso il Riesling. Un prodotto, dunque, che già di per sé rappresenta l’ombra dell’originale. E a questo punto, ad Esselunga, andrebbe chiesto perché inserire in assortimento un prodotto francese di “serie b”, peraltro a un prezzo non certo alla portata di tutti? Forse, la risposta sta sull’etichetta posteriore: in quell’analisi altisonante del Riesling Riserva Pierre Sparr, che a noi di vinialsuper pare…davvero nulla di che.
Quantomeno, raccomandiamo – per l’ennesima volta – agli addetti del supermercato di “girare le annate” e di trattare la corsia del vino come quella dei biscotti (già, perché anche il vino “scade” se è di bassa qualità, o se è prodotto con vitigni non adatti all’invecchiamento, o se è stato ‘turato’ con sugheri economici). Sul banco dove preleviamo questo Riesling, di fatto, sono presenti due annate. La 2014, che scegliamo per la nostra degustazione. E la 2013, dimenticata sul fondo dello scaffale: bottiglie piene di polvere e “liquido” visibilmente “ridotto” all’esame del collo della bottiglia, rispetto alla “sorella” 2014.
L’ANALISI DI VINIALSUPER
La domanda che continua a frullarci nella testa, mentre sorseggiamo questo…”Riesling Alsaziano Riserva”, è: perché? Perché? Dell’eleganza e della finezza dei Riesling d’Oltralpe, neppure l’ombra. Questo Pierre Sparr – a proposito: maison prestigiosa, la cui storia affonda le radici nell’anno 1680, a Beblenheim, in Alsazia per l’appunto – sembra piuttosto un vino di montagna, di quelli che servono in brocca nelle osterie.
Mancano, al naso, i caratteristici spunti di frutta a polpa bianca e di agrumi, mentre risaltano con una certa insistenza i soli fiori bianchi freschi. Sembra quasi un Gewurztraminer base, quando spunta invece, con l’ossigenazione, qualche richiamo olfattivo dolciastro, che ricorda il miele. Desaparecidos i sentori minerali, vera e propria “firma” della straordinaria Valle del Reno, di cui il Riesling alsaziano è simbolo. Al palato, struttura scarsa, monocorde, fruttata fresca. E, anche qui, nemmeno l’ombra della mineralità che si potrebbe (dovrebbe?) attendere dal vitigno. Consigliamo questo vino a tutto pasto. Degli altri.
LA VINIFICAZIONE
Apprendiamo dal sito web dell’importatore e distributore “esclusivo” del Riesling Riserva Pierre Sparr, la Boldrini Import Export di Roma, alcune informazioni sulla tecnica di vinificazione. Si tratta, come atteso, di un Riesling in purezza, ottenuto da vigne dell’età media di 26 anni. La vendemmia è condotta sul finire del mese di ottobre. La fermentazione avviene poi a temperatura controllata, con successivo riposo sulle fecce fini: un’operazione volta a favorire l’aromaticità del prodotto. Da apprezzare la schiettezza con la quale l’importatore descrive i sentori fruttati e minerali di questo Riesling Alsaziano, parlando di semplici “reminiscenze”. Chapeau.
Prezzo pieno: 7,19 euro
Acquistato presso: Esselunga
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Sembra di viverle di persona, quelle scene. Da testimoni oculari. Seduti a quello stesso tavolo, negli anni Settanta. E’ l’ora di cena, in casa Tognazzi. Papà Ugo versa un dito di rosso nel bicchiere di un giovanissimo Gianmarco. Lo invita a bere. E gli insegna così, mentre lui strabuzza gli occhi per quel sapore nuovo, che quel nettare “arriva dalla terra”. Al pari dell’insalata. E dell’olio degli ulivi. “Tutto ciò che può darci la terra dobbiamo produrlo in famiglia”. Parole che lasciano il segno. Come una profezia.
Il vino de La Tognazza Amata, l’impresa vitivinicola dell’attore e regista Gianmarco Tognazzi, figlio del compianto “mostro” della commedia all’italiana, sbarca nei salotti della Milano “bene”. E lo fa con un coup de theatre. Già, perché il neo viticoltore romano ha le idee chiare: la supercazzola enologica di Tognazzi junior è indirizzata alla viticoltura italiana, “che ha stufato con le sue etichette tutte uguali”. Quella che a prima vista può sembrare una boutade radical chic, si trasforma presto, nel calice – e dove, altrimenti? – in qualcosa di concreto. I vini de La Tognazza Amata reggono il palco. Ammaliano. Vanno oltre l’apparenza. Insomma: convincono tutti. Chi più, chi meno. Anche perché spaziano dal bianco beverino e “piacione” al rosso importante, in grado di prestarsi all’invecchiamento.
Gianmarco Tognazzi, al decimo piano del Brian&Barry Building di via Durini 28, zona San Babila – due passi dal Duomo di Milano – schiva con sarcasmo i fotografi da baraccone, che lo vorrebbero in pose plastiche a mostrare un calice del suo vino: “Che me fate fare? Er bicchiere si tiene con una mano sola, non con due! Mica voglio farmi dire che faccio il vino e non so manco come berlo!”. A bocce ferme, capisci che il punto è proprio questo. Gianmarco Tognazzi si presta allo show, da uomo di cinema e di teatro qual è. Ma scrive lui, la trama. Un testo nel quale deve sembrare credibile – e lo sembra – come uomo e come viticoltore, prima ancora che come imprenditore che s’affaccia sull’impervio territorio del vino italiano. Il battesimo milanese di “69”, “Tapioco”, “Come se fosse” e “Antani”, i (primi) quattro vini prodotti dai 35 ettari che rispondono all’indirizzo di via Colle Ottone Basso 88 Velletri, Roma, deve far sorridere. Ma anche riflettere.
DA “AMICI MIEI” AI GIORNI NOSTRI “Da un lato – commenta Gianmarco Tognazzi – questi vini rappresentano un omaggio a mio padre e al personaggio più nazionalpopolare che ha rappresentato. Ma è importante sottolineare che il vino, in ‘Amici miei’, gioca un ruolo centrale: a Velletri era praticamente obbligatorio consumare i prodotti ottenuti dalle fatiche di ogni famiglia nell’orto e così valeva per il vino, che mio padre produceva a uso famigliare. I termini ‘Tarapia’, ‘Tapioco’, e la formula ‘Come se fosse antani’ sono stati inventati proprio mangiando e bevendo quei prodotti. In questi tre quattro anni di attività ci siamo mossi prima nella nostra zona, poi a Roma, poi verso Ferrara e Cremona, città natale di Ugo. E finalmente arriviamo anche a Milano, nel cuore della Lombardia. Perché, per quanto io sia romano, sono di padre lombardo che mi ha cresciuto con una concezione molto vicina a questo territorio. Non a caso sono tifoso di curva sud del Milan dall’età di 12 anni. Io a Milano mi sento a casa”.
Ma un conto è approdare a Milano. E un altro è affermarsi sotto l’ombra della Madonnina. Come un giovane centravanti venuto dal Brasile, Tognazzi è pronto a dribblare gli ‘avversari’. “Abbiamo un modo di comunicare diverso rispetto a quello ‘canonico’ – ammette Tognazzi -. Noi siamo molto auto ironici. Invece il mondo del vino, in molti casi, è austero. Noi cerchiamo di fare il vino seriamente, ma di comunicarlo in maniera molto ironica. Altri, forse, preferiscono fare un vino che fa ridere e caricarlo poi di contenuti di facciata. Sono scelte”.
IL SOCIO INTERISTA Altro che “zingarata”, insomma. Il Tognazzi viticoltore fa sul serio. E così il suo staff. Chiedere per credere al socio “in affari” Alessandro Capria. Uno che, per la cronaca, è interista. Ma se, calcisticamente, il feeling con Giamarco non dev’essere da idillio, tanto non si può dire (e per fortuna) sul vino. “Il nostro obiettivo – spiega Capria – è stato quello di circondarci di un team di persone, oltre che capaci, che avessero anche voglia di osare. Di fare qualcosa di diverso, insomma, in un momento come questo dove fare impresa è difficile. E in un mondo del vino che è abbastanza pieno di competitor. L’idea è quella di scrivere una storia diversa, irriverente. Il vino de La Tognazza Amata è tale sotto tutti gli aspetti, sin dall’etichetta”. Il pubblico di riferimento? “E’ il pubblico che noi definiamo ‘rock’ – risponde senza battere ciglio Alessandro Capria -. Ovvero quel pubblico che non ha più voglia di sentirsi raccontare il vino secondo gli schemi canonici, con il viticoltore che mostra la foto di lui da bambino nella vigna… E’ il pubblico che ha voglia di venire a divertirsi in un locale e bere un bel bicchiere di vino”.
Una sfida al tradizionalismo. “La filosofia produttiva è quella di ottenere vini di facile beva – spiega ancora il socio di Tognazzi – ma non per questo superficiali. Per questo ricorriamo alla musica per descrivere i nostri prodotti. ‘Tapioco’ è un vino lounge: bicchiere di vino, spiaggia, per intenderci. ‘Come se fosse’ lo abbiamo voluto blues. ‘Antani’ è rock, mentre ’69’ è jazz. Abbiamo chiesto al nostro enologo di fare questo lavoro, progettandoci poi attorno le etichette e la comunicazione”. Vini popolari, insomma. Che rimarranno, però, fuori dalla distribuzione organizzata.
“Senza nessun rimpianto, no assoluto ai supermercati. Abbiamo la ferma intenzione di rimanere fedeli – precisa Capria – a chi ci ha premiato sin dall’inizio: la ristorazione. In questa fase storica di grande attrito tra gdo ed esercenti dei locali, sarebbe un po’ come tradire chi ha creduto in noi dal principio. Puntiamo tutto sulla parola buona che può uscire dalla bocca di chi già ci conosce e sa come lavoriamo”. Vino etico, insomma, ancora una volta. E non è una supercazzola.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
(3,5 / 5) Nero d’Avola, Nerello Mascalese e Pignatello, noto anche come Perricone. Duca di Salaparuta, gruppo che riunisce tre marchi storici della “sicilianità” come Corvo, Florio e la stessa Duca di Salaparuta, produce con questi tre vitigni uno dei vini più noti dell’intera isola, commercializzati in grande distribuzione: il Corvo Rosso Igt Terre Siciliane. Sotto la lente di ingrandimento di vinialsupermercato.it, la vendemmia 2014.
LA DEGUSTAZIONE
Nel calice, il vino si presenta di un rosso rubino brillante, di moderata trasparenza, con riflessi tendenti al granato. Al naso si rivela di buona complessità. Nuovi sentori fanno capolino col passare dei minuti, grazie all’ossigenazione. Si passa da subitanee percezioni di fiori di mandorlo e frutta rossa (marasca), a più profondi richiami a spezie leggere, sino a piacevoli tinte vegetali di carruba.
Al palato, il Corvo Rosso Igt Terre Siciliane Duca di Salaparuta gioca tutto sulle morbidezze e sulla facilità della beva. Da quello che viene definito dallo stesso produttore “un vino quotidiano”, non ci si può aspettare di meglio. E invece questo rosso siculo riesce ad andare oltre: il blend funziona, è ben equilibrato. La terra fa il resto.
Alle note semplici e avvolgenti di frutta rossa (di nuovo marasca) fa da contraltare una sapidità che chiama il sorso successivo: asciutto, moderatamente caldo, piacevolmente vinoso e, soprattutto, di sufficiente persistenza. Il Nero d’Avola che fa da base costituisce l’ossatura del vino, la sua struttura. A Nerello Mascalese e Pignatello-Perricone il compito di impreziosirla, assieme al legno della botte grande in cui matura il Corvo Rosso. Interessante vino a tutto pasto, tutt’altro che banale per la fascia prezzo in cui si posiziona, si presta ad accompagnare grigliate di carne, arrosti e formaggi di media stagionatura. A una temperatura di servizio di 16-18 gradi.
LA VINIFICAZIONE
E’ nei terreni più vocati alla viticoltura della Sicilia che affondano le radici i vitigni del Corvo Rosso, cullati da un microclima ideale. Siamo nella zona centro orientale, tra le province di Agrigento e Caltanissetta, a un’altezza che varia tra i 50 e i 350 metri sul livello del mare. La terra è di tipo misto, ma con percentuali considerevoli di calcare attivo. L’allevamento è condotto da Duca di Salaparuta col metodo della controspalliera e dell’alberello, con una densità di ceppi per ettaro medio-alta, pari a circa 4 mila piante. La vendemmia è manuale e, a seconda delle annate, avviene dalla seconda settimana di settembre alla prima settimana di ottobre.
La fermentazione del Corvo Rosso è affidata al metodo tradizionale, con macerazione sulle bucce per un periodo che può variare dai 6 agli 8 giorni. Seguono svinatura, pressatura soffice e fermentazione malolattica: un passaggio fondamentale, quest’ultimo, per garantire maggiore piacevolezza alla futura beva con la trasformazione dell’acido malico in acido lattico. Corvo rosso Terre Siciliane Igt Duca di Salaparuta matura poi per almeno 10 mesi in grandi botti di quercia e, successivamente, in tini di cemento vetrificato. Prima della commercializzazione, questo rosso di Sicilia affina in bottiglia per altri 2 mesi, a temperatura controllata. Viene prodotto dal 1824, anno di fondazione di un marchio di cui è divenuto il simbolo.
Prezzo pieno: 5,89 euro
Acquistato presso: Iper Coop
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Entri a Zymè. E le lancette dell’orologio sembrano impazzire. I vini che hanno fatto la storia della Valpolicella classica, ben ordinati nelle teche di vetro. Tutt’attorno, un contesto architettonico moderno. Al limite del futuristico. E’ il rendez vous della memoria col progresso. Dell’uomo, con la natura. Una scommessa piazzata quasi 15 anni fa da Celestino Gaspari, sul tavolo da gioco della Valpolicella classica. Oggi, Zymè rappresenta una delle migliori espressioni (di sempre) del vino veneto. Di certo la più eclettica. Un magnifico esemplare di husky precede Gaspari di qualche gradino, al piano ‘alto’ di Zymè, a forma di pentagono. Un saluto agli ospiti venuti dalla Russia, dalla Polonia e dall’Alto Adige per visitare la cantina. Poi, il silenzio del suo ufficio. “Zymè – spiega il viticoltore – nasce come aspirazione a vini di ricerca, di sperimentazione. Vini, se vogliamo, anche di provocazione. Sono partito da Harlequin, poi è arrivata l’Oseleta, poi Kairos. E i classici solo in secondo momento, in un’interpretazione che sappia di passato”. Una filosofia a metà tra l’istinto di conservazione e la voglia di ribellione.
Gaspari, oggi 53enne, sposa la figlia di Giuseppe Quintarelli, compianto re dell’Amarone a cui deve tanto, umanamente e professionalmente: “Undici anni da mio suocero nel segno del bando alle tecnologie, t’insegnano che ciò che vale davvero è l’esperienza da una parte, e la materia prima dall’altra, qualitativamente”. Per Celestino Gaspari anche due anni alle Cantine Bertani, come consulente: “L’occasione per fare un passo all’indietro nel tempo, nella storia, degustando vini fino al 1926. Ma anche per cogliere altre informazioni da quella che è l’azienda storica della Valpolicella, con 250 anni di vendemmie alle spalle, capace da sempre di dare un’interpretazione molto interessante all’Amarone: aristocratica”. Guai, dunque, a chiamare “innovativi” i vini di Zymè. “L’ho letto addirittura sul Decanter, ma non è vero niente”, chiosa Celestino Gaspari. “Chiamiamola piuttosto una rivisitazione del metodo e del blend storico in chiave moderna, attuale”. Perché a Zymè, tutto sommato, si parla ancora di uvaggio classico, di lievito indigeno, di temperatura naturale, di vinificazione in cemento. Di tempi di criomacerazione e fermentazione che vanno oltre i tre mesi. E di botti gradi di rovere di Slavonia. Di rendez vous tra passato e presente.
L’HARLEQUIN COME PROVOCAZIONE
Una cosa è certa. A Celestino Gaspari, l’appetito è venuto mangiando. Anzi, sorseggiando il primo ‘morso’ di Harlequin. L’Igp Veneto Rosso che ha sparigliato le carte, ottenuto dal blend di un minimo di 15 vitigni: Garganega, Trebbiano toscano, Sauvignon Blanc, Chardonnay, Corvina, Corvinone, Rondinella, Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot, Syraz, Teroldego, Croatina, Oseleta, Sangiovese e Marzemino. “A me hanno insegnato a scuola che chi copia arriva secondo – commenta Gaspari – e quindi è molto più soddisfacente prendersi dei rischi ma cercare di percorrere una strada nuova. Così, se hai fortuna, crei un distinguo nel tempo. E rendi dura la vita, se non impossibile, a chi prova a copiarti. Ricordo che da Quintarelli, le uve che usavamo non erano tanto diverse da quelle di altri produttori. Quello che cambiava era ciò che avveniva dal momento in cui veniva staccato il grappolo, lavorato e messo in bottiglia: macerazione, metabolismo naturale, affinamenti lunghi che stabilizzano il prodotto e portano in bottiglia aromi diversi dagli altri”. Lasciare spazio a Madre Natura non solo in vigna, ma anche in cantina, è uno dei segreti di Zymè. “Ma devi avere certezza che la cosa funzioni”, precisa Gaspari. “Noi facciamo un solo passito bianco, solo nelle annate migliori. Pigiamo le uve a fine gennaio ed effettuiamo una decantazione statica, per effetto del freddo. Poi prendiamo il mosto, lo mettiamo in barrique da 100 litri di rovere di Slavonia, sigilliamo e per tre anni non lo apriamo più. Cosa succede nel frattempo? Per rispondere a questa domanda serve solo una cosa: l’esperienza. Il tempo fa tutto. Anche in un mondo dominato dalla fretta”.
E in effetti, la storia di Zymè è anche quella di una coscienziosa attesa del risultato migliore. Oggi il paradiso di Celestino Gaspari conta 30 ettari totali di terreno vitato, in gran parte in affitto, nella Valpolicella classica. Altri vigneti sono situati nelle zone limitrofe a Verona, nonché a Vicenza: più esattamente a Lonigo, Colli Berici, dove è in atto dal 2006 una partnership con la cantina Puntozero della famiglia De’ Besi, divenuta nel 2015 una realtà autonoma. Nel gioco perpetuo tra storia e presente sembrano lontani, eppure ancora così vicini, i tempi di “un ufficietto e 10 barrique”, che segnano l’inizio del sogno ad occhi aperti di Celestino Gaspari. Un aspetto che non dev’essere sfuggito a Moreno Zurlo, giovane architetto di Padova cui è stata affidata la realizzazione della cantina Zymè, così come la vediamo oggi. “Una felice alleanza tra natura e cultura”, come piace definirla al padrone di casa. L’edificio sorge su una cava di pietra calcarea risalente al 1400 d.C. Una cavità carsica domina la scena, accanto a decine di barrique, raggiungibili sotto il livello del terreno grazie a un ascensore a forma di tappo. Il suono di una piccola cascata e di un ruscello culla il prezioso nettare (nel video), a cui viene assicurata assenza di luce solare e una straordinaria stabilità termica naturale. Vista dall’alto, la struttura della cantina ricorda la forma a pentagono di una foglia di vite, il logo di Zýmē (dal greco “lievito”, vera genesi dell’enologia tutta). Natura, uomo, tempo. Coerenza. Quella del filosofo vignaiolo, Celestino Gaspari.
NO AL BIO. GDO, PERCHE’ NO? Una dottrina, quella del viticoltore di San Pietro in Cariano, scevra da qualsiasi formalismo e preconcetto. Perché chi guarda alla qualità, può fregarsene del puro marketing: quello di facciata. “Il biologico? Non mi interessa”, dichiara perentorio. “E’ una macchia nera nella viticoltura – precisa Gaspari – perché molti hanno iniziato a produrre in regime biologico solo per logiche di ‘moda’, di mercato e di marketing. Le scienze hanno regalato all’uomo la possibilità di curarsi dalle malattie: in nome di cosa non dovrei curare una vite malata, o meglio prevenire le potenziali malattie? Resta il fatto che a Zymè concimo con stallatico, uso solo minerali se devo intergrare (solfato di potassio o magnesio, ndr), rame di miniera, zolfo di miniera, bacillus thuringiensis per prevenire botrytis o tignoletta. Però, se mi capita un anno come il 2014 in cui hai delle fasi critiche per via di un meteo instabile, preferisco difendermi in vigna piuttosto che portare in cantina porcheria. Fa più male un frutto malsano o il fatto che abbia eseguito due trattamenti per prevenire eventuali malattie?”. Un altro motivo per cui Gaspari ammette di rinunciare al “vino biologico” è la burocrazia.
“Non nascondo che negli scorsi mi era passata per la testa l’idea di una certificazione green della produzione. Mi dicevano che sarebbe stato semplice. Ma quando ho approfondito la questione, mi sono reso conto che avrei avuto bisogno di assumere una persona da impegnare esclusivamente alla compilazione di scartoffie varie. Sono nato nell’epoca in cui non esisteva la chimica e tutte le operazioni, in vigna, venivano eseguite in base all’esperienza. Biologico e biodinamico, al giorno d’oggi, sono ancora in fase sperimentale: con tanti errori e passaggi generazionali, forse, un giorno, saremo tutti pronti a questa grande conversione”. Mentre Gaspari parla, l’occhio cade sull’orto realizzato alle sue spalle. Proprio sul tetto della “hole” della cantina. “Coltivo piselli, rapanelli, carciofi, patate, insalata. La terra in cui affondano le radici è stata prelevata a 1,40 metri di profondità, a Romagnano, per evitare contaminazioni”.
Non disdegna invece la Gdo, il vignaiolo Fivi Celestino Gaspari. “Siamo già presenti in alcune catene – evidenzia – come i supermercati Rossetto (8 province tra Veneto, Emilia e Lombardia, per un totale di 24 punti vendita, ndr) oltre a Famila ed Esselunga. Pur essendo i rapporti discreti, credo che a questi gruppi non interessi tanto vendere il mio vino, quanto averlo in assortimento, come una sorta di ‘specchietto per le allodole’. Ma un motivo per il quale sostengo la Gdo sono i ricarichi applicati dalla ristorazione e dall’horeca in generale, che arrivano fino al 2-300%. Tutto ciò è assurdo. Un ristorante che meriti di chiamarsi tale dovrebbe guadagnare sul piatto, al posto di speculare sul vino dei produttori. Anche perché, i ristoratori, mi pagano a 60 giorni. Ma al cliente del ristorante presentano il conto al termine esatto della cena”. Celestino Gaspari, schietto e senza peli sulla lingua, rivolge poi una richiesta al mondo dei buyer della gdo e all’e-commerce: “Seguite l’esempio di Signorvino, che nella sua catena di wine shop e ristoranti fa pagare il vino esattamente quanto lo si pagherebbe in cantina, andandolo a prendere direttamente dai produttori. E, per la cronaca, io non sono un loro fornitore”.
LA DEGUSTAZIONE Igp Veneto bianco From black to white (13%): Blend ottenuto da Rondinella Bianca (60%), Gold Traminer (15%), Kerner (15%) e Incrocio Manzoni (10%). Gaspari trova in una vigna in stato di abbandono quello che scoprirà essere un clone bianco del vitigno Rondinella, diverso tuttavia da quello utilizzato per la produzione dell’Amarone. Decide di allevarlo. Oggi può contare su circa 3 ettari vitati di Rondinella Bianca, inserita di recente nella lista delle varietà autoctone. E’ la base di questo blend, cui conferisce grande aromaticità, sia al naso sia al palato. Eccellente come aperitivo, From black to white accompagna tutto il pasto, in particolare piatti a base di asparagi.
Valpolicella Dop Reverie (11,5%): E’ il classico “vino rosso di tutti i giorni”, adatto in particolare al periodo estivo per la sua facilità di beva e per il basso tenore alcolico. Ottenuto al 40% da Corvina, 30% di Corvinone, 25% di Rondinella e 5% di Oseleta, vinificate in acciaio. Può essere conservato anche in frigorifero e accostato a primi leggeri di pasta.
Valpolicella Classico Superiore Dop (13,5%): Ennesimo blend di Corvina (40%), Corvinone (30%), Rondinella (25%) e Oseleta (5%). La fermentazione avviene a cavallo tra i mesi di settembre e ottobre a temperature naturali. A gennaio una seconda fermentazione sulle bucce dell’Amarone con il tradizionale metodo del “Ripasso”, per una durata di 14 giorni. L’affinamento avviene in botti grandi di rovere di Slavonia per almeno 3 anni. Sei mesi in bottiglia anticipano l’immissione in commercio. Vino che colpisce per la grande freschezza regalata da una spiccata acidità, per l’utilizzo di un “Ripasso” volto a conferire carattere e fragranza alla beva, al posto della classica morbizzezza e rotondità. Molto persistente. Un Valpolicella Classico Superiore perfetto con salumi, formaggi a media stagionatura, minestre e carni bianche.
Igp Veneto Rosso Cabernet 602020 (15%): Cabernet Sauvignon 60%, Cabernet Franc 20%, Merlot 20%. Ecco servito il taglio bordolese alla veneta di Zymé, ottenuto dai vigneti situati a Lonigo, Vicenza, Colli Berici. La vendemmia avviene in maniera manuale tra la terza decade di settembre e la prima di ottobre. Le uve atte alla produzione del 602020 sono le ultime a essere raccolte. Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon vengono pigiati in giornata, mentre gli acini di Merlot vengono riposti in piccole casse a riposare per circa 20-30 giorni, concentrando così gli zuccheri. La vinificazione avviene in vasche di cemento a temperatura naturale e lievito indigeno, per 40 giorni circa. L’affinamento è affidato a barriques nuove, per minimo 24 mesi. Un ulteriore anno in bottiglia prima della commercializzazione. Questo Igp Veneto è una delle sorprese più piacevoli di Zymè. Vino avvolgente, rotondo, eppure austero. La perfezione nei contrasti crea un equilibrio memorabile tra le note di confettura (prugna, lampone, more) e il tannino vivo, ma elegante. Nel finale una vena speziata, accompagnata dai classici sentori vegetali del Cabernet. Da abbinare a carne grigliata, arrosti e a formaggi a media stagionatura.
Igp Veneto Syrah Virgola (14,5%): Appassimento di un mese in cassetta per le uve 100% Syrah che costituiscono Virgola, più due anni in barrique nuove. Ne risulta un rosso potente, ma estremamente elegante. Dalle grandi potenzialità di invecchiamento. Particolare la mineralità che riesce a esprimere il vitigno nei Colli Berici. Ottimo con carni rosse, selvaggina e formaggi di grande personalità. O a fine pasto, con cioccolato e frutta secca.
Igp Provincia di Verona Oseleta 2009 (13,5): Mentre la 2010 affina ancora in vetro, prima della commercializzazione, degustiamo la vendemmia 2009 di questo straordinario autoctono riscoperto e valorizzato al meglio da Celestino Gaspari. Zymè, di fatto, è la prima azienda a produrlo in purezza. Perché? Occorre il raccolto di due piante per produrre una singola bottiglia. La resa, di fatto, si assesta dui 60 quintali per ettaro. Tre anni in barrique completano un quadro già di per sé idilliaco. L’Oseleta di Gaspari è un vino che oseremmo definire “tattile”, in cui il tannino è grande protagonista. Anche perché, prima ancora, ammalia al naso con i suoi richiami alla frutta rossa di sottobosco. Spezza gli induci in ingresso, al palato, mostrando i muscoli d’un gigante. Il vino perfetto da dimenticare in cantina. Sfoderandolo, poi, al cospetto di pesce grasso, bolliti, carni grigliate, arrosti e formaggi a media stagionatura.
Igp Veneto Rosso Kairos (15%): Vino ottenuto da un minimo quindici vitigni, 4 bianchi e 11 rossi: Garganega, Trebbiano toscano, Sauvignon Blanc, Chardonnay, Corvina, Corvinone, Rondinella, Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot, Syraz, Teroldego, Croatina, Oseleta, Sangiovese e Marzemino. Per l’intera vendemmia possono occorrere fino a 40 giorni. Le uve, colte ognuna in epoche di diverse, a seconda della perfetta maturazione, riposano nel frattempo in plateaux, “per il solo tempo necessario a concludere l’intera raccolta”. E’ il rosso di Gaspari in cui risulta più ‘accentuata’ la percezione zuccherina (zuccheri residui 5 g/l, acidità totale 5,7 g/l, estratto secco 33 g/l, pH 3,50). Al naso confettura di frutta rossa, fiori e spezie: tutte note di grande pulizia. Al palato, attendibile, una grande morbidezza che conferma le attese.
L’etichetta, realizzata come tutte quelle di Zymè da Lucia, figlia maggiore di Celestino Gaspari, “mostra il legame col progetto dell’Harlequin: il vestito di Arlecchino è fatto di pezze di molti colori, così come il vino è fatto con 15 uve diverse, ciascuna con le proprie caratteristiche. In greco antico Kairos significa ‘conveniente, opportuno, per il momento giusto’. L’aggiunta della meridiana e dell’orologio esprimono il concetto del tempo esatto”. Tempo, appunto. Un elemento che torna sempre, prepotentemente, a Zymè. E il tempo di Kairos, in cucina, è quello dei piatti importanti ma delicati di carni bianche e rosse, con salse robuste e speziate. Ottimo con formaggi saporiti, stagionati, e cacciagione.
Amarone Classico della Valpolicella Dop Riserva “La Mattonara” (16%): Ottenuto da uve provenienti da vigneti di età compresa tra i 20 e i 50 anni, delle varietà Corvina (40%), Corvinone (30%), Rondinella (15%), Oseleta (10%) e Croatina (5%). L’annata in degustazione, in particolare, è la 2004. Nove anni in botte grande per questo straordinario Amarone, prodotto solo in annate “straordinarie”. La vinificazione prevede l’appassimento naturale (senza l’uso di deumidifi catori) per circa 3 mesi. Segue la pigiatura, nel mese di gennaio. Vinificato “rigorosamente secondo il metodo tradizionale in vasche di cemento”, per almeno 2 mesi a contatto con le bucce. La fermentazione avviene con lievito indigeno, a temperature naturali.
Dopo la svinatura, “La Mattonara” riposa come detto per circa 9 anni in botti grandi e tonneaux di rovere di Slavonia e viene imbottigliata al suo decimo anno di età. Il lungo invecchiamento favorisce un’ulteriore riduzione degli zuccheri residui. Segue l’affinamento in bottiglia per minimo 1 anno. Una Riserva in grado di assicurare, ancora, la piacevolezza delle note fruttate, unita a una straordinaria vena balsamica e speziata (cacao, liquirizia, pepe). Autentico vino da meditazione, accompagna egregiamente piatti importanti a base di carne (selvaggina, cacciagione) ma anche formaggi come Parmigiano Reggiano e Grana padano.
Igp Veneto Rosso Harlequin 2008 (15%): L’etichetta per Kairos, il nome per Harlequin, a indicare il mix tra un numero incredibile di uvaggi. Ben 15 quelli che compongono il blend: Garganega, Trebbiano toscano, Sauvignon Blanc, Chardonnay, Corvina, Corvinone, Rondinella, Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot, Syraz, Teroldego, Croatina, Oseleta, Sangiovese e Marzemino. E’ il vino top di gamma di Gaspari. Raccolte a mano grappolo per grappolo, le uve vengono selezionate personalmente dall’enologo e riposte in plateaux da 0 a 40 giorni, secondo il momento della raccolta, in ambiente naturale, senza ausilio di macchine per la ventilazione forzata o per la deumidificazione.
Vengono dunque pigiate tutte insieme, senza diraspatura. Le uve fermentano in vasca di cemento con lievito indigeno per circa 30 giorni. Seguono follature, delestages “e soprattutto il controllo visivo, olfattivo e uditivo da parte dell’uomo”. Si procede poi alla svinatura e alla decantazione per circa 10 giorni. Segue un duplice processo di affinamento per un totale di 30 mesi utilizzando barriques nuove di rovere francese da 225 litri (200%), senza alcun travaso. Il vino viene imbottigliato senza effettuare chiarifica e subisce un ulteriore affinamento in bottiglia per almeno due anni.
Il risultato è un vino di unica avvolgenza, che inebria ancor prima d’essere condotto al naso: frutta rossa matura, spezie, liquirizia, cuoio. Una complessità straordinaria che si ritroverà poi al palato, dove Harlquin si conferma caldo, pieno, morbido, avvolgente. Il punto forte? La definizione di ogni singolo dettaglio. Una fotografia scattata alla massima risoluzione, ad ogni singola percezione. Una perla, nel mare luminoso dei migliori vini italiani ed internazionali.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
(5 / 5) E’ uno dei prodotti top di gamma di Villa Poggio Salvi, secondo solo al Brunello di Montalcino Docg Cru “Pomona”. E, in effetti, il Brunello di Montalcino Docg Riserva 2006 va annoverato tra i migliori vini rossi toscani da invecchiamento presenti nel panorama nazionale della grande distribuzione italiana.
Lo distribuisce, sui propri scaffali, la catena milanese di grandi magazzini e supermercati Il Gigante. Certo, a giocare a favore dell’esito di questa degustazione di vinialsuper c’è la straordinaria annata di questo vino.
Un 2006 che resterà tra le vendemmie da ricordare per il Sangiovese atto alla produzione del Brunello di Montalcino. Per favorire l’apertura degli aromi utilizziamo un decanter. dove il nettare riposa per quasi un’ora.
LA DEGUSTAZIONE
Nel calice, il Riserva 2006 di Villa Poggio dei Salvi si presenta di un rosso rubino ancora intenso, con riflessi granati: il primo “sintomo” di un vino ancora vivo, con ampi margini di miglioramento in bottiglia negli anni, anzi nei decenni.
Al naso si svela pieno, ampio, complesso: note di frutta a bacca rossa, a metà tra la confettura e lo spirito, dominano la scena. Non manca uno spunto floreale di viola. Ma sono ben percettibili, come dalla attese, i richiami terziari (ovvero il bouquet conferito dal periodo di affinamento in legno) a caffé tostato, liquirizia e cacao dolce.
Profumi che evolveranno ulteriormente, col passare dei minuti, per effetto dell’ossigenazione nel calice. Al palato, grande freschezza unita a una sapidità invidiabile: due elementi che, uniti assieme, si mostrano in perfetto equilibrio con le note fruttate di sottobosco. Completa il quadro un tannino elegante, tutt’altro che pungente.
Grande persistenza per il Brunello di Montalcino Docg Riserva 2006 di Villa Poggio dei Salvi, tutta giocata sulle note fruttate, sull’acidità e sulla sapidità. Un quadro davvero perfetto, che può essere reso paradisiaco dal corretto abbinamento in cucina.
Un vino importante, questa riserva toscana, da accostare dunque a piatti dello stesso “peso”: dai primi a base di ragù di selvaggina (cinghiale, per esempio), ai secondi di carne grigliata o a base di cacciagione e selvaggina. Senza dimenticare i formaggi stagionati e il tartufo.
LA VINIFICAZIONE
“Vini tradizionali prodotti con sistemi moderni”: questa la filosofia di Villa Poggio Salvi, azienda agricola che nell’omonima località del Comune di Montalcino, in provincia di Siena, conta 21 ettari di vigneti, tutti impiantati con cloni di Sangiovese Grosso. L’età dei vigneti atti alla produzione del Brunello di Montalcino Riserva varia dai 15 ai 20 anni, situati tra i 300 e i 520 metri sul livello del mare.
L’esposizione è a Sud-Ovest e il terreno è ricco di galestro a larga tessitura. La forma di allevamento è quella del cordone speronato, con una densità di impianto di 5 mila piante per ettaro. La vendemmia avviene sul finire del mese di settembre, a mano, in piccole cassette.
La vinificazione in acciaio, in vasche a temperatura controllata tra i 28 e i 30 gradi, per un periodo che varia fra i 12 e i 14 giorni. Le follature del cappello sono automatizzate, con sistema a pistoni. Fondamentale, poi, la fase di maturazione in legno per il Brunello, come da disciplinare della Denominazione di origine controllata e garantita.
Quaranta mesi in botti di rovere di Slavonia da 50 a 100 ettolitri. Il vino affina poi in bottiglia per un minimo di 6 mesi, prima dell’immissione in commercio. La vendemmia 2006 ha dato vita a circa 7 mila bottiglia di Brunello Riserva.
Villa Poggio Salvi deve il suo nome alla felice posizione sul versante Sud di Montalcino che guarda il mare Tirreno. L’aria pulita, i profumi che arrivano dai folti boschi di lecci che circondano l’Azienda e dalla macchia mediterranea, hanno attirato qui, fin dall’antichità le genti che provenivano dalla Maremma.
Poggio Salvi, appunto, il “Poggio della Salute” in quanto considerato da sempre zona salubre e pura, dove già nei secoli scorsi la gente trovava rifugio per allontanarsi dalle zone più insalubri infestate da malattie. Villa Poggio Salvi per struttura e modernità è un’azienda che guarda al futuro condotta con passione e competenza da Pierluigi Tagliabue e dal nipote Enologo Luca Belingardi.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
(4 / 5) Tra i colossi del vino di Valtellina, la casa vinicola Pietro Nera di Chiuro. Sotto la lente di ingrandimento di vinialsupermercato.it finisce oggi l’Inferno Valtellina Superiore Docg, vendemmia 2011.
LA DEGUSTAZIONE
All’esame visivo, il vino si presenta di un rosso rubino trasparente. L’annata e la tipologia di vino suggeriscono di per sé un’apertura della bottiglia con il giusto anticipo. Il nettare si presenta di fatto piuttosto timido all’olfatto.
Rivela comunque le caratteristiche note di frutti a bacca rossa (lampone) e fiori (viola), su sfondo lievemente speziato, con una punta di resine alpine. Al palato, l’Inferno Nera è asciutto, moderatamente caldo e astringente, più per acidità che per tannino. Un Nebbiolo che sembra aver ormai raggiunto l’apice della maturazione, prima dell’inevitabile “scollinamento”.
Questo Valtellina Superiore Docg conserva tuttavia una buona persistenza, su note di frutta a bacca rossa che si vestono, prima di scomparire, di un’inaspettata sapidità. L’Inferno Nera può essere abbinato a primi con rigogliosi ragù, secondi di carne come arrosti, cacciagione e grigliate, e formaggi di media stagionatura, meglio se Valtellinesi.
LA VINIFICAZIONE
“I vini che fanno parte della linea di produzione ‘classica’ sono destinati a soddisfare il pubblico che ricerca la qualità con particolare attenzione al prezzo”, precisa il produttore sul proprio sito web. Una premessa che fa intuire il posizionamento qualitativo della gamma presente (con etichette diverse) in varie catene della Gdo, rispetto al valore assoluto che è in grado di esprimere l’area vitivinicola valtellinese.
In particolare, l’Inferno Valtellina Superiore Docg Nera è ottenuto da uve del vitigno Nebbiolo, localmente denominate Chiavennasca, con una piccola aggiunta delle autoctone Pignola e Rossola. La resa per ettaro, per quanto riguarda il Nebbiolo, è di 70 quintali.
I vigneti, ricadenti sul versante retico da est a ovest con esposizione a sud, sono situati all’interno della zona di produzione del Valtellina Superiore Inferno, a un’altitudine compresa tra i 300 e i 450 metri sul livello del mare, nei comuni di Montagna in Valtellina, Poggiridenti e Tresivio (Sondrio).
Il terreno in cui affondano le radici le piante è di tipo franco-sabbioso, permeabile all’acqua, moderatamente profondo. La vinificazione prevede una fermentazione a cappello sommerso, con macerazione sulle bucce per circa 10 giorni, a temperatura controllata.
Il disciplinare di produzione del Valtellina Superiore Dogc prevede la maturazione del vino per almeno di 24 mesi di cui 12 in botti di rovere, prima di essere messo in commercio. Di fatto, l’Inferno Nera matura 12 mesi in botti di rovere, per poi essere travasato in serbatoi di acciaio inox e vasche di calcestruzzo, prima dell’imbottigliamento.
Prezzo: 7,89 euro
Acquistato presso: Carrefour / Esselunga
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(5 / 5) La vendemmia 2015 si rivela splendida per uno dei vini simbolo delle Marche in vendita nei supermercati italiani. Il Verdicchio dei Castelli di Jesi “Titulus” Fazi Battaglia, già meritevole di lodi nelle annate precedenti, guadagna quel mezzo grado in più di titolo alcolimetrico che conferisce a questo vino bianco una straordinaria morbidezza al palato. Merito della calda estate 2015 e delle conseguenti escursioni termiche, tutte da assaporare nel calice. Non si lascino impressionare, insomma, quei consumatori di vini che, al supermercato, non osano superare la soglia fatidica dei 12,5%. I 13% della vendemmia 2015 del Verdicchio Fazi Battaglia sono ben compensati, al palato, da una sapidità rigogliosa, regalo – questa volta – del terroir marchigiano. Un vino, insomma, che conserva una facilità di beva invidiabile. Ma tutt’altro che banale.
Nel calice, il Verdicchio dei Castelli di Jesi Fazi Battaglia si mostra d’un giallo paglierino deciso, limpido e trasparente. La morbidezza al palato si presagisce già dagli “archetti” che il nettare crea, facendolo ruotare nel calice. Al naso, l’impronta minerale è decisa: altro indicatore di quella che sarà la sapidità, al palato. Completano l’elegante buquet sentori floreali freschi e note d’agrumi. Sullo sfondo, a conferire ulteriore freschezza, anche percezioni vegetali di macchia mediterranea.
Al palato, ecco svelata la corrispondenza gusto-olfattiva. E’ un vino che si raccolta, di fatto, già al naso questo Verdicchio dei Castelli di Jesi “Titulus”. Che in bocca, però, sfodera la già citata morbidezza: vero e proprio velluto che accarezza le papille gustative, mentre si rincorrono percezioni minerali e agrumate. Solo in chiusura la sapidità riesce ad avere la meglio sulla glicerina, mentre avanza deciso il gusto di mandorla amara: timbro definitivo sull’eleganza di questo vino bianco.
LA VINIFICAZIONE
Colpisce, in definitiva, Fazi Battaglia, per la continuità qualitativa che riesce a conferire al Verdicchio dei Castelli di Jesi “Titulus”, di anno in anno. Superando se stessa, con la vendemmia 2015. Prodotto nella zona Classica del Verdicchio dei Castelli di Jesi, Titulus nasce solo ed esclusivamente da uve Verdicchio selezionate e raccolte a mano nei vigneti della Fazi Battaglia. Come spiega la stessa casa vinicola, si tratta di circa 250 ettari adagiati nel cuore delle colline marchigiane, ad altitudini ed esposizioni diverse e complementari. Le uve vengono raccolte a mano nei dodici appezzamenti, in momenti differenti. Per ognuno viene accertata la data ottimale di vendemmia, che per questo può durare anche dai 20 ai 25 giorni.
Ad occuparsi della raccolta è una squadra di circa 200 persone. Dopo una spremitura soffice, il mosto ricavato viene fermentato in serbatoi di acciaio inox per 15-18 giorni. Prima dell’affinamento in bottiglia, dove rimane per circa 30 giorni, il Verdicchio dei Castelli di Jesi “Titulus” riposa in vasche di acciaio per diversi mesi, necessari al raggiungimento della giusta maturazione dei profumi e della complessità al palato. Sono circa 2 milioni le bottiglie, tutte dalla classica forma ad anfora, ottenute ogni anno dalla società agricola di Castelplanio.
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Il 27 gennaio 2007 il primo Eataly, a Torino Lingotto nell’ex opificio Carpano, apre al pubblico. Sono ormai passati quasi dieci anni ma la sede di Torino mantiene ancora oggi un ruolo centrale. Per festeggiare al massimo dello splendore “dieci anni di maturità”, Eataly Lingotto punta su una nuova cantina. Più di 5 mila etichette a scaffale, che faranno bella mostra assieme al Wine Bar Pane & Vino, alla Birreria e al ristorante stellato Casa Vicina. La casa del vino di Eataly Lingotto si estende su più di 2 mila metri quadrati, “dedicati al bere bene mangiando bene, seguendo i 3 pilastri di Eataly: comprare, mangiare e imparare”. La Cantina di Eataly Lingotto è aperta tutti i giorni dalle ore 10 alle ore 22.30. Il venerdì e il sabato sera è eccezionalmente aperta fino alle ore 00.30.
“Bisogna avere il coraggio per cambiare e sono orgoglioso che Eataly Lingotto l’abbia avuto – afferma il patron Oscar Farinetti -. Arrivati al traguardo dei 10 anni, è stato dato nuovo lustro alla mamma di tutti gli Eataly e questo tenendo fede ai valori che da sempre ci contraddistinguono: l’impegno ma anche la leggerezza e naturalmente l’armonia, il valore al quale Eataly Lingotto è dedicato”. “La nuova Cantina di Eataly Lingotto sarà da esempio per gli altri punti vendita”, conferma Andrea Guerra, presidente esecutivo di Eataly. “È un negozio nel negozio – continua – che celebra le più grandi produzioni italiane raccontandone la ricchezza, la bontà e la bellezza. La varietà di proposte di alta qualità in un solo luogo è ciò che rende unica Eataly e anche la Cantina prosegue in questa direzione”.
LA NUOVA CANTINA Le oltre 5 mila etichette provenienti da più di 30 stati rappresentano al meglio la produzione nazionale e internazionale. Si va dallo Spazio Bollicine, dedicato ai migliori marchi del Metodo Classico, ai rinomati Champagne, ma anche agli ad eccellenti Prosecco e spumanti italiani, per passare poi agli scaffali che ospitano 30 mila bottiglie di vini di 40 regioni del mondo, con una particolare attenzione alle grandi eccellenze piemontesi, Barolo e Barbaresco. La Zona Cult custodisce le bottiglie più preziose, tra le quali più di dieci annate storiche di Barolo del secolo scorso. Per gli amanti della birra non manca naturalmente un’ampia selezione delle produzioni italiane e internazionali di alta qualità: più di 11 mila bottiglie, di cui 6 mila artigianali italiane. Infine, la Cantina di Eataly propone anche oltre 500 etichette di spirits: dal torinese Vermouth alle grappe, rum, whisky e molto altro.
La Cantina non è però solamente degli alcolici ma è anche quella di stagionatura dei salumi e dei formaggi: il Culatello di Zibello, il prosciutto di Parma, Il Castelmagno e le altre eccellenze norcine e casare, in vendita al banco e in degustazione presso i Ristorantini al piano superiore, sono conservate ed esposte in un angolo aperto al pubblico e ricco di fascino, dove immergersi negli odori e nei profumi tipici dei territori e dei luoghi in cui si affinano queste bontà tutte italiane. I clienti possono inoltre scegliere il formaggio o il salume che preferiscono, acquistarlo e far concludere la stagionatura nelle Cantine di Eataly: un’opportunità unica!
PANE&VINO: IL NUOVO WINE BAR DI EATALY
L’offerta della Cantina di Eataly si amplia con una nuova proposta di ristorazione. Pane&Vino è il luogo ideale per degustare un ottimo calice di vino e, se lo si desidera, in accompagnamento un gustoso tagliere, un veloce antipasto o un piatto gourmet. Nel Wine Bar di Eataly Lingotto i clienti possono scegliere tra le più di 100 etichette presenti in Carta, 8 grandi vini al calice e, se preferiscono la bottiglia, tutta la Cantina sarà a loro disposizione. Per non rimanere a stomaco vuoto, Pane e Vino propone le Tapas del Mercato, stuzzicherie preparate con gli Alti Cibi in vendita nel Mercato di Eataly, gli Specialmente, una selezione dei migliori formaggi e salumi e i Vicini, i piatti stellati di Claudio e Anna del ristorante Casa Vicina.
LA BIRRERIA DI EATALY Dopo New York e Roma, arriva anche a Torino la Birreria di Eataly. Ogni giorno viene proposta una selezione delle migliori produzioni brassicole italiane e internazionali:16 birre alla spina che ruotano ogni mese, 40 in bottiglia nella Carta dedicata e persino la possibilità di scegliere a scaffale l’etichetta preferita. In accompagnamento gli ottimi hamburger nel panino nelle versioni di carne – naturalmente de La Granda – pesce o verdure. E poi gli sfizi, croccanti crostini del pane appena sfornato dal forno a legna di Eataly e farciti con una selezione degli Alti Cibi, e naturalmente i fritti, perfetti con una fresca birra.
LA FAMIGLIA VICINA
Fiore all’occhiello della Cantina di Eataly è il ristorante Casa Vicina. Ristoratori da sempre, la famiglia Vicina guida il ristorante stellato di Eataly Lingotto, tenendo alti i valori che la contraddistinguono sin dal 1902: eccellente qualità delle materie prime, unione tra tradizione e territorio ma anche attenzione all’innovazione e alla soddisfazione del cliente. Claudio Vicina, quarta generazione in cucina, porta avanti il nome di famiglia con Anna e con la preziosa figura del fratello Stefano, responsabile di sala: un’unione premiata con una Stella Michelin, che brilla in tutti i loro piatti. Infine, la nuova Cantina di Eataly Lingotto sarà il palcoscenico di numerose attività didattiche per imparare qualcosa di più sul mondo del bere: cene con i produttori vitivinicoli, lezioni e incontri di degustazione. Il programma sarà presto disponibile su www.torino.eataly.it.
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Calice importante, quello del Toscana Igt Rosso Lucente 2010 dell’azienda Luce della Vite di Montalcino – Marchesi de’ Frescobaldi. Il vino si presenta di un rosso rubino con riflessi leggermente granati, limpido. La buona alcoolicità si percepisce dagli archi stretti, mentre le “lacrime” seguono una discesa lenta, data dalla concentrazione degli zuccheri. Aspetto che ci fa intuire una buona presenza di glicerolo. Al naso, una forte impronta di tabacco e cacao, appena avvicinato il calice. Seguono sentori di frutti rossi, tra cui è facilmente riconoscibile la prugna. E richiami speziati, di pepe e cannella.
La complessità di questo rosso toscano è “Lucente”. E aumenta con sentori balsamici, di menta. Vino ancora giovane e vigoroso, si esprime al palato in potenza e tannicità. Il corpo è medio, aspetto che ne conferma l’eleganza e una beva che non stanca. Lucente di Luce della Vite si rivela rotondo: un nettare che avvolge tutte le sensazioni gustative, con una buona intensità. Il retrogusto è di confetture e spezie, che ricordano il cacao. L’abbinamento perfetto? Quello con le carni rosse e i formaggi stagionati.
LA VINIFICAZIONE
Lucente è il secondo vino della gamma “Luce” della cantina Luce della Vite di Montalcino. Nasce dagli stessi vigneti dell’omonimo Luce, vino contemporaneo che cresce nella tenuta dei Frescobaldi a Montalcino. Un prodotto relativamente giovane, nato nel 2000 da un blend composto al 50% da Merlot, 35% Sangiovese e 15% da Cabernet Sauvignon. Il vigneto si sviluppa ad un’altitudine compresa tra i 250 e 400 metri sul livello del mare, su un terreno misto: galestro per le uve Sangiovese e ricco di calcio e argilla per il Merlot. La pigiatura è soffice e la fermentazione avviene in vasche in acciaio inox a circa 30°, per un periodo di 12 giorni. Segue un affinamento in barrique per 12 mesi: 55% legni nuovi di rovere francese, 5% nuovi di rovere americano, 40% di rovere francese di 2° passaggio. Prima della commercializzazione, Lucente di Luce della Vite affina in bottiglia per 8 mesi.
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Il miglior sommelier del mondo presta il volto per pubblicizzare i vini di un discount. Non è una barzelletta. Succede per davvero. A 6 anni dal prestigioso riconoscimento della Worldwide Sommelier Association, Luca Gardini si rimette in gioco. E lo fa con Eurospin. La nota catena di discount italiani ha sottoposto al 35enne di Cervia una serie di assaggi. “Alcuni – spiega Gardini – mi hanno piacevolmente sorpreso al primo sorso. Su altri ci siamo confrontati e siamo giunti alla selezione finale. Da lì il progetto di realizzare una linea ‘garantita’, ma in pieno spirito Eurospin, senza brand per contenere i prezzi”. Così, il ‘mezzobusto’ del sommelier emiliano finisce dritto sulla home page del sito web del colosso di San Martino Buon Albergo (Verona). E sui volantini cartacei. Tra una confezione di prosciutto di San Daniele e quattro cotolette agli spinaci a prezzo stracciato, of course.
“Vini Doc, Igt e Docg integralmente prodotti in alcune delle più vocate zone viti-vinicole italiane”, quelli selezionati da Luca Gardini per Eurospin. Si passa dal Barbera D’Asti Docg Superiore a 2,39 euro al Nero D’Avola Terre Siciliane Igt a 1,85. Spazio anche per i vini bianchi. Come il Muller Thurgau Vigneti delle Dolomiti Igt a 2,99 euro, o il Fiano del Sannio Dop a 4,29 euro. Senza dimenticare rosati come quello del Salento, a 1,99. O vini frizzanti come il Pignoletto del Reno Igt a 2,29 euro, o il Verduzzo del Veneto Igt a 1,69. Gardini si materializza in persona in brevi video, sempre sul web, e ne presenta le caratteristiche. Consigliando gli abbinamenti. E tra un bicchiere e l’altro, trova il tempo per rispondere alle domande di vinialsupermercato.it.
Luca Gardini, miglior sommelier del mondo 2010, presta la sua figura per pubblicizzare i vini di un “discount”: com’è nata l’iniziativa? Credo che tutti abbiano il diritto di bere vino e, anche se non possono o non sono disposti a spendere molto, debbano avvicinarcisi informati, consapevoli, incuriositi
Il miglior vino della cantina Eurospin nel rapporto qualità-prezzo? Nei mesi scorsi, noi abbiamo scovato un buon Aglianico del Salento… A voi la scelta, sono tutti vini che raccontano territori diversi, non ne esiste un preferito, ma di sicuro c’è il preferito per ogni occasione. Potrei comunque fare quello politicamente scorretto e scegliere il Lambrusco della mia Romagna.
Il vino e la Gdo moderna: qual è la sua opinione? Il tempo a disposizione è sempre meno e poter trovare tutto ciò di cui abbiamo bisogno in un unico luogo, il supermercato per l’appunto, è un vantaggio di questi tempi moderni. La Gdo sta crescendo e non si interessa di vini solo a buon mercato, ma è sempre più attenta alla qualità e alla cura del cliente. Quest’esperienza ne è stato un esempio
In Italia esistono ancora vini “da discount” o “da supermercato”, nell’accezione negativa del termine? Esisteranno sempre, ovunque. Penso sia per questo che figure come la mia vengono interpellate
Come si sceglie un buon vino al supermercato? Documentandosi senza dubbio, e poi “sperimentando”. Ognuno ha il suo palato e va rispettato, non finirò mai di ripeterlo. Importantissimi sono anche la presentazione e lo stato di conservazione del vino o del prodotto alimentare che sia
Luca Gardini acquista vini al supermercato? Se sì, quali? Confesso di avere poco tempo per andare al supermercato. Per fortuna ho qualcuno che ci va al posto mio, ma quando sono in viaggio mi soffermo sempre a guardare quali vini (e come) supermercati e Autogrill propongono al pubblico in giro per l’Italia e per il mondo
Vino e marketing: quanto conta oggi l’immagine e quanto la sostanza? Quando l’immagine è sinonimo di garanzia non faccio distinzioni. Ricordiamoci che stiamo parlando di prodotti alimentari, la sicurezza prima di tutto. E poi, senza sostanza, l’immagine sarebbe bidimensionale. Non so se mi spiego…
Lo stato di “salute” del vino in Italia: una fotografia di Luca Gardini. Quali prospettive per il vino italiano nel mondo? Il vino italiano nel mondo non ha ancora la posizione che merita. Dobbiamo collaborare tra italiani, produttori – giornalisti – testimonial, e unire le forze per farlo conoscere sempre di più. Perché chi lo prova, poi non torna più indietro
L’area vitivinicola più sottovalutata d’Italia? Quella, invece, più sopravvalutata Sottovalutata forse la Sicilia. Ho bevuto grandi Nero d’Avola negli ultimi anni. Con mio grande piacere uno è anche arrivato al 4° posto della classifica Tws-Biwa, di cui sono fondatore con Andrea Grignaffini, che vede premiati i 50 migliori vini italiani da parte di una giuria di esperti internazionale. Sopravvalutata non saprei: amo troppo il vino per dire che qualcosa è “troppo”.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Partiamo da un punto fermo: Pierre Chanau non esiste. O, meglio: non è il nome del vigneron francese che produce il Gewurztraminer Vin D’Alsace Appelation Alsace Contròlée che vi sarà capitato di scorgere sugli scaffali di una catena francese di ipermercati. Rewind. Fate mente locale. Dov’eravate? Ve lo diciamo noi: da Auchan. “Chanau”, di fatto, non è altro che l’anagramma di “Auchan”. Si diverte (anche) così la famiglia Mulliez, che detiene il marchio della grande “A”, a sua volta parte della costellazione Adeo. Il vino bianco che finisce oggi sotto la lente di ingrandimento di vinialsupermercato.it rientra infatti tra quelli de “La Sélection”, “La Selezione” di vini realizzata da Auchan per i suoi clienti. In particolare, la vendemmia è la 2012. “Espressione del terroir e del sovoir-faire del produttore – si legge sul collarino apposto alla bottiglia – abbiamo degustato e selezionato per voi questo vino dall’eccellente rapporto qualità-prezzo”. Sveliamo l’ultimo ‘segreto’, prima di passare all’analisi gusto olfattiva: se Pierre Chanau non esiste, allora chi produce questo Gewurztraminer alsaziano? Vi spieghiamo anche questo. E’ la Wolfberger di Eguisheim, caratteristico borgo di 1.600 anime del dipartimento dell’Alto Reno, nel centro-sud della pregiata area vitivinicola francese. Cinquantotto milioni di euro il fatturato annuo del colosso Wolfberger, scelto non a caso da Auchan, anche per la sua consolidata esperienza nel mondo del vino, nel quale opera dal 1902.
LA DEGUSTAZIONE Nel calice, il Gewurztraminer Vin D’Alsace Appelation Alsace Contròlée Pierre Chanau si presenta di un bel giallo dorato, ancora più intenso di quanto potessimo aspettarci. Al naso, gli evoluti sentori di albicocca sciroppata ricordano quelli di certi pregiati Viognier francesi e dei migliori passiti italiani (non prendeteci per “pazzi” se ci sbilanciamo in una citazione altisonante del Ben Ryé Donnafugata).
Sono questi a emergere maggiormente, in un corredo olfattivo ricco, intenso e complesso, che spazia dalla frutta esotica (ananas, mango maturo e gli immancabili litchi), alla scorza d’arancia. Completano il quadro fini sentori di spezie come pepe rosa e chiodi di garofano. Un olfatto più che soddisfacente, che preannuncia un palato sorprendente.
Di fatto, a sostegno della pregevole pulizia delle note fruttate fresche già avvertite al naso (in perfetta corrispondenza gusto-olfattiva) interviene una sostenuta mineralità, già in ingresso. Il Gewurztraminer Vin D’Alsace Appelation Alsace Contròlée Pierre Chanau si apre poi deciso ma soave sulla frutta matura. Chiude infine minerale, rivelando una decisa sapidità. Come direbbero in Francia: chapeau. Perfetto accompagnamento per pietanze piccanti, questo Gewurztraminer della Selezione Auchan può essere accostato con facilità alla cucina etnica indiana o thai. Provatelo, per esempio, con un pollo al curry. O con un formaggio saporito e speziato.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Il figliol prodigo dell’Oltrepò pavese. Il Davide oltrepadano. Da sempre contrapposto, per stile e filosofia, al gigante Golia, che dalle parti di Pavia prende il nome di Bonarda. E’ il Buttafuoco storico, vino rosso da invecchiamento dell’Oltrepò Pavese. Una produzione limitata che, secondo gli ultimi dati, si assesta sulle 65 mila bottiglie. Numero che sale a 360 mila considerando l’intera Doc, che comprende un 25% di vino frizzante. Nulla a che vedere, insomma, con i 20 milioni di bottiglie di Bonarda che ogni anno escono dalle cantine pavesi. Ma per il Buttafuoco, e in particolare per il Buttafuoco storico, il 2016 potrebbe essere l’anno della riscossa. L’intitolazione di una piazza a Canneto Pavese (PV), avvenuta sabato 22 ottobre per volere dall’Amministrazione comunale guidata dal sindaco Francesca Panizzari, è solo uno degli indicatori della crescente attenzione verso questo nobile blend, ottenuto con sapienza dai vitigni Croatina, Barbera, Ughetta e Uva Rara. La vera rivoluzione parte dalla vigna. E arriva sino ai supermercati Esselunga, l’insegna del compianto Bernardo Caprotti. Da qualche settimana, infatti, è possibile trovare il Buttafuoco Storico Doc “Vigna Sacca del Prete” dell’azienda agricola Giulio Fiamberti in tutti e 90 i punti vendita Esselunga dotati di enoteca con servizio sommelier, dislocati sul suolo nazionale. Fa eccezione la sola regione Toscana, dove la catena milanese sta puntando sulla valorizzazione di altri nobili vini locali. Ad annunciarlo è proprio Giulio Fiamberti, non a caso presidente del Club del Buttafuoco storico.
“Negli ultimi anni – dichiara il viticoltore – siamo riusciti a imprimere una decisiva accelerata alle attività del Club, dando forma a una serie di progetti commerciali e di valorizzazione che erano in cantiere da un po’ di tempo. Un interesse sempre maggiore da parte delle istituzioni, complice probabilmente la scarsa forza dell’Oltrepò pavese in generale, che ha permesso di valorizzare ulteriormente alcune eccellenze che sono ormai da anni in controcorrente, oltre a una certa voglia e necessità di avere un prodotto bandiera che indichi una linea di qualità per tutta l’area oltrepadana, sono gli ingredienti del successo del Buttafuoco storico”. Risultati sotto gli occhi di tutti. Che gli attenti buyer di Esselunga non si fanno sfuggire.
“Quello con la catena di Caprotti – commenta ancora Fiamberti – è un rapporto che affonda le radici nei primi anni del 2000, quando è stato inaugurato il punto vendita di Broni, qui in Oltrepò pavese. La mia azienda è stata selezionata in quanto in grado di assicurare tutta la gamma di vini locali e, in più, anche il Buttafuoco storico e il Sangue di Giuda. In particolare, il Buttafuoco fu introdotto in 20 punti vendita. Poi il numero fu ridotto a 10, limitandosi alle province di Milano e Pavia. Arriviamo così sino ad oggi, con il cru ‘Sacca del Prete’ acquistabile in tutti e 90 i punti vendita Esselunga che possono vantare il servizio dei sommelier Ais all’interno delle loro enoteche”. Fiamberti, di fatto, è il maggiore produttore di Buttafuoco storico dell’Oltrepò pavese, con le sue 3.873 bottiglie. Il posizionamento del prodotto in Gdo è – per ora – lievemente sotto standard. “Si parla di 17,50 euro – ammette Fiamberti – ma il prezzo è destinato ad assestarsi, nei prossimi mesi, sui 18,50 euro circa”. In generale, il Buttafuoco storico si aggira tra i 16 e i 20 euro al pubblico, in enoteca. Mentre le cifre salgono a un minimo di 30 euro, grazie ai (grassi) ricarichi applicati dalla ristorazione locale. Mentre a livello nazionale, le carte dei vini sembrano quasi disconoscere il Buttafuoco.
“La produzione, complice la crescente richiesta non solo in Lombardia e in Italia ma anche e soprattutto all’estero, dal Canada alla Cina, è volata dalle 30-35 mila bottiglie del 2010 alle 65 mila potenziali del 2016”, aggiunge Armando Colombi, direttore del Club del Buttafuoco storico. “La superficie vitata è di circa 10 ettari – spiega – ma anche questo numero è destinato a salire. Uno dei progetti più importanti del Club è infatti quello di mappare nuove superfici, recuperando vigne abbandonate e valorizzando i terreni più vocati. I Vignaioli del Buttafuoco storico, che contribuiscono alla produzione del ‘cru dei cru’ consortile, vedono inoltre riconosciuto un valore commerciale di 3 volte superiore alle loro uve: questo perché il Buttafuoco necessita dell’apporto e dell’esperienza di tutti per diventare qualcosa di importante ed affermarsi, non solo come prodotto di nicchia, a livello nazionale e internazionale”.
Grande anche il lavoro sulla comunicazione del marchio. “Chi produce Buttafuoco storico – evidenzia Armando Colombi – non si pone più di tanto il problema di comunicare il prodotto, in quanto la produzione è talmente limitata da risultare sold-out in pochi mesi. Per questo il Club si sta concentrando sulla promozione del Buttafuoco storico nei confronti di chi si occupa di realizzare guide del vino e, in generale, nei confronti di tutti i comunicatori del settore”. Gomiti alti in area di rigore, insomma, per uno dei prodotti della viticoltura italiana più sottovalutati. Almeno nel Belpaese.
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(3,5 / 5)Cantina Calasetta, specialisti del Carignano del Sulcis. Sei versioni: da quella a “piede franco”, ottenuta da vite orginaria, non innestata con vite americana, passando alla Riserva, senza dimenticare il rosato. Sotto la lente di ingrandimento di vinialsupermercato.it finisce però Calalonga, il Carignano del Sulcis di Cantina Calasetta distribuito nei supermercati Esselunga. Una versione realizzata appositamente per la notsa catena della gdo italian, che non tradisce le attese. Anzi, stupisce nel rapporto qualità prezzo.
Il vino si presenta nel calice di un rosso rubino poco trasparente, scorrevole. Al naso, chiari e tipici sentori di frutta rossa, uniti a una percezione vegetale che richiama il peperone verde. Di facile beva, nonostante il buon corpo e una struttura tutt’altro che esile, gioca col palato sulle note di frutta rossa, pulite, già avvertite al naso. Sfodera solo in un secondo momento anche una bella sapidità, che torna in un finale fruttato e di leggera spezia. Lasciato nel calice qualche minuto, il Carignano del Sulcis Calalonga di Cantina Calasetta muta, grazie all’ossigenazione: si fa più ‘austero’, mostrando in bocca tratti sino ad allora sconosciuti, tra il dattero disidratato e la carruba. Etichetta interessante questo vino rosso di Sardegna, da consumare a tutto pasto. Si sposa, in particolare, con primi ricchi al ragù o con secondi come l’agnello. Noto l’abbinamento con l’agnello con carciofi, ricetta tipica pasquale sarda.
LA VINIFICAZIONE
Cantina Calasetta, realtà che ha sede nell’omonimo comune della provincia di Carbonia-Iglesias, sulla punta settentrionale dell’isola di Sant’Antioco, arcipelago del Sulcis, è stata premiata negli anni scorsi dal Gambero Rosso con i “tre bicchieri”. Dalla sede assicurano che Calalonga sia un Carignano del Sulcis 100%, senza addizione di uve di altri vitigni, pur consentita dal disciplinare per un massimo del 15%. Ma la cantina sarda sceglie di non fornire a vinialsupermercato.it le specifiche richieste sulla tecnica di vinificazione, come sino ad oggi aveva fatto solo un’altra cantina dell’Oltrepò Pavese.
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E’ dell’azienda Feuduccio il Montepulciano Doc 2014 Fonte Venna che finisce sotto la nostra lente di ingrandimento. All’esame visivo, questo giovane Montepulciano si presenta vigoroso. Conserva ancora riflessi violacei e luminosi, che fanno presagire una beva altrettanto vigorosa e vivace. Archi stretti all’interno del bicchiere, che esaltano la discreta densità. Al naso more e pepe nero sono percettibili sin dal primo approccio. Seguono ritorni interessanti di pepe nero, cannella e liquirizia, con una fragranza di ciliegie. Presente anche un risvolto vegetale, che ricorda il peperone. Al palato, il Montepulciano Doc 2014 Fonte Venna di cantina Feuduccio si distingue per una buona morbidezza e per i frutti rossi classici del vitigno. Conserva una buona sapidità. A pochi secondi dal sorso si riescono a percepire anche sentori complessi, che richiamano principalmente il cuoio. Il perfetto compagno, in cucina, per i piatti a base di carne e per i primi succulenti, a base di ricchi ragù.
LA VINIFICAZIONE
Il vigneto sul quale si sviluppa la vite di questo Montepulciano si trova a 432 metri sul livello del mare. Un terreno di tipo argilloso e calcareo. Una presenza minerale che ben si presenta al calice. La raccolta delle uve del Fonte Venna iniziano dalla seconda metà di ottobre. In cantina vengono sottoposte a una fermentazione in tini di acciaio inox da 130 hl, con follature giornaliere a temperatura controllata, per 15 giorni circa.
Il nome di questo vino Montepulciano, Fonte Venna, deriva dal fiume che fece ricco questo territorio già nel 1600 e che diede linfa vitale ai terreni. L’azienda Feuduccio ha voluto così rimarcare le radici storiche della vigna e la generosità della zona, che ben si presta alla viticoltura di qualità.
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E’ reale: la Fortezza di Montepulciano, storico edificio simbolo della città, è rinata completamente grazie all’impegno dei produttori di Vino Nobile di Montepulciano. Con il taglio del nastro di ieri per l’inaugurazione dell’Enoliteca del Consorzio e della nuova sede degli uffici consortili, l’edificio ha raggiunto il suo completo restauro ed è stato restituito completamente alla cittadinanza per essere sede ideale per mostre, eventi culturali, meeting di vario genere. “Un’opera che ha visto l’unanime adesione dei produttori di Vino Nobile – spiega il Presidente del Consorzio, Andrea Natalini – che in questi anni hanno di tasca propria investito in questa struttura continuando quel percorso di attenzione e sostenibilità per il territorio, per la sua storia e per la città di Montepulciano, che è il nostro valore aggiunto”.
“Il Consorzio del Vino Nobile – continua Natalini – ha sempre avuto un ruolo attivo nella tutela del patrimonio storico-artistico di Montepulciano. L’esempio più evidente di questo impegno, a cui i produttori associati sono stati invitati a partecipare dall’Amministrazione comunale insieme ad altri partner Istituzionali e privati, è la Fortezza, edificio di antichissime origini, la cui esistenza è già documentata addirittura nell’VIII secolo. Dai primi anni 2000, la Fortezza ha ospitato l’Anteprima del Vino Nobile; poi, nel 2007, è stato avviato un imponente progetto di restauro destinato a fare della struttura il punto di riferimento delle attività economiche del territorio nel settore vinicolo e delle produzioni tipiche e di qualità”.
Ieri, 8 ottobre 2016, in occasione dei festeggiamenti della Doc, è stata anche segnata la conclusione dei lavori in Fortezza, con il compimento della parte destinata all’Enoliteca e agli uffici del Consorzio. A quest’ultimo intervento, che ha riguardato il completamento del piano terra e la ristrutturazione del primo piano, il Consorzio del Vino Nobile ha contribuito in maniera consistente, insieme alla Kennesaw University della Georgia (USA) – che qui ha istituito la sua unica sede all’estero – e al Comune, per arrivare ad un totale di circa 1 milione e mezzo di euro. Complessivamente, la ristrutturazione della Fortezza, che ha visto il Consorzio impegnarsi anche nei due precedenti stralci, ha avuto una consistenza di quasi 3 milioni di euro, derivati anche da Fondi Regionali, Risorse CIPE e contributi GAL LEADER.
LE CELEBRAZIONI L’occasione è stata data dalle celebrazioni per i 50 anni dall’ottenimento della Doc, prima in Italia, del Vino Nobile che per tutta la settimana hanno visto in festa l’intera città e che si sono concluse con il concerto di Omar Pedrini, ex cantante dei Timoria e grande amico del Nobile, proprio in Fortezza. Con un convegno celebrativo al Teatro Poliziano, al quale hanno partecipato numerose autorità, si sono ripercorsi i 50 anni che dal 1966 hanno fatto la storia di un vino che porta il suo territorio in tutto il mondo e che è un fortissimo traino per il turismo di qualità. Durante la mattinata si è esibita in via eccezionale la Divinorchestra condotta dal Maestro Luciano Garosi che ha eseguito l’Inno del Vino Nobile di Montepulciano scritto proprio dal Maestro dell’orchestra poliziana con il testo di Alamanno Contucci. Un’emozione unica che ha accompagnato prima al Teatro Poliziano, poi in Fortezza, prima del taglio del nastro.
IL PATRIMONIO DEL NOBILE
Cinquecento milioni di euro. E’ questa la cifra che quantifica il Vino Nobile di Montepulciano tra valori patrimoniali, fatturato e produzione. Nello specifico in oltre 200 milioni di euro è stimato il valore patrimoniale delle aziende agricole che producono Vino Nobile, 150 milioni circa il valore patrimoniale dei vigneti (in media un ettaro vitato costa sui 150 mila euro) e 65 milioni di euro è valore medio annuo della produzione vitivinicola, senza contare che circa il 70% dell’economia locale è indotto diretto del vino. Una cifra importante per un territorio nel quale su 16.500 ettari di superficie comunale, 2.200 ettari sono vitati, ovvero il 16% circa del paesaggio comunale è caratterizzato dalla vite. A coltivare questi vigneti oltre 250 viticoltori (sono circa 90 gli imbottigliatori in tutto dei quali 76 associati al Consorzio dei produttori). Oltre mille i dipendenti fissi impiegati dal settore vino a Montepulciano, ai quali se ne aggiungono altrettanti stagionali. Nel 2015 sono state immesse nel mercato circa 7 milioni di bottiglie di Vino Nobile (in linea con l’anno precedente) e 2,8 milioni di Rosso di Montepulciano Doc
IL MERCATO In linea con gli ultimi anni, anche il 2015 si conferma anno dell’export con una quota destinata all’estero pari all’80 per cento di prodotto, mentre il restante 20% viene commercializzato in Italia. Per quanto riguarda il mercato nazionale le principali vendite sono registrate in Toscana per il 47%, dato al quale si aggiunge il 19 per cento delle vendite al Centro. Al Nord è stato venduto il 16% del totale, mentre è cresciuta del 4% toccando quota 17 per cento. Per quanto riguarda l’estero si assiste a una torta divisa a metà tra Europa e paesi extra Ue. La Germania torna a crescere del 3 per cento con il 46% per cento della quota esportazioni e resta il primo paese per le vendite del Nobile. Strepitosa performance anche per la Svizzera (+7%) che con il 17 per cento rappresenta un importante sbocco. Il dato più significativo arriva ancora una volta dagli Stati Uniti che segnano un + 10% nel 2015 arrivando a rappresentare il 20 per cento dell’export del Nobile. Successo anche per i mercati asiatici ed extra Ue con oltre il 7 per cento delle esportazioni.
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Cifre da capogiro per Morbegno in Cantina, nella giornata di sabato 8 ottobre. Sono 5631 i pass staccati ieri, validi per l’accesso alle vecchie cantine della città, fatte rivivere a suon di vino e prodotti gastronomici tipici della Valtellina. Impeccabile l’organizzazione, che è riuscita a tamponare i possibili disagi dovuti alle lunghe code alle porte delle cantine. La manifestazione prosegue quest’oggi e si chiuderà il prossimo weekend: sabato 15 e domenica 16 ottobre, in concomitanza con la Festa del Bitto, uno dei prodotti caseari lombardi più pregiati (il Bitto Storico è un presidio Slow Food). L’edizione 2016 prevede, proprio nel fine settimana conclusivo, un nuovo percorso speciale volto a valorizzare l’enogastronimia locale. “Quest’anno – spiega Paolo Angelone (nella foto, a destra), presidente del Consorzio Turistico di Morbegno – abbiamo cercato di dare all’evento una connotazione ancora più valtellinese. Oltre ai vini, ai banchetti allestiti all’interno delle 31 cantine visitabili è possibile trovare esclusivamente prodotti della nostra Valtellina: dai salumi ai formaggi, senza dimenticare dolci come la Bisciola. Un modo per valorizzare non solo dal punto di vista enologico ma anche gastronomico il nostro splendido territorio”. “Morbegno – aggiunge Alberto Zecca (nella foto, a sinistra), vicepresidente del Consorzio Turistico – gode di una posizione strategica non solo nel contesto della Valtellina, ma anche in quello lombardo. Ogni anno accogliamo una media di 20 mila persone, che giungono anche da altre regioni d’Italia, come per esempio il Piemonte e la Toscana, ma anche da altri Paesi, come la Svizzera, per godere delle nostre tipicità. E il feedback che ci viene offerto è sempre positivo”.
Anche Mamete Prevostini, presidente del Consorzio Vini di Valtellina e di Ascovilo, è soddisfatto dal primo bilancio dell’evento: “C’è continuità rispetto agli altri anni – commenta – e i dati sono molto incoraggianti. Per noi, la vera novità è stata l’introduzione dei wine lab in occasione della domenica d’apertura di Morbegno in Cantina. Un’iniziativa che ha dato lustro e risalto alla manifestazione e che ripeteremo certamente il prossimo anno, in collaborazione con i produttori”. Prevostini anticipa anche qualche cifra sulla prossima vendemmia: “La Valtellina produce in media 3,5 milioni di bottiglie all’anno. Un dato che subirà una lieve flessione con la vendemmia 2016, appena iniziata per le uve dello Sforzato. Nonostante le piogge di inizio stagione, che hanno favorito la peronospora, le uve risultano ad oggi in buono stato”.
I MIGLIORI VINI DEGUSTATI Davvero ampia l’offerta enologica nelle 31 cantine fatte rivere da Morbegno in Cantina. La scopriamo con la complicità di un ‘Cicerone’ d’eccezione, il sommelier Ais Massimo Origgi, brianzolo, oggi valtellinese d’azione che collabora da tempo con il Consorzio Turistico. Al terzo weekend di degustazione la parte del leone spetta ai medio-grandi produttori, capaci di fornire agli organizzatori un quantitativo più elevato di vino. Di fatto, ieri non v’era traccia dei nuovi ‘monumenti’ della viticoltura valtellinese. Aziende come Dirupi e Rivetti & Lauro, per citarne due su tutte, che per via della limitata produzione sono riuscite a fare bella mostra di sé solo in occasione del fine settimana di apertura dell’evento. L’altra faccia della medaglia è che i mostri sacri di Valtellina – i vari Arpepe, Mamete Prevostini, Nino Negri e Rainoldi – hanno saputo confermare la grandezza della loro stella, degna di un palcoscenico nazionale ed internazionale. Un palco su cui può salire di diritto, nelle sue varie coniugazioni, la Chiavennasca, nome col quale viene chiamata localmente l’uva Nebbiolo (a proposito: secondo alcuni recenti studi, il vitigno sarebbe originario proprio della Valtellina e non del Piemonte).
A vini da non perdere come lo Sforzato di Valtellina Albareda di Mamete Prevostini (in degustazione una vendemmia 2012 succosa, più pronta ad oggi di un vino di luminosa prospettiva come il 5 Stelle Sfursat di Nino Negri 2011, ancora un ‘infante’ nel calice) si affiancano gli ottimi Inferno Carlo Negri Valtellina Superiore Docg 2012 (degustabile sul percorso rosso, ‘fermata’ Gerosa: rivela anch’esso un futuro strabiliante per acidità e tannino) e il Grumello 2011 Arpepe (40 giorni sulle bucce e utilizzo di botti di castagno, come vuole la tradizione, ormai sulla via della definitiva riscoperta). Per completezza e qualità della gamma espressa a Morbegno in Cantina, un riconoscimento speciale va alla Aldo Rainoldi, capaci di spaziare dall’ottimo Inferno in vendita nei supermercati a prodotti di straordinaria freschezza e piacevolezza come il Prugnolo 2012, 13%, criomacerazione e utilizzo di barrique precedentemente utilizzate per lo Sforzato: un “vino quotidiano” d’eccezione il cui prezzo si aggira sui 10 euro.
Senza dimenticare, sempre di Rainoldi, le punte espresse dalle due Riserve di Sassella e Grumello Docg 2010 (interessante da valutare nell’evoluzione in bottiglia il primo, mentre il secondo, ottenuto da un unico vigneto posto a 600 metri sul livello del mare, oltre allo sprint futuro, regala un presente già delizioso), nonché dal Brut Rosè Metodo Classico, ottenuto da uve Nebbiolo vinificate in rosato assieme a una piccola percentuale di uve Pignola e Rossola: letteralmente l’unica bollicina che merita una menzione tra quelle presenti ai banchi d’assaggio. Ottima anche la vendemmia tardiva Crespino, sempre a firma Rainoldi. Da concedersi al termine della degustazione il sorprendente passito Vertemate di Mamete Prevostini, nome che ricorda la splendida villa di Piuro (frazione del Comune di Prosto, nei pressi di Chiavenna, SO) nei cui giardini sorgono le vigne di Riesling e Gewurztraminer da cui prende vita questo vino speciale (residuo zuccherino elevato, pari a 80-90 g/l).
Tra i ‘volti’ meno noti al pubblico non residente in Valtellina, da non perdere il Valtellina Superiore Valgella Docg 2009 di Cantina Motalli (Teglio, SO): vino di grande complessità, ottenuto in purezza da uve Chiavennasca del singolo cru ‘Le Urscele’. Anche il Valtellina Superiore Docg Grumello 2011 Red Edition di Plozza Vini Tirano, con il suo doppio passaggio in legno (prima rovere, poi castagno) svela ottime potenzialità di evoluzione, con un tannino e un’acidità stuzzicanti, in prospettiva. E’ invece di Triacca (Tenuta La Gatta di Bianzone, SO) il Valtellina Superiore Docg 2011 “Prestigio”, 14%, 100% Chiavennasca che affina 12 mesi in barrique di rovere francese nuove: un altro ottimo aspirante al trono della longevità.
De La Perla di Marco Triacca, invece, è il Valtellina Superiore Docg 2011 “La Mossa”: ottenuto dal vigneto situato in Valgella, affina due anni in botti grandi di rovere e un anno in bottiglia, prima della commercializzazione. Degno di nota anche il Valtellina Superiore Docg Riserva 2009 “Giupa” di Caven, azienda agricola del gruppo Nera Vini. Prodotto in edizione limitata dalla vendemmia tardiva di uve Nebbiolo, affina per circa 6 mesi in piccole botti di rovere, per poi maturare per ulteriori 18 mesi in botte grande, sempre di rovere. Da provare, infine, “Le Filine”, il Valtellina Superiore Docg 2011 di Vini Dei Giop, realtà di Villa di Tirano che opera in regime biologico, pur non certificato. Ennesimo vino di prospettiva, ottenuto da piccoli appezzamenti di vigna, “Le Filine” appunto, strappati letteralmente alle rocce, che fanno da contorno.
NON SOLO VINO Due, in assoluto, gli incontri da non mancare con la gastronomia Valtellinese a Morbegno in Cantina. Il pilastro locale, vera e propria istituzione in città, è il negozio di alimentari Fratelli Ciapponi di Piazza III Novembre 23. Una di quelle botteghe d’altri tempi, in cui trovare delizie enogastronomiche non solo locali. Del posto sono certamente le forme di formaggio Bitto in bella mostra nelle ‘segrete’ del negozio, aperte al pubblico. Tra queste, si potrà scorgere anche qualche forma di Bitto Storico di 15 anni. Fornitissima anche l’enoteca, che oltre a offrire una panorama pressoché completo della viticultura Valtellinese, non dimentica di annoverare le più prestigiose case vinicole italiane, passando addirittura per alcune tra le più note maison di Champagne francese. I più fortunati riusciranno anche a conoscere il signor Ciapponi, anima e cuore della storica attività, pronto a regalare sorrisi e battute geniali.
Per i più giovani, invece, l’appuntamento è con il modernissimo food truck Marco Gerosa e Massimo Rapella “L’idea è quella di proporre ai nostri tempi i sapori che avevano in bocca i nostri nonni – spiega Marco Gerosa -. Pertanto è nata l’idea del cibo ‘bio-grafico’, che riprende ricette storiche tradizionali, mediante utilizzo di materia prima esclusivamente locale. Un esempio su tutti è quello delle farine: è più facile trovarne di estere, anche nel nostro territorio. I nostri prodotti sono invece ottenuti da farina di grano saraceno e segale nata, cresciuta e macinata in Valtelina, in particolare nei comuni di Ponte e Morbegno. I nostri nonni di certo non compravano saraceno in Cina! Il valore aggiunto è la valorizzazione della territorialità e della tipicità dei prodotti ottenuti dall’arco alpino, unici al mondo. E anche i nostri salumi vengono trattati come li trattavano i nostri nonni”. Un evento al mese per Il Carretto Valtellina Street Food, che a Morbegno propone, oltre agli sciatt, un panino di segale della Valtellina spalmato con burro aromatizzato al timo selvatico, ripieno di slinzega di codone.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
(5 / 5) Etichetta impegnativa per il pubblico non ‘germanofono’, quella del Blauburgunder Kurtatsch. Per chi mastica solo italiano, aiutano le scritte Pinot Nero (Blau burgunder, appunto) e Cortaccia (Kurtatsch), la cantina produttrice.
Disquisizioni linguistiche e di marketing del vino a parte, quel che conta è il contenuto. E il Blauburgunder Pinot Nero 2013 della cantina Kurtatsch, vale proprio la pena d’essere acquistato e stappato.
Si aggira tra gli 8 e i 9 euro, di fatto, il prezzo di questo prezioso nettare della Doc Sudtirol Alto Adige, sugli scaffali dei supermercati. E questo è il momento perfetto per assaporarne l’evoluzione in bottiglia, a tre anni dalla vendemmia e dall’immissione in vetro.
LA DEGUSTAZIONE
Nel calice, il Pinot Nero Cortaccia 2013 si presenta del tipico rosso rubino. Meno trasparente, tuttavia, rispetto ad altri vini ottenuti dallo stesso vitigno. Al naso i richiami sono quelli attesi: sottobosco, piccoli frutti a bacca rossa e nera. Sentori intensi, fini, decisi ma delicati.
Un naso, dunque, che disegna un palato capace di confermare le attese: le note fruttate si mescolano a una sensazione di velluto che rende piacevole la beva. Alla delicatezza della frutta fa spazio un’acidità piacevole, rinfrescante. E una sapidità percettibile, ma dosata e pacata.
Una volta deglutito, il Pinot Nero 2013 di cantina Cortaccia si rivela lungo, su note che si fanno vagamente speziate, ad accompagnare i frutti di bosco. Buon vino da meditazione, accompagna al meglio ricchi primi piatti e secondi di carne rossa, alla griglia o arrosto, oltre alla selvaggina e ai formaggi stagionati. La temperatura di servizio deve aggirarsi fra i 16 e i 17 gradi.
LA VINIFICAZIONE
Tra i prodotto di punta della linea “Selection” di Cantina Cortaccia, questo Pinot Nero è ottenuto al 100% dalle omonime uve originarie dalle Borgogna francese, che da oltre un secolo hanno trovato una seconda, accogliente casa nei terreni del Sudtirolo.
In particolare, la zona produttiva si trova nel comune di Montagna, in località Gleno, provincia di Bolzano: uno splendido paesino situato a 500 metri sul livello del mare, ai piedi del Monte Cislon, il cui paesaggio è dominato da vigne e folti boschi. Il terreno è misto sabbioso e argilloso, caratteristiche che in bottiglia si traducono nel giusto compromesso tra una pronta bevibilità del prodotto e una complessità non banale.
La vinificazione del Pinot Nero Cortaccia prevede una fermentazione a temperatura controllata in vasche aperte e un successivo affinamento in legno grande, meno invasivo delle piccole barrique. Cantina Cortaccia conta oggi 190 soci, che coltivano 190 ettari di terreni, dislocati tra i 220 e i 900 metri di altitudine.
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