Potesse avere una bandiera tutta sua, la Vipava Valley – o Valle del Vipava o del Vipacco, in sloveno Vipavska Dolina – sceglierebbe la via minimalista. Monocromo. Un vessillo di un unico colore. L’arancione. Quello dei suoi orange wine. Già perché la vallata della Slovenia che prende il nome dal fiume Vipava è un vero e proprio paradiso dei vini macerati. Tra il villaggio di Podnanos, ad est, e il confine con l’Italia, ad ovest, Madre Natura ha collocato qui due varietà di uve autoctone ancora poco note, perfette per la produzione di alcuni tra i vini macerati più fini al mondo. Si tratta dello Zelèn e della Pinela. Cenerentole con cui si può fare conoscenza a pochi minuti dal Collio friulano, altro Eldorado degli orange wine. La Vipavska Dolina – parte integrante della regione vinicola di Primorska – si trova infatti appena dopo il Collio sloveno (Goriška Brda), proseguendo verso Est. Sopra all’altra subregione del Kras (Carso), con cui confina nella parte sud-orientale.
«In mezzora si può attraversare la Vipava Valley in auto», ricorda Robert Gorjak, comunicatore ed ambasciatore dei vini della Slovenia. Una gemma che conta, per l’esattezza, 2.098 ettari complessivi e due aree geografiche ben distinte: la Upper Vipava Valley, ovvero la parte più occidentale; e la Lower Vipava Valley, più vicina a Nova Gorica (Gorizia). «Proprio come nel Collio italiano – continua Gorjak – è difficile incasellare i vini della Valle del Vipava in un’unica categoria. È un’area in cui convivono più vitigni e più stili. Dagli internazionali agli autoctoni. E dalle cuvée ai vini da singola varietà. Ma una cosa è certa. In Vipava Valley si producono ottimi vini da macerazione sulle bucce. E, qui come in altre zone della Slovenia, la produzione biologica e biodinamica sta crescendo molto negli ultimi anni».
I VINI MACERATI DELLA VIPAVA VALLEY: TRADIZIONE SECOLARE
Non è nuova della Valle del Vipacco la macerazione. Un processo enologico che prevede il contatto prolungato del mosto con le bucce, i vinaccioli e – talvolta – i raspi dell’uva, durante la fermentazione. Sebbene sia una pratica comune nella vinificazione dei vini rossi, l’utilizzo di questa tecnica sulle uve bianche è ciò che dà origine ai vini macerati, noti nel mondo come orange wines. Durante la macerazione, composti fenolici come tannini e antociani vengono estratti dalle bucce, conferendo al vino caratteristiche distintive in termini di colore, struttura e complessità aromatica.
In Vipava Valley – zona menzionata per la prima volta nel 1844 dal sacerdote Matija Vertovec, nel manuale di viticoltura ed enologia che porta proprio la sua firma – la macerazione delle uve bianche è una tradizione secolare. Questa pratica è stata preservata nel tempo, grazie alla dedizione di viticoltori che hanno affinato il metodo, nel corso dei decenni. Al punto di riuscire a valorizzare le caratteristiche delle uve e dei loro suoli, anche a fronte di una tecnica che tende a omologare i sentori e a rendere tutti uguali i vini macerati (ovviamente quelli fatti male).
ZELÈN E PINELA: DUE UVE AUTOCTONE PER I MACERATI SLOVENI
Colore paglierino con riflessi verdolini. Un bouquet floreale fresco e fruttato, con ricordi di pera e mela. Sono le caratteristiche dei vini ottenuti da uve Zelèn. Una varietà che si distingue dall’altro vitigno autoctono Pinela, che dà vini più freschi ed aromatici, con note di frutta a polpa bianca e una acidità più marcata. Un’accoppiata perfetta per i vini macerati della Vipava Valley, in un’epoca in cui la differenziazione e l’unicità della base ampelografica sono assi nella manica dei viticoltori, in chiave marketing e storytelling internazionale. Oltre alle varietà autoctone, i viticoltori della Valle del Vipava sperimentano con successo la macerazione su uve internazionali. Come Sauvignon Blanc, Chardonnay e Ribolla Gialla.
Importante anche la riscossa di un altro vitigno a bacca bianca: il Riesling italico (molto diffuso anche in Italia, con ben 1.200 ettari in Oltrepò pavese, dove non viene valorizzato a dovere). Per la prima volta nella storia dei vini della Slovenia, il noto produttore Primož Lavrenčič della cantina Burja si prepara ad immettere sul mercato – proprio entro la primavera 2025 – un vino che menziona l’Italico con il nome tradizionale “Grašica”, al posto del più noto (commercialmente) Laški Rizling. Segnando, così, l’inizio di una nuova era per un vitigno che, a sua volta, si presta in maniera genuina alla tradizione della macerazione sulle bucce della Vipava Valley. Lo stesso vale per i vitigni Piwi, introdotti di recente nella zona dalla cantina Marlon Batič.
10 VINI DELLA VIPAVA VALLEY DA ASSAGGIARE
Zelèn 2022, Pasji Rep Curioso il nome di questa cantina: Pasji Rep significa “Coda di cane” ed è un inno a uno dei “cru” più apprezzati della Vipava Valley. Un vino che scardina i teoremi sul vitigno autoctono Zelèn, solitamente meno aromatico e meno fresco/acido di così. Magistrale la macerazione, che dà corpo e spina dorsale al nettare. Vino da bere a secchiate.
MR. 21, Vinska klet Miška Ribolla e Malvasia, fermentate spontaneamente. Altra macerazione gestita divinamente, tanto da abbinarsi alle note aromatiche come una cravatta sulla camicia. Ricordi di frutta tropicale, dal naso al palato, sino alle memorie d’agrumi, in chiusura. Altro vino di gran beva, pur mai banale in ogni sua sfaccettatura.
Pinela 2023, Guerila C’è più ampiezza al naso, come nelle attese, rispetto ai vini prodotti con l’altro vitigno autoctono Zelèn. È l’aromaticità della Pinela, perfettamente espressa. Palato materico, oleoso, dominato dal frutto bianco (pera) ma impreziosito da netti ricordi di erbe selvatiche. Macerazione che qui non viene compiuta, in quanto si tratta del vino di ingresso all’interessantissima gamma della cantina.
Malvazija 2021, Krapež Classiche note della Malvasia (secca), con la magia regalata da 7 giorni di fermentazione sulle bucce. L’annata è di quelle buone e il vino si concede tra aromaticità, tensione acida e una polpa che si fa quasi “masticare”. Sapidità finale che non guasta, in termini di gastronomicità.
Retro Selection 2021, Guerila Ecco una cuvée coi fiocchi, a dimostrazione di quanto la Vipava Valley sia terra da single variety, tanto quanto da field blend. Ben quattro le varietà, qui: Pinela, Zelèn, Rebula (Ribolla) e Malvazija dal cru Pri Pili, con macerazione di una settimana. Un nettare ammaliante, di gran complessità e stratificazione, in cui a dominare non è una singola nota, ma un concerto di percezioni che va dal suolo (minerale, roccia) al frutto candito, sul consueto sottofondo di erbe aromatiche e finocchietto selvatico.
Rebula Maximilian I 2020, Svetlik Un anno in barrique per aggiungere ancora più corpo e struttura a un orange wine che convince per precisione, aromaticità e complessità. Splendida, al palato, la trama tannica che accompagna il sorso, contribuendo – insieme a una netta mineralità – ad un equilibrio perfetto con le note di frutta matura, esotica. Ottimo il potenziale evolutivo.
Stranice 2020, Burja Primož Lavrenčič si conferma maestro nelle macerazioni, con questo orange wine di assoluta raffinatezza, prodotto dall’ennesimo assemblaggio ben riuscito, con uve tipiche della Vipava Valley: Malvasia, Ribolla e Riesling italico. Piante di 60 anni, che affondano le radici in terreni marnosi. Gran pienezza dal primo naso al retro olfattivo, tanto sul frutto (mela, pera, frutta tropicale) e generosi rintocchi di erbe aromatiche. Zenzero per la componente speziata, abbinata a un leggero tocco fumé in chiusura.
Moser Cuvée, Pasji Rep In una parola, un altro capolavoro dalla Vipava Valley. Uve Malvasia, Ribolla, Riesling italico e Zelèn provenienti da una singola vigna, contraddistinta da una pendenza del 60% e da suoli poveri, rocciosi e sabbiosi. Vino sapido, dritto, verticale per definizione, con il plus di 7 giorni di macerazione a conferire polpa e materia al sorso. Chiusura sulle consuete note di finocchietto selvatico, a regalare un tocco di balsamicità che rende ancora più irresistibile la beva. Chapeau.
Klarnica, Kmetija Cigoj Segnalazione che vale un plauso all’eroica operazione di recupero della varietà Klarnica, da parte dell’azienda agricola Cigoj (da provare anche i loro insaccati da maiali mangalica). Si tratta di un vitigno a bacca bianca locale, di cui esistono solo 5 ettari. Bella aromaticità al sorso, sostenuto da un corpo non banale e da un finale che ricorda in maniera netta il miele d’acacia.
Zelèn 2021, Fedora Natural Wine Estate Splendida espressione del vitigno Zelèn, qui con sette giorni di macerazione sulle bucce. La varietà esprime così la classica nota fruttata gentile, su sottofondo di finocchietto selvatico. Consistenza oleosa in centro bocca e gran freschezza nel finale, delineata da ricordi di mentuccia che contribuiscono a chiamare irresistibilmente il sorso successivo.
NON SOLO VINO NELLA VALLE DEL VIPAVA
Come in ogni regione vinicola che si rispetti, anche la Vipava Valley ha una tradizione gastronomica importante. I tipici vini macerati della zona si sposano perfettamente con i piatti locali. Da provare la Jota della Valle del Vipava, una zuppa a base di crauti o rape macerate nelle vinacce, patate e fagioli, arricchita da carne essiccata o affumicata. C’è poi il Prosciutto Crudo della Valle del Vipava. Stagionato lentamente da maestri artigiani che portano avanti da decenni questa tradizione, ha un sapore delicato e una consistenza di velluto. Impossibile poi non farsi conquistare dagli Štruklji della Valle del Vipava, rotoli di pasta farciti con ripieni dolci o salati (ricotta e noci, erbe selvatiche, patate e pancetta o mele e cannella), che vengono poi cotti in acqua, al vapore, al forno oppure fritti.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 16 anni, tra carta stampata e online, dirigo oggi winemag.it, testata unica in Italia per taglio editoriale e reputazione, anche all’estero. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Segno Vergine allergico alle ingiustizie e innamorato del blind tasting, vivo il mestiere di giornalista come una missione per conto (esclusivo) del lettore, assumendomi in prima persona, convintamente, i rischi intrinsechi della professione negli anni Duemila. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Luca Raccaro, classe 1988, è il vicepresidente in carica del Consorzio Collio nonché titolare, assieme al fratello Paolo e al padre Dario, della cantina Raccaro società agricola di Cormons. Uno dei volti giovani del mondo dei Consorzi del vino italiano, che sta affrontando una parte finale dell’anno, nonché del mandato, a dir poco “calda”. La vicenda legata al Collio Bianco da uve autoctone è stata presa di petto dal Cda guidato dal presidente David Buzzinelli. L’assemblea dei produttori ha dato così il via libera a un tavolo tecnico utile a dare un’identità ben definita alla tipologia, al di là delle pressioni e dagli interessi individuali di alcune aziende del territorio. Non solo. Il Collio si candida ad essere tra le poche regioni vinicole al mondo a normare nel dettaglio, sin dall’etichetta, un proprio vino ottenuto con macerazione delle uve (i tanto decantati “Orange Wine”). Luca Raccaro, grande appassionato di musica lirica, affronta nell’intervista esclusiva rilasciata a Winemag le due importanti novità del Collio di fine 2024, al pari del futuro del Consorzio.
Luca Raccaro, da vicepresidente del Consorzio Collio si aspettava un finale di mandato, in scadenza a marzo 2025, così “acceso”?
Alla luce delle tematiche che abbiamo affrontato, direi proprio di sì. Essere riusciti a portare in assemblea un’istanza come l’inclusione dei vini macerati è stata una bella sfida, perché nonostante i tavoli tecnici non avevamo la piena certezza che il territorio fosse favorevole. La mia felicità a tal proposito è stata enorme perché ho lavorato e creduto molto in questa proposta. Credo fermamente che la nostra forza nasca dalle differenze. Questa è sempre stata una terra di confine e le diversità, nel corso del tempo, hanno sempre arricchito il territorio. Perciò credo che, soprattutto in un mondo che ha fatto dell’omologazione il suo modello, ogni differenza sia una ricchezza che rende unica la nostra realtà. Va da sé che é difficile mettere d’accordo tante teste, ma la cosa fondamentale è riuscire a portare sotto la protezione del consorzio il maggior numero di aziende. Solo così potremo sfruttare appieno le nostre potenzialità.
Il Consorzio ha dato il via libera al tavolo tecnico su un Collio bianco da sole uve autoctone: qual è la sua opinione su questa tipologia?
Penso sia una grande possibilità. Da tanti anni si parla di un vino che possa fare da portavoce del territorio, ma per molto tempo abbiamo temporeggiato. Adesso siamo pronti e credo che questa occasione sia da sfruttare al 100%, per presentarci uniti ad un mercato sempre più esigente. Avere un vino composto dalle varietà tradizionali arricchirà il territorio.
L’apertura del tavolo tecnico nel contesto attuale è una vittoria o un segno di debolezza del Cda del Consorzio?
Credo sia la vittoria di tutto il territorio e non solo del nostro Cda. Un Consorzio che in un’unica assemblea vota a favore dei vini macerati e di un tavolo tecnico per lo sviluppo di un vino territoriale dimostra forza, unione, maturità. E la volontà dei vignaioli di lavorare per la crescita del Collio.
Da qualche anno, un gruppo di cantine della zona ha incentrato il proprio marketing aziendale su una tipologia, quella del “Collio da uve autoctone”, attribuendole se non altro una certa “supremazia storica” sul Collio Bianco prodotto anche con i vitigni internazionali. Oggi, lo stesso gruppo, che non ha mai formalmente presentato alcuna richiesta al Consorzio per un migliore riconoscimento della tipologia, peraltro già prevista dal disciplinare del Collio Doc, si sta attribuendo tutti i meriti dell’apertura del tavolo tecnico. Cosa ne pensa?
A mio parere il Consorzio Collio è il simbolo del territorio e tutela tutti i vignaioli. Meriti o demeriti non sono la chiave di lettura. L’unica cosa che conta è il risultato. In questi giorni si è parlato molto di protagonismi, ma l’unico vero protagonista è, e deve essere, il vino. Questo tavolo tecnico consentirà a tutti i produttori di creare un disciplinare conforme e condiviso in maniera democratica. Tutto il resto è acqua.
Il Consorzio Vini Collio compie 60 anni nel 2024 e dimostra di essere al passo coi tempi nell’ascoltare tutte le voci e le richieste che arrivano dalla “base”. La specifica “Vino da Uve macerate” va in questa direzione. Quali benefici potrà portare al territorio questa novità e come si esplicherà, ufficialmente, in etichetta?
Il Collio è il primo territorio a riconoscere e formalmente normare questa tipologia di vini e di questo sono estremamente orgoglioso. Storicamente, i vini macerati sono presenti da più di 30 anni perciò riunirli sotto il cappello del Consorzio era essenziale. Dare un disciplinare anche a questa tipologia non farà altro che confermarne la qualità. È assodato che questi vini abbiano trovato ben stare in Collio. Perciò, dare la possibilità al consumatore di capire dall’etichetta cosa c’è all’interno della bottiglia che si accinge ad acquistare o, meglio, a stappare, è fondamentale. Per quanto riguarda le modalità di scrittura in etichetta, siamo già in contatto con gli organi predisposti al controllo per definire ogni elemento.
Qual è la percentuale di “vini macerati” sul totale della produzione del Collio? Crede che la novità possa incrementare la produzione della tipologia e contribuire a far riconoscere ancor più il Collio come il territorio d’elezione degli “orange wine italiani”?
Non essendo stata una tipologia ancora riconosciuta, non abbiamo percentuali certe anche se a grandi linee possiamo dire che si aggira tra il 6 e l’8 % della produzione totale. Il nostro obbiettivo è dare un regolamento condiviso ai produttori. Se la tipologia crescerà, saremo orgogliosi e certamente questi vini contribuiranno con tutti gli altri all’identità del Collio.
Da quale porzione della base del Consorzio è arrivata la richiesta di una migliore identificazione della tipologia, che alla fine sembra mettere tutti d’accordo?
Tutte le nostre scelte sono frutto di un ragionamento condiviso dall’assemblea. La proposta è arrivata direttamente da chi questa tipologia di vini la produce e vende. Ma è la collaborazione tra i diversi produttori, maceratori e non, la vera forza del progetto.
Con il mandato triennale del Consorzio in scadenza, sarà certamente il prossimo Cda a dover “governare” i tavoli tecnici. Pensa che il consiglio di amministrazione, anche grazie alla totale apertura dimostrata nei confronti della base produttiva, possa essere riconfermato in blocco e proseguire sulla strada tracciata dal precedente mandato?
Personalmente, sono sicuro che anche il prossimo Cda, indipendentemente da chi ne farà parte, lavorerà in tal senso. In questo mandato c’è stata una grande collaborazione e sarebbe un vero piacere poter proseguire assieme anche per il prossimo mandato. Ma dipenderà dalle scelte di ognuno.
È possibile ipotizzare una sua candidatura alla presidenza, nel ruolo oggi occupato da David Buzzinelli?
Il futuro ovviamente non è certo e, in questo momento, non ci ho ancora pensato. Ma per il territorio ci sono e se avrà bisogno ci sarò.
Dov’è il Collio oggi e dove andrà – o dovrebbe andare, a suo avviso – nel prossimo triennio, in termini di mercati, obiettivi e prospettive?
Oggi siamo presenti su tutti i mercati più importanti. Nel prossimo triennio mi piacerebbe poter confermare e incrementare il sodalizio con gli Stati Uniti, che rimangono il nostro mercato extraeuropeo principale. Tuttavia, non possiamo non guardare verso est ed in particolare a Giappone e Cina. Mercati in fortissima crescita, sui quali è e sarà necessario puntare, per avere una diversificazione e soprattutto nuovi sbocchi economici.
Non crede che in Friuli Venezia Giulia ci siano troppi Consorzi del vino e che questa abbondanza, al posto di palesare evidenti diversità, limiti risorse altrimenti aggregabili, da investire per una migliore comunicazione delle eccellenze regionali?
Nonostante il Collio sia molto piccolo, esistono differenze microclimatiche tra una zona e l’altra che marcano in maniera evidente i vini. Figuriamoci se dovessimo prendere in considerazione l’intero territorio regionale. È vero che non abbiamo grandi numeri, ma la qualità non va mai di pari passo con la produzione. Anzi, di solito minore è la resa migliore è la qualità. Ed è questa caratteristica che noi abbiamo l’obbligo di preservare.
A livello regionale è un tema sempre caldo quello del Prosecco, con le recriminazioni del Carso nei confronti (soprattutto) della Doc veneta. Se avesse voce in capitolo, come gestirebbe la questione?
La mia scelta produttiva è diversa da quella del Prosecco, perciò non sono in grado di rispondere e lascio la parola a chi di questo si occupa.
Intanto, il Collio ha annunciato che il 2025 sarà l’anno del Friulano. Fino ad oggi, scusi la franchezza, si è fatto davvero pochissimo per promuovere questa varietà. È possibile aspettarsi, finalmente, una comunicazione adeguata, che metta una volta per tutte alle spalle la “questione ungherese” che si è trascinata dal 1993 al 2007?
Chi mi conosce sa che la mia azienda ha fatto del Friulano il suo cavallo di battaglia. È una grandissima varietà con delle enormi potenzialità. Per questo l’abbiamo scelto come rappresentante del territorio per il 2025, con un grande evento che lo vedrà protagonista. I discorsi sulla questione ungherese sono storia vecchia. Nonostante le prime difficoltà, credo che orami abbiamo dimostrato senza ombra di dubbio quale sia l’anima del Friulano: un grande vino costellato ogni anno da moltissimi premi a livello nazionale ed internazionale.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 16 anni, tra carta stampata e online, dirigo oggi winemag.it, testata unica in Italia per taglio editoriale e reputazione, anche all’estero. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Segno Vergine allergico alle ingiustizie e innamorato del blind tasting, vivo il mestiere di giornalista come una missione per conto (esclusivo) del lettore, assumendomi in prima persona, convintamente, i rischi intrinsechi della professione negli anni Duemila. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Inserimento di un “Vino da Uve Macerate” Doc Collio e creazione di una nuova categoria di vino bianco da uve autoctone, sempre Doc Collio. Sono i due importanti temi discussi ieri, 10 dicembre 2024, dall’assemblea ordinaria del Consorzio Collio, che ha visto la partecipazione di 44 soci, rappresentanti il 63% dei voti totali dell’assemblea. Favorevoli al nuovo vino macerato (tipologia nota a livello internazionale come “orange” o “orange wine”) 2.966 voti, contrari 733 voti, astenuti 413 voti. La mozione è stata quindi approvata con il 72% dei voti favorevoli. L’assemblea si è poi espressa sul nuovo vino bianco da vitigni autoctoni del Collio: favorevoli 3974 voti, astenuti 138 voti e nessuno contrario. La mozione è stata approvata con il 97% dei voti favorevoli.
VINO DA UVE MACERATE DOC COLLIO
Il comitato tecnico del Consiglio di Amministrazione, alla luce di quanto emerso dal lavoro del tavolo tecnico a cui hanno potuto partecipare tutti i produttori della denominazione, ha proposto l’introduzione della specificazione “Vino da Uve Macerate” per identificare i vini Doc Collio ottenuti attraverso tecnica di macerazione fermentativa di almeno 7 giorni. «Questa categoria – spiega il Consorzio presieduto da David Buzzinelli – accompagnata da criteri come la classificazione cromatica tramite scala Pantone e un profilo di acidità volatile adeguato, mira a ridurre l’ambiguità nelle valutazioni e garantire una standardizzazione tra le commissioni, oltre a consentire maggior chiarezza e trasparenza nei confronti del consumatore finale».
NUOVO COLLIO DOC BIANCO DA UVE AUTOCTONE
Il Cda del Consorzio Collio, viste le recenti polemiche attorno al gruppo di produttori che promuove il proprio Collio Bianco da uve autoctone, ha proposto di istituire un tavolo tecnico per sviluppare «una nuova categoria di vino bianco da inserire a disciplinare, ottenuto esclusivamente dalle varietà Tocai Friulano, Ribolla Gialla e Malvasia Istriana». Il tavolo lavorerà per definire le caratteristiche, le percentuali di assemblaggio e il nome di questa nuova espressione del territorio. «I risultati delle votazioni riflettono il nostro impegno comune per una crescita che unisca tradizione e innovazione. La collaborazione tra i soci è la chiave per affrontare le sfide future e valorizzare al meglio la denominazione Collio», ha dichiarato il presidente David Buzzinelli.
COLLIO: 2025 ANNO DEL FRIULANO
Un momento di particolare rilievo, sempre durante la riunione di ieri, è stata la proposta di organizzare il primo evento istituzionale dedicato al Collio. Si terrà il fine settimana del 25 e 26 ottobre 2025. L’iniziativa, fortemente voluta dai soci e attesa dagli operatori del settore, celebrerà ogni anno una varietà rappresentativa. Il 2025 sarà quindi l’anno del Friulano. L’evento offrirà una panoramica delle sue potenzialità con degustazioni che includeranno annate passate, vini attuali e campioni in affinamento. «Questo evento – ha dichiarato la direttrice Lavinia Zamaro – è una grande opportunità per consolidare il prestigio del Collio, creando un appuntamento annuale che valorizzi il nostro territorio e le sue varietà simbolo». L’assemblea si è conclusa con l’impegno condiviso di lavorare per una crescita sostenibile e innovativa della denominazione, con l’obiettivo di rafforzare ulteriormente il Collio come sinonimo di eccellenza enologica.
QUESTIONE QUOTE
L’incontro di fine anno è stato un momento cruciale per discutere i risultati dell’anno trascorso, le attività svolte e le prospettive future, con particolare attenzione ad eventuali modifiche del Disciplinare e alla valorizzazione della Denominazione. L’assemblea ha infine deliberato all’unanimità lo sconto dell’8% sulle quote per le categorie imbottigliatori ed imbottigliatori promozione, possibile grazie al riconoscimento di alcuni contributi ed all’accurata gestione economica del Consorzio.
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L’orange wine italianodell’anno è il Custoza Doc 2020 “Crea Macerato” di Albino Piona. Il punteggio assegnato in occasione delle degustazioni alla cieca della Guida Top 100 Migliori vini italiani 2024 di winemag.it è di 94/100. Si tratta di un vino macerato prodotto con uve Garganega (40%), Trebbiano (30%), Trebbianello – Tai (15%) e Incrocio Manzoni (15%) dall’azienda agricola di Villafranca di Verona che si è aggiudicata anche il titolo di “Cantina dell’anno Nord Italia” 2024. Una realtà da conoscere, soprattutto per le molteplici interpretazioni di una delle denominazioni italiane meno conosciute ma meritevoli di essere scoperte, per le qualità uniche dei propri vini: la Doc Custoza.
Alla vista, il il Custoza Doc 2020 “Crea Macerato” di Albino Piona si presenta di un color “orange” leggero: un aranciato appena pronunciato. Al naso risulta molto elegante, su netti ricordi di pesca e sottofondo che richiama la frutta secca, oltre a presentare accenni di calde spezie orientali. Palato che, sulla scorta del naso, si conferma estremamente raffinato, nel bel gioco tra sapidità e frutto maturo stuzzicato da una leggera percezione tannica, che rende onore alla tipologia.
Crea Macerato 2020 conquista il titolo di orange wine italiano dell’anno nell’ambito della Guida Top 100 Migliori vini italiani 2024 di winemag.it per la grazia che è in grado di conferire a una tipologia, quella dei vini macerati, troppo spesso alla mercé di standardizzanti ossidazioni e deviazioni organolettiche, nel nome del “terroir” e del “vino naturale”: nulla di più lontano dal varietale e dal territorio che, invece, questo vino incarna appieno. Meravigliosamente.
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«Il vino naturale è come la sottocultura del Metal e dei Fumetti. È humus culturale transnazionale. Gli appassionato di vini naturali hanno un linguaggio comune, in ogni angolo del mondo. Da Tokyo a Rovescala». Eureka. Come da copione di un film in cui tutto è scontato e banale solo in apparenza, l’illuminazione, il flash, la luce rivelatoria si materializza nel momento meno atteso: il finale.
Su Copenhagen splende il primo sole dopo giorni di pioggia mista a neve, di quelle che ti si infila negli occhi mentre cerchi di non farti investire da una nuvola bionda di biciclette. Dribblando pozzanghere. L’ultima tappa di un tour di cinque giorni al seguito di 43 produttori italiani di “vino naturale”, tra la capitale della Danimarca e la vicina Malmö, in Svezia, è Il Buco.
Un ristorante e wine bar focalizzato su produzioni naturali, dalla panetteria alla carta vini, quasi interamente italiana, con importazione diretta. Un punto di riferimento ad Island Brygge, quartiere situato a nord dell’isola di Amager, a pochi passi dal centro di København.
Nell’aria, il freddo di dicembre e il volo di qualche gabbiano, tra il fermento di un sobborgo che trasmette energia, nel contrasto tra i moderni palazzi e i locali arredati industrial, contemporaneo, rustico e Boho chic.
VINO NATURALE: QUESTIONE DI APPROCCIO O DI FEDE?
È qui che Giovanni Segni, export manager plurimandatario di riferimento per la costellazione vinnaturista italiana, ha organizzato gli ultimi assaggi “controcorrente” per i vignaioli Matteo Maggi (Colle del Bricco), Stefano Milanesi e Giorgio Nicassio (Cantina Giara).
L’obiettivo è convincere il restaurant manager e curatore della selezione de Il Buco, Steffen Schandorf, a inserire in carta qualche altra etichetta, prodotta tra le zone di Pavia e Bari. Tra un calice e l’altro, il discorso che dà un senso compiuto a cinque giorni di assaggi e girovagare per le due “capitali” del vino naturale internazionale.
Ho un amico – rivela Giovanni Segni – che lavora per Marvel e non aveva mai assaggiato dei vini naturali. Da quando glieli ho proposti, non beve altro. E pensa di aver iniziato a bere davvero solo da quel momento. Per lui il passo è stato breve.
C’è un fil rouge evidente tra le sottoculture del vino naturale e dei Fumetti. Un discorso che vale pure per il Metal. L’unica differenza è che i fumetti sono diventati mainstream grazie al cinema e ai vini naturali questo non accadrà mai».
Più si affonda la lama nel terreno scivoloso e impervio dei vini naturali, più si comprende quanto il punto non sia il calice in sé, ma quello che viene esattamente prima e dopo. Quello che sta attorno al calice di questa nicchia d’appassionati.
Segni parla di «sottocultura» e «humus culturale transnazionale». Vignaioli faro come Natalino Del Prete di «bere col cuore, al posto della bocca». Parole diverse per dire tutto sommato la stessa cosa, piaccia o no: il vino naturale è approccio, fede. Poeticamente, amore. L’apostrofo rosa tra il difetto e la caratteristica.
LA VOCE DEI VIGNAIOLI A NORDIC NATURALIA 2021
“Vino naturale”: circa 23.3 milioni di risultati. “Vini naturali”: circa 6.2 milioni di risultati. “Vino”: 688 milioni di risultati. Google, il motore di ricerca più utilizzato dagli internauti, restituisce anche in Italia il battito cardiaco di un movimento, quello vinnaturista, che conta fra il 3 e il 4% dei consumi complessivi.
Una stima valida in diversi angli del mondo, che nel Nord Europa assume una rilevanza maggiore. Non a caso Giovanni Segni ha organizzato a Malmö, in Svezia, una fiera che ha visto protagonisti 43 vignaioli italiani che si riconoscono nei canoni vinnaturisti, pur con interpretazioni contrastanti. L’ha chiamata Nordic Naturalia.
La seconda edizione è andata in scena il 12 dicembre scorso. I produttori sono stati distribuiti in due locali (Far i Hatten e Grand Malmö) della città scandinava, nuova terra di conquista del vino naturale italiano, dietro a centri già “indottrinati” come Stoccolma e Göteborg.
«Rispetto all’edizione pre-Covid del 2019 – commenta Giorgio Nicassio di Cantina Giara – ci sentiamo tutti quanti un po’ cresciuti e consapevoli delle potenzialità dei nostri vini. La Svezia, con la sua attenzione assoluta alle produzioni artigianali, ben al di là di quello che importa il Systembolaget, non può che essere considerata un ulteriore trampolino di lancio».
«Faccio vini naturali da 5 anni – aggiunge Andrea Marchetti – in due zone: a sud del Lago di Garda e in Emilia Romagna. Senza nulla togliere a chi fa vino “convenzionale” e senza dire che il mio approccio sia giusto e quello degli altri sbagliato, questo è secondo me l’unico modo possibile per fare vino. Si dà espressività sincera all’uva e al territorio, senza manomissioni».
Filippo Manetti di Vigne San Lorenzo (Fognano, Ravenna) è d’accordo con il collega: «Il vino è solo naturale, le altre sono bevande a base d’uva più simili alla Coca-Cola. Purtroppo la gente li confonde. L’importatore svedese ha capito il mio approccio e mi richiede una media di tre bancali all’anno. Per il momento sono più che soddisfatto».
Anche il giovane Matteo Maggi di Colle del Bricco (Stradella, Pavia) ha da pochi mesi un importatore in Svezia. «Questo Paese – commenta – è senza dubbio un punto di riferimento per i vini naturali. Qui c’è più apertura mentale rispetto all’Italia, che è molto più tradizionalista. Ecosostenibilità, biologico e tematiche green sono al centro delle scelte quotidiane degli svedesi».
Andrea Pendin e Lorenzo Fiorin di Tenuta l’Armonia (Bernuffi, Vicenza) approfondiscono il concetto. «La larga scala e il sistema cooperativistico, così come concepiti oggi, sono limitanti». «La parola “naturale” deve tener conto di un’altra, ovvero “collettività“, alimentando quell’attenzione al tessuto sociale e alla socialità che manca nel mondo del vino convenzionale, compreso quello del biofake».
C’è anche chi ha lasciato il proprio lavoro per dedicarsi anima e corpo alla produzione di vini naturali. È il caso dell’ex ristoratore Antonio Camazzola, alias Vigne del Pellagroso (Monzambano Mantova).
«La prima vendemmia ufficiale risale al 2017 – spiega – ma ho iniziato nel 2010 facendo vino in garage. Il vino naturale è secondo me l’unica via per bere. Meglio ancora se la produzione è certificata biodinamica. Nel mio caso, da AgriBio Piemonte».
Tra i discepoli italiani di Rudolf Steiner presenti a Nordic Naturalia 2021 c’è Valerio Noro. «Abbiamo trasferito il nostro approccio olivicolo e orticolo alla viticoltura – commenta il figlio del fondatore della Società agricola biodinamica Carlo Noro di Labico, Roma – riscontrando come le pratiche biodinamiche non siano “sostenibili”, bensì migliorative».
Ma bisogna fare di più. Non è vero che “fare poco” aiuta in agricoltura, anzi. Lo stesso discorso vale per i vini naturali, per le loro fermentazioni spontanee e per tutti i processi che anticipano l’imbottigliamento. Spesso mi viene detto che i miei vini sono “troppo puliti per essere naturali”, ovvero che “non puzzano”. Questo paradigma va cambiato».
L’approccio è molto simile a quello di Sequerciani, cantina certificata Demeter con base a Gavorrano, in provincia di Grosseto. «Sin dall’inizio – spiega la manager Simona Viganò – il titolare Ruedi Gerber, svizzero appassionato di Georgia e di uno stile di vita sano e a contatto con la natura, ha voluto che la cantina puntasse tutto sulla salubrità del vino, che deve raccontare il territorio senza manipolazioni chimiche. Dando spazio, in particolare, ai vitigni autoctoni».
All’evento organizzato da Giovanni Segni ha aderito anche Max Brondolo di Podere Sottoilnoce (Castelvetro di Modena). «I nostri volumi di esportazione in Svezia sono esigui – evidenzia – e per questo ho aderito a Nordic Naturalia, a caccia di un nuovo importatore. Cerco comunque di non utilizzare il termine “vini naturali”, preferendo la definizione di “vino artigianale” o “a basso intervento“».
La filosofia produttiva – continua Brondolo – riflette le mie convinzioni da consumatore. Cerco di bere vini ottenuti attraverso meno passaggi possibili tra l’uva e il bicchiere, senza per questo sopportare difetti evidenti nel vino.
Difetti causati da poca attenzione, poco tempo o dalla sottovalutazione di certe dinamiche. I vini naturali difettati fanno male al movimento e a chi produce con la dovuta attenzione. Purtroppo se ne trovano in giro ancora tanti».
«Secondo noi di Casa Brecceto – va giù ancor più duro Raffaele Grasso, tra i titolari della cantina di Ariano Irpino, Avellino – la definizione “vino naturale” non significa un cazzo. Per di più, il vino non deve avere difetti e puzzette spacciate per terroir».
Si può sempre migliorare e siamo migliorati molto anche noi, rispetto a quella prima vendemmia garagista. Eravamo neofiti. Oggi abbiamo molta più consapevolezza. Un bel percorso che ci ha portato a produrre con lieviti indigeni e fermentazioni spontanee su 3 ettari vitati, contribuendo a preservare il nostro amato territorio».
«Produco Timorasso in una zona di semi montagna, la Val Borbera, che mi permette di fare rifermentazioni e dare a questo vitigno espressioni diverse da quelle della classica versione ferma. Meno struttura e un pochino più di eleganza rispetto a quelli più noti». Questa la lettura di Andrea Tacchella, titolare della cantina Nebraie di Rocchetta Ligure, in provincia di Alessandria.
Penso che la maggior parte del lavoro si faccia in vigna – aggiunge il vignaiolo piemontese – trasformando l’uva in vino manipolandola il meno possibile, accompagnando il processo e aspettando. Meno interventi possibili, insomma, accettando pure qualche risvolto ribelle e spigoloso del vino, un po’ come sono io».
«Il vino naturale – chiosa Marco Merli dell’omonima cantina di Perugia – è la trasformazione indotta dell’uva, senza scendere ai compromessi dell’agro-industria e dell’eno-industria. L’idea è di mettere la verità nel bicchiere. Non ho altra scelta. È una questione riguardante il mio gusto personale sin dagli esordi nel 2006, con mio padre».
Tra i produttori presenti a Nordic Naturalia 2021 anche Daniele Manini di Doria di Montalto, cantina con un approccio molto particolare alla produzione. «Storicamente – spiega l’agronomo dell’azienda di Montalto pavese, Pavia – il vino è stato considerato qualcosa di vicino alla salute. Come dimostrano numerose ricerche, il vino, se consumato in maniera moderata, pur cronica, può avere effetti positivi sull’organismo».
Le nostre uve vengono raccolte a un grado di maturazione che gli erboristi definiscono “tempo balsamico“, quando sono in grado di cedere massimamente i polifenoli. A quel punto, lavorate con un criterio sano in cantina, riescono a mantenere tutte quelle caratteristiche che rendono il vino uno dei due perni della dieta mediterranea».
VINO NATURALE: PERCHÈ PIACE AGLI IMPORTATORI IN SVEZIA
Jessica Mihai è una delle importatrici che ha compreso le potenzialità del vino naturale italiano in Svezia. A Nordic Naturalia 2021 si è presentata con una selezione di nomi noti del movimento vinnaturista del Bel paese – tra cui spiccano Franco Terpin e Denis Montanar – accanto ai vini dall’Alsazia del giovane vignaiolo Philippe Brand.
Jordmånen Vinimport è essenzialmente questo. Piccole produzioni naturali che Jessica Mihai riesce a vendere direttamente ai ristoranti svedesi, tra cui molti stellati. Tra i clienti anche diversi privati, con tutte le complicazioni dettate dal passaggio (obbligato) nel sistema monopolistico statale del Systembolaget.
La base è a Stoccolma – spiega l’importatrice – ma lavoro in tutto il Paese. In catalogo ho sei italiani e un francese. Ho iniziato nel 2019 con Terpin e Brand, per poi allargare il raggio a Cantina Giara dalla Puglia, Old Boy dal Veneto, Denis Montanar dal Friuli Venezia Giulia e ora a Pistis Sophia dall’Abruzzo».
«L’unica cosa che bevo sono i vini naturali – spiega ancora la titolare di Jordmånen Vinimport -. So perfettamente come sono fatti, senza interventi chimici. E hanno uno spettro di profumi e di sapori completamente diversi dai vini convenzionali. Offrono un’esperienza molto diversa rispetto a quella degli altri vini importati in Svezia e presenti nel catalogo ufficiale continuativo del Systembolaget».
L’ORDERING ASSORTMENT DEL MONOPOLIO SVEDESE SYSTEMBOLAGET
La storia di Jessica Mihai è emblematica e aiuta a comprendere quanto il “vino naturale” sia ormai entrato nelle case degli svedesi appassionati di vino. Si è avvicinata a questo mondo nel 2009. A due anni circa, cioè, dai primi passi del «movimento vinnaturista» alla corte di Stoccolma.
Da bevitrice e appassionata – spiega la titolare di Jordmånen Vinimport – ho voluto fare il grande salto iniziando a importare una mia selezione di vini naturali. Gli importatori pionieri hanno fatto un gradissimo lavoro sul territorio, sin dal 2007.
Hanno aperto le porte a un numero impressionante di importatori che ogni anno si aggiunge all’elenco. Un trend di crescita che riguarda anche molti ristoranti, anche tradizionali, dove non manca mai almeno qualche etichetta di vino naturale».
Nei negozi del monopolio è raro trovare “vini naturali” a scaffale. L’unico modo per acquistarli e consumarli al di fuori degli store ufficiali, dei ristoranti e dei wine bar, in Svezia, passa dal cosiddetto Ordering assortment.
L’importatore ordina il vino e lo stocca, vendendolo principalmente attraverso il sito web del Systembolaget. Solo se le vendite sono buone le etichette hanno speranza di finire sugli scaffali, entrando di diritto nel Permanent assortment, perlopiù in qualità di vendite spot.
SWEDISH WINE CENTER E LA SUA INFINITA CARTA DI VINI PIWI SVEDESI
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Al di là dell’ampio sguardo sull’estero, in Svezia c’è anche chi ha deciso di focalizzarsi sulle produzioni locali. Si tratta di Piwi, varietà di vite resistenti alle malattie fungine, oggetto in Italia del primo concorso nazionale organizzato dall’Istituto Edmund Mach di San Michele all’Adige (premiazioni svoltesi il 2 dicembre in Trentino con il successo del Solaris di Weingut Plonerhof).
Il punto di riferimento assoluto per chi si trova a Malmö è Swedish Wine Center. Accanto a una cucina molto curata, caratterizzata da un’alta qualità e freschezza della materia prima, si possono trovare i vini di diverse cantine svedesi. Arild’s Vingård è quella che dispone del maggior parco vigneti del Paese.
Ma a lasciare il segno è un vino prodotto da Vingården i Klagshamn, proprio ai margini del centro cittadino di Malmö. Si tratta di Texture 2019, Solaris che macera 44 giorni sulle bucce, in acciaio. Un orange wine che maschera bene la fenolica, anche grazie a 15% di alcol in volume molto ben integrati nel corredo.
Sul fronte dei prezzi, il costo dei vini svedesi è considerevole. Il calice, peraltro, non premia sempre lo sforzo del portafoglio, specie in tema Piwi. I più curiosi possono sperimentare la vasta selezione di Swedish Wine Center attraverso un percorso di “assaggi al calice” di oltre 20 etichette, per un totale di circa 160 euro.
VINI NATURALI A COPENHAGEN: WINE BAR E DISTRIBUZIONI EMERGENTI
Parola d’ordine “Italia”. Può sembrare strano, ma a Copenhagen c’è un wine bar con cucina che, dopo anni di vicissitudini, sembra aver trovato finalmente la quadra. All’insegna dell’italianità. Beviamo Wine Bar, fondato nel 2017 dall’imprenditore e winelover Jasper Remo, è in rampa di lancio grazie all’ingresso nel team dei giovani Matteo Vecchi e Tessa Carrettoni.
La sorte del locale situato al 58 di Nordre Frihavnsgade è nelle loro mani. Remo trascorre oltre la metà dell’anno nel Monferrato, in Piemonte, dove si occupa dell’acquisto e della ristrutturazione di vecchi casali abbandonati, per conto di facoltosi clienti internazionali. Nel tempo libero, ormai da 11 anni, va a caccia di vini.
Vista l’impossibilità di reperire la maggior parte dei miei vini preferiti in Danimarca – spiega Jasper Remo – ho deciso di diventare io stesso importatore. Beviamo Wine Bar nasce dalle ceneri di un altro locale aperto in centro, trasformato dai miei ex soci in qualcosa di diverso da quello che avevo in mente».
Questo curatissimo wine bar, ristorante ed enoteca si trova a Østerbro, quartiere di Copenhagen molto tranquillo, rinomato per essere a “misura di famiglia“. Basta guardare fuori dalle ampie vetrate del locale per notare l’impressionante viavai di passeggini.
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Vere e proprie inconsuete baby-car da 4 posti, condotte da giovani madri e babysitter. A dare una scossa alla vita serale della zona ci ha pensato proprio Jasper Remo, tra i primi imprenditori a comprendere le potenzialità del distretto situato ai margini di Nørrebro, da sempre più trendy, eclettico e alla moda.
Non sono abituato a seguire i gusti mainstream – spiega l’imprenditore – e per questo nel mio locale si trovano solo cose che piacciono in primis a me. È il caso dei vini naturali, che occupano una buona fetta della selezione. Grande spazio a piemontesi e siciliani, ma anche a vignaioli francesi ed esteri: tutte produzioni artigianali, capaci di regalare vere emozioni».
Il compito di trasmetterle ai clienti spetta a Matteo Vecchi, sommelier di origine emiliane con un curriculum riempito in giro per il mondo. L’ultima tappa Dubai, al Bulgari Hotels & Resorts. A Copenhagen è arrivato tre mesi fa, «convinto dal progetto ambizioso» di Jasper Remo.
Al suo fianco, da poco meno di un mese, la piemontese Tessa Carrettoni. Appena 19 anni e le chiavi della cucina già ancorate al grembiule da cuoca. Manualità e carattere che fanno ben sperare per il futuro di Beviamo Wine Bar. La clientela già apprezza il cambio di rotta.
IL BUCO COPENHAGEN: NATURAL WINE BAR E RISTORANTE
Aperto da novembre 2011 a Island Brygge, Il Buco è un altro angolo d’Italia a Copenhagen. Negli anni, il locale di Njalsgade 19 C si è conquistato la fiducia di molti danesi. Fino alle 17 sono ben accetti ai tavoli i laptop, poi banditi. Entrando nel ristorante prima di mezzogiorno, il colpo d’occhio è quello di uno Starbucks in chiave danese, secondo canoni architettonici industrial.
Numerosi giovani lo scelgono per l’ampiezza degli spazi, la tranquillità e la connessione WiFi sempre disponibile, oltre alla possibilità di godere di una colazione “fatta in casa”, con lieviti e ingredienti frutto di agricoltura sostenibile.
Tutto Il Buco parla la lingua green e organic. Dai panificati sino ai dolci, passando ai primi e ai secondi del menu, studiato su base stagionale. Una filosofia che unisce piatto e calice, grazie alla selezione vini curata da Steffen Schandorf, appena 29enne (nella foto sopra).
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La totalità delle etichette di vino naturale (100% Made in Italy) è importata direttamente, senza intermediari. Ma in carta non manca qualche curioso Piwi danese. L’orange wine di Drudgaard, ottenuto dalle varietà resistenti Solaris e Muscaris, è di gran lunga uno dei migliori Piwi internazionali, per equilibrio e concretezza. Da provare.
«L’import di vino, olio, formaggi e altri prodotti artigianali italiani – commenta Schandorf – ha preso vita da qualche anno, andando di pari passo con la trasformazione e l’evoluzione de Il Buco, sino alla forma attuale».
Siamo aperti tutti i giorni, dalle 7 a mezzanotte e qui il vino, essendo ristoratori e anche importatori, ha un ruolo centrale. Il nostro focus, la sostenibilità, si traduce in un’attenzione alle produzioni pure, senza solfiti aggiunti, biologiche e biodinamiche».
VINTRO NATURVIN COPENHAGEN: L’ENOTECA CON LA SORPRESA
Da un importatore all’altro, il passo è breve in Danimarca. Non senza sorprese. A suggerire che da Vintro Naturvin ci sia “qualcosa sotto” dovrebbe essere il pavimento, dall’effetto psichedelico, che richiama il logo del locale.
Tutto è chiaro quando Marius Gade, titolare dell’enoteca e distribuzione di Ravnsborggade 5 con il socio Simon Guitton, fa segno a tutti di spostarsi, iniziando a spingere un mobile ricolmo di bottiglie. Pare follia e invece ecco comparire delle scale, che conducono al buio magazzino sotterraneo. Il paradiso all’inferno, o giù di lì.
Una magia che accomuna pavimento, mobili con le ruote e scaffali di Vintro Naturvin, ricolmi di bottiglie dalle etichette indimenticabili. Colorate, sgargianti, piene di luci e della vita di personaggi che spaziano dai fumetti al mitologico, con richiami alla natura, al sesso, all’arte e alla vita bucolica.
Veri e propri manifesti del vino naturale internazionale, che fa dell’estetica e del marketing delle labels uno dei veicoli principali per spingere le vendite. Dietro all’etichetta, così come sotto a quel mobile, la concretezza di un progetto e di una selezione tutt’altro che casuale.
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Trattiamo solo vini ottenuti da fermentazione naturale – spiega Marius Gade – preferibilmente certificati biodinamici. Prediligiamo inoltre vini sotto ai 100 mg/l di solforosa, perché anche la salubrità del vino per noi è importante».
Italia e Francia hanno un ruolo da protagoniste assolute sugli scaffali di Vintro, che al momento sorreggono circa 500 etichette. Il focus sulla biodiversità di questa enoteca di Copenhagen spazia poi in Spagna, Portogallo, Georgia e Slovenia.
«La maggior parte dei vini vengono venduti ai ristoranti – spiega Marius Gade – sempre più attenti alle produzioni biologiche in carta vini. Il vero trend in ascesa è quello degli orange wine, sempre più richiesti anche dai privati, in enoteca. Direi che l’ascesa dei vini naturali in Danimarca va di pari passo proprio con l’aumento dell’interesse, e dunque delle vendite, degli orange wine».
LEONARDO TERENZONI, LA STAR DELLE ETICHETTE DEL VINO NATURALE
Se le vendite di vino naturale sono in ascesa in Italia e, soprattutto, all’estero – Nord Europa in primis – una buona fetta del merito va a chi riesce a catturare l’attenzione sullo scaffale, in un segmento che fa dell’appariscenza un must collettivo.
Chiedere per credere a Leonardo Terenzoni, 41 anni, artista (definizione che non ama) e musicista che vive tra Firenze e Bologna. Per l’esattezza in un paesino dell’Appennino tosco-emiliano, Vernio, dove ha «scelto di tornare, dopo tanto girovagare per il mondo».
Da 20 anni Terenzoni disegna alcune tra le più belle etichette di vino naturale presenti sul mercato. Il suo nome è noto nel settore e il suo tratto distinguibile tra mille. Tanto che molti produttori si affidano alla sua penna per innovare la veste di intere linee di vini, o per sbarcare sul mercato. Col botto.
L’approccio è molto simile a quello dei vignaioli con la loro terra. Terenzoni non appoggia la penna sul foglio prima di essere «entrato in un rapporto di amicizia con loro, di averli conosciuti e di averne capito le esigenze». «La cosa che mi rende più felice – rivela – è che molti vignaioli mi chiedono di realizzare l’etichetta partendo dalla mia idea di grafica, legata al mondo animale».
Ho sempre immaginato animali molto ribelli e molto in disparte, gli ultimi della fila. Per questo li vesto con la maglia a righe da pirata o da marinaio, con il cappellino da corsaro.
L’idea è simboleggiare quello che sento dentro da sempre: la voglia di viaggiare. Mi commuove pensare che questi vignaioli decidano di farmi partecipare a qualcosa che per loro ha un grande significato, come l’etichetta di un loro vino».
Leonardo Terenzoni è anche sommelier e sa bene che il vino deve parlare nel calice, ben oltre l’etichetta. «Può avere il vestito più bello del mondo, ma se non è buono non si vende. Bere vini naturali è bere le storie dei vignaioli, il loro attaccamento spasmodico al territorio. Il vino naturale implica empatia: la stessa che occorre per realizzare un’etichetta». Del resto, pesa più il quadro o la cornice?
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 16 anni, tra carta stampata e online, dirigo oggi winemag.it, testata unica in Italia per taglio editoriale e reputazione, anche all’estero. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Segno Vergine allergico alle ingiustizie e innamorato del blind tasting, vivo il mestiere di giornalista come una missione per conto (esclusivo) del lettore, assumendomi in prima persona, convintamente, i rischi intrinsechi della professione negli anni Duemila. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
EDITORIALE – I Vini bianchi con macerazione, noti anche come “Orange wine“, hanno pari dignità dei “vini di ghiaccio” – gli Ice Wine cari a Paesi come Canada e Germania – e dei vini liquorosi come Marsala, Sherry e Porto. A stabilirlo è l’Oiv, l’Organizzazione internazionale della Vigna e del Vino, che li ha inseriti nella lista dei “Vini speciali“.
Un provvedimento che tiene conto – con qualche anno di ritardo – dell’iscrizione del metodo georgiano di vinificazione in qvevri, le anfore interrate utilizzate dalla notte dei tempi in Georgia, nella Lista dei Patrimoni culturali immateriali dell’Umanità dell’Unesco, avvenuta nel 2013.
L’Assemblea generale dell’Oiv ha adottato la decisione attraverso risoluzione 647-2020, con il conseguente inserimento della tipologia di produzione nel “Codice internazionale delle pratiche enologiche” riconosciute.
La definizione dei nuovi “Vini speciali” è precisa: “I vini bianchi con macerazione sono ottenuti dalla fermentazione alcolica di un mosto a contatto prolungato con le vinacce, compresi bucce, polpa, vinaccioli ed eventualmente raspi”.
Diverse le prescrizioni: “Si elaborano esclusivamente a partire da varietà di uva a bacca bianca; la macerazione viene condotta a contatto con le vinacce; la durata minima della fase di macerazione è di un mese; il ‘vino bianco con macerazione’ può essere caratterizzato da un colore arancione-ambrato e da un gusto tannico“.
La definizione della una nuova categoria di prodotti – dichiara l’Oiv – permetterà di far conoscere i vini in qvevri / kwevri a professionisti e consumatori, affinché vengano giudicati e apprezzati tenendo conto delle loro modalità di produzione e particolarità organolettiche“.
“Il gusto tannico e il colore arancione-ambrato – continua l’Oiv – potranno pertanto essere spiegati meglio ai consumatori e ai professionisti. Altrettanto possibile sarà la distinzione nei concorsi di vini quale categoria a sé stante”.
Dichiarazioni che arrivano, forse non a caso, dopo la bufera scatenata dalle parole del professor Luigi Moio sui “vini naturali” e la (s)connessione tra terroir e ossidazione. Di certo, la risoluzione dell’Oiv sui “Vini bianchi con macerazione” non gioca solo a favore dei vignaioli e delle piccole realtà artigianali sparse per il mondo.
Sono infatti numerose le cantine di stampo “industriale” che, in Georgia, accostano il “Metodo tradizionale” di vinificazione in qvevri alle pratiche enologiche tipiche del metodo europeo e internazionale, come l’utilizzo di serbatoi di acciaio e botti di legno.
Si tratta di realtà come Ktw, acronimo dietro al quale si cela il colosso “Kakhetian Traditional Winemaking Group”: solo una delle cantine capaci di di produrre milioni di bottiglie ogni anno, tra l’altro con l’utilizzo di chips (legali in Georgia) in fase di affinamento.
Dietro (o dentro) le qvevri, la Georgia sarà sempre più in grado di dare ulteriore spinta a produzioni industriali firmate anche da enologi di fama europea ed internazionale, un po’ come sta avvenendo per il vino della Cina.
Tra i professionisti impegnati nel Caucaso anche l’italiano Donato Lanati, che ha all’attivo una collaborazione con Badagoni Wine Factory proprio nel Kakheti, patria delle anfore georgiane: 4 milioni di bottiglie l’anno per la cantina di Akhmeta. Un dettaglio che non sarà certo sfuggito al dogmatico bureau dell’Oiv.
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MILANO – Sono state presentale in mattinata al Ristorante Daniel di Milano le novità della prossima edizione di Vinitaly la più importante fiera del vino italiano in programma a Verona dal 19 al 22 Aprile 2020.
Archiviata l’ultima edizione con un gradimento complessivo al 95,1% (fonte: customer satisfaction 2019, rilevazione indipendente) e con la nuova impostazione 4.0, il prossimo Vinitaly prosegue nello sviluppo delle proprie direttrici – digitale, globale, educativa – aggiungendo nuove caselle a un mosaico che nel 2020 supererà se stesso.
“Al netto di accorpamenti e uscite dal mercato, negli ultimi 5 anni Vinitaly ha visto immutati il 95% dei suoi espositori. Un’alta fedeltà, unica nel panorama fieristico internazionale, che rappresenta il miglior biglietto da visita per una manifestazione che non cambia i propri protagonisti ma punta renderli sempre più smart e globali” dice Maurizio Danese, presidente di Veronafiere.
“Anche il prossimo anno il mondo del vino sarà da noi e noi saremo nel mondo. Lo faremo nella consapevolezza di poter contribuire alla crescita del business anche con nuove forme di linguaggio e di racconto multitarget. Vinitaly sarà inoltre sempre più incubatore di tendenze attraverso la rappresentazione fisica e virtuale dei trend emergenti” – dichiara il direttore generale di Veronafiere Giovanni Manotvani.
Da qui la crescita prevista per la 54° edizione dell’area Organic Hall, l’ingresso degli Orange Wine, la crescita della presenza di produttori esteri ed il nuovo spazio curato da Ian D’Agata Micromedia Wine dedicato ad aziende con piccole produzioni a varietà indigena ad alto tasso qualitativo.
Confermata anche l’Enoteca bio e Vinitaly Design, mentre ulteriori novità arriveranno da Enolitech, lo storico salone internazionale sulle tecnologie per la produzione che grazie all’interlocuzione con le imprese ha definito un percorso strutturato di presenza anche alle principali iniziative estere di Vinitaly.
Sul fronte commerciale per il 2020 si annuncia un nuovo record dopo i primati della scorsa edizione. Il punto più esaustivo sulla partecipazione sarà fatto al prossimo Wine2wine a Verona il 25 e 26 novembre.
Lavori in corso, inoltre, per Vinitaly and the city e le sue contaminazioni fra vino, arte, musica e spettacolo pensate per i winelover a Verona e provincia.
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Il castello di Agazzano, in provincia di Piacenza, ospiterà domani domenica 9 e lunedì 10 dicembre la prima di edizione di “Orange Wine – Il nuovo colore del bianco“.
Le degustazioni ai tavoli dei produttori di Orange Wine sono previste domani dalle ore 10 alle ore 18 e lunedì 10 dicembre dalle ore 11 alle ore 18. L’ingresso è di 20 euro (ridotto 15 euro).
“Saranno presenti una cinquantina di vignaioli che hanno scelto l’agricoltura biologica o biodinamica – spiegano gli organizzatori – e che vinificano le proprie uve con metodi tradizionali. Un tuffo tra profumi e sapori insoliti alla scoperta di vitigni e vini davvero straordinari per un vino né rosso né bianco: orange”.
La macerazione sulle bucce per i vini bianchi è una tradizione antica, contadina, sparita o quasi con l’avvento di nuovi macchinari di cantina che permettono di eliminare le bucce immediatamente. Una tradizione che resiste in Georgia, definita la “culla del vino”, ma anche nelle campagne italiane dove il vino contadino ha sempre sostato sulle proprie bucce più o meno a lungo.
Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Veneto e Liguria sono luoghi dove ancora oggi le uve bianche vinificate in casa sono tradizionalmente macerate. Numerosi “vignaioli naturali” hanno iniziato a proporre tra i propri vini alcuni Orange wine, già dalla fine degli anni Novanta.
L’evento è organizzato da Echofficine che propone annualmente il salone dei “vini naturali, di tradizione e territorio” denominato “Sorgentedelvino LIVE“, la cui 11a edizione si svolgerà a Piacenza Expo da sabato 9 a lunedì 11 febbraio 2019.
I VIGNAIOLI PRESENTI
Abruzzo: Podere San Biagio Basilicata: Camerlengo Calabria: Masseria Perugini Campania: Alepa, il Tufiello Emilia Romagna: Distina, Filarole, La Poiesa, Tenuta Borri Friuli Venezia Giulia: Denis Montanar, Zahar Lazio: Cantina Ortaccio, Il Vinco, Palazzo Tronconi – Vina distribuzione Liguria: Rocche del Gatto, Terra della Luna Lombardia: Barbara Avellino, Ca del Conte, Castello di Stefanago, Nicola Gatta Agricola, VNA Wine, Piccolo Bacco dei Quaroni Marche: Ca Sciampagne, Fontorfio Piemonte: Cascina Bandiera, Cascina Grillo, Lo Zerbone – Vina, Maurizio Ferraro, Ricci Daniele, Valdisole, Valli Unite, Vinicea Puglia: Cantina Giara Sardegna: Sanna, Sedilesu Sicilia: Avirà, Badalucco – Vina, Etnella, Ferracane, La Chiusa a Monte Vago, Longarico – Vina, Porta del Vento Toscana: Al Podere di Rosa – Vina, Carlo Tanganelli, Casale, Fattoria di Bacchereto, Fattoria di Caspri, Frascole, La Maliosa, La Svolta, Le Calle, Poggio di Cicignano, Ranchelle, Santa10 – Vina Trentino Alto Adige: Grawu Veneto: Gigi Miracol, Menti, Monteforche, Tenuta l’Armonia, Verdugo – Masiero, Vini di luce
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TBILISI – Alzi la mano chi ha un amico che è stato in Georgia, o che sta progettando un viaggio alla scoperta dei vini georgiani. La percentuale è alta se si considera che il vino, in Georgia, è una questione tutto sommato recente. Intendiamoci.
Se da un lato è vero che l’ex colonia zarista e sovietica ha avviato da tempo una massiccia operazione di comunicazione internazionale, dall’altro va considerato che non esiste ancora una mappa catastale completa del “vigneto Georgia“. La National Wine Agency ha iniziato questo lungo lavoro solamente nel 2014.
Il riconoscimento come patrimonio Unesco del metodo tradizionale di produzione del vino in anfore Qvevri e il ritrovamento delle più antiche tracce di viticoltura al mondo – risalenti a 8 mila anni fa – aiutano. Ma non bastano.
Il governo di Tbilisi si sta dando un gran da fare per non perdere il treno del vino e dell’enoturismo. E la Georgia sarà certamente uno dei Paesi emergenti che farà sentire la loro voce sul mercato internazionale, nei prossimi decenni.
Ad attirare tanti curiosi ed esperti in questo magnifico Paese del Caucaso – tutto da scoprire anche dal punto di vista naturalistico – è l’immagine da “Culla del vino” ormai legata alla Georgia, a livello internazionale.
GEORGIA, THE CRADLE OF WINE
Non a caso, il nome prescelto dall’agenzia nazionale del vino georgiano lo scorso anno, per l’allestimento di 4 mesi alla Cité Du Vin de Bordeaux, è stato “The cradle of wine“. Una metafora che rafforza ulteriormente l’altro caposaldo della comunicazione governativa: la grande varietà di vitigni autoctoni presenti sul territorio georgiano. Oltre 500.
Ma c’è addirittura chi parla di 800. Tra il 5 e l’8% dei vitigni mappati al mondo, circa 10 mila in totale, sarebbero dunque originari della Georgia. Meno di 400 quelli mappati in Italia. Il grande errore, a differenza di quanto capita nel nostro Paese, è aspettarsi di poterli trovare tutti, una volta sbarcati ai piedi del Caucaso. E magari degustarli. Quello che non si dice, infatti, è che di questa grande varietà di vitigni è rimasto ben poco.
La Georgia, negli anni del colonialismo russo, è stata letteralmente depredata dei suoi tesori enologici. La maggior parte degli autoctoni sono stati espiantati in favore delle varietà più vigorose e produttive. Per decenni, di fatto, la Georgia ha funto da “cantina” dei russi. O, meglio, da serbatoio. Il vino georgiano, sotto controllo della Russia, non godeva certo di buona fama. Si trattava di vino spesso adulterato, carico di pesticidi o “allungato” con acqua, in mano a poche compagnie controllate da uomini d’affari senza scrupoli.
LA SVOLTA
Le cose hanno iniziato a cambiare in seguito all’indipendenza della Georgia, ottenuta nel 1991. Ma a dare la vera e propria sferzata al settore è stato l’embargo operato dai russi nel 2006. Fino a quell’anno, Mosca ha continuato a servirsi della produzione vitivinicola georgiana, senza farsi troppe domande. L’export verso la Russia, di fatto, si assestava su cifre imponenti, tra l’80 e il 90%. L’improvvisa attenzione dei russi per il mercato armeno – l’unico in zona in grado di supportare le richieste – in sfavore di quello georgiano e moldavo ha avuto effetti immediati devastanti per l’economia locale.
Sette compagnie nazionali hanno chiuso i battenti, accusate dal Cremlino di esportare in Russia vini adulterati e tossici. Ma, alla lunga, l’embargo è stato la vera chiave di volta per l’enologia della Georgia. Le grandi compagnie nazionali, sopravvissute alla ritorsione, hanno cominciato a rivolgersi a mercati più maturi di quello russo.
Finendo per confrontarsi con Paesi ben più alfabetizzati e, soprattutto, produttori di vino. In Georgia si comincia così a parlare di qualità. Fondamentale l’attività di scouting da parte delle più grandi aziende del Paese, a caccia di consensi anche nei Concorsi internazionali.
Diversi enologi di fama, tra cui molti italiani e francesi, finiscono per dare il loro contributo alla crescita qualitativa del settore. E ancora oggi sono molte le “firme” italiane presenti addirittura sulle etichette del vino Made in Georgia. Quasi come marchi di garanzia. Ma non è (ancora) tutto oro quel che luccica.
Tra le pratiche enologiche consentite c’è, per esempio, l’aggiunta di trucioli di legno nel vino in fermentazione o in affinamento in acciaio. Si tratta delle cosiddette “chips”, che consentono di dare al vino un “effetto legno” pressoché immediato, senza attendere i tempi di naturale estrazione in botte. Una pratica (purtroppo) legale in molti Paesi, ma non in Italia (almeno per i vini Doc).
Ad ammettere senza problemi l’utilizzo delle “pastiglie” di tannini sono grandi gruppi che operano a livello industriale. Come KTV (Kakhetian Traditional Winemaking), che di “traditional” – in verità – non ha più moltissimo. La compagnia è una delle più visitate dagli enocuriosi a caccia di chicche in Georgia e la qualità dei vini prodotti è alta, nonostante si tratti di una realtà da 600 ettari complessivi (di proprietà) distribuiti tra Askana ad Akhasheni, da ovest a est del Paese.
Giusto visitare KTV per comprendere le punte tecnologiche raggiunte dalla Georgia nel winemaking process. Non a caso, Kakhetian Traditional Winemaking non manca da diversi anni al Prowein Trade Fair. Ed è una delle flag company che stanno contribuendo maggiormente all’accrescimento della notorietà del vino georgiano nel mondo. Tra le aziende visitate durante il nostro tour ce ne solo altre da visitare a tutti i costi:
LE DEGUSTAZIONI
Cantine, quelle citate sopra, di dimensioni diverse. Ma tutte reali interpreti dei valori del vino, considerato “sacro” in Georgia. Tra queste, la più nota tra gli amanti degli “orange wine”, anche in Italia, è la cantina di Iago Bitarishvili (nella foto), vero e proprio interprete assoluto del Chinuri, il vitigno a bacca bianca più diffuso della regione del Kartli.
Meritevole di essere scoperta Lapati Wines, l’avventura georgiana di due giovani francesi che hanno iniziato a produrre spumanti metodo ancestrale con le uve locali Rkatsiteli, Chinuri, Avkveri e Gorula (linea Kidev Erti), oltre a un potente Saperavi.
Ottimo il lavoro che sta portando avanti, sempre nella nicchia dei Raw Wines, anche Beka Jimsheladze. La sua cantina è stata ultimata da poco e il brand Vellino inizia a imporsi sul mercato: già un anno fa i suoi vini ci sono sembrati pronti per poter affrontare le sfide internazionali, pur senza perdere il marchio di fabbrica territoriale.
LE CANTINE DA NON PERDERE IN GEORGIA
Vale lo stesso discorso per Ruispiri Biodynamic Vineyard, il gioiello biodinamico di Giorgi Aladashvili. Uno capace di dormire (letteralmente) accanto alle qvevri durante la fase di realizzazione del nuovo Marani, nel Kakheti. Menzione particolare, tra le cantine visitate, anche per il “giocattolino” dell’ex ministro della Cultura della Georgia, Nikoloz “Nika” Vacheishvili.
Nei suoi vini, in particolar modo i bianchi, tutti i profumi delle vallate che circondano il “Marani and Wine Guest House”, a Didi Ateni. Splendidi. E tra i locali da non perdere, nella capitale Tbilisi c’è il Bina N37: un vero e proprio appartamento in cima a un palazzo di 8 piani, dove poter ammirare le 43 qvevri in produzione sul terrazzo e gustare i piatti della tradizione georgiana.
Cosa aspettarsi, in generale, dal vino georgiano? Grandi profumi e complessità, anche per i bianchi. Una beva non banale, dovuta alla vinificazione e macerazione in qvevri. Nonché ossidazioni più o meno marcate che, se ben controllate dal produttore, regalano vini unici. Quel che è certo è che la Georgia non è il paradiso degli enofighetti, intesi come amanti dei vini “per forza” limpidi, “per forza” organoletticamente “puliti” e di immediata comprensione. Tutt’altro.
Così come non è stato da “fighetti” il nostro soggiorno di una settimana: ospiti del giovane Shotiko (futuro produttore di vino) e della sua famiglia a Kakabeti, un villaggio sperduto a 70 chilometri a est di Tbilisi. E’ lui che ci ha condotto in un viaggio di una settimana, a bordo di una Mercedes rossa del 2001. Ricordi indelebili di persone indelebili in un Paese indelebile. Come i sapori dei vini georgiani.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 16 anni, tra carta stampata e online, dirigo oggi winemag.it, testata unica in Italia per taglio editoriale e reputazione, anche all’estero. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Segno Vergine allergico alle ingiustizie e innamorato del blind tasting, vivo il mestiere di giornalista come una missione per conto (esclusivo) del lettore, assumendomi in prima persona, convintamente, i rischi intrinsechi della professione negli anni Duemila. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Riflettori accesi sul vino del Meridione d’Italia a Radici del Sud. Alla XII edizione del Salone dei vini e degli oli meridionali, in scena il 4 e 5 giugno al Castello di Sannicandro di Bari, in passerella la viticoltura delle regioni Puglia, Basilicata, Campania, Calabria e Sicilia.
Un livello medio alto quello riscontrato ai banchi di degustazione, allestiti dall’associazione ProPapilla, capitanata da Nicola Campanile, in tre sale dello splendido maniero Normanno-Svevo.
Novantaquattro aziende rappresentate, capaci presentare in concorso 350 vini, settanta dei quali approdati alle finalissime di fine mese. Questi, invece, i migliori vini degustati a Radici del Sud dalla redazione di vinialsuper
SPUMANTI 1) Un assortimento completo, profondo, pregiato, fa di Colli della Murgia – realtà da 200 mila bottiglie l’anno certificata biologica con base a Gravina in Puglia (BA) – la cantina più interessante dell’intera costellazione di Radici del Sud 2017. Sbaraglia a mani basse la concorrenza nella sezione spumanti, con lo statuario Metodo Classico Brut 2012 “Amore Protetto”.
“Si tratta dell’evoluzione della scommessa della nostra azienda – spiega Saverio Pepe – dai risvolti ‘sociali’: produrre una bollicina che contrastasse il proliferare del Prosecco, ormai divenuto anche in Puglia sinonimo di ‘bollicina’. Siamo partiti così da uno Charmat, per poi evolverci nella direzione di questo Metodo Classico, a completamento del nostro percorso”.
Una manovra più che riuscita, con la marcia della qualità ingranata. “Amore Protetto” è una chicca da conservare per le migliori occasioni. Prodotto con uve Fiano Minutolo raccolte a mano e pressate direttamente, svela nel calice un perlage finissimo, in un tripudio giallo paglierino brillante, con riflessi verdolini.
Naso marcato di miele millefiori, con richiami a metà tra l’agrumato, l’esotico e la frutta candita, in un quadro di grande finezza che si ritrova anche al palato. Qui, a sorprendere, è la freschezza quasi balsamica della beva, unita a una buona sapidità. Ciliegina sulla torta? Una persistenza pressoché infinita.
VINI BIANCHI 1) Il Basilicata Bianco Igt 2016 “Accamilla” diCamerlengo è l’unico vino bianco dell’azienda agricola di Antonio Cascarano a Rapolla, in provincia di Potenza. Un mix di tre uve a bacca bianca trattate in vinificazione alla stregua dei rossi, alla maniera degli “Orange wine”.
L’apporto predominante (60%) è quello della Malvasia, raccolta in vigna una volta raggiunta una leggera surmaturazione. Completano il blend un antico clone di Fiano, il Santa Sofia, e il Cinguli, altro clone di Trebbiano Toscano. Tini di castagno per la macerazione, con le prime ore di follature che interessano anche i raspi delle tre uve.
Che dire? Il Castello di Sannicandro di Bari sembra sparire tra i profumi di questo calice che porta idealmente al Collio friulano e alla Slovenia. Un apporto, dunque, di tipo aromatico e tannico ben costruito, per un vino messo in bottiglia da circa cinque mesi. Non manca, anzi è ben marcata, la firma del terroir vulcanico in cui opera la cantina Camerlengo. Un sorso di eccezionale rarità.
2) Secondo gradino del podio per il Fiano di Avellino Docg 2014 “Numero Primo” di VentitréFilari, preziosa realtà di “artigiani del vino” di Montefredane, in provincia di Avellino. “Ventitré come l’anno 1923 – spiega Rosa Puorro – in cui nonno Alfonso nasceva. E ventitré come il numero di filari del nostro vigneto”. Un marketing efficace, che regge.
Anche (e soprattutto) in un calice che mostra un’evoluzione sostanziale rispetto al primo vino proposto: la stessa etichetta di Fiano, vendemmia 2015 (appena messa in commercio, ma con altrettante potenzialità d’affinamento). Il giallo dorato di cui si tinge il vetro è un inno al buon bere in Campania.
L’equilibrio tra acidità e sapidità fa il resto, in un contesto tutto sommato rotondo, morbido. Il segreto di questo Fiano? Nove mesi sulle fecce, che ne fanno un vero e proprio concentrato dell’essenza del grande vitigno irpino.
3) Sul bigliettino da visita di Mario Notaroberto c’è scritto in chiare lettere: “Contadino”. Un marchio di fabbrica genuino, che si ritrova anche nel Fiano Cilento Dop Valmezzana 2015 della sua cantina, Albamarina. Siamo in località Badia nel Comune di Centola, una sessantina di chilometri a Sud di Agropoli, in provincia di Salerno. Un progetto “contadino”, quello di Mario Notaroberto, che mira al rilancio del Cilento nel nome di un’enogastronomia fondata sul valore della “terra”.
E di “terra” ne troviamo tanta nel suo Fiano. Due le annate in degustazione, con la 2015 che – rispetto alla 2016 – evidenzia un’evoluzione già netta, tutt’altro che completa. Note floreali e fruttate si mescolano a richiami erbacei decisi, naturali. Sembra d’essere in piena campagna quando al naso giungono richiami d’idrocarburo, spiazzanti. In bocca gran calore e pienezza: l’acidità rinfrescante ben si calibra con una mineralità degna di nota. Un vino da aspettare, il Fiano Cilento Dop Valmezzana di Albamarina, come dimostrerebbe – secondo Notaroberto – il vendemmia 2012, “ancora in progressione in bottiglia”.
VINI ROSSI 1) E’ di Elda Cantine il miglior rosso di Radici del Sud 2017: si tratta del Nero di Troia Puglia Igp 2014 “Ettore”. Lo premiamo per la grande rappresentatività del vitigno che sa offrire nel calice e per l’utilizzo moderato di un legno che, in altri assaggi, ha distolto l’attenzione dalla vera potenzialità del Nero di Troia: il binomio tra frutta e spezia.
Giova a Elda Cantine la scommessa pressoché totale su questo uvaggio, con il claim aziendale “dalle radici al suo profumo” che, in realtà, è la sintesi della scoperta della “vocazione innata” di Marcello Salvatori. Un progetto del 2000 dedicato alla madre Elda.
Siamo sui Monti Dauni, più precisamente a Troia, in provincia di Foggia. Qui Elda Cantine ha recuperato ed alleva uno dei vigneti più alti dell’intera regione Puglia, situato a 400 metri sul livello del mare. Il Nero di Troia Puglia Igp 2014 “Ettore” è vinificato in acciaio, prima di passare in botti di rovere per 12 mesi.
2) Riscomodiamo Antonio Cascarano per il racconto dell’Aglianico del Vulture Doc 2012 Camerlengo, vino simbolo della sua cantina di Rapolla, in Basilicata. Una sintesi perfetta tra potenza ed eleganza: forse tra le più belle espressioni del vitigno attualmente in commercio in Italia. La corrispondenza gusto-olfattiva è pressoché perfetta: naso e bocca assistono a un rincorrersi tra note marasca, ribes, lamponi, prima di una chiusura delicata di vaniglia, che nel retrolfattivo vira su terziari di cacao e tabacco dolce.
Al palato l’impronta del terroir più evidente: una spiccata mineralità che allarga lo spettro dei sentori, chiamando il sorso successivo e accompagnando verso un finale lunghissimo, tra il fruttato e il sapido. Dodici mesi in barrique di primo, secondo e terzo passaggio, più un affinamento di 8 mesi in bottiglia. Nessuna chiarifica e nessuna filtrazione. Da provare.
3) Per la piacevolezza della beva ecco il Syrah Vino Rosso Doc Sicilia 2014 di Fondo Antico, azienda agricola di proprietà della famiglia Polizzotti Scuderi situata in frazione Rilievo, a Trapani. Un vino dall’interessantissimo rapporto qualità prezzo, che dimostra come il Sud del vino possa concedersi anche prodotti non troppo elaborati, “quotidiani”, ma di qualità. Gran bel naso di frutti rossi puliti, con richiami caratteristici di pepe e macchia mediterranea. In bocca una piacevole morbidezza giocata di nuovo sui frutti rossi, unita a una grande freschezza che chiama il sorso successivo.
VINI ROSATI Altra menzione per Colli della Murgia, tra i vini rosati. E non solo per il coraggio di mettere in bottiglia, in Puglia, un rosè dallo stile provenzale. Profumi intensi, acidità, freschezza. Questi i tratti distintivi del Rosato Igp Puglia 2016 Sellaia, ottenuto al 100% da uve Primitivo. Colore cerasuolo didattico, colpisce al naso per la pulizia delle note di frutta rossa e floreali di rosa. Una finissima delicatezza che ritroviamo anche al palato, in perfetto equilibrio tra durezze e morbidezze. Buona la persistenza. Uno schiaffo alla Puglia dei rosati ruffiani, che stancano al secondo sorso.
IL FUTURO DI RADICI DEL SUD Già si conoscono le date della prossima edizione di Radici del Sud, che dal 5 all’11 giugno 2018 tornerà ad occupare le sale del Castello Normanno Svevo della cittadina barese. Già confermato l’impianto, con i consueti incontri BtoB dedicati alle aziende, il concorso dei vini e la due giorni dedicata al pubblico.
La vera novità riguarderà il panel di degustazione, che si amplierà anche all’olio con tre diverse giurie: una composta da tecnici olivicoli, una da massaie e l’ultima da studenti delle scuole alberghiere. “Un modo nuovo di avere a disposizione punti di vista diversi su un mondo, quello dell’olio, con un potenziale ancora fortemente inespresso”, commentano gli organizzatori del Salone.
Altra novità riguarda la due giorni dedicata al pubblico. Il Salone si trasformerà in un vero e proprio mercato del vino e dell’olio, durante il quale i visitatori, oltre ad assaggiare, potranno anche comprare i prodotti delle aziende.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 16 anni, tra carta stampata e online, dirigo oggi winemag.it, testata unica in Italia per taglio editoriale e reputazione, anche all’estero. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Segno Vergine allergico alle ingiustizie e innamorato del blind tasting, vivo il mestiere di giornalista come una missione per conto (esclusivo) del lettore, assumendomi in prima persona, convintamente, i rischi intrinsechi della professione negli anni Duemila. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Centosessantadue vini degustati in diciotto differenti cantine, poste su un percorso di circa 250 chilometri. Sono i numeri più significativi del wine tour di vinialsupermercato.it in Svizzera, dal 24 al 30 luglio. Una settimana di peregrinazioni tra le splendide vie del “vino eroico” dei cantoni Valais (Vallese), Vaud e Geneve (Ginevra). Vigne a picco sul nulla, divise da cascate, costrette a fare i conti con il gelo invernale così come con il caldo torrido estivo. Vigne che costringono alla raccolta manuale delle uve. Vigne nelle quali i viticoltori locali vivono e, come successo a luglio a Fully, nei pressi di Sion, muoiono di lavoro. In due parole: viticoltura eroica. Ci hanno aperto le porte piccole realtà a conduzione famigliare, così come grandi gruppi cooperativi attenti più alla qualità che alla quantità del vino imbottigliato. E minuscole cantine, la cui produzione finisce – pressoché interamente – sulle tavole di lusso dei ristoranti stellati Michelin. Un tuffo in una realtà, quella del vino svizzero, a noi tanto vicina eppure ancora praticamente sconosciuta. Un wine tour che ci ha portato a toccare con mano la decrescita registrata per il secondo anno consecutivo, nel 2015, dai vini svizzeri nella Gdo (Coop Schweiz, Spar Handels, Volg per citarne alcuni, mentre Migros non vende alcolici). Una tendenza inversa al consumo di vini locali, in crescita dello 0,8%, come evidenzia una ricerca condotta da Philippe Delaquis per l’Osservatorio svizzero del mercato del vino (Osmv). Con i vini bianchi che restano i più venduti nei supermercati elvetici, mentre le vendite dei rossi Aoc (l’Appellation d’origine contrôlée che equivale alla Doc italiana) calano del 13%, a fronte di un aumento dell’1,8% del consumo di vino rosso svizzero. Sta pagando, insomma, il tentativo di recupero dei vitigni autoctoni svizzeri condotto da diverse cantine visitate. Oltre alla valorizzazione di uvaggi prima destinati alla sola produzione di vino sfuso o da “da tavola”.
“Visto le scarse riserve a disposizione e le incertezze legate al franco forte – evidenzia Philippe Delaquis in una nota dell’Osmv – il vino svizzero oggi cerca un’alternativa alla grande distribuzione. Per questa ragione l’Osmv, dal primo aprile 2016 ha deciso di raccogliere anche i dati presso i produttori, le cantine e di stimare ogni tre mesi, anche attraverso la Mercuriale, le tendenze di consumo. Questi dati esistono dal 2012 per i vini del cantone Vaud, ma l’Osservatorio intende ora estendere questa raccolta a tutte e 6 le regioni vitivinicole svizzere”. In generale, i vini importati provengono dall’Italia (71 milioni di litri), seguita dalla Francia (circa 40 milioni di litri) e dalla Spagna (circa 37 milioni di litri). Dal Portogallo sono stati importati circa 11 milioni di litri di vino. Se paragonate alle importazioni, le esportazioni risultano modeste: 227.500 litri in meno rispetto al 2014. Complessivamente, nel 2015 il volume d’esportazione è stato a 1,3 milioni di litri, cifra che comprende anche i vini esteri importati e riesportati, come evidenzia in una nota l’Ufag, Ufficio Federale dell’Agricoltura Svizzera. Una vendemmia non eccezionale in termini di quantità, quella del 2015: 85 i milioni di litri prodotti. Ma ottima dal punto di vista qualitativo. I giorni di sole sono stati molti. Ed è così che, tra le cantine, abbiamo potuto degustare uno straordinario vino bianco biologico senza solfiti a 15,5%. Proprio sul grado zuccherino, in particolare sulla possibilità di estendere ai vini Aoc l’autorizzazione di introdurre artificialmente zucchero, è in corso in Svizzera una battaglia tra piccoli viticoltori e grandi gruppi, a colpi di carte bollate presso i rispettivi governi federali.
ST JODERN KELLEREI, VISPERTERMINEN (VALAIS) Quale posto migliore per iniziare il wine tour se non i vigneti della St Jodern Kellerei, considerati tra i più alti d’Europa? Siamo a Visperterminen, piccolo Comune di 1.500 anime arroccato sui monti a sud del Rodano (Rhone). La zona meridionale dell’imponente corso d’acqua – che nasce in Svizzera e si spegne nel Mediterraneo, dopo aver attraversato il Sud della Francia – è considerata quella sfavorevole per la viticoltura vallese (5.100 ettari totali). Ma l’esposizione a Sud dei circa 50 ettari di vigneti della St Jodern Kellerei – cifra che si raggiunge sommando una miriade di piccoli appezzamenti di terreno, appartenenti ad appassionati abitanti del posto – costituisce un miracolo della natura che, assieme allo straordinario terroir, contribuisce a rendere magici i vini. Un’area vitivinicola che, di per sé, meriterebbe il riconoscimento di quella che in Italia è la Docg. I terreni, composti prevalentemente da sabbia, ardesia e argilla, sottendono al clima secco di una vallata che è la meno piovosa dell’intera Svizzera. Fendant, Johannisberg (Sylvaner), Gewurztraminer, Resi (Rèze), Pinot Nero, Gamay, Gamare e Syrah i vitigni allevati. Ma a farla da padrona, con circa un terzo delle bottiglie prodotte (100 delle 450 mila totali) è certamente l’Heida (Savagnin Blanc), il “vino delle Alpi”. All’enologo di formazione italiana Michael Hock (nella foto), 34 anni, il compito di fare gli onori di casa. “St Jodern Kellerei – spiega – è una cooperativa completamente differente rispetto al concetto di cooperativa italiana nel ramo del vino. Quando sono venuto via dall’Italia, dove in seguito agli studi presso l’Università di Torino ho lavorato per la Vignaioli Piemontesi, ho portato qui l’expertise acquisita. Ma sono rimasto sconvolto, positivamente, dall’attaccamento alla terra di ognuna delle famiglie che conferiscono le proprie uve a questa cantina. Nella maggior parte dei casi si tratta di persone che svolgono prevalentemente altri lavori, ma che comunque amano a tal punto le loro viti da trattarle come figlie. Il 99% di quello che conferiscono al momento della vendemmia, che qui si svolge manualmente, approssimativamente dal 25 settembre al 7 novembre, è letteralmente perfetto dal punto di vista fitosanitario: un sinonimo della gioia della tradizione e della voglia di portare avanti con successo il frutto delle terre ereditate di generazione in generazione”.
L’enologo Michael Hock ci ha messo comunque del suo, trasformando la St Jodern Kellerei in una cantina vocata alla produzione di vini veri, originali, tradizionali. Vini che parlano del terroir, del microclima di Visperterminen. E che esprimono al meglio l’unicità del vitigno, non solo nel caso di autoctoni superlativi come il Resi, da cui St Jodern ottiene meno di 2 mila bottiglie l’anno, di cui tre quarti già venduti prima della vendemmia. Il giro d’affari della cooperativa si aggira sui 4,5 milioni di euro, con una fetta del 40% proveniente dal canale Horeca (ristorazione) e dalle enoteche. Quarantamila bottiglie all’anno finiscono poi sugli scaffali della Gdo, in cui è Coop a farla da padrona con la sua linea “Pro montagna” (4 i vini St Jodern presenti in assortimento). Numeri raggiunti “nel rispetto totale delle famiglie conferitrici – spiega Hock -. Basti pensare che paghiamo un quintale di Heida più di quanto venga pagato un quintale di Nebbiolo destinato alla produzione del Barolo, assicurando circa 7,50 franchi al Kg, ovvero più di 6 euro”.
ST JODERN KELLEREI – BEST WINES Heida Veritas 2013, 14,5% – Vino bianco ottenuto da vite a piede franco centenaria, che genera acini e grappoli minuscoli. Garantita così la letterale esplosione della tipicità del vitigno. St Jodern affina in giare di terracotta questo vino, per mantenere ulteriormente intatte le caratteristiche dell’uva. Di un bel giallo carico, al naso evidenzia note floreali fresche e fruttate (albicocca). Annuncia già all’olfatto una mineralità che ritroveremo anche al palato, sotto forma di una sapidità di rara pregevolezza. Vino di grande persistenza. Fuori dalle righe, un fuoriclasse.
Pinot Nero 2015, 13,8% – Affina in acciaio questo Pinot Nero St Jodern, cui viene aggiunta una percettibile quantità di Gamay, che solitamente si aggira attorno all’8-10%. Bel rosso rubino brillante, regala un naso tutta frutta e mineralità. E’ questo, insomma, il filo conduttore dei vini St Jodern. La centralità del frutto (bacche rosse, canoniche) anche al palato gioca sinuosamente con una pregevole sapidità. Tannino piuttosto leggero, ma non siamo certo nell’area dei Pinot Nero di Salgesh. Un vino di montagna, naturale, non costruito. Da apprezzare per la verità territoriale che racconta. E per la sfida che rappresenta per St Jodern, nel futuro: migliorare ulteriormente la produzione dei rossi, portandoli ai livelli straordinari dei bianchi di casa Visperterminen.
ALBERT MATHIER ET FILS, SALGESCH (VALAIS) Abbiamo nominato prima i Pinot Nero della zona più vocata, Salgesch. Ed eccoci dunque alla Albert Mathier et Fils, casa vinicola di grande tradizione nel Vallese, oggi guidata da Amédée Mathier, nipote del fondatore. A condurci nella visita della cantina e nella degustazione è Patrick Jost (nella foto). In un territorio dove il Pinot Nero è la “specialità della casa”, Mathier è riuscita a distinguersi con uno straordinario progetto: quello della vinificazione in anfore di terracotta interrate. Sul retro della cantina, infatti, si possono scorgere le cinque postazioni in cui si trova il vino. Ogni “kvevri” – questo il nome georgiano delle anfore, localmente ridefinite con l’onomatopea “tschatscha” – può contenere fino a 1800 litri. Si tratta di un blend tra Resi (Rèze) ed Ermitage (Marsanne) per il bianco (che in realtà assume il colore tipico degli orange wine dei nostri friulani Josko Gravner e Sasa Radikon), e di Syrah in purezza per il Vin D’Amphore Noir. Dopo la vinificazione in anfora, momento in cui risultano fondamentali i ripetuti batonnage, il vino affina in botti di acacia e ciliegio. Regalando agli intenditori dei nettari unici e rari, di grandissima complessità (64 euro il prezzo di una bottiglia). Vini ossidativi, dunque, di cui vengono prodotte solamente 800 “pezzi” per tipologia, ognuno dei quali ha contribuito a rendere famosa nel mondo questa cantina vallese. Trenta gli ettari di terreni vitati su cui può contare la Albert Mathier et Fils, con un potenziale annuo che si aggira attorno alle 500 mila bottiglie. Tutti vini di grande pulizia e perfezione enologica quelli di questa cantina di Salgesch, che tuttavia non lasciano l’impronta territoriale sperata. Il “plus” di questa winery è proprio quello offerto dalle giare, vero colpo di genio di Amédée Marhier, assieme al tentativo di sviluppare l’enoturismo realizzando un salotto esterno alla cantina, abbellito dalle opere di alcuni artisti locali, dove presto sarà possibile consumare al calice la produzione della cantina. Segnaliamo a questo proposito due vini.
ALBERT MATHIER ET FILS – BEST WINES Malvoisie Flétrie 2014, 14,2% – Pinot Grigio, vendemmia tardiva. Buon vino da dessert, in grado di accompagnare anche formaggi a pasta semidura. Bel corpo e persistenza, esprime una dolcezza pacata, non invadente. Gradevoli le note di albicocca e miele che accompagnano prima l’olfatto e poi il palato verso una buona persistenza retro olfattiva. Rhoneblut 2013 Vinum Lignum, 13,5% – Fa parte della gamma di vini affinati in legno questo Pinot Noir in purezza di casa Mathier. Fratello maggiore della versione base, per complessità ed eleganza. Pregevole tannino, note fruttate chiare e distinte. E una freschezza espressa da un’acidità spiccata: ottime le potenzialità di una lunga vita in bottiglia, in ascesa. Il fondatore della cantina ha voluto chiamare questa linea “Rhone-blut” per sottolineare il suo attaccamento alla terra d’origine: “Rhone” è il fiume Rosano, “blut” il sangue. “Scorre come un fiume il sangue in questo vino”.
CAVE DU RHODAN, SALGESCH (VALAIS) Il titolare della Cave du Rhodan è assente al momento del nostro arrivo e il personale presente non parla inglese. Veniamo comunque invitati alla degustazione dei vini di questa premiatissima cantina vallese, capace di aggiudicarsi riconoscimenti a livello internazionale. Semplice ed efficace la filosofia da queste parti: Sandra e Olivier Mounir producono “vino sostenibile da agricoltura sostenibile”. La produzione infatti si fregia della certificazione biodinamica.
CAVE DU RHODAN – BEST WINES Petite Arvine 2015, 13,5% – Medaglia d’argento al Decanter 2016, non a caso. Profumato di fiori e frutta fresca al naso, morbido e rotondo al palato, sfodera come d’improvviso, accendendosi d’un tratto, un corpo e una struttura inimmaginabili in precedenza. Note fruttate eleganti anche nel retro olfattivo, ottima la persistenza.
Merlot Barrique 2014, 14% – Naso di liquirizia che colpisce ancor prima d’averne scorto il colore nel calice, che si tinge d’un bel rosso rubino con riflessi granati. Ritroviamo la medesima piacevolezza e concentrazione delle tinte fruttate riscontrato in tutto il resto della produzione Cave Du Rhodan, evidentemente a premiare l’ottimo lavoro in vigna e una padronanza totale delle difficoltà intrinseche alla viticoltura biodinamica. Barrique presente, distinta nei sentori terziari conferiti al nettare. Ma utilizzata, anche questa, con grande garbo. Tannino elegante e ottima persistenza. Gran bel rosso. Da degustare, magari, anche tra qualche anno.
KREUZRITTER KELLEREI, SALGESCH (VALAIS) E’ il giovane Jonas Leo Cina (nella foto), quarta generazione di una famiglia di viticoltori dal cognome diffusissimo a Salgesch e nel Vallese, a condurci alla scoperta dei vini della Kreuzritter Kellerei di Unterdorfstrasse, 32. Duecentomila bottiglia prodotte annualmente, per una realtà che è sulla cresta dell’onda dal 1917. Che oggi può contare anche su un hotel, l’Arkanum, in cui è possibile dormire in letti ricavati da tonneau dismesse. L’hotel sorge proprio sulla vecchia cantina, che nel 1985 è stata abbandonata per far spazio all’innovativo progetto di accoglienza dei turisti. La produzione della Kreuzritter Kellerei è tutta interessante e Jonas non teme il confronto con gli altri 49 viticoltori del paese. Ma ha un sogno. “Vorrei che tutto il Vallese fosse più unito – commenta – come lo siamo noi qui a Salgesch: un paese di 1500 abitanti, con 50 cantine attive sul territorio! Nel villaggio accanto, dove si inizia a parlare francese al posto del tedesco, c’è molta gente gelosa del nostro terroir e del nostro clima. Vorrei che si capisse che abbiamo tutti gli stessi problemi, tutti le stesse difficoltà. Confido molto nel lavoro delle nuove generazioni in questo senso”. Due i vini della cantina Kreuzritter che ci sentiamo di consigliare: non a caso sono entrambi vini rossi.
KREUZRITTER KELLEREI – BEST WINES Salquenen Cuvée d’Amitié 2014, 13% – Il giovane Jonas Leo ha introdotto questa deliziosa Cuvée da qualche anno nell’assortimento della propria cantina. Un successo lampante: le 1.500 bottiglie prodotte annualmente finiscono subito sold out. Prenotate ancor prima di essere imbottigliate. Si tratta di un Cabernet Sauvignon affinato 6 mesi in barrique, dove trova compimento la stessa vinificazione. Lampone, ribes, cioccolato, tabacco dolce al naso. Una vena vegetale che richiama la foglia del pomodoro e il peperone. In bocca la frutta a bacca rossa. Ad anticipare una chiusura elegantemente speziata. Vino di grande longevità.
Pinot Noir Le Refuge 2014 – Nessun affinamento in barrique, invece, per questo pregevole Pinot Nero tutto frutta ed eleganza del tannino. Ci sorprende il colore, veramente troppo carico per un Pinot Noir. Finché Jonas Leo non dichiara la presenza di un 5% di Diolinoir, varietà autoctona spesso utilizzata nei blend vallesi per la massiccia presenza di antociani, composti responsabili del colore rosso del vino. Le Refuge rispecchia le caratteristiche peculiari del terroir, guadagnandosi un posto d’onore tra i Pinot Noir di Salgesch.
DOMAINES ROUVINEZ, SIERRE (VALAIS) “La passione per l’eccellenza”. Questo lo slogan della famiglia Rouvinez, capace di abbracciare 12 domini dislocati nel Vallese, per un totale di 87 ettari. Un’avventura che affonda le radici nel 1947 per volere del fondatore, Bernard Rouvinez, che oggi può contare sui figli Dominique e Jean-Bernard, entrambi enologi. “Ad ogni vino la sua terra migliore per esprimersi”, sintetizza l’ottima Yannick Poujol (nella foto), responsabile Accoglienza della cantina di Chemin des Bernadienes 45, Sierre. “Single grape from single domain“. E una blend line a completare l’offerta, tra cui spicca a livello di notorietà conquistata in Svizzera l’assemblaggio di Cornalin, Humane Rouge, Syrah e Pinot Noir: il corposo Le Tourmentin, che ha visto la luce nel 1983. Il tour si svolge in quella che è la cantina storica della famiglia Rouvinez, oggi casa eletta dei vini da affinamento in legno. Una nuova struttura è stata realizzata negli anni Novanta a Martigny, uno dei centri di interscambio commerciale principali per la sua posizione strategica tra il Vallese e il cantone Vaud. Seicentomila le bottiglie prodotte annualmente da Rouvinez. “Ognuna, a suo modo – evidenzia Yannick Poujol – è in grado di esprimere al meglio le peculiarità dei vitigni. Non a caso in Vallese, pur essendoci solo 500 ettari vitati, possiamo contare ben 10 terroir diversi. Ed è lì che coltiviamo le nostre uve, a un’altezza variabile tra i 400 e i 1000 metri d’altezza”. Di assoluta perfezione e pulizia enologica, ai Rouinez va riconosciuto il grande merito di portare nel calice le caratteristiche intrinseche del Vallese.
DOMAINES ROUVINEZ – BEST WINES Coeur de Domaine, 14,5% – Strepitoso blend ottenuto dall’assemblaggio di un 70% di Petite Arvine, un 20% di Heida e un 10% di Hermitage (Marsanne), provenienti da tre differenti domaine, tra i quali è stato selezionato accuratamente, acino per acino, il meglio della produzione. Lo suggerisce lo stesso nome di fantasia dato a questo bianco poderoso per struttura, ma tutt’altro che invadente nonostante l’alcolicità sostenuta. Sfodera sia al naso sia al palato note elegantissime di limone e frutta a polpa bianca, che impreziosiscono una beva di persistenza infinita: vino sinuoso, di grande complessità, robusto e allo stesso tempo delicato come una nuvola che ti s’infila nel palato. Compagno perfetto per una cena a base di pesce.
Merlot Bio 2014, 14% – Tra gli ottimi rossi di Rouvinez (avremmo potuto citare per esempio l’Humane Rouge 2014 o il Cornalin 2014, o lo stesso, ottimo, Le Tourmentin Valais Aoc 2013) scegliamo di premiare a pieni voti il Merlot biologico, vendemmia 2014: letteralmente da applausi. Per la perfezione delle distinte note fruttate. Per la pulizia dell’olfatto tutto. Per la perfetta armonia ed equilibrio tra il corpo “grasso” e l’alcolicità. Per il semplice fatto che fa sognare d’aver di fronte un piatto di carne succulenta. Da divorare tra un sorso e l’altro.
CHATEAU CONSTELLATION, SION (VALAIS) C’è anche spazio per un curioso tuffo nella cronaca giudiziaria elvetica in occasione del wine tour di vinialsupermercato.it in Svizzera. Ci imbattiamo casualmente in Chateau Constellation, cantina che non avevamo in programma di visitare. Impossibile non notare l’imponente struttura, costruita con le sembianze di un castello, che domina il panorama in direzione Nendaz. Scopriamo così che Chateau Constellation è il nome scelto dal principale azionista, Dominique Giroud, per la sua “riconsacrazione” nel mondo del vino elvetico, dopo le accuse per frode, falsificazione di merci e contraffazione che lo hanno visto al centro di uno scandalo senza pari, per presunti reati commessi a cavallo tra il 1997 e il 2013. La stampa svizzera ha rinominato la vicenda Affaire Giroud. Tra le accuse, anche quelle di aver tagliato del St Saphorine del Vaud (vino bianco pregiato, ricavato da una sottozona della Aoc Lavaux) con del Fendant del Vallese. All’epoca, l’imprenditore era titolare della Giroud Vin SA, che ha dichiarato la bancarotta. Tra i dipendenti in forza a Chateau Constellation, almeno un paio sono italiani. E dall’Italia provengono molti vini oggi in vendita nel sontuoso “salotto” borghese allestito a Sion da Dominique Giroud: perché è così che andrebbe definito il piano terra del “castello”, dove è sorta una vera e propria enoteca con spazio ristorazione (tavola fredda). E ai piani alti, sale per ricevimenti, matrimoni, occasioni speciali. Ovviamente all’insegna del lusso. Cordialissimo il personale che ci guida nella visita delle cantine e dell’immensa struttura. Nonché nella degustazione dei vini. Un po’ meno memorabile la preparazione enologica degli addetti, che forse da queste parti non deve contare più di tanto. Vini di puro commercio, di fatto, quelli che degustiamo a Constellation. Destinati ad accontentare – immaginiamo – palati internazionali radical chic, alla ricerca di curiosi “pezzi svizzeri” da aggiungere a una spocchiosa collezione di “vini dal mondo”. Vini, quelli di Chateau Constellation, che la catena di supermercati svizzeri Denner ha tolto dall’assortimento dei propri punti vendita, in seguito all’Affaire Giroud. Modalità Svizzera: on.
SELECTION EXCELSUS JEAN CLAUDE FAVRE, CHAMOSON (VALAIS) Dal vino come business, al vino come ragione di vita. Eccoci a Chamoson, nel nostro incedere dal Vallese verso il canton Vaud. Tappa imprescindibile del nostro wine tour, la cantina Selection Excelsus di Jean Claude Favre (nella foto). Personaggio istrionico, Jean Claude ha organizzato in ogni minimo dettaglio il nostro incontro. Con tanto di traduttori per colloquiare in lingua inglese. “I vini Selection Excelsus sono l’espressione fedele d’un terroir d’eccezione”. Così Jean Claude ci introduce idealmente nel suo regno di Chamoson, il Comune con la maggiore superficie vitata del Valais. Un territorio fortemente frammentato. I proprietari di vigneti sono circa 1200. E diversi appezzamenti sono di soli 100 metri quadrati. Un affare di cuore la viticoltura, da queste parti più che altrove. Una situazione simile solo a quella di Visperterminen. In questo puzzle, Selection Excelsus può contare su circa 6 ettari vitati (45 mila bottiglie). Tutti situati sulla conoide alluvionale che rende speciale – in termini di terroir – questo villaggio svizzero. Solo il 10% delle vigne di Chamoson si trovano infatti su terrazzamenti eroici. Eroica è stata invece l’impresa di Jean Claude Favre, che è riuscito a trasformare la cantina fondata nel 1980 dal padre (conferitore d’uve) in una delle più rinomate della Svizzera. Allargando il business a Paesi come Germania e Italia. Come? “La produzione – spiega l’eclettico vigneron – si basa principalmente sulla valorizzazione dei singoli vitigni. Solo due i blend: un bianco e un rosso, entrambi indicati col nome di fantasia ‘1955’, codice postale di Chamoson. Fondamentalmente faccio vini che piacciono a me. E’ questa la mia filosofia. E infatti, tra le varietà, è possibile riscontrare, oltre a quelle tipiche come il Johannisberg e il Fendant, anche il Pinot Blanc e il Pinot Gris: semplicemente perché li amo!”.
SELECTION EXCELSUS – BEST WINES Humagne Blanche 2014, 12,5% – Mineralità, frutto, utilizzo non invasivo della barrique. Che cosa manca a questo Humagne Blanche per essere definito perfetto? Niente. Ottenuto dalla più antica varietà di cui si abbia notizia Nel Vallese (“Registre d’Anniviers”, 1313), contiene molto più ferro rispetto agli altri vini. Tanto da essere soprannominato “vino della nascita”. Alle giovani donne che partoriscono negli ospedali vallesi ne viene tradizionalmente offerto un calice a scopo ricostituente. Riti e usanze a parte, quello di Selection Excelsus è un Humane Blanche eclettico, impreziosito dalla barrique e capace di accompagnare aperitivi, pesce e crostacei, dall’antipasto ai primi. Perfetto anche con i piatti a base di formaggi locali. La spiccata acidità fa sì che l’Humagne Blanche Selection Excelsus possa essere conservato in cantina per anni, prima di essere degustato su note più evolute. In gioventù si mostra aromatico, ma di un’aromaticità estremamente fine. “Eccelsa”, per restare in tema.
Cornalin 2015, 13% – La pazienza è la virtù dei saggi. E di chi ama il vino, aggiungiamo noi. Dare tempo al Cornalin 2015 di Selection Excelsus è quasi un obbligo morale. Se non altro per rispetto delle viti storiche, impiantate nel 1978, su cui può contare Jean Claude Favre per la produzione di questo straordinario rosso di prospettiva. Piante capricciose, difficili da coltivare. Quattromilacinquecento le bottiglie prodotte in media ogni anno, con rese di 30-35 quintali. Dire Cornalin a Chamoson è come dire Nebbiolo a Barolo. Ma quello di casa Favre ha una marcia in più rispetto a quello dei vicini. Un naso di ciliegie e note floreali di sambuco precedono un palato di struttura, buona acidità e tannini pregevolissimi. Già apprezzabile con piatti importanti a base di carne, va – come anticipato – dimenticato in cantina e riscoperto tra almeno 4-5 anni. Come minimo, ovviamente.
DOMAINE DE BEUDON, FULLY (VALAIS) Appena travolta da una tragedia immane, come quella della scomparsa di Jacques Granges – deceduto in seguito a un incidente avvenuto proprio tra le vigne – veniamo accolti a Beudon dalla moglie del vigneron, Marion Granges-Faiss (nella foto). Quella tra le “vigne del cielo” di Fully, per noi di vinialsupermercato.it, è stata di fatto un’esperienza umana straordinaria, oltre che professionale. Dell’incontro con Marion abbiamo già trattato nel nostro ampio reportage. Ricordiamo qui che la produzione del Domaine de Beudon, certificata biodinamica, rientra nel circuito dei viticoltori Triple A. Le vigne, tutte situate a un’altezza compresa tra i 600 e i 900 metri, con pendenze da scalatore, danno vita a vini dagli eccezionali profumi e aromi. Vini estremamente longevi, capaci di scardinare di netto certe leggi non scritte del vino svizzero, secondo le quali – per esempio – un Fendant “va bevuto giovane”.
DOMAINE DE BEUDON – BEST WINES Fendant 2004– Nel calice si presenta ancora d’un bel giallo paglia, con riflessi verdolini. Al naso l’impagabile freschezza delle note fruttate (albicocca) e uno spunto vegetale che costituirà ilfil rouge, preziosissimo, di tutta la produzione del Domaine de Beudon. Un contrasto solo apparente, in quadro in cui anche la mineralità gioca un ruolo fondamentale. Un vino d’agricoltura, d’artigianato. D’arte.
Riesling Sylvaner 2004 – Ottenuto da un appezzamento di 1,6 ettari situato interamente a 800 metri d’altezza, risulta aromatico come un giovane Moscato al naso, nonostante i 12 anni, con un tocco di miele delicato e fine. Lunghissimo in bocca, chiude su note amarognole che ricordano vagamente il rabarbaro.
Petite Arvine 2014– Premiato come miglior vino bianco bio della Svizzera. Lo degustiamo leggermente fuori temperatura. Ma ne apprezziamo comunque la freschezza. Bel naso, a cui risponde in bocca una portentosa struttura e calore: verbena, timo, limone. La sensazione è quasi balsamica.
Constellation 2007 – E’ il riuscitissimo blend tra Pinot Noir, Gamay e Diolinoir, varietà autoctona del Vallese. Un vino sensualissimo. Dai profumi vellutati di frutta (piccole bacche rosse) al riconoscibilissimo sentore di rosa. Un vino sinuoso, del fascino della discretezza. Anche al palato. Dove chiude con le canoniche note di erbe officinali, persistenti, lunghe.
LA CAVE DES CHAMPS CLAUDY CLAVIEN, MIEGE (VALAIS) Ormai pronta a prendere le redini della cantina al fianco del padre, Shadia Clavien (nella foto) ci accoglie nella sala degustazioni de La Cave des Champs, a Miege nel Vallese, da vera padrona di casa. La giovane, 23 anni, sta completando gli studi nella prestigiosa Alta Scuola di Viticoltura ed Enologia di Changins, a Nyon, canton Vaud. Il polo universitario più accreditato dell’intera Svizzera in materia enologica. E tra un paio d’anni sarà pronta a seguire le orme di quello che, in terra elvetica e non solo, è considerato un guru del vino: Claudy Clavien. Abbiamo ormai abbandonato da una decina di minuti il rettilineo che taglia in due il cantone, correndo parallelo al reno. Avventurandoci nelle tortuose stradine che conducono da Sierre a Crans Montana. Fino a giungere a Miege. Pittoresco paesino di 1.500 anime, a 700 metri sul livello del mare. Anche qui, quella che ormai è una consuetudine: più vigne che campanelli delle abitazioni. Dei 130 ettari vitati del paese, La Cave des Champs può contare su 10. Con una capacità produttiva annua che si assesta, in media, sulle 700 mila bottiglia. “Grazie a un attento lavoro in vigna – spiega Shadia Clavien – cerchiamo di tradurre in bottiglia sia le caratteristiche di struttura sia quelle di freschezza del vino, a seconda dell’uvaggio. Mio padre ama i vini sottili e strutturati ed è per questo che lavoriamo con botti di alta qualità, cercando di conferire al vino ulteriore complessità e un lento e promettente invecchiamento”. In effetti è vasta la produzione de La Cave des Champs che si avvale dell’utilizzo di barrique. E ad ogni sorso è evidente il grande potenziale dei vini firmati da Claudy Clavien. Vini territoriali, da aspettare in cantina per anni. Vini che, bevuti oggi, esprimono un tannino di grande potenzialità e sentori terziari vanigliati un po’ troppo aggressivi, almeno per il gusto italiano. Una gamma che, dall’anno prossimo, si arricchirà del frutto della prima vendemmia di Merlot, impiantato per la prima volta tre anni fa.
LA CAVE DES CHAMPS, BEST WINES Fendant 2015, 11,5% – Per finezza, il miglior vino da uve Chasselas degustato in Svizzera in occasione del nostro wine tour. E parliamo della “finezza” della semplicità, non della complessità. Si tratta infatti del vino bianco più diffuso in questa regione. Un vino leggero, da pasto. Che in casi come questo, rarissimi, si eleva all’ennesima potenza. Naso tutta frutta e fiori freschi. E facilità di beva straordinaria, resa tutt’altro che banale dalla ‘grassezza’ delle note fruttate, che conferisco grande morbidezza a un palato di velluto. Ottimo come aperitivo, il Fendant 2015 La Cave Des Champes può aspirare ad accompagnare addirittura piatti di pesce. Da provare.
Cornalin 2015, 13% – Vitigno difficile da coltivare, è una delle sfide più interessanti per Claudy Clavien la produzione in purezza del Cornalin. Molti altri lo hanno estirpato. Tanta frutta nel naso e in bocca, per un vino che vale di degustare per giungere – idealmente – all’esatto compresso tra la freschezza di un Pinot Nero e la complessità e struttura d’un Syrah. Tannino straordinario per finezza.
Diolinoir 2014, 13% – Ha bisogno di qualche minuto nel calice per aprirsi completamente e sprigionare le proprie potenzialità il Diolinoir di Claudy Clavien. Si tratta di un ‘incrocio’ ottenuto dalle varietà Diolly e Pinot Noir, introdotto nel Vallese negli anni Settanta. Naso interessante dominato dai piccoli frutti a bacca rossa, sfodera l’ennesimo tannino elegante di casa La Cave, mostrando ampi margini di potenziale invecchiamento. Già oggi piacevolissimo, regala una bocca ricca e piena e un retro olfattivo degno di nota.
Carminoir 2014, 13% – Se avete da giocarvi una sola fiche, bene: puntate tutto sul Carminoir di Claudy Clavien, delizioso incrocio tra Pinot Noir e – questa volta – Cabernet Sauvignon. Quantomeno per la sua unicità. Bel naso elegante su note fruttate che, presto, rivelano d’essere in ottima compagnia di sentori speziati di liquirizia e aromi di caffè (12 mesi di affinamento in barrique). In bocca è suadente, morbido, rotondo nonostante la buona struttura. Svela, solo nel finale, uno spunto leggero di liquirizia dolce. Grande persistenza. Perfetto per accompagnare piatti anche strutturati a base di carne, è un altro vino capace di invecchiare bene negli anni.
CLOS DE TSAMPÉHRO, FLANTHEY (VALAIS) Sono vini in giacca e cravatta, quelli di Clos de Tsampéhro. La penna è quella di Emmanuel Charpin (nella foto), artefice con i suoi tre soci Joel Briguet, Christian Gellerstad e Vincent Tenud, di un vero e proprio miracolo enologico. La cantina di Flanthey, che divide i locali con la consociata Cave La Romaine di Joel Briguet, apre ufficialmente i battenti nel 2013. Si brinda con le bottiglie della prima vendemmia, la 2011. Il target è subito evidente. Alta gamma. La produzione Clos de Tsampérho, ben presto, cattura le attenzioni dei ristoranti svizzeri più accreditati. Non passa inosservata agli stellati Michelin. Che fanno a gara, uno dopo l’altro, per aggiudicarsi i vini della nuova casa vinicola di Flanthey. Un successo arrivato presto, prestissimo. Ai nastri di partenza. Non a caso condividiamo la degustazione dei vini Clos de Tsampéhro con Pierre Edouard Coullomb, head sommelier dell’Hotel Les Sources des Alpes, cinque stelle di Leukerbad. Che presto avrà in carta queste “chicche”, ottenute da 2,5 ettari vitati complessivi, per un totale di 9500 bottiglie prodotte nel 2015. E’ Emmanuel Charpin a guidarci alla scoperta del cuore pulsante della cantina: la barricaia. Centoventi piccole botti, in cui riposano per un minimo di due anni i nettari in seguito alla vinificazione, avvenuta rigorosamente in legno (botti grandi di rovere). “Tsampérho – spiega Charpin – ha come unico obiettivo la qualità assoluta, senza il minimo compromesso. Ciò si traduce in basse rese in vigna, nella migliore selezione delle uve ma, ancor prima, in trattamenti di tipo biologico per prevenire le malattie della vite, al posto di combatterle”. Clos de Tsampéhro è infatti una delle dieci cantine della Svizzera che si avvalgono di elicotteri per i trattamenti agricoli. Alla giovane cantina di Flanthey va anche riconosciuto il grande merito d’aver promosso il recupero del Completer, vitigno autoctono del Vallese a bacca bianca, ormai sparito. Le barbatelle provengono dal canton Grigioni, dove invece è ancora allevato. Di seguito i migliori vini degustati, tenendo presente, però, che l’assaggio è avvenuto direttamente dalle barrique. I vini 2016 di Clos de Tsampéhro, tutti eccellenti, devono ancora essere imbottigliati.
CLOS DE TSAMPÉHRO, BEST WINES Tsampérho blanc 2015, ?% – Le premesse in barrique sono ottime per questo straordinario assemblaggio delle varietà Heida (70%) e Reze (30%). Vinificazione totale – 15/18 mesi – in botte, dopo la raccolta manuale dei grappoli e la pressatura soffice. Alla complessità e alla finezza degli aromi del primo uvaggio si sommano i muscoli e le caratteristiche più ruvide del secondo, sopratutto in termini d’acidità. Il risultato, al naso, è pressoché aromatico: frutta a polpa bianca, albicocca, fiori d’acacia. In bocca regna un perfetto equilibrio, con prevedibile predominanza delle note morbide e vellutate dell’Heida. L’acidità del Reze dona ulteriore freschezza e complessità alla beva. E ne fa un vino atto all’invecchiamento, che immaginiamo verterà su tinte – ancora più spiccate – di idrocarburo. Chapeau.
Completer 2014, ?% – Suadente e vellutato al naso, si conferma tale anche al palato. Le note di idrocarburo, qui già ben distinte, fanno spazio anche a sentori di pietra focaia. L’alcolicità è spiccata, assestandosi oltre i 15% in volume. Ma l’equilibrio è letteralmente perfetto. Un vino che fa vibrare il palato per le note evolute che parlano d’agrumi, per l’acidità piacevolmente citrica, per lo spunto gassoso percettibile anche nel retro olfattivo. Un capolavoro. Da aspettare ancora qualche mese, prima dell’imbottigliamento dalla barrique. E poi per anni, in cantina. Se si è capaci.
Tsampéhro III 2014, 14,2% – Il numero III indica la terza vendemmia della casa vinicola, che ha scelto di incartare la bottiglia con una carta velina fine, su cui è stampata la mappa dei vigneti. Una prima impressione che deve far pensare alla territorialità di questo blend rosso, che in una degustazione alla cieca potrebbe essere scambiato – senza vergogna – per un Super Tuscan. A comporre l’assemblaggio sono Cornalin (che fa la parte del leone), Merlot, Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon. “Vogliamo vini perfetti – evidenzia Emmanuel Charpin mentre versa il prezioso nettare nel calice – ma che siano anche piacevoli da bere”. Missione compiuta, Emmanuel. Perché Tsampéhro III 2014 lo puoi accostare a piatti saporiti a base di carne. Ma si presta alla perfezione anche come vino da meditazione, dopo pasto. Il compagno perfetto di un buon libro. Un vino rosso dominato dal fil rouge delle note fruttate grasse e dalla struttura del Cornalin, cui si sommano le note speziate del Merlot e quelle vegetali e fresche dei due Cab. Un vino che racconta – al naso e al palato – sentori di confettura di amarene e prugna, impreziositi da varietali speziati al pepe nero e terziari come liquirizia e cuoio. Evidente la propensione di questo blend all’ulteriore affinamento in bottiglia, fino a 15 anni.
NEYROUD FONJALLAZ, CHARDONNE (VAUD) Jean Francoise e Anne Neyroud, marito e moglie, sono i titolari di questa storica cantina di Chardonne, prima tappa di vinialsupermercato.it nel cantone Vaud. Fondata nel 1901, l’attuale struttura è stata acquistata dalla famiglia dalla famiglia Neyroud nel 1938. La vera svolta nel 1962, quando il padre di Jean Francoise abbandona le attività collaterali legate al bestiame per dedicarsi anima e cuore alla sola viticoltura. Ci troviamo nel cuore delle terrazze di Lavaux, che dominano la parte centro-orientale del Lago di Ginevra, ai piedi del Monte Pèlerin. Un luogo unico, patrimonio mondiale dell’Unesco. I terreni vitati della Neyroud Fonjallaz, che ammontano a circa 7,5 ettari, si trovano tutti in sottozone elette alla viticoltura del Lavaux, come Saint-Sephorine, Calamin e Dézeley.
NEYROUD FONJALLAZ, BEST WINES Dézeley 2015, 12,5% – Dopo i primi bianchi a base Chasselas, più destinati all’aperitivo che ad accompagnare un pasto completo, ecco un Dézeley di buona finezza, sia al naso sia al palato. Dominano la scena note fruttate di buona eleganza, che richiamano il melone e i frutti esotici. Buona anche la persistenza.
Saint-Sephorine Pinot Noir 2015, 12,8% – Un Pinot Noir in purezza che, al naso, regala le classiche note di sottobosco, con predominanza dei piccoli frutti a bacca nera su quelli a bacca rossa (più mora che lampone e fragolina). Un bel tannino elegante segue il valzer della frutta, prima di una piacevole chiusura su tinte minerali e sapide. Bella esaltazione del terroir di Lavaux in questo rosso di casa Neyroud-Fonjallaz. Semplice e genuino come la famiglia che lo produce.
JACQUES & AURELIA JOLY, GRANDVAUX (VAUD) Ad accoglierci, nella “casa-cantina” di Grandvaux, a pochi passi dal pittoresco centro storico del villaggio elvetico che s’affaccia su un lago di Ginevra mozzafiato, è un ragazzetto in pantaloncini corti, a petto nudo. Buon inglese. E la maturità d’un adulto: “Mi metto una maglietta e chiamo papà. Solo un momento”. Jacques Joly è in vigna quando suoniamo al campanello. Ci mette poco ad arrivare, seguito poi dalla moglie. Nel frattempo Gerome, il figlio 15enne, ci fa accomodare nella sala degustazione. Una bella famiglia del vino svizzero, i Joly. “Our wine, our life“, si legge sulla brochure di presentazione. E in effetti è questa la prima impressione. Tre ettari di terreni, per una produzione di circa 25 mila bottiglie l’anno. Terreni che non sono di proprietà di Jacques e Aurelia. Ma che, forse, un giorno lo diventeranno. La cantina, sorta nel 2008, ha già saputo imporsi nel panorama nazionale, aggiudicandosi diversi premi enologici (Lauriers d’Or Terravin). Inoltre, il governo cantonale ha premiato i Joly per il loro impegno nella promozione dell’enoturismo locale, che dallo scorso anno ha subito un’impennata nel Lavaux. La produzione dei Joly, del resto, è in grado di offrire una valida fotografia delle sfaccettature che assume il vitigno Chasselas (chiamato Fendant nel Vallese) nelle 8 diverse sottozone di produzione del Lavaux (830 ettari ripartiti su 6 Comuni rivieraschi). Qualche esempio? Il cru Dézaley dà vita a Chasselas che assumono sentori spiccatamente minerali, che sfociano nella pietra focaia. A Calamin, l’altro cru, la massiccia presenza d’argilla nel suolo regala vini complessi, soprattutto dal punto di vista olfattivo. E a Villette, l’area più estesa con i suoi 175 ettari, la sabbia compie l’esatto opposto: vini di facile e pronta beva, poco atti all’invecchiamento, ma molto fruttati.
JACQUES & AURELIA JOLY, BEST WINES Epesses Lavaux Aoc La Destinée 2015, 12% – Un gran bell’esempio della complessità offerta allo Chasselas dai terreni argillosi della sottozona Epesses. Al naso note fruttate eleganti e mineralità spiccata. Le stesse che si ritrovano in un palato di grande equilibrio. Pregevole anche il finale: La Destinée chiude, lungo e persistente, su note di melone maturo. L’ennesimo vino bianco svizzero che può aspirare a qualcosa di più del semplice abbinamento in occasione dell’aperitivo. L’Arpent 2014, 13,5% – Riuscitissimo blend tra Garanoir (80%) e Syrah (20%), L’Arpent è un rosso poderoso, ottenuto da seconda rifermentazione in barrique. La vinificazione delle uve avviene separatamente e il mix del Syrah con la varietà locale Garanoir viene effettuato solo in seguito a una selezione accurata della barrique nella quale le uve del vitigno francese esprimono il tannino e la morbidezza desiderata. Ne scaturisce un vino dall’imponente impronta olfattiva: alle note di confettura di more fanno eco intensi richiami al cuoio, alla liquirizia e al cioccolato. Con l’ossigenazione, L’Arpent si apre anche a sfumature fumé. Buona morbidezza al palato, dove il tannino risulta effettivamente equilibrato. L’utilizzo della barrique è perfetto: le note vanigliate fanno solo da contornom nel finale e nel retro olfattivo, al ritorno delle note fruttate di mora.
CAVE PHILIPPE BOVET, GIVRINS (VAUD) Vale proprio la pena di percorrere ogni singolo chilometro delle strade anguste che tagliano in due il distretto di Nyon, staccandosi dalla E62, fino a giungere alla cantina di Philippe Bovet. Siamo a Givrins, cuore pulsante del vino del Vaud, lontano dai terrazzamenti tipici del lago di Ginevra (Lavaux). E quella di Philippe Bovet (nella foto) non è una cantina. Non è un’azienda. E’ un sogno ad occhi aperti. E quello che sta combinando da queste parti Bovet, è qualcosa a metà tra l’opera d’arte d’un visionario. E la follia. Philippe Bovet, il Maradona del vino svizzero: lo rinominiamo così al termine della nostra visita in cantina. Un soprannome che va ben oltre la leggera somiglianza tra il vigneron – ex maestro di sci e tuttora grande amico del campione olimpico Didier Défago – e il Pibe de Oro. Ma andiamo con ordine. Sono le 10.30 quando giungiamo a Givrins. Ad occuparsi di noi è Baptiste Moreau (nella foto, sotto), bischero di 21 anni che ha mollato la cantina del padre, produttore di Chablis in Francia, per andare a studiare a Changins. “Troppa teoria e poca pratica”: un fardello, quello della scuola d’alta formazione in Viticoltura ed Enologia, che Baptiste ha liquidato in pochi mesi. Trovando comunque un posto d’onore nella cantina di Bovet. Del resto, il vino ce l’ha nel sangue, Baptiste. Che con destrezza ed estrema preparazione ci guida nella visita della cantina. Grande importanza per il progetto di Bovet rivestono le barrique in cui affinano vini che fino a pochi anni fa erano praticamente sconosciuti in Svizzera. Parliamo del Malbec, su tutti. “Sono un grande amante dell’Argentina e del suo vino principe – spiega Bovet – così ho deciso di tentare di allevarlo qui, a partire dal 2009”. Tra gli 8 ettari di terreni della Cave (5 in conversione biologica), in grado di assicurare una produzione annua di 80 mila bottiglie (numero che sale a 200 mila considerando le vinificazioni effettuate per conto di altri viticoltori della zona), Bovet può contare su 5 differenti cloni di Malbec. Quattro dei quali provengono direttamente dall’Argentina, o meglio dalla cantina Tempus Alba di Mendoza.
Quello piantato nel 2009 arriva invece dalla Francia (Montpellier). Il Malbec di Bovet affina tre anni in barrique. E finisce sold out ancor prima di essere riversato in bottiglia. Una fortuna poter degustare da una delle piccole botti la vendemmia 2014, che sarà “pronta” nel 2017. Ottimo, sempre dalla barrique, anche il Viognier 2015, ottenuto da una particella costituita da viti di 20 anni posta sotto la chiesa di Givrins. Ma in realtà, Bovet ha reso famosa la Svizzera del vino per un altra produzione: quella del Gamay. Avete capito bene. Proprio per il Gamay, considerato il ‘vino rosso da tavola’ degli svizzeri. “Quando ho iniziato a produrre Gamay affinato in barrique, riducendo di molto le rese in vigna – spiega Philippe Bovet – in molti in Svizzera pensavano fossi diventato pazzo. Ho proposto il mio Gamay ad alcune degustazioni professionali: pensavano si trattasse di Syrah. Invece era proprio Gamay”. Il Gamay è la sintesi della filosofia produttiva della Cave Bovet, che punta a valorizzare al massimo il singolo vitigno, “che deve parlare di sé, della terra da cui nasce, ed esprimere nel calice tutto il suo potenziale”. “E’ così che ho vinto un sacco di premi, parlando della purezza di ogni vitigno prodotto”, commenta col sorriso stampato sul viso il viticoltore. La Cave Philippe Bovet produce assieme ad altri tre produttori svizzeri due vini – un bianco e un rosso – frutto di un assemblaggio segreto: “Les 4 Elements”. Si tratta del tentativo di unire lo spirito d’innovazione, il savoir faire e l’expertise in materia enologica di Bovet e degli altri produttori svizzeri Guy Cousin (Vignoble Cousin, Concise – canton Vaud), Stéphane Gros (Dardagny, canton Geneve) e Cave Christophe Jacquod (Bramois – canton Valais) che condividono la medesima filosofia. Sono loro i “quattro elementi”: acqua (Bovet), terra (Cousin), fuoco (Gros) e aria (Jacquod). L’unico vino capace di unire il meglio delle produzioni di quattro distinti cantoni. Molto più di una semplice operazione di marketing. “Nei mesi che precedono la vendemmia – spiega Bovet – osservo le uve e i loro mutamenti e stilo una lista di cose che vorrei sperimentare. A fine vendemmia mi rendo conto d’aver realizzato neppure la metà delle cose che mi ero prefissato. Per chi vuole innovare e sperimentare, soprattutto in Paesi come la Svizzera, dove il clima è particolare e spesso avverso, ogni vendemmia passata è una vendemmia persa. Perché? Perché siamo viticoltori e non cuochi: noi non possiamo rifare una ricetta venuta male, cambiando semplicemente gli ingredienti”. Goal. Palla di nuovo al centro.
CAVE PHILIPPE BOVET, BEST WINES Chenin Blanc 2015, 13,9% – Imbottigliato da circa tre mesi, lo Chenin Blanc 2015 di Philippe Bovet esprime già bene il suo potenziale, che non potrà che esplodere ulteriormente con l’ulteriore affinamento. Il vitigno, originario della Valle della Loira, si racconta nel calice sotto una delle sue poliedriche forme: quello della complessità e della qualità assoluta, a dispetto di chi bistratta i nettari ottenuti da questa nobile bacca bianca. Bovet attende sino all’ultimo minuto la maturazione in vigna, spingendola sino al limite. La vendemmia 2015, del resto, è stata molto favorevole. Giallo paglierino, con riflessi dorati. A un naso complesso di frutta esotica, con il melone che spicca sulle altri frutti come il mango, fa eco una mineralità che segna uno stacco con altri Chenin Blanc degustati in Svizzera, oltre a un corpo di tutto rispetto. La buona acidità lo rende vino atto a un degno invecchiamento, superiore anche ai 5 anni.
Verticale di Gamay, 2010 / 2015 – Viaggio nelle ultime cinque annate della varietà che ha reso famoso Bovet – a buona ragione – in Svizzera e nel mondo. Si comincia dal frutto spinto all’ennesima potenza del Gamay 2015 Pacifique (14%). La vinificazione in acciaio regala un naso e una bocca a base di frutti rossi: consistenti, pieni, ricchi, persistenti. Elegante il tannino, come mamma l’ha fatto. Il Gamay 2014 Atlantique (13,4%) affina invece in barrique. Stessa pulizia delle note fruttate, che sfociano sia al naso sia al palato in terziari di speziati. Botte per nulla invadente nel conferimento di leggere note vanigliate. Si tocca il cielo con un dito con il Gamay 2011 di Bovet: mix perfetto di eleganza e finezza, espressione del magnifico terroir locale. E’ la vittoria di Davide su Golia. La vittoria della qualità sulla quantità. La scommessa vinta da Bovet. Ottimo anche il Gamay 2010, che si fa grasso con le sue note intense di marmellata di prugna e datteri. Unica pecca, quello svanire un po’ frettolosamente nel retro olfattivo: un sogno a bocca piena, che svanisce troppo presto.
DOMAINE MERMETUS, ARAN VILLETTE (VAUD) Il sole luccica sul lago di Ginevra e lo spettacolo che offre la natura, tra le vigne del Domaine Mermetus, è degno d’un quadro impressionista. In mezzo alla cornice si muove una figura piccola, composta. Ci viene incontro. E’ Claire (nella foto), la padrona di casa. Che ci accoglie col sorriso, pronta a guidare con grande professionalità la degustazione. Una fortuna, per il marito Henry Chollet e per il figlio Vincent, poter contare sull’apporto di questa dama del vino svizzero, che conosce bene come le sue tasche la terra e le mille sfumature del vino del Lavaux. Siamo ad Aran Villette, poco lontano da uno svincolo autostradale della E62. Eppure regna il silenzio. Delle auto, neppure l’ombra. Il tetto di Domaine Mermetus e le sue pareti bianche spuntano come per magia tra le vigne della “maison”, poco prima che la collina, scoscesa ma non ripidissima, baci l’acqua del lago di Ginevra. Siamo a casa di un produttore che, grazie al suo profondo attaccamento alla terra d’origine, è tra i fondatori dell’Association Plant Robert – Robez – Robaz. Henry Chollet, marito della splendida Claire, è tra i pionieri che nell’aprile 2002, a Cully, sottoscrivono l’impegno formale nella riscoperta di un vitigno autoctono ormai quasi scomparso: il Plant Robert – Robez -Robaz, per l’appunto. Un vitigno a bacca rossa, della famiglia del Gamay, coltivato nel Lavaux tra il 18° e il 19° Secolo e salvato dall’oblio, in extremis, nel 1966 dal vigneron Robert Monnier. Densità d’impianto minima di 7.500 piante per ettaro, con resa massima di 0.7 litri per metro quadrato e densità del mosto minima di 85° Oechsle: queste le regole del ‘gioco’ dell’associazione, che per garantire l’autenticità del prodotto si rifà all’Organisme Intercantonal de Certification (Oic), a sua volta rispondente al Service d’Accréditation Suisse (Sas). Una speciale “fascetta”, simile al contrassegno di Stato apposto sui vini Docg in Italia, viene apposta sulle bottiglie di Plant Robert autentico. Una missione, quella di Domaine Mermetus, che oggi viene portata avanti con entusiasmo dal figlio di Henry e Claire Chollet, Vincent, in collaborazione con la moglie. Sette ettari totali, suddivisi in 35 particelle. Capaci di trasformarsi in 33 diverse cuvée interamente elaborate, dalla vigna alla bottiglia, dalla famiglia Chollet.
DOMAINE MERMETUS, BEST WINES Vase n° 10 2015,12,8% – E’ lo Chasselas in purezza che, da queste parti, definiscono “gastronomico”. Ovvero il più complesso. Quello che, per caratteristiche, è adatto ad accompagnare un pranzo o una cena, al di là dell’aperitivo. Dopo aver degustato l’ottimo Les Terrasses de Valérie 2015 (Chasselas d’Epesses intenso, grasso, minerale), passiamo con curiosità a Vase n° 10 e ce ne innamoriamo. Di un bel giallo paglierino carico, risulta intenso al naso, ma con la classica nota esotica (melone) che si fa attendere rispetto ad altri Chasselas, piacevolmente sovrastata dalla spiccata mineralità, che poi troveremo anche al palato. Chiude fruttato, con note che ricordano la banana matura. Vase n° 10 è ottenuto senza malolattica, per garantirne la purezza e la struttura ideale per l’accompagnamento gastronomico. La terra ricca di argilla e limo, in cui affondano le radici le viti, è il segreto di questo ottimo bianco svizzero.
Viognier Essence lémanique 2015, 14,9% – Avete letto bene. Un Viognier dall’accentuata alcolicità, eppure così bevibile, per nulla stucchevole o da capogiro. A nostro parere, assieme al recupero del Plant Robert, è questo il vero capolavoro di Domaine Marmetus. Un vitigno, il Viognier, che i Chollet allevano da oltre 20 anni. E un nome, Essence lémanique, scelto non a caso: Lemano è il nome originario del lago di Ginevra, di cui questo vino sembra esprimere l’essenza. La sintesi perfetta. Un po’ come se i Chollet fossero riusciti a condensare, in un’unica bottiglia, tutte le caratteristiche dei terroir del Lavaux. In questo Viognier troviamo la freschezza delle note fruttate riscontrabili nei bianchi della sottozona Villette. Ma anche la complessità dei vini d’Epesses e Calamin. E infine la mineralità e le note evolute dei migliori Dézalay. D’un giallo dorato già di per sé invitante, si presenta al naso con più albicocca che pesca. In bocca morbido, intenso. Con l’alcolicità a fare da cornice, calda ma equilibrata, alle note fruttate. Lungo finale, con spruzzata leggera di pepe bianco. Il compagno perfetto per gustare piatti speziati della cucina indiana.
Plant Robert Le Chant de la terre 2014, 13% – Il “Canto della terra”. Altro nome azzeccato per un vino – questa volta rosso – che parla della tradizione più profonda e dell’amore e dell’attaccamento alle origini della viticoltura del Lavaux. Per comprendere appieno le caratteristiche di questo Plant Robert bisogna conoscere il Gamay, di cui è la versione “esplosa”: più frutta, più spezie. E uno spunto animale, rustico, tradizionale, tipico dei vini veri, sinceri. Non artificiali, autentici. In una parola: naturali. Di un rosso rubino profondo, poco trasparente, Le Chant de la terre si presenta al naso col megafono: piccoli frutti a bacca rossa e nera (lampone, more) accompagnano una speziatura accentuata di pepe e chiodi di garofano. Caratteristiche che ritroviamo anche al palato, dove si comprende come il Plant Robert sia un vino d’attendere qualche anno, prima che esprima appieno tutto il suo potenziale. Col passare dei minuti, l’ossigenazione del nettare nel calice contribuisce a esaltare note più morbide e grasse al naso, che sfociano addirittura nel balsamico delle resine d’abete. Un vino rustico, ma elegante. Un ossimoro con cui accompagnare portate di carne importanti, come per esempio la selvaggina d’agnello.
DOMAINE HENRI CRUCHON, ECHICHENS (VAUD) Ultima tappa prevista tra le cantine del Vaud, prima di spostarci e chiudere il wine tour nel cantone Ginevra, è il Domaine Henri Cruchon di Echichens. Siamo nel distretto di Morges, a casa di una famiglia di viticoltori appassionati, giunta ormai alla terza generazione. Un vero e proprio riferimento nella zona. Ai 12 ettari del Domaine vanno a sommarsi infatti altri 42 ettari vitati di proprietà di altre famiglie, unite in una sorta di cooperativa Il fondatore, Henri Cruchon, può contare sull’apporto dei due figli Michel (viticoltore) e Raoul (enologo), su quello delle loro mogli Anne e Lisa (impiegate amministrative) e, dal 2010, anche sull’apporto della nipote Catherine Cruchon, enologa con esperienze formative anche in Italia, nel Piacentino. Tutti e 12 gli ettari di proprietà sono certificati biodinamici, così come 32 dei 42 ulteriori ettari delle famiglie conferitrici. “La terra non ci appartiene – spiega Catherine – noi siamo i suoi custodi. La coltiviamo, dunque, con l’idea che dobbiamo garantirne la longevità, con pratiche di totale rispetto nei confronti della natura”. Il contesto è quello dell’Aoc Morges, compresa tra la città di Losanna e il fiume Aubonne. La denominazione più estesa del canton Vaud. E’ qui che i viticoltori hanno riscoperto e valorizzato il Servagnin, varietà autentica di Pinot Nero, introdotto in Svizzera proprio a partire da Morges.
DOMAINE HENRI CRUCHON, BEST WINES Altesse 2015, 15,5% (senza solfiti, non filtrato) – Rimaniamo letteralmente folgorati di fronte a questo bianco senza solfiti di casa Cruchon. Altesse è il nome del vino ma anche quello della rarissima varietà Altesse, coltivata solamente nella Savoia francese, luogo dal quale proviene. I grappoli maturi prendono le sembianze del Gewurztraminer una volta maturi: quel bruno rossastro che è gli ha fatto guadagnare il soprannome “La Roussette” da parte dei locali. In realtà la traduzione corretta sarebbe “Sua Altezza”. Un appellativo più che azzecato. Nel calice l’Altesse 2015 del Domanine Henri Cruchon si presenta d’un giallo dorato carico. Al naso l’acqua del mare: una percezione salmastro-minerale di rara pregevolezza, unita a richiami esotici, agrumati (limone) ed erbacei (fieno). Al palato l’alcolicità calda non disturba una beva morbida, straordinariamente rotonda e avvolgente. Anzi, esalta le note di miele e cedro, di eleganza sublime, che sembrano disciogliersi nel sale di cui è ricco anche il palato, oltre al naso. Straordinario il lavoro effettuato in vigna dai Cruchon con questo rarissimo uvaggio, sin dal 1998, anno della prima produzione. Un’attenzione che poi si trasferisce in cantina, dove gli acini vengono pressati interi e vinificati in serbatoi da 500 litri. Lunga fermentazione, che comprende la malolattica.
Pinot Noir Champanel 2014, 13% – Fa parte dei Gran Cru della casa vinicola di Echichens, questo Pinot Nero che reca appunto il nome della vigna Champanel, divisa a metà tra la varietà a bacca rossa e il locale Chasselas. Il terroir Champanel è caratterizato da un profondo terreno argilloso-calcareo, che si trova su una morena formatasi 10 mila anni fa per l’attività dei ghiacciai. Non a caso, da questa posizione si può ammirare il Monte Bianco, al di là del Lago di Ginevra. “Al fine di mettere in evidenza il carattere pieno di questo Grand Cru – spiega Catherine Cruchon – le viti, tutte di 30 anni, sono coltivate nel rispetto dei ritmi lunari, ovviamente senza utilizzo di prodotti chimici”. La vendemmia viene compiuta a mano, su rese molto basse. In seguito alla vinificazione tradizionale, il vino matura per 18 mesi, di cui 12 in botti di rovere. Ne scaturisce un Pinot Nero validissimo: imbottigliato solo da due mesi, quello che degustiamo mostra grandi margini di miglioramento nel medio-lungo periodo (6 anni) evidenziando carattere e finezza rappresentati benissimo da un tannino da ricordare.
DOMAINE DU CENTAURE, DARDAGNY (GENEVE) Per raggiungere Dardagny, il navigatore ci conduce al confine con la Francia, per poi farci rientrare in territorio elvetico in seguito a un brevissimo tratto di superstrada. Stranezze della tecnologia a parte, Dardagny è una tappa imprescindibile del nostro wine tour: l’ennesimo Comune con più vigne che campanelli, designato a rappresentare l’altissimo livello qualitativo dei vini del cantone di Ginevra. La prima delle due cantine visitate è Domaine du Centaure, il regno di Claude Ramu e dei suoi figli Nicolas e Julien (nella foto). A guidarci nel tour della winery è proprio quest’ultimo. Una cantina moderna, realizzata nel 1980 e sempre in continua evoluzione dal punto di vista tecnologico. Oggi i Ramu, famiglia storica, presente a Dardagny sin dal 1400, arrivano a produrre circa 200 mila bottiglie dai 20 ettari di proprietà, cui vanno a sommarsi gli 8 in locazione. “In tutti questi anni – tiene a sottolineare Julien Ramu – siamo sempre stati indipendenti, senza mai aderire a nessuna cooperativa. Fummo noi a introdurre il metodo Guyot in Svizzera, nel 1925 con Edmond Ramu, nostro capostipite. E fu sempre lui a piantare il primo Gamay e Pinot Nero, nel 1936”. Una storia curiosa quella dei Ramu, che negli anni Cinquanta trova in Charles Ramu un altro innovatore: pilota di auto da corsa in Italia con Alfa Romeo, rifiutò la chiamata in Formula 1 per tornare tra le sue vigne di Dardagny. Introdusse così Aligoté, Pinot Grigio, Gewurztraminer e Moscato, ottenendo diverse medaglie d’oro. Ma fu Claude Ramu a cambiare il nome dell’azienda in Domaine du Centaure, nel 1982. Assegnando al pittore Serge Diakonoff il compito di realizzare le caratteristiche etichette dei suoi nuovi vini.
DOMAINE DU CENTAURE, BEST WINES Pinot Gris Les Chant des Sirènes, vins doux – Vino dolce ottenuto grazie all’appassimento delle uve per due mesi su graticci. Una volta raggiunto il grado zuccherino desiderato, mediante disidratazione, gli acini di Pinot Grigio vengono pressati e, in seguito alla fermentazione, posti ad affinare in barrique per 20 mesi. Bel giallo dorato, al naso sprigiona la freschezza delle note di brutta a polpa bianca (pera, banana) e d’albicocca. Lo apprezziamo per la grande pulizia al palato e per la scelta maestrale di un grado zuccherino non stucchevole: un’operazione non riuscita ad altri viticoltori svizzeri.
Garanoir-Gamaret barrique Légende 2014 – More, pepe, spezie. Il blend tra le varietà locali Garanoir e Gamaret è riuscitissimo al Domaine Du Centaure. Un vino tannico, di corpo, capace di sfoderare un grande carattere. Uno di quei vini da aspettare, anche se già in grado di accompagnare più che bene piatti saporiti a base di carne, come la selvaggina.
DOMAINE LES HUTINS, DARDAGNY (GENEVE) Si conclude qui il nostro wine tour in Svizzera. E non poteva che terminare in una delle cantine svizzere che fanno della qualità il proprio baluardo. Seconda ed ultima tappa a Dardagny è Domaine Les Hutins, cantina storica che oggi è retta dall’ingegnere Jean Hutin e dalla figlia enologa Emilienne Hutin Zumbach (nella foto). Ormai la quinta generazione di una famiglia di viticoltori. L’anno della svolta, da queste parti, è il 1982. Quando Jean inizia a impiantare Sauvignon Blanc. Molti altri seguono poi il suo esempio in Svizzera, dal Ticino alla Svizzera tedesca. “La nostra filosofia produttiva – spiega Emilienne – prevede la massima attenzione in vigna, nel rispetto dell’ambiente. Stiamo portando avanti la produzione integrata, con 3,5 ettari sui 20 totali coltivati in biodinamica, pur senza certificazione. Il nostro vino deve parlare della terra e dell’andamento dell’annata, senza artifici. E’ un vino vero, insomma”. Quindici le varietà allevate, che danno vita a 27 differenti etichette, equamente suddivise tra bianchi e rossi. I terreni si trovano a un’altezza di 430 metri sul livello del mare. Tutti in piano, a esclusione dei 2 ettari in pendenza suddivisi tra Sauvignon, Syrah, Merlot e Viognier, nei pressi del fiume Rodano.
DOMAINE LES HUTINS, BEST WINES Sauvignon Blanc 2014, 13,5% – Ottenuto dalle vigne vecchie, questo Sauvignon Blanc affina in barrique per 12 mesi. Vino molto più diretto e schietto del suo parente non affinato in barrique (di cui però abbiamo degustato la vendemmia 2015, 14,5%), esprime sentori fruttati meno esuberanti, ponendosi di diritto come vino gastronomico. Pregevole la chiusura su note di limone, che lo rende ancora più interessante. L’affinamento viene compiuto in barrique da 500 litri, senza aver prima svolto malolattica. Legni che sono stati selezionati con cura da Emilianne e reperiti dopo una lunga ricerca atta a esaltare le caratteristiche del vitigno internazionale e le peculiarità del terroir di Dardagny.
Chasselas Bertholier 2015 13 % – E’ lo Chasselas top di gamma di Hutins. E si sente. Non il solito vino “leggero”, da aperitivo, bensì un nettare che mostra buona struttura e consistenza. L’erba in campo non viene diradata, ad esclusione della base della pianta, con dosi minime d’erbicida. Fermentazione lunga, che si aggira attorno ai due mesi per questo Chasselas gastronomico. Naso floreale (tiglio) con richiami minerali che poi si riscontrano nuovamente al palato, dove la salinità precede una chiusura fruttata, ma di sostanza.
Bertholier Rouge 2014, 13,5 – Altro top di gamma di Hutins. Si tratta dell’assemblaggio tra Gamaret (70%), Merlot (15%) e Cabernet Sauvignon (15%) vinificati in barrique. Le tre varietà che compongono il blend effettuano assieme la fermentazione. Nel calice, Bertholier Rouge si presenta d’un rosso intenso, poco trasparente. Intenso è anche il naso, che da un principio fruttato (bacche rosse) si evolve con l’ossigenazione verso tinte balsamiche, mentolate. Si sprigiona a quel punto anche la caratteristica nota vegetale del Sauvignon, che apprezziamo particolarmente. Al palato si conferma vino di sostanza e di corpo, capace di accompagnare degnamente piatti complessi a base di carne e selvaggina. La verticale compiuta da Hutins ne dimostra la longevità, con l’annata 2005 ancora straordinariamente viva nel calice.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 16 anni, tra carta stampata e online, dirigo oggi winemag.it, testata unica in Italia per taglio editoriale e reputazione, anche all’estero. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Segno Vergine allergico alle ingiustizie e innamorato del blind tasting, vivo il mestiere di giornalista come una missione per conto (esclusivo) del lettore, assumendomi in prima persona, convintamente, i rischi intrinsechi della professione negli anni Duemila. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
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