EDITORIALE – Premessa triste: il mondo della comunicazione del vino italiano era malato prima dell’avvento di Coronavirus. In questo senso, l’emergenza Covid-19, poteva “migliorare” o peggiorare le cose. La verità – ecco la tesi di questo editoriale che è più lo sfogo di un “vecchio” cronista, incapace di smettere di alimentarsi di ideali, a 17 anni dal primo articolo di giornale – è che tutto è cambiato, per tornare com’era. Mi spiego meglio, soprattutto per rendere il discorso comprensibile ai non “addetti ai lavori” del settore Wine&Food.
In questi giorni, gli uffici stampa delle cantine hanno cambiato tiro. Arrivano alle caselle di posta elettronica di WineMag.it e Vinialsuper.it decine di email con “cortese preghiera di pubblicazione” di “comunicati stampa” che, in realtà, non sono altro che pubblicità delle cantine. Nulla a che fare con l’informazione, insomma.
Si chiede, per esempio, di pubblicare la “notizia” (?!) che è “sempre attivo l’e-shop della cantina X”. Oppure che l’azienda Y “effettua consegne a domicilio gratuite”, in risposta al Decreto Cura Italia che limita gli spostamenti per fronteggiare l’emergenza Covid-19.
Perché dico che nulla è cambiato rispetto al passato? Anche prima dell’emergenza Coronavirus, solo il 20-30% dei “comunicati stampa” aveva carattere giornalistico o informativo per i lettori. C’era (e c’è ancora oggi) chi chiede addirittura la pubblicazione di note di degustazione di etichette mai degustate dalla redazione, da dare in pasto ai lettori come…pubblicità (appunto) per la cantina Tal dei Tali.
Eppure, eccoli lì: quei “comunicati stampa” pubblicati col copia-incolla, da tutti, senza distinzione: testate, blog, siti, sitarelli di enogastronomia. Quando gli uffici stampa cominceranno a trattare l’informazione come Informazione – e dunque le testate come “testate”, e non come “cataloghi” alla Postalmarket – sarà troppo tardi.
Con o senza Coronavirus, chi di dovere spieghi – per cortesia – alle cantine clienti la differenza tra informazione e pubblicità. Altrimenti, neppure questa emergenza ci avrà insegnato qualcosa. E continueremo a navigare sul web della marchetta enogastronomica. Col pubblico sempre più confuso tra marinai, pirati e influencer. Che tanto fa lo stesso, no? No. Cin, cin.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
“Quindici uomini sulla cassa del morto, yo-oh-oh, e una bottiglia di rum!”. Alzi la mano chi non ha mai letto “L’isola del Tesoro” di Stevenson (ok, quei pochi lì perdono!). E chi non ricorda la scena in “Pirati dei Caraibi – La Maledizione della Prima Luna” dove Jack Sparrow, su un’isola deserta, se la prende con Elizabeth perché ha bruciato le scorte di rum per farsi trovare dalla Royal Navy?
Nel nostro immaginario il rum è la bevanda dei pirati. Quella che bevono per infondersi coraggio prima di un arrembaggio e dopo una vittoria per festeggiare. È la bevanda che si beve sui velieri.
Eccezioni e miti a parte, tutto ciò è sostanzialmente vero, per via della facile reperibilità del rum nei Caraibi, per la facilità di trasporto e commercializzazione in Europa durante i due secoli del “commercio triangolare”, per le guerre fra le superpotenze dell’epoca, combattute a suon di embarghi e lettere di corsa.
Basti pensare che per i marinai della Marina Militare di Sua Maestà fu introdotto il “tot” (la razione giornaliera di rum) nel 1655, eliminato per decreto parlamentare solo il 30 Luglio 1970: il così detto Black Tot Day, quando alle 11 del mattino suonò l’ultimo “Up Spirits”.
DAL MITO AI GIORNI NOSTRI
Ma oggi il rum è molto più di quel semplice distillato di melassa reso celebre da romanzi e cinematografia piratesca. Occasione per fare il punto della situazione, per conversare con gli operatori e per degustare marchi storici e nuovi produttori è stato lo scorso 1 Aprile il Rum Festival & Cocktail Show di Milano tenutosi presso l’Hotel Marriott di via Washington 66.
Presenti all’evento tutti maggiori distributori italiani con i loro prodotti in degustazione ed alcuni bar tender pronti a dare bella mostra della loro fantasia ed abilità nel mixing. All’interno della manifestazione, inoltre, ben 3 Masterclass (Selezione Rum Nation, Selezione Rum Plantation e verticale Ron Abuelo) e 2 seminari “(Origini, storia, tipologie ed aneddoti del rum” e “Il Rhum Agricolo”). Insomma tutto l’occorrente per iniziare a muovere i primi passi nell’affascinante mondo di questo distillato o per approfondire le proprie conoscenze e competenze. Di che divertirsi per neofiti ed esperti. Ecco quindi la possibilità di viaggiare virtualmente per tutti i paesi produttori, seguendo itinerari diversi, andando alla scoperta di profumi e sapori fra loro anche molto diversi.
ALLA SCOPERTA DEL RUM Solera. Tecnica d’invecchiamento dinamico introdotta dagli spagnoli che ritroviamo declinata diversamente dai diversi produttori, ognuno con un suo stile. “Ron Diplomatico” dal Venezuela, rotondo e leggermente speziato, “Zafra” da Panama che per il suo Anejo 21 usa botti ex-bourbon ottenendo un rum setoso e piuttosto secco, i Colombiani La Hechicera, dal forte ricordo di rovere, vaniglia, caffè e tabacco, o “Dictador” coi suoi 15yo, 20yo e XO, tutti molto “fashion”, morbidi ed agrumati, che al Rum Festival presenta il suo Millesimato “Best of 1986” più inteso nei profumi e molto scorrevole al palato.
Guyana. Terra in cui la canna da zucchero cresce in modo pressoché unico, basti pensare al fiume Demerara ed allo zucchero che porta il suo nome. Ma non solo, perché è proprio a partire dalla melassa di quello stesso zucchero che nascono rum del tutto particolari. Fra loro la selezione 2005 di Plantation, con note dolci ed una speziatura leggermente spigolosa, o il Single Cask “Kill Devil” 46% 15yo di Diamond Distillery, rum ottenuto unendo distillati provenienti da diversi alambicchi a colonna in rame, in metallo ed in legno e poi invecchiato per 15 anni, che conquista con la sua pienezza al naso e palato, caldo eppur morbido e dolce, con spiccate note di cannella e pepe nero.
Agricole. Termine che indica i rum ottenuti a partire dal succo di canna grezzo. Fra essi alcuni marchi molto noti anche a livello commerciale (tutti ottimi prodotti) ed alcuni piccoli produttori artigianali. Fra essi spiccano “La Mauny” e “Trois Rivières”. La prima a fianco dei tradizionali invecchiamenti propone un rum invecchiato in botti ex-porto, assai fruttato. La seconda con una meravigliosa selezione “verticale”: VS, VSOP ed un Hors d’Age Triple Millesime 1998-2000-2007 la cui complessità supera ogni aspettativa ed a cui l’invecchiamento regala sentori che quasi si avvicinano a quelli di un Single Malt delle Highlands centrali.
Proprio Trois Rivière col suo “Cuvee de l’Ocean”, ricco di note iodate e salmastre, ci offre l’occasione di parlare di un altro importante prodotto che fa capolino fra i tavoli del Rum Festival: il rum bianco. Eh si! Perché il rum bianco non è solo quel distillato incolore ed un po’ grezzo che i mixologist usano per preparare cocktail in locali più o meno trandy. Il rum bianco in alcuni casi diviene un distillato da consumarsi “as is”. Non essendo invecchiato ci permettere di cogliere al suo interno i sapori e le sfumature della canna da zucchero e le caratteristiche della zona in cui cresce (il terroir tanto caro ai sommelier).
MAURITIUS, FILIPPINE, AFRICA E GIAPPONE In ultimo il Festival ci offre la possibilità di espandere il nostro viaggio virtuale anche al di fuori dei Caraibi, andando alla ricerca di quei paesi che solo recentemente si sono affacciati sul mercato mondiale del rum. È il caso delle Mauritius presenti con diversi produttori, tutti accomunati da semplicità e forza aromatica carica di sentori floreali, miele e canna da zucchero.
Le Filippine sono rappresentate da Don Papa, azienda ormai molto nota agli amanti del rum. La canna da zucchero utilizzata cresce sull’isola di Negros sulle pendici dal monte Kanlaon su terreno vulcanico. Pur leggero di corpo al palato accoglie il naso con la sua dolcezza quasi prepotente, carica di vaniglia e di arancia candita accompagnate da sentori di frutta esotica.
Il continente africano ci offre rum artigianali particolari. Sicuramente imperfetti al naso non nascondono alcuni sentori poco puliti che ricordano il cuoio bagnato ed in alcuni casi anche sentori animali, ma è in questo loro essere particolarmente “sporchi” e “virili” che sta il loro fascino e il piacere della scoperta di un prodotto che sa di “autentico”, senza compromessi.
Infine il Giappone, con “Ryoma” 7yo. È un rum agricolo, è invecchiato ben 7 anni, eppure non sembrerebbe. Il colore è dorato scarico, probabilmente figlio dello scarso “Angel Share” dell’isola di Shikoku, a sud Giappone, ed i profumi sono estremamente puliti. Verrebbe da dire che come per i Whisky i Maestri distillatori Giapponesi hanno appreso fin troppo bene e senza sbavature le tecniche tradizionali straniere.
IL RUM CARONI
Menzione d’onore per il Rum “Caroni” selezionato proprio dagli organizzatori del Festival: scuro, pieno al naso ed al palato. Capace di sprigionare, oltre ai tipici profumi, una nota che, strano a dirsi, ricorda la torba scozzese. Indescrivibile.
Ma tutto questo non è che l’inizio, non sono altro che alcuni spunti dai quali partire per scoprire davvero il mondo affascinante del rum. Ed allora che ognuno parta per il proprio viaggio, per la propria avventura inseguendo i propri gusti e il proprio desiderio di scoperta. Rispolverando il vostro Jolly Roger, “Gentleman, hoist the colours!”.
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Si è conclusa con l’arrivo a Capri l’avventura de “I pirati del Kalterersee”. Andrea Moser e Gerhard Sanin, rispettivamente responsabili enologici delle cantine Kaltern e Erste+Neue di Caldaro (Bolzano), hanno percorso in dodici giorni 1250 chilometri in tandem dall’Alto Adige alla Campania, affrontando un dislivello di 12000 metri. Hanno portato con sé il vino Kalterersee proponendolo in abbinamento alla cucina locale delle regioni attraversate. Ancora poco conosciuto fuori dal proprio territorio, il Kalterersee viene prodotto con uva Schiava (Vernatsch nella dizione tedesca). Di colore rubino chiaro, ha profumi fragranti e fruttati e una modesta gradazione alcolica. Fresco e con un tannino mai troppo aggressivo, ha tutti i numeri per essere il vino che ricerca oggi il consumatore interessato ad una cucina leggera e moderna. Non manca mai sulle tavole dell’Alto Adige, dove tradizionalmente viene accostato allo speck. Ma il viaggio di Moser e Sanin ha avuto proprio lo scopo di dimostrare la sua straordinaria versatilità: servito fresco (un paio di gradi in più di un vino bianco giovane) si accompagna perfettamente al pesce e ad antipasti leggeri. Ottimo con la pizza. Durante il percorso i due enologi hanno inanellato una serie di abbinamenti che hanno convinto e conquistato gli ospiti incontrati. A partire dal Baccalà alla roveretana nel vicino Trentino, con il pesce di Lago sulle sponde del Garda.
I PIRATI DEL LAGO
Quindi varcato il Po’ il Kalterersee ha fatto conoscenza con la mozzarella preparata con latte di Vacche Rosse a Reggio Emilia; il Parmigiano del Cimone con i mirtilli dopo la salita dell’Appenino, dove i due enologi sono stati accolti dal sindaco di Fanano. A Firenze li attendeva invece pioggia a catinelle prima di abbinare il Kalterersee al Peposo della Trattoria da Burde, a Siena invece con i taglieri di salumi tra la gente in contrada. Un piccolo incidente, la rottura di due raggi, ha costretto i due ciclisti ad una sosta tecnica, prima dell’assaggio del Pecorino a Pienza. Quindi Viterbo per il primo approccio con la cucina romana e Roma per un matrimonio con la pasta all’Amatriciana. A Terracina, finalmente al mare, i Pirati hanno scelto direttamente al mercato del pesce gli ingredienti del pranzo con cui hanno abbinato il vino alla pasta al sugo di scorfano rosso fresco. A Napoli l’immancabile appuntamento con la pizza. Infine Capri, l’isola agognata dai due pirati per nascondere il loro tesoro. Il pretesto per questo viaggio raccontato sul web e i social attraverso una serie di videoclip riunite in un divertente video-diario. Alla fine del tesoro, le bottiglie di Pfarrhof di Cantina Kaltern e il Leuchtenburg di Erste + Neue, non ne era rimasta una sola goccia. “Il vero tesoro – spiegano Andrea Moser e Gerhard Sanin – sono i sorrisi della gente che abbiamo incontrato, il calore dell’accoglienza, il gusto di cibi mai assaggiati prima, la bellezza pacata di alcuni luoghi e la meraviglia di altri, la pienezza di un’esperienza unica”.
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