Si rinnova sabato 26 aprile 2025 l’appuntamento con Ossola in Cantina, giunto alla terza edizione. Un affascinante percorso enologico tra i vigneti eroici delle Alpi piemontesi, in provincia di Verbano-Cusio-Ossola. Otto cantine, tutte aderenti ad APAO – Associazione Produttori Agricoli Ossolani apriranno le loro porte dalle 11 alle 18, offrendo degustazioni di vini Doc locali accompagnate da assaggi gastronomici tipici, rigorosamente serviti con materiali compostabili per un’impronta green voluta dagli organizzatori.
Attraverso un unico voucher (acquistabile dal 15 marzo sul sito APAO, al costo di 30 euro), i partecipanti potranno scegliere quali cantine visitare. Percorrendo in autonomia un itinerario tra strade, mulattiere e sentieri di montagna, ideali per riscoprire il patrimonio vitivinicolo locale. Protagonista assoluto il Nebbiolo tradizionale, il Prünent, citato sin dal 1309 per il suo particolare sentore di prugna.
Le cantine coinvolte da Ossola in Cantina 2025 sono distribuite lungo tutta la valle, da Pieve Vergonte a Crodo, passando per Domodossola e Trontano. Si tratta di Ca’ da l’Era Azienda Agricola, La Cantina di Tappia, Edoardo Patrone, Agriturismo La Tensa, Villa Mercante, Cantine Garrone, DEA – Agricoltura Eroica in Val d’Ossola e Istituto Agrario Fobelli di Crodo. I vini saranno presentati in ogni cantina e raccontati dai sommelier Ais Verbania. Per un’esperienza ancora più completa, APAO offre la possibilità di escursioni guidate a piedi o in e-bike, a pagamento.https://www.facebook.com/apao.associazione.produttori.agricoli.ossolani
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Villareggia. Mai sentito il nome di questo paesello di poco più di mille abitanti, situato a una quarantina di chilometri da Torino? Se un giorno il nome di questa località sarà noto ai più, il merito sarà di un giovane viticoltore, classe 1990, che da qualche anno sta impiegando anima e corpo per dimostrare che lì, a Villareggia e dintorni, si possono produrre grandi vini bianchi col vitigno Erbaluce di Caluso e grandi vini rossi da uve Nebbiolo, localmente chiamate Picotener o Picotendro). Quel giovane viticoltore si chiama Luca Leggero, patron dell’omonima cantina che ha l’ambizioso progetto di mettere Villareggia sulla mappa del vino italiano che conta. Le premesse ci sono tutte: Luca Leggero è la Cantina Rivelazione per la Guida Top 100 Migliori vini italiani 2025 di winemag.
Ricordate il “claim” che abbiamo scelto per questa edizione? È “La forza dei sogni“. Luca è un vignaiolo che sta sognando in grande, a cui vogliamo dare sostegno e fiducia, attraverso uno dei massimi riconoscimenti della Guida. A parlare, del resto, è una gamma di vini capace già di chiarire, senza ombra di dubbio, quale sia l’obiettivo della cantina, ovvero l’eccellenza. Ma ancora una volta, flashback. Dopo gli studi in Giurisprudenza, il richiamo della campagna in cui era cresciuto insieme al nonno – viticoltore per autoconsumo – è stato irresistibile per Luca Leggero.
Radici agricole a Villareggia per l’intera famiglia, indietro un secolo tra le generazioni. È così che, nel 2019, iniziano i primi, veri esperimenti di vinificazione delle uve del vigneto del bisnonno – risalente al 1920 e poi trasformato in un campo sperimentale per il recupero e la selezione massale di tre varietà un tempo molto diffuse del Canavese: Picotener, Bonarda e Neretto di Bairo – a cui si combinano alcune acquisizioni di terreni nella zona, sino ad arrivare a un totale di 8,5 ettari, raggruppati grazie a un centinaio di atti notarili.
ERBALUCE E NEBBIOLO: A CASA DI LUCA LEGGERO, CANTINA RIVELAZIONE WINEMAG 2025
La realizzazione dell’attuale, moderna cantina, molto ben integrata nel verde dei campi di Villareggia e costruita secondo rigidi dettami di sostenibilità ambientale, risale al 2021. Un periodo molto complicato per avviare un’impresa, tanto è vero che i lavori sono tuttora in corso per l’ultimazione delle parti esterne dell’edificio. A pensarci bene, il “work in progress” è un altro elemento che rivela la grande determinazione di questo vignaiolo piemontese, che sta realizzando il suo sogno come un puzzle, pezzo per pezzo, dopo aver dato priorità assoluta alle sale per la vinificazione e alle relative attrezzature.
La produzione attuale si aggira attorno alle 35 mila bottiglie, con la consulenza enologica di Gianluca Colombo, che si avvale per tutti i vini di vinificazioni in anfora (Tava) e tonneau, con lieviti interamente indigeni. «Ho sempre avuto la convinzione – spiega Luca Leggero – che a Villareggia si potesse fare qualcosa di grande. È sempre stato questo il mio sogno, il mio pallino, suffragato dai risultati ottenuti per oltre un decennio dalla vinificazione di grandi uve insieme al nonno, in una cantina che somigliava più a un garage, con pochissime attrezzature professionali».
LIEVITI INDIGENI, ANFORA E TONNEAU: I VINI DI LUCA LEGGERO
«Produrre vino in una zona sconosciuta al mondo, in cui la ricerca agronomica ed enologica è pari a zero – continua – è una grande sfida da intraprendere in solitaria. Tutti mi chiedevano cosa stessi facendo, ma ho tirato dritto. A suffragare questo mio sogno sono evidenze storiche che ho raccolto in diversi anni di ricerca, che dimostrano come il territorio di Villareggia, dal X secolo dopo Cristo fino a 200 anni fa, fosse ampiamente vitato, dalla collina alla pianura. In un libro del 1868, la produzione di Villareggia figurava tra i “vini di lusso” reperibili sin dalla prima Esposizione agraria realizzata a Torino».
Un ruolo determinante nella scommessa e nel sogno di Luca Leggero lo giocano i suoli. Le vigne, comprese quelle impiantate nel 2015 in seguito alle ultime acquisizioni di terreni nudi, sono ricche di sabbia e scheletro morenico lasciato dalle glaciazioni del Canavese, il cosiddetto “Anfiteatro morenico di Ivrea”. In particolare, le vigne si trovano nella parte di sversamento centrale, dove si è accumulata la maggior parte dei detriti. Completa il quadro un approccio alla viticoltura di tipo biologico-biodinamico, con certificazione bio che riguarda la vigna e i vini rossi, ma non i vini bianchi, prodotti anche con vigne di proprietà di due giovani del posto.
IN ARRIVO IL METODO CLASSICO PAS DOSÉ LUCA LEGGERO
Ciliegina sulla torta è la produzione di spumante, rigorosamente Metodo classico, Pas Dosé – in tiratura limitata a 1.800 bottiglie per la vendemmia 2022 (quella d’esordio, non ancora sul mercato) e 3 mila per la vendemmia 2023 – oltre a un rosso Riserva, da uve Nebbiolo, al momento in affinamento in bottiglia il passaggio in anfora e 10 mesi di tonneau. Ma dove vuole arrivare Luca Leggero, Cantina Rivelazione della Guida Winemag 2025?«Non so se riuscirò mai a realizzare il mio vero obiettivo – ammette – che è quello di arrivare alle grandi vette del mondo sul fronte della qualità del vino. Abbiamo costruito questa cantina alla luce della voglia di mostrare ciò che Villareggia può produrre, ovvero grandi vini».
«La mia ispirazione – continua – è arrivare là: ci proviamo tutti gli anni e abbiamo tutta la strada davanti per centrare gli obiettivi, poco per volta”. Interessanti, in quest’ottica, i nomi di fantasia scelti per i vini della gamma. Già, perché se il sogno (e l’obiettivo) è il vertice della produzione mondiale, il terreno su cui poggia la rampa di lancio di Luca Leggero è quello della rivincita. “Maura nen” e “Rend nen“, ovvero “Non matura” e “Non rende“, scelti sfidando con ironia le dicerie sui vitigni Nebbiolo ed Erbaluce nella zona, mostrano il carattere di questo giovane vignaiolo piemontese. Determinato a mostrare coi fatti, oltre che con le parole, la grandezza di Villareggia.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Una cantina nata dall’intuizione di due fratelli, in grado di comprendere la grandezza e le sfumature dei terroir delle Langhe. Nel 2024 compie 30 anni la Adriano Marco e Vittorio di San Rocco Seno d’Elvio, piccola frazione di Alba nota a livello internazionale per i propri vini rossi e per essere ricompresa nella Docg Barbaresco. Sono le “nozze di perla” di una famiglia tanto eccezionale quanto normale, capace di presentarsi con la purezza e l’elegante semplicità di un’italianità ormai perduta. Il volto e l’immagine dell’azienda è oggi Michela Adriano. Alla figlia del compianto Vittorio – scomparso prematuramente all’età di 56 anni, nel maggio del 2022 – classe 1995, è affidata la svolta “in rosa” della cantina, sempre più proiettata sull’ospitalità e sui mercati internazionali. Non senza sorprese: proprio in onore del papà Vittorio Adriano, lo scorso 25 giugno è stato presentato in anteprima il Barbaresco Docg Riserva 2014 Basarin.
Un’edizione limitata, prodotta in sole 500 bottiglie e 100 magnum, fortemente voluta dal compianto viticoltore albese in risposta alle «critiche generalizzate della stampa di settore» sulla qualità delle uve della vendemmia 2014. Un vero e proprio tuffo nel tempo la proiezione del video ritrovato da Michela Adriano tra i ricordi del padre. Le immagini, girate nel vigneto Basarin, mostrano Vittorio intento alla vendemmia di splendidi grappoli di Nebbiolo, a riprova che il “millesimo” 2014 ha saputo offrire grandi risultati ad alcuni vigneron delle Langhe: «Stiamo vendemmiando il Nebbiolo – spiega il vignaiolo nella clip di repertorio – uva che diventerà Barbaresco. Siamo nel vigneto Basarin, a Neive, e devo dire che sono veramente sorpreso di vendemmiare dell’uva bellissima, sana, matura al punto giusto».
IL VIDEO RICORDO DI VITTORIO ADRIANO NEL VIGNETO BASARIN
«Abbiamo avuto un’estate molto difficile – continua – con un luglio molto piovoso. Però, ad agosto, le condizioni sono cambiate e dalla metà del mese in poi il clima è stato favorevole. Un settembre molto bello ci ha permesso di essere fortunati col Barbaresco […] e sono convinto che avremo poi degli ottimi vini dall’annata 2014. Sono molto contento e soddisfatto del lavoro che abbiamo fatto». Una previsione che si è rivelata quantomai azzeccata.
L’immagine finale del video sfuma tra i vigneti e il cielo plumbeo, mentre in sala – in un gioco quasi mistico tra passato, presente e futuro – parte un applauso commosso, tra le lacrime di molti partecipanti e quelle di Michela Adriano, per la prima volta alla conduzione dell’assaggio dei vini aziendali di fronte agli ospiti chiamati a celebrare i 30 anni dell’azienda. Un esordio emozionante e coraggioso, vista la scelta di presentare – in onore e memoria del padre – solo vini dell’annata 2014, compreso un Sauvignon Blanc e un Moscato secco in stato di grazia.
IL VIGNETO DI ADRIANO A BRIC MICCA: ALTA LANGA O PINOT NERO IN ROSSO?
Il tempo, per i due vini bianchi, sembra essersi fermato in bottiglia a un decennio fa. E tutt’attorno, in cantina, a quel 1994, anno in cui i fratelli Marco e Vittorio Adriano presero le redini dell’azienda agricola del padre Aldo, fondata nei primi del Novecento dal nonno Giuseppe Adriano e dalla moglie Teresa. Fu loro la scelta, rivelatasi cruciale, di iniziare a vinificare e imbottigliare le uve dei vigneti di proprietà, al posto di venderle ad altri produttori della zona. Il successo della cantina Adriano, negli ultimi 30 anni, è stato tale da consentire di allargare l’azienda agricola – entrata nel frattempo nella Federazione italiana Vignaioli indipendenti, Fivi – sino agli attuali 53 ettari: 33 di vigna, 12 di noccioleto e la parte restante a bosco.
Radici saldissime ad Alba e nelle Langhe per la famiglia Adriano, pronta oggi a investire in denominazioni e vini ancora inesplorati. Promette molto bene il nuovo piccolo vigneto di Nebbiolo, Moscato e Pinot Nero in località Bric Micca, a Neive, dove la cantina Adriano Vini potrebbe cimentarsi nella produzione di Pinot Nero vinificato in rosso (Langhe Doc) e nell’Alta Langa Docg, in una zona particolarmente vocata sia per la qualità dei suoli – un mix tra la “Formazione di Lequio” e le “Marne di Sant’Agata” – sia per l’altitudine, che si assesta attorno ai 400 metri sul livello del mare. Le idee sul futuro della parcella non sono ancora chiare, ma il potenziale è di assoluto rilievo.
DAL DOLCETTO AL BARBARESCO: LO STILE “SEMPLICE” DI ADRIANO
Lo spirito imprenditoriale, del resto, è quello di sempre. «I miei nonni hanno capito che volevano e dovevano stare qui – racconta Michela Adriano – e lavorare duramente per fare qualcosa di buono. Con grande concretezza hanno tirato su le vigne dal nulla. Dopo di loro, mio papà Vittorio e mio zio Marco si sono resi conto che era ora di dare una rivincita a quella generazione di contadini “classici”, che stavano zitti di fronte a chi faceva loro “il prezzo” delle uve. Hanno voluto dare valore alle loro fatiche, iniziando ad imbottigliare in proprio e a premiare l’espressione dei singoli vigneti, in un’ottica di qualità e non più di quantità».
«Più vado avanti – aggiunge Michela – più mi rendo conto che la mia missione è quella di dare ulteriore valore a tutto quello che è stato fatto in passato in azienda, mettendolo a confronto con il resto delle produzioni più prestigiose del mondo nell’ottica di migliorarci sempre più, costantemente, rimanendo tuttavia noi stessi e continuando a proporre vini che ci diano una soddisfazione, su tutte: la bottiglia che finisce sul tavolo, tra una chiacchiera e l’altra, sulla tavola dei nostri amici e clienti». Idee chiare in casa Adriano, dal Dolcetto al Barbaresco: verso nuovi anniversari, con la forza della semplicità.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Oltre sessanta produttori, 500 vini, due laboratori di degustazione, la presentazione di un volume sulla zona e la mostra delle nuove etichette istituzionali, all’ombra del Duomo di Milano. Il 3 giugno iRoero Days tornano a Milano (Palazzo Giureconsulti) per la seconda volta nella storia della denominazione piemontese, che quest’anno festeggia l’ingresso nel secondo decennio dalla fondazione del Consorzio: il momento giusto per iniziare a promuoversi tra professionisti e grande pubblico in tutte le sfaccettature. A dispetto di quanto si ritenga – in Italia come all’estero – il Roero non è solo la terra del vitigno bianco Arneis, ma anche di grandi vini rossi prodotti con uve Nebbiolo.
La stretta vicinanza con i territori di Barolo e Barbaresco, giusto al di là del fiume Tanaro, è un indizio. Ma i suoli del Roero Docg sono diversi, molto più ricchi di sabbie. I vini che nascono in questa fetta del Piemonte di 1.750 ettari godono di un’autenticità propria. I vini rossi del Roero risultano generalmente fini e meno tannici rispetto all’espressione delle vicine denominazioni, come dimostrato dal Roero Doc 2000 “Printi” di Monchiero Carbone, abbinato insieme ad altri tre vini al menu del Ristorante Sadler di Milano, dove ieri si è tenuta la presentazione dei Roero Days 2024. Il volto “rossista” della zona sarà dunque il filo conduttore dell’evento.
GRANDE LONGEVITÀ ANCHE PER L’ARNEIS NEL ROERO
Solo la prima tappa individuata dal Consorzio Tutela Roero, che vuole rendere la manifestazione itinerante per l’Italia. Una giornata di assaggi insieme ai produttori del Roero con i loro vini Docg e due laboratori di degustazione, durante i quali verranno proposte due verticali di Roero Bianco e Roero Rosso, in un viaggio tra vecchie e nuove annate (la lista delle cantine partecipanti è disponibile qui).
Da non perdere, ovviamente, anche i vini bianchi base Arneis, tra cui il Roero Docg Metodo classico 2018 “Giovanni” di Angelo Negro, il Roero Docg 2022 “San Michele” di Deltetto e il Roero Docg “Renesio” di Malvirà, presente in occasione del pranzo da Sadler con l’annata 2013, a riprova della longevità dei bianchi della denominazione, oltre che dei vini rossi.
IL PROGRAMMA DEI ROERO DAYS 2024
La location scelta dal Consorzio del Roero, oggi guidato da Massimo Damonte, riflette le ambizioni delle oltre 260 cantine associate. Palazzo degli Affari ai Giureconsulti sorge sulle mura dell’antico palazzo della Credenza di Sant’Ambrogio di Milano. A partire dall’Ottocento, è sede della Borsa Valori, poi del Telegrafo, della Banca Popolare di Milano e della Camera di commercio. Porte aperte al pubblico ai Roero Days lunedì 3 giugno, dalle 11 alle 19, con i banchi d’assaggio (ultimo ingresso alle ore 18).
Alle 11 è prevista la presentazione del volume “Un mare nel Roero” Trenta Editore, nel Parlamentino del palazzo. Alle ore 12 l’inaugurazione della mostra dedicata alle nuove etichette istituzionali del Consorzio, con la premiazione degli artisti vincitori in Sala Colonne. Doppia verticale guidata di Roero Docg in bianco e in rosso in Sala Esposizioni, alle ore 14. Alle 15.30 presentazione del volume “Roero, terra del Nebbiolo e dell’Arneis” edito da DeAgostini, ancora una volta nel Parlamentino. Alle 17 spazio per la seconda doppia verticale guidata di Roero Docg in bianco e in rosso, in Sala Esposizioni.
Roero Days 2024
3 giugno – Palazzo Giureconsulti
Piazza dei Mercanti, 2 Milano Qui le info sui biglietti
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Tre nuovi spumanti Metodo classico da uve Nebbiolo in Piemonte. È quanto ha richiesto la maggioranza dei produttori aderenti al Consorzio Tutela Barolo, Barbaresco, Alba, Langhe e Dogliani. L’esito delle votazioni, raccolte in parte attraverso una raccolta firme (l’assemblea fissata a metà giugno non aveva raggiunto il quorum di partecipanti), è stato comunicato ieri alle cantine aderenti al Consorzio piemontese. L’iter per l’approvazione definitiva delle modifiche ai disciplinari potrebbe portare alla nascita di due sparkling Blanc de Noir – Nebbiolo d’Alba spumante Metodo classico vinificato in bianco e Langhe Doc Nebbiolo Metodo classico vinificato in bianco – e di un rosato, il Langhe Doc Nebbiolo Metodo classico rosé. I tre nuovi spumanti Made in Piemonte potrebbero vedere la luce a partire dalla vendemmia 2024.
Le votazioni sono state accompagnate da un dibattito a tratti acceso tra i produttori. L’esito è frutto di maggioranze tutt’altro che schiaccianti. Secondo fonti di winemag.it, l’accordo maggiore sarebbe stato registrato dal Nebbiolo d’Alba spumante Metodo classico da Nebbiolo vinificato in bianco. Il disciplinare di produzione dei vini a Denominazione di origine controllata Nebbiolo d’Alba prevedeva già le tipologie “Nebbiolo d’Alba Spumante” (rosso) e “Nebbiolo d’Alba Spumante Rosé”. Il Blanc de Noir completerebbe la gamma di colori dello sparkling ottenuto da uve Nebbiolo, con l’avallo alla vinificazione in bianco della varietà allevata in 25 comuni situate sulle due sponde del fiume Tanaro. Un provvedimento che innalzerebbe il valore dei BdN albesi, per i quali al momento è obbligatorio il declassamento delle uve.
La vera svolta riguarda i due Metodo classico Langhe Doc da uve Nebbiolo, Blanc de Noir e Rosé. A spingere per questa tipologia sono soprattutto i produttori di Barolo e Barbaresco, a cui è stata negata l’introduzione del vitigno simbolo del Piemonte nel disciplinare dell’Alta Langa, lo Champenoise ormai diventato simbolo d’eccellenza del mondo delle bollicine piemontesi. Di qualche anno fa l’esplicita richiesta di produttori come Sergio Germano (Ettore Germano, Serralunga d’Alba), rispedita al mittente dall’allora management dell’Alta Langa, guidato dal 2013 al 2022 da Giulio Bava (Cocchi). Una decisione poi confermata anche dalla nuova gestione targata Mariacristina Castelletta (Tosti 1820), in carica appunto dallo scorso anno. Nessuna indicazione, al momento, sul periodo minimo di affinamento sui lieviti dei due nuovi spumanti langhetti base Nebbiolo (qualcuno spinge per un minimo di 24 mesi, proprio come previsto dal disciplinare dell’Alta Langa).
RESE, BAG IN BOX, VARIETÀ AROMATICHE, ALBAROSSA E ROSÉ
Le tre novità “spumeggianti” non sono le uniche ad essere state approvate. Sono state infatti richieste modifiche delle rese del Langhe Rosso e del Langhe Rosato, portate a 110 quintali per ettaro, rispetto ai 100 attuali. La recente introduzione del Langhe Doc Barbera, con rese pari a 110 quintali, impedisce al momento il declassamento utile alla produzione di uvaggi Langhe Rosso o Langhe Rosato. L’innalzamento di 10 quintali pareggia i conti tra le due tipologie e offre ai produttori nuovi strumenti di valorizzazione del Barbera.
Sempre sul fronte del Langhe Doc Bianco e Rosso, è stata introdotta la possibilità di utilizzo di varietà aromatiche nell’uvaggio. Un provvedimento già varato nel 2020 dalla Doc Piemonte. Si potrà quindi produrre, per esempio, un Langhe Doc Bianco da uve Moscato secco, pur con divieto di menzione della varietà. Permangono tuttavia dubbi su quello che sarà il nuovo profilo organolettico di vini “Langhe Doc Bianco” potenzialmente ottenibili da varietà aromatiche (anche in purezza), in precedenza non ammesse nell’uvaggio. Il mercato darà le risposte attese. A larghissima maggioranza è stata poi introdotta la tipologia Langhe Doc Albarossa, varietà ad oggi ascrivibile alla sola Doc Piemonte.
Un passo in avanti sui mercati internazionali riguarda poi il Bag in Box, tanto in voga nei mercati scandinavi, Norvegia in testa. Sarà presto possibile produrre Bag in Box Langhe Doc Bianco, Rosso e Rosato, pur senza menzionare le varietà dell’uvaggio né ricorrere a menzioni aggiuntive, come quella della vigna. In precedenza, i BiB langaroli non potevano essere etichettati come “Langhe Doc”, ma solo come vini generici. Un’altra modifica riguarda i rosati. Valoritalia, negli ultimi mesi, ha sanzionato diverse aziende piemontesi di Langa per aver etichettato i loro vini come “rosé” al posto che “rosati”. Con larga maggioranza, è stato proposto di introdurre nel disciplinare il termine “rosé”, ad oggi assente dai testi vagliati dal Ministero e pubblicati in Gazzetta Ufficiale.
MODIFICHE AI DISCIPLINARI DELLE LANGHE: LE TRE BOCCIATURE
Tre le bocciature alle proposte di modifica dei disciplinari del Consorzio Tutela Barolo, Barbaresco, Alba, Langhe e Dogliani. La prima riguarda la mancata approvazione della proposta di avvio dell’iter del “Doc Langhe Moscato secco“. Una denominazione a cui avrebbero potuto aderire molti produttori di Moscato d’Asti Docg i cui vigneti si trovano in provincia di Cuneo, in comuni importanti per la bollicina astigiana come Santo Stefano Belbo e Cossano Belbo, senza contare Neive, Santa Vittoria d’Alba e Neviglie. Un’opzione per il momento scartata, nonostante sul territorio del cuneese esista un brand, “Escamotage”, che raccoglie 13 produttori di Moscato secco.
La Doc avrebbe consentito loro di non declassare questi vini a generici bianchi da tavola, oltre a delimitare l’area di produzione del Moscato secco, creando valore e possibilità di accesso ai bandi europei, che ammettono solo vini a denominazione di origine. No anche al Langhe Doc Viognier, che continua comunque la sua strada nella Doc Piemonte. La terza ed ultima bocciatura riguarda la proposta di istituzione di un Langhe Doc Nebbiolo Superiorecon menzione di vigna, sulla scorta di Barolo e Barbaresco. La tipologia attualmente prevista, il Langhe Doc Nebbiolo, non ammette infatti menzioni di vigna per il Nebbiolo, a differenza di quanto invece concesso per i Langhe Cabernet Sauvignon, Chardonnay, Favorita, Freisa, Merlot, Nascetta, Pinot Nero, Riesling, Rossese bianco e Sauvignon.
I barolisti temono che questa concessione possa scalfire fette di mercato di Barolo e Barbaresco, intaccando la salvaguardia delle due denominazioni al vertice della piramide qualitativa. Per i proponenti, al contrario, il Langhe Doc Nebbiolo Superiore con menzione di vigna sarebbe un’ottima via per proporre sul mercato vini con le stesse rese di Barolo e Barbaresco, immessi tuttavia sul mercato almeno un anno prima. Vini freschi, più beverini e “pronti” dei grandi Re di Langa, che avrebbero portato in giro per il mondo il nome delle vigne di Barolo e Barbaresco, stuzzicando i consumatori a fare, in seguito, l’upgrade. Tra bocciature e approvazioni, una cosa è certa: nella Langhe non ci si annoia mai. Dentro. E fuori. Dal calice.
Docg del Piemonte: 622 nuovi ettari tra Barolo, Barbaresco, Gavi, Asti e Alta Langa
Cresce il vigneto Docg del Piemonte: 622 ettari tra Barolo, Barbaresco, Gavi, Asti e Alta Langa. Le richieste (approvate) dei Consorzi
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Un viaggio tra i vini dell’Alto Piemonte corrisponde ad un tour nelle profondità geologiche dell’antico supervulcano della Valsesia. Ogni collina, ogni zona, ogni Doc, ogni Docg sono caratterizzate da una diversità di terreni e di dislocazioni, di temperature e di consistenze della terra. Di colori e di microclima. Ad unire tutto è il vitignoNebbiolo, che qui assume la denominazione di Spanna. Una varietà vinificata principalmente in purezza a Gattinara, Ghemme e Lessona. A Boca, Bramaterra, Colline Novaresi, Coste della Sesia, Fara, Sizzano e Valli Ossolane viene corroborato da altri vitigni, come Vespolina e Uva Rara, in percentuale diversa.
Il colore, i profumi e i gusti dei vini sono oltremodo diversi, specifici in alcuni casi, ma al tempo stesso unici per molti tratti. Alla vista i vini non sono molto carichi, rispettando le caratteristiche cromatiche del Nebbiolo. Al naso però risultano generalmente intensi e penetranti, grazie all’affinamento in botte. Al palato, i Nebbioli dell’Alto Piemonte sono forti, sontuosi, appaganti, talvolta tannici, dimostrando la possibilità di affinamento nel tempo e di una evoluzione medio-lunga, verso canoni di eleganza e maggiore morbidezza.
Una terra vocata alla produzione di vini rossi, dunque. Partendo dal Nebbiolo e dagli altri vitigni, i produttori locali danno vita anche ad ottimi rosati e persino a spumanti Charmat. Non mancano i vini bianchi, prodotti per la maggior parte con il vitigno Erbaluce (noto in zona come Greco novarese), che qui esprime molte delle sue potenzialità. Un’occasione unica per degustare questo mosaico è Taste Alto Piemonte, andato in scena il 15, 16 e 17 aprile 2023 al Castello di Novara. Di seguito i migliori assaggi di winemag.it tra i vini delle quarantasei cantine che hanno aderito all’annuale rassegna del Consorzio Tutela Nebbioli Alto Piemonte.
I MIGLIORI ASSAGGI A TASTE ALTO PIEMONTE 2023
Colline Novaresi Doc Nebbiolo 2020, Cantina la Smeralda
Nebbiolo al 100%. Al naso sembra poco intenso, nonostante i sei mesi trascorsi in barrique di rovere francese, e il colore appare piuttosto scarico, ma al palato esplode in una serie di gusti di rosa passita e viola, di cuoio e tabacco. Spettacolare. Chissà tra qualche anno…
Nebbiolo al 100%. Al naso sono molto evidenti le note di vaniglia e di frutta rossa. In bocca esplode una sensazione di prugne rosse e ciliegie sotto spirito, è un vino forte e potente che stupisce e che è molto indicato con arrosti o con carni alla brace.
Coste della Sesia Doc Nebbiolo 2015 “Castellengo”, Centovigne – Castello di Castellengo
Nebbiolo al 100%. Al naso è intenso e molto elegante, il calice sprigiona note floreali e balsamiche in maniera molto intensa. In bocca il vino conferma le premesse olfattive e si conferma vino elegante, con tannini delicati e senza peccati di giovinezza. Austero, signorile, affascinante, davvero molto piacevole.
Boca Doc 2013 Vigna Cristiana, Podere ai Valloni
Nebbiolo70%, Vespolina 20%, Uva Rara 10%. Vino che al naso già lascia prevedere le sue qualità: intenso, con piacevoli note fruttate e di boisè, di cuoio e di vaniglia, compie 36 mesi in botte di rovere e 12 mesi in bottiglia e l’affinamento porta a realizzare un vino d’autore. Il gusto ricorda frutti rossi e di sottobosco, viola di campo e lampone, ciliegie sotto spirito. Eccellente.
Nebbiolo 70%, Croatina 20%, Vespolina 7%, Uva Rara 3%. E’ un vino che mantiene le premesse e le speranze che vengono riposte in un prodotto proveniente da uno dei terreni più scoscesi dell’Alto Piemonte. Al naso è un vino fortemente balsamico e floreale, che penetra nel naso con la forza della sua giovinezza e del suo tannino nemmeno troppo tagliente. In bocca conferma le sue peculiarità e le caratteristiche già espresse al naso, piacevole e decisamente pronto alla beva.
Fara Doc 2020 “Barton”, Boniperti Gilberto
Nebbiolo 70% Vespolina 30%. Questo giovane vino realizzato con Nebbiolo e Vespolina si caratterizza per la sua aromaticità e per l’impatto dei suoi profumi nell’analisi olfattiva. Merito dei 20 mesi trascorsi nella botte grande di Slavonia che ha affinato il tannino, mentre l’analisi del palato fa risaltare tutto il meglio, come le spezie e i sentori di frutti rossi: ciliegie, fragole e more su tutto.
Gattinara Docg 2017, Az. Agr. Vegis Stefano
Nebbiolo 100%. Questo vino si impone subito per il suo profumo intenso e piacevole, corroborante e ricco di sfumature di frutti rossi e vaniglia. In bocca riecheggiano note di mandorla, frutti rossi, viola e lamponi appena colti. Il tannino è delicato e morbido, in bocca scivola con facilità ed appare decisamente persistente, ha le sembianze, nemmeno troppo nascoste, di un vino da meditazione. O forse lo è.
Ghemme Docg 2015 “Victor”, Cà Nova
Nebbiolo al 100%. Il Nebbiolo in purezza è forte e potente, e si rivela come una chicca da osservare e da pregustare solo con una analisi sensoriale attraverso il calice. Dal quale scaturiscono piacevoli profumi di frutti rossi, intensi e ricchi di sfumataure. La degustazione conferma le speranze riposte nell’analisi olfattiva. Il vino ha un bouquet ricco ed elegante, tannino morbido, sapienti riferimenti al sottobosco e alle ciliegie sotto spirito. Decisamente intrigante.
Ghemme Riserva Docg 2018 Ronco Maso Riserva, Platinetti Guido
Nebbiolo al 100%. Il calice dal quale scaturiscono effluvi molto intensi lascia ben sperare per la successiva degustazione. In effetti questo nebbiolo conferma gli auspici ben riposti, e si presenta con gusti molto avvolgenti di liquirizia e di frutti rossi, confetture di more e gelso, con sfumature leggermente ferraginose.
Lessona Doc 2015, Az. Vitivinicola La Badina
Nebbiolo al 100%. Vino dalla consistenza aromatica spiccata e piacevole, ricca di riferimenti ai fiori e alla frutta rossa, alla vaniglia e al cuoio, con note speziate che colpiscono nel profondo. È un Nebbiolo che piace, affascina, che in bocca fa scaturire la sua migliore dimensione di vino che ha trascorso quasi due anni in botti di rovere e il resto dell’affinamento in bottiglia. La conseguenza è un vino che piace, e che si beve bene con secondi piatti forti e succulenti, di carne sugosa, proprio per la sua aromaticità e la sua maturazione.
Sizzano Doc 2015, Vigneti Valle Roncati
Nebbiolo 70%, Vespolina 20%, Uva Rara 10% prodotto da una delle aziende presenti nella Guida Top 100 Migliori vini italiani 2023 di winemag.it. Vino maturo, ricco di sensazioni piacevoli e note aromatiche speciali. Qui il Nebbiolo viene integrato con Vespolina e Uva Rara e il risultato si stabilizza verso una sensazione di aromaticità speziata piuttosto evidente. Frutto anche dell’invecchiamento di due anni in botti grandi di rovere francese. Al palato è ricco di belle sensazioni e molto piacevole, gustoso, in cui travalicano i profumi di viola, mammola speziata e frutti rossi.
Valli Ossolane Nebbiolo Superiore Doc 2019 Prunent, La Cantina di Tappia
Nebbiolo al 100%. Nonostante la giovane età questo Nebbiolo a 14,5% sorprende e si fa apprezzare per la sua maturità gustativa. Colore rubino, profumi di frutta rossa e di sottobosco, di boisé nemmeno troppo sfumati frutto di dodici mesi in barrique, questo Prunent (dal nome del clone di Nebbiolo) si distingue per la sua fragranza e per la sua innata capacità di piacere e di farsi ammirare da parte dei suoi stimatori.
TASTE ALTO PIEMONTE 2023: I MIGLIORI VINI ROSATI
Il Nebbiolo e i vitigni utilizzati per la realizzazione dei vini dell’Alto Piemonte ben si prestano per produrre vini rosati. E varie cantine offrono proposte interessanti. Vini molto piacevoli, sia al naso che in bocca. Qualche esempio.
Il Rosato di Ioppa si chiama “Rusin” – Lucca Ioppa ne aveva raccontato qui l’epopea a winemag.it, nel gennaio 2020 – ed è un Nebbiolo tradizionalmente vinificato in rosa, con un colore tenue, delicato, ma ricco di profumi fruttati. Ioppa è una cantina secolare che ha recentemente sviluppato la sua zona ospitalità e ampliato la zona dedicata alle vasche d’acciaio. Siamo nel cuore del Ghemme, e Ioppa nella sua politica di espansione e rinnovo ha ricreato una gigantesca vasca riservata al rosato, capace di contenere 1225 ettolitri. Segno che l’azienda punta molto su questa varietà di vino che è molto ricercato proprio per la sua piacevolezza e la sua capacità di accompagnare tutto –o quasi- il pasto.
Il rosato di Cogo, piccola cantina a Gattico-Veruno (Colline Novaresi) che fa coltivazione biologica, è Nebbiolo al 100% si chiama “Il Sornino” ed ha un colore rosa intenso, quasi rosso, di una potenza visiva davvero superiore alla media. Merito delle 12 ore che passa sulle bucce. Il naso e il gusto confermano le aspettative: il vino, realmente stuzzica la curiosità e rivela una percezione di profumi e di gusto davvero inimitabile. E’ un vino giovane come Stefania, la sua curatrice, e fa scaturire un ricco bouquet di sensazioni che fa rimanere soddisfatti.
Nelle Colline Novaresi si staglia Il Roccolo di Mezzomerico, cantina che vinifica in bio. Oltre a produrre rossi di grande spessore propone “La chimera”, un freschissimo rosato. Un vino dai profumi di frutta fresca, ribes, mandorla, e violetta, mentre in bocca è ricco di piacevoli sensazioni. Sarà che “La Chimera” è espressamente dedicata al Monte Rosa, che dai vigneti si scorge in lontananza, ma nel calice è un certezza, più che un desiderio lontano. Della stessa cantina, splendido il Gilgamesh, passito di Nebbiolo, per accompagnare adeguatamente tutti i formaggi ed i biscotti della tradizione novarese.
In Val d’Ossola, a Domodossola, la cantina Edoardo Patrone cala il poker con due tipologie di rosati. Il primo è il Rosato “Testa Rϋsa”, vino fermo, dal colore salmone intenso, e aromatizzato quanto basta per goderne della sua bellezza e della sua bontà. Ha sentori molto evidenti di pesca, albicocca, fiori bianchi e persino di frutti agrumati. Ottimo per accompagnare pesci di lago e formaggi. Il secondo è uno spumante extra dry “Basin”, un’ottima interpretazione di come il Nebbiolo possa trasformarsi in autoclave e diventare speciale. Il colore ricorda il salmone, e si gusta piacevolmente quando sprigiona in bocca sapori di fragole, e di frutti delicati. Perfetto come aperitivo.
I MIGLIORI VINI BIANCHI A TASTE ALTO PIEMONTE 2023
A farla da padrone tra i vini bianchi dell’Alto Piemonte è il vitigno Erbaluce, chiamato l’Innominata o più semplicemente Greco / Greco novarese. Ecco alcune cantine in cui trovare un ottimo bianco che può essere abbinato a pesce di lago o di mare, perfetto anche per gli aperitivi.
La Piemontina è una realtà recentissima, dalla sede si coglie in lontananza la bellezza austera del Monte Rosa e ha una splendida vista sui vigneti della cantina. La Piemontina è situata a Ghemme, e produce alcuni interessanti prodotti fra cui un bianco delle colline novaresi che fa il paio con un ottimo metodo classico, entrambi con uvaggio Erbaluce che qui fa da padrone. Si tratta di vini freschi, piacevoli, profumati, che al palato raccontano una storia fatta di sole, aria fresca, venticello alpino e profumi proveniente dal verde delle colline.
Il bianco fermo della cantina La Smeralda di Eleonora Menaggia a Briona, Colline novaresi doc, è l’esempio che la qualità può essere raggiunta anche da piccole realtà che gestiscono tutta la filiera con un lavoro familiare. La produzione è limitatissima, solo 600 bottiglie, ma i profumi delicati e campestri, oltre al gusto sapido, minerale, e strutturato conquistano al primo sorso.
“Longitudine 8.10” è l’etichetta del bianco di Villa Guelpa. La cantina si colloca nel centro di Lessona, a pochi passi dall’arco alpino, ed è un complesso che abbina la lavorazione dell’uva all’ospitalità, le visite alla cantina al relax. In un ambiente naturale e tranquillo. Il bianco è notevolissimo, piacevole, fresco, profumato, che dice molto della realtà in cui viene imbottigliato.
Giornalista, ex direttore di giornali e riviste, autore di due libri, blogger, sommelier e da qualche anno viticoltore sulle colline di San Colombano al Lambro. I miei interessi sono focalizzati sul mondo del vino e del buon cibo. Proprio per questo motivo presto molta attenzione ai giusti abbinamenti.
«Portare vino e vite nello spazio rappresenta un’enorme opportunità per comprendere e risolvere alcune problematiche che si verificano sulla Terra. Una nuova e rivoluzionaria frontiera per la ricerca scientifica». Così l’enologo Donato Lanati, nel suo intervento al 15° Forum Internazionale della Cultura del Vino della Fondazione Italiana Sommelier svoltosi ieri, lunedì 4 luglio, a Roma.
Per l’occasione, riflettori accesi su “Il vino nello spazio”, grazie al partenariato siglato tra l’Agenzia Spaziale Italiana e la stessa Fondazione Italiana Sommelier, per dare il via ad una nuova sperimentazione avanzata.
Un tema di enorme interesse per una delle più importanti Patrie del vino nel panorama internazionale qual è l’Italia. Durante la mattinata, si è così tenuta la cerimonia di affidamento di tre varietà di vini e di barbatelle destinati alla Stazione Spaziale Internazionale (ISS).
«Il vino accompagna la nostra cultura da 8500 anni – ha ricordato Lanati – e ha saputo adattarsi ai cambiamenti di gusto e di stile. Oggi, andare nello spazio per fare ricerca è una delle imprese più affascinanti che l’uomo stia compiendo e, anche in questa circostanza, vite e vino non potevano che stargli accanto, per aiutarlo a studiare e a prevedere i cambiamenti che stanno avvenendo in natura».
Con temperature che si avvicinano ai 35 °C (quindi 45-50 °C all’interno degli acini), da una parte, si registra un aumento della fotosintesi, con conseguente produzione elevata di zuccheri, mentre dall’altra si ha il crollo di acidità con l’aumento di pH.
Sopra i 40 °C la fotosintesi viene bloccata e la pianta entra in stress. Si determina una conseguente ossidazione degli aromi, dei precursori dei profumi e dei tannini. Quest’ultimi, quando ossidati, formano dei polimeri morbidi e poco reattivi che, una volta passati nel mosto e nel vino, avranno una limitata possibilità di reagire e di formare gruppi cromofori stabili con gli antociani».
«Tali polimeri dei tannini, in affinamento o in bottiglia, spesso, vanno incontro a dimerizzazione (spaccatura), che si esprimerà nel vino con un gusto secco e asciutto, certamente lontano dal percepito di qualità e di armonia», ha precisato Donato Lanati.
Il noto winemaker si è concentrato anche su un tema di grande attualità: i consumi idrici e le emissioni di CO2. «Per ogni litro di vino prodotto – ha spiegato – la pianta evapora dai 350 ai 700 litri di acqua; mentre rispetto alla CO2, malgrado ogni ettaro di vigneto, in un anno, possa assorbirne anche 4 tonnellate, va considerato che ogni litro di vino di 12 gradi, che parte da 180 grammi di zucchero, ne produce 45 litri».
«Per raggiungere una migliore sostenibilità – ha evidenziato Lanati – è necessario partire da una viticoltura di maggior precisione, che permetta di ridurre il numero dei trattamenti e di ottenere uve che assicurino qualità, luminosità/stabilità di colore e, soprattutto, longevità. Caratteristiche, fondamentali per il mercato, raggiungibili con piante che resistano agli stress di calore e idrici».
NEBBIOLO, SANGIOVESE E AGLIANICO NELLO SPAZIO
Nello spazio verranno, così, spediti vini di Nebbiolo, Sangiovese e Aglianico di diverse annate, per comprendere quali reazioni verranno stimolate. Si tratta di varietà diverse tra di loro sia sotto l’aspetto degli antociani (bisostituiti come la Peonidina) sia del quadro aromatico e decisamente diverse da quelle considerate internazionali, come Merlot, Cabernet, Petit Verdot, varietà che hanno una forte componente di antociani trisostituiti e acilati molto stabili come la Malvidina.
«In bottiglia – ha evidenziato Donato Lanati – il vino non è mai statico. In esso continua una serie di reazioni, dall’idrolisi dei profumi alle reazioni accoppiate di riduzione e ossidazione e dalla polimerizzazione fino alla copolimerizzazione dei polifenoli. Là dove i giochi tra tannini e antociani non avessero raggiunto un equilibrio di stabilità in stadio di affinamento sarà, quindi, interessantissimo capire cosa succederà, di diverso, nello spazio».
Rispetto alle barbatelle (sempre di Nebbiolo, Sangiovese e Aglianico), invece, l’obiettivo è valutare come, in una condizione di microgravità e pressione dei campi magnetici, reagiscano nei confronti delle malattie fungine, come la Peronospora, o alle punture di insetti, come la Fillossera; ovvero, se saranno in grado di esprimere caratteri di resistenza nei confronti di tali parassiti».
Se questo avvenisse, «potremmo iniziare ad utilizzare piante franche di piede, in grado di dialogare direttamente col territorio (che è la vera ricchezza della nostra enologia), senza più passare attraverso intermediari, quali, i portinnesti americani. Sarebbe una grande rivoluzione nel mondo della viticoltura».
«Lo posso confermare con certezza – ha aggiunto Donato Lanati – avendo una decennale esperienza in Kazakistan a sull’altipiano del Karakemer (1000 slm), dove si coltivano piante franche di piede. Non dobbiamo dimenticare che le viti agiscono come una penna ottica in grado di leggere il paesaggio e che la loro vita biologica avviene per l’80% nel terreno, in un dialogo continuo con microrganismi attraverso le micorrize».
Lanati ha infine sottolineato come «facendo fermentare il mosto nello spazio si potranno stimolare mutazioni nei lieviti e isolare quelli che hanno una più bassa resa in alcol e, per tanto, minor produzione di CO2. Un grande passo avanti, anche, in termini di sostenibilità da riprodurre sulla Terra».
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Oltre due secoli di storia per Cascina Galarin, realtà oggi guidata da Giuseppe Carosso e dai figli Marco e Giovanni. Una cantina presente nella Guida Top 100 Migliori vini italiani 2022 di Winemag.it con il suo Monferrato Doc Nebbiolo Superiore 2019 “Crocevia”.
Colore rosso brillante tipico, che inizia virare sul granato. Naso curioso, ampio, pulito, frutti di bosco più rossi che neri. Con l’ossigenazione ecco una bella buccia d’agrume, appena accennata.
In bocca mostra una bella vena sapido-minerale, a fare da spina dorsale al frutto pieno, grondante di succo. Chiude su ricordi d’agrumi, come l’arancia rossa. Gran bella interpretazione del vitigno principe del Piemonte e le sue frontiere in Monferrato.
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Albugnano come le Langhe. Terra di grandi vini da uve Nebbiolo, capaci di incentivare gastronomia, enoturismo ed ospitalità, in location da favola. Qualche cantina del posto, il sogno, è già riuscita a regalarselo. Merito di un paio di film, ambientati in uno dei 4 comuni della denominazione dell’Alto Monferrato (storicamente Basso Monferrato). Il territorio dell’Albugnano Doc “spacciato” per le Langhe, sul grande schermo. I numeri della giovane associazione Albugnano 549 dicono però che, dalla finzione alla realtà, il passo non è poi così impossibile.
I bravi attori non mancano: 14 vignaioli. C’è pure un tenace regista: il forestiero Andrea Pirollo. Uno che pare approdato in quest’angolo di Piemonte per indicare la strada. Deciso come sa essere solo un ex attivista di Greenpeace che si è fatto le ossa in Scandinavia, prima di cambiar vita e fondare, proprio ad Albugnano, l’agriturismo biologico Ca’ Mariuccia (dedito anche alla produzione di vino).
Il set capace di lanciare il territorio e i vini Albugnano Doc? È in costruzione. Per arrivare al ciak ci vorranno decenni. «Ma il modello economico sono le Langhe», non nasconde il 54enne presidente dell’associazione piemontese, nata il 5 aprile 2017 per volontà dei 9 vignaioli fondatori, rappresentanti dei 4 comuni della Denominazione (da qui il nome Albugnano 549).
VINO E TERRITORIO: IL PROGETTO DEI “549”
Il progetto enologico – spiega a winemag.it Andrea Pirollo – parte dalla consapevolezza che “territorio” e “prodotto” sono imprescindibili. Ma una collina non la sposti; una bottiglia di vino sì. Quindi, se vuoi fare conoscere una “collina” o un “territorio”, devi far viaggiare il “prodotto”.
Non l’ho inventato io questo modello, ma prima di noi i langhetti. In questo senso sono un modello da copiare, inteso non tanto come eccellenza produttiva, ormai riconosciuta a livello internazionale, ma come modello di sistema economico».
A dar ragione a Pirollo sono i ritmi di crescita straordinari degli ultimi anni. «L’imbottigliato è cresciuto dell’80% – rivela – tanto che il Ministero ci ha fatto i complimenti. I numeri restano piccoli, certo. Ma i produttori stanno capendo che non devono più vendere in damigiana il Nebbiolo di Albugnano a 2,20 euro al litro».
L’impronta della “collina” si ritrova anche nel packaging. Sul vetro delle bottiglie dei soci – invitati a produrre almeno mille “pezzi” all’anno – c’è la scritta “Albugnano 549” in rilievo. Una scelta che sta causando qualche turbolenza con il Consorzio Albeisa, titolare della storica bottiglia simbolo dei vini delle Langhe, con il quale sarebbe in corso una vera e propria “guerra del vetro“.
ALBUGNANO 549 E LA CURA PIROLLO: DALLO SFUSO AL MODELLO LANGHE
Di fatto, il boom in corso nell’Alto Monferrato – così definito per convenzione, localmente – non è passato inosservato in Piemonte, specie tra i vicini di casa. Nel 2017 l’area comprendeva 22 ettari vitati. Appena 57 mila le bottiglie immesse in commercio, nelle varie declinazioni (tra cui un rosato). A produrne la fetta maggiore erano solo tre aziende. «Tutto il resto era vino rosso da tavola, che partiva e andava a finire in altri territori, sfuso».
La “cura Pirollo” e la determinazione dei vignaioli di Albugnano 549 hanno fatto schizzare a 49 gli ettari vitati. Più del doppio rispetto al 2017. Sono salite a 90 mila le bottiglie prodotte dall’associazione, in occasione della vendemmia 2021. Tra queste, ben 30 mila sono di Albugnano Doc Superiore, il Nebbiolo di punta dei “549”. «La percezione è completamente cambiata», chiosa il presidente.
Ma il dato numerico sull’imbottigliato – avverte – conta fino a un certo punto. Ciò che conta davvero è il prezzo di vendita, mai inferiore ai 15 euro. Abbiamo creato una piccola lobby, consci che il solo numero di bottiglie prodotte non basti a giudicare il successo di una denominazione. Conta più il valore a scaffale».
Un progetto, Albugnano 549, da case history del vino italiano. L’aria che si respira da queste parti vibra come quella di Mamoiada. Ha il sapore della riscoperta e valorizzazione di qualcosa che c’è sempre stato, un po’ come l’Erbamat in Franciacorta.
Ed è segnale raro di (ri)nascita orgogliosa, simile a quella del pugno di denominazioni provinciali che hanno trovato nuovo vigore, dopo l’istituzione della Doc Sicilia. Un quadro dalle tinte già definite. Che mira a consacrarsi, attraverso un’altra serie di scelte azzeccate.
ALBUGNANO 549, FENOMENO E CASE HISTORY DEL VINO ITALIANO
Il Nebbiolo di Albugnano può essere immesso sul mercato solo in seguito a un affinamento in legno di 18 mesi e una successiva permanenza in vetro (bottiglia) di ulteriori 6 mesi.
La scelta del legno è a discrezione della cantina. Ma la parte enologica, così come quella disciplinare, ha il suo punto fermo. Si chiama Gianpiero Gerbi ed è l’enologo che vigila sulle 14 cantine aderenti ad Albugnano 549, interpretandone le diverse sfumature.
Le novità imminenti riguardano piuttosto il ricambio generazionale. Andrea Pirollo dovrebbe lasciare il testimone della presidenza al giovane Mauro Roggero, cui spetterà guidare l’associazione verso la riduzione del numero di tipologie della Doc. Un dibattito che si svolgerà all’interno del Consorzio di Tutela del Barbera d’Asti e dei Vini del Monferrato.
«Nell’ottica di squadra» si intensificherà la collaborazione con l’associazione Più Freisa, che mira a valorizzare l’altro vitigno simbolo di questa fetta di Piemonte (i vini della stessa Ca’ Mariuccia sono imbottigliati da La Montagnetta, cantina del presidente di Più Freisa, Domenico “Mimmo” Capello). Grande attenzione, poi, alla quota di vigneto biologico, «da implementare rispetto al 30% attuale».
«Vorremmo inoltre stabilire un raggio massimo di 20 chilometri entro il quale è possibile imbottigliare l’Albugnano Doc – anticipa a winemag.it Andrea Pirollo – per evitare che i nostri sforzi di valorizzazione e promozione siano vanificati da cantine che non ricadono sul territorio».
VINO E RISTORAZIONE DI LIVELLO: ALBUGNANO SUL MODELLO LANGHE
Sul fronte della gastronomia e della ristorazione, dopo il ventilato approdo sul territorio dello chef Alessandro Mecca (Ristorante Spazio7, Torino) nel 2019, naufragato causa pandemia, Albugnano 549 cercherà di interagire sempre più con gli operatori del settore, locali e non solo. L’offerta gastronomica, di fatto, è «il vero punto dolente di Albugnano».
L’obiettivo – annuncia Pirollo – è creare attrattività e valore in un luogo rimasto sin troppo senza prodotto e senza nome, che ha però sicura attrattività geografica. Siamo a un’ora da Torino e da Alba e a meno di due ore da Milano».
Per farlo, tra i progetti per il futuro c’è anche la «creazione di un’Enoteca nazionale del vino in anfora e delle piccole Doc di nicchia», spiega ancora il presidente di Albugnano 549. Sorgerà nelle cantine storiche dell’attuale ristorante Allasilo – Cucina, Cultura, Persone, in via di Cerreto d’Asti (AT), di proprietà di Pirollo. Andrà ad affiancarsi all’Enoteca regionale dell’Albugnano, attivata nel 2019.
Gli 8 assaggi di Albugnano Doc Superiore 2017 presentati a winemag.it da Andrea Pirollo (più i due effettuati in redazione) chiariscono i contorni di un “Nebbiolo alternativo”. Semplificando il concetto, i Nebbioli di Albugnano 549 paiono collocarsi – dal punto di vista organolettico, oltre che geografico – a metà strada tra le Langhe (più del Barbaresco che del Barolo) e l’Alto Piemonte.
All’interno dell’associazione, Tenuta Tamburnin – l’unica a poter vantare una verticale dal 2014 e una location da favola, con ospitalità di alto livello e una cantina che vale la visita – e Cascina Quarino (con il Doc “Eclissi”) sembrano aver ormai trovato la quadra sul Nebbiolo albugnanese.
Colpisce poi, in maniera particolare, l’Albugnano Doc Superiore 2017 “Carpinella” di Pianfiorito e l’Albugnano Doc Superiore 2017 “Oltre 500” di Orietta Perotto, che dal nome richiama l’altezza sul livello del mare del proprio vigneto.
Per i curiosi, l’associazione 549 mette a disposizione la “Gran Degustazione Albugnano Doc“: una confezione contenente dieci diverse interpretazioni dell’Albugnano Doc 2017 e due calici, con spedizione inclusa nell’importo (150 euro).
Nel kit, oltre ai quattro vini selezionati come i più rappresentativi del tasting compiuto da winemag.it, anche gli Albugnano Doc Superiore 2017 di Alle Tre Colline (“Va’ Anáit”), Ca’ Mariuccia (“Il Tato”), Cantina Mosso (“Parlapà”), Cantina Nebbia Tommaso (“Nebula”), Roggero Bruno e Mario e Terre Dei Santi.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Nella più grande area terrazzata vitata d’Italia, dove l’arte dei muri a secco è patrimonio Unesco dal 2018, nasce la Rete dei Giardini Sospesi. Innovativa rete di imprese della filiera del vino con un approccio unico per il settore in Valtellina.
L’iniziativa, voluta dall’azienda Mamete Prevostini, unisce nove viticoltori storici. Scopo dell’iniziativa è dar vita a una virtuosa filiera nella quale condividere competenze, risorse e visioni. L’obiettivo è valorizzare la storia e la qualità della viticoltura del territorio portandola verso alti standard di sostenibilità, sia a livello ambientale che agro ecologico e economico.
«Con la Rete dei Giardini Sospesi, – spiega Mamete Prevostini – diamo valore a una figura professionale, ormai rara nel nostro territorio: il viticoltore a tempo pieno. Offriamo la possibilità generale, soprattutto ai giovani, di diventare produttori di uva a pieno titolo».
«Questo lavoro deve essere economicamente sostenibile e permettere a chi lo intraprende di rimanere in Valtellina, migliorare la qualità della propria vita e accrescere le eccellenze del territorio. Vogliamo dare un messaggio ottimistico alle nuove generazioni. Scommettere sulla bellezza del vino significa investire nell’estetica futura del paesaggio», conclude Prevostini.
LA RETE DEI GIARDINI SOSPESI
La Rete dei Giardini Sospesi nasce per ribadire il rapporto di fiducia che lega da sempre Mamete Prevostini ai viticoltori e alle loro famiglie. Donne e uomini che vivono i terrazzamenti vitati come giardini a tutela della bellezza del paesaggio e del territorio. Perché dall’amore, dalla cura e dalla passione nasce l’eccellenza dell’interpretazione del Nebbiolo tipica della Valtellina.
La scelta, razionale e lungimirante, è quella di investire sul “saper fare” e sull’originale interpretazione delle uve nebbiolo. Uve coltivate per il 50% da parte dei viticoltori della rete e per l’altro 50% da parte dei collaboratori che gestiscono i vigneti di proprietà dell’azienda Mamete Prevostini.
Grazie alla Rete dei Giardini Sospesi la filiera godrà di un continuo miglioramento della qualità dei suoi prodotti, di uno sviluppo delle proprie capacità produttive e dell’efficienza dei processi di coltivazione dei vigneti.
LA CONDIVISIONE DELLE COMPETENZE
Gli obiettivi verranno raggiunti grazie all’integrazione delle risorse e alla condivisione del know-how fra gli aderenti, diffondendo così una cultura orientata ai valori della sostenibilità ambientale, economica e sociale.
La Rete metterà a disposizione dei propri soci le pratiche di vigna condivise in anni di lavoro e sperimentazione. I produttori aderenti garantiranno assistenza agronomica mirata alla salvaguardia degli impianti dei vigneti e al continuo miglioramento dei prodotti ottenuti.
Verrà fornita assistenza nei principali processi di coltivazione e innovazione per ottimizzare così costi e risultati. Un’idea concreta di economia circolare che renderà la produzione di uva un’attività economicamente vantaggiosa e ne incentiverà la produzione sul territorio.
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Nebbiolo in purezza per il Canavese Doc 2018 “Gaiarda” dell’Azienda Agricola Le Masche. Un angolo di Piemonte racchiuso in un rosso ancora giovane ma già in grado di regalare emozioni. Un vino inserito nella Guida Top 100 Migliori vini italiani 2022 di Winemag.it.
LA DEGUSTAZIONE
Colore intenso ma dall’unghia luminosa, che racconta la gioventù del nettare. Naso ricco, profondo, tra le note di un frutto perfettamente “colto” in vigna. Polpa rossa densa, sferzata da un agrume croccante e da un vegetale fresco che riporta ad erbe profumate come mentuccia, anice, finocchietto selvatico.
Palato asciutto ma pieno, che conferma le anticipazioni della vista. Un vino giovanissimo, che diventerà super godibile e goloso quando il tannino sarà completamente integrato. Un Nebbiolo, il “Gaiarda”, buono oggi e ancor più domani, per chi saprà attendere.
LA VINIFICAZIONE
I vigneti che danno vita a questo Canavese Doc si trovano tra Levone e Rivara, tutti posti sulle colline. Dopo l’attenta raccolta, le uve vengono sottoposte a una fermentazione termocontrollata a 25°. Segue l’affinamento in barrique, per 18 mesi.
Un ulteriore affinamento in bottiglia per 6 mesi anticipa la commercializzazione del Canavese Doc 2018 “Gaiarda”. Il Nebbiolo, del resto, è una varietà in cui crede molto l’Azienda agricola Le Masche di Levone, in provincia di Torino.
LA CANTINA LE MASCHE
Il nome dell’azienda si ispira a una vicenda del 1474: il processo istruito contro quattro donne levonesi (Antonia, Francesca, Bonaveria e Margarota) accusate di stregoneria dall’Inquisitore Francesco Chiabaudi.
Nel rogo del 7 novembre 1474 morirono Antonia De Alberto e Francesca Viglone. “Bonaveria“, che dà il nome a un altro vino della cantina, nel 1475 risultava ancora carcerata, mentre Margarota Braja era fuggita dalle carceri del castello di Rivara.
L’obiettivo dell’Azienda agricola Le Masche è «produrre un vino di qualità che sia l’immagine del suo territorio». Una missione che si può dire centrata. Ancor più con la realizzazione della nuova cantina: un punto di riferimento assoluto nella produzione di vini del Canavese.
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Genitori sconosciuti, qualche fratello “di sangue”. Ma anche diversi “fratellastri” sparsi per il Nord Italia. Oltre a un paio di dettagli che gli impediscono di diventare un vitigno mainstream, coltivato con successo anche fuori dall’Italia: è difficile non solo da coltivare, ma anche da vinificare. È in estrema sintesi tutto ciò che sappiamo (per ora) sul Nebbiolo.
Ne ha parlato l’ampelografa dell’Istituto per la Protezione sostenibile delle piante (Ipsp) Anna Schneider, in occasione del primo dei due seminari online organizzati dal Consorzio Albeisa, dal titolo “La famiglia del Nebbiolo e le relazioni genetiche con altri vitigni del nord-ovest d’Italia”.
Un focus proveniente da una più vasta ricerca condotta da Schneider assieme ai colleghi dell’Ipsp-Cnr Stefano Raimondi, Giorgio Tumino, Paolo Ruffa, Paolo Boccacci e Giorgio Gambino.
Lo studio chiarisce innanzitutto l’origine “molto probabile” del Nebbiolo nel Nord Italia, nella fascia che va dal Piemonte al Friuli Venezia Giulia. In particolare, dal momento che la prima traccia scritta del vitigno risale al 1266, alle porte di Torino, si può affermare con ottime probabilità che il Nebbiolo sia piemontese.
FRATELLI E “FRATELLASTRI” DEL NEBBIOLO Eppure, individuare i genitori della nobile cultivar che dà vita ad alcuni tra i vini italiani più rinomati al mondo, come Barolo e Barbaresco, è quasi una mission impossibile.
«Dopo molte analisi – ha rivelato Anna Schneider – abbiamo buone ragioni di ritenere che entrambi siano ormai scomparsi. Ma il Nebbiolo ha molti fratelli, come Nebbiolo rosé e Pignola e Rossola Nera. Nonché “mezzi fratelli”, cioè varietà che condividono uno solo dei genitori, come Refosco, Teroldego, Marzemino, Ortrugo e Spergola».
Il Nebbiolo ha dato origine a due gruppi di vitigni, tra “discendenti diretti” e “fratelli-fratellastri”. «Il primo gruppo fa capo al Piemonte – ha precisato l’ampelografa – il secondo in Lombardia, in particolare in Valtellina, dove è noto come Chiavennasca, nella zona Nord Est con Teroldego, Refosco e Marzemino e a nord degli Appennini, con Spergola e Orsanella». Di quest’ultima uva si parla anche in Oltrepò pavese, così come sui Colli Piacentini.
Tra i “figli del Nebbiolo” anche vitigni conosciuti come Vespolina e Freisa. Ma risulta abbia dato origine anche ad Arneis e Grignolino, attraverso un genotipo forse ormai istinto che li renderebbe suoi “nipoti”.
IL METODO
La ricerca è partiti dall’analisi di circa 200 varietà tradizionali presenti nel Nord Ovest dell’Italia. Dapprima gli studiosi hanno cercato di identificarne le correlazioni.
In seguito lo studio è stato allargato ad oltre 600 vitigni presenti in Europa, nella fascia che va dalla Spagna all’Ungheria e all’areale balcanico, con l’idea che qualcuno di questi avesse contribuito a germoplasma di regioni Piemonte, Lombardia, Veneto e Friuli Venezia Giulia.
Attraverso l’analisi delle relazioni genitore-figlio, ma anche delle relazioni full-sibling (ovvero tra fratelli) e half-sibship (quelle tra “fratellastri”) il team di cui ha fatto parte Schneider ha potuto stabilire un vasto network di vitigni, che comprende molti in abbandono o prossimi alla scomparsa.
È così emerso che «tutto sommato pochi vitigni hanno danno origine a molti altri, costruendo appunto il netwotrk noto oggi». Un patrimonio ampelografico che comprende vitigni come Baratuciat, Slarina e Malvasia Moscata, già messi in produzione da alcuni coraggiosi produttori piemontesi, con ottimi risultati e potenziale dal punto di vista dell’analisi gusto-olfattiva (ne è vietata comunque la menzione in etichetta).
A supportare il Cnr e le attività di recupero di queste rare varietà è il “vigneto-collezione” di Grinzane Cavour, che su una superficie di 1,2 ettari comprende oltre 450 cultivar rare, in particelle di 5 piante ciascuna.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
BAROLO – Era “irrecuperabile” e “impossibile da ristrutturare”, per via della presenza di “diverse piante che manifestavano flavescenza dorata e altre virosi” il vigneto storico di proprietà del Comune di Barolo, estirpato a gennaio. A riferirlo a WineMag.it è l’assessore Federico Scarzello, in seguito alle polemiche generate da un editoriale apparso sul magazine Triple A.
Tra le ipotesi c’è anche quella che l’appezzamento – 1.600 metri all’incrocio tra le vie Alba e Lomondo, in località Muscatel di Cannubi – possa diventare un campo sperimentale per il Nebbiolo o altre varietà allevabili in Piemonte, in collaborazione con l’Università di Torino. Il Comune esclude al contempo “qualsiasi forma di cementificazione, dato che la destinazione d’uso lo vieta”.
A gestire in comodato questo triangolo di terra all’inizio del paese, dal 2003, era il vignaiolo 74enne Giulio Viglione, subentrato al precedente conduttore che aveva rinunciato a coltivarlo, perché “poco produttivo”.
“Negli ultimi tre anni – spiega Scarzello a WineMag.it – abbiamo comunicato al conduttore la nostra intenzione di non rinnovare il contratto nel 2020 e, anche per questo, siamo rimasti sorpresi dalla polemica. Il signor Viglione non ha avuto nulla da ridire nei nostri confronti e a gennaio ha lasciato il terreno”.
“Quella di estirpare il vigneto – prosegue l’assessore del Comune di Barolo – è stata l’ultima ipotesi. Ancor prima, abbiamo contattato la più nota azienda del settore che si occupa di ‘ristrutturazioni’. I tecnici ci hanno sconsigliato di procedere in quell’ottica, evidenziando tra l’altro che solo un 25% delle piante aveva circa 80 anni”.
“Il resto – evidenzia ancora Federico Scarzello – era già stato rimpiazzato. Sono risultate inoltre presenti molte fallanze, nonché problemi di flavescenza dorata, già segnalati al Comune da alcuni proprietari di vigneti confinanti a quello in comodato d’uso al signor Viglione: non certo una bella ‘pubblicità’ per il Comune, insomma”.
Sempre secondo quanto riferito dall’assessore, il vigneto di Nebbiolo – iscritto a Barolo – presentava anche “tre filari di Barbera nella parte più bassa, le cui fallanze erano state sostituite con piante di Nebbiolo”. Proprio queste piante soffrivano del terribile giallume. I lavori di scasso, interrotti a causa dell’emergenza Coronavirus (Covid-19), procederanno nei prossimi mesi.
“Non abbiamo fretta per il reimpianto e per decidere a chi affidare il vigneto e con che formula – annuncia ancora Federico Scarzello a WineMag.it – anche perché intendiamo far riposare il terreno il giusto tempo, cosa che ormai non si fa più, neppure nelle Langhe, ma che la terra richiede”.
“Visto il valore dei nostri vigneti accresciuto negli anni, ed essendo un appezzamento di proprietà comunale e non privata, intendiamo procedere con la migliore ipotesi percorribile, nell’interesse di tutta la comunità”, chiosa Scarzello.
Curiosa la storia del vigneto storico del Muscadet di Cannubi. L’area è stata donata al Comune di Barolo da Luigi Rinaldi, all’inizio degli anni Ottanta. Un lascito a scopo benefico. Ma col vincolo, per l’ente, di realizzare opere a carattere sociale, con particolare attenzione agli anziani del paese.
Tra le proprietà figurava anche una casa, che oggi ospita alloggi di edilizia popolare. L’idea di realizzare un centro assistenza per gli anziani, più vasto, è stata abbandonata e la destinazione d’uso a “verde” del vigneto è stata messa nero su bianco, prima del 2003.
“Se fosse stato possibile il reimpianto e avessimo voluto procedere con la selezione massale dalle vecchie viti – commenta l’assessore Federico Scarzello – il materiale a disposizione nel vigneto sarebbe stato davvero scarso e il progetto sarebbe dovuto partire 6 o 7 anni fa, in collaborazione con qualche vivaista. Non escludiamo che per il reimpianto sarà utilizzata la massale piuttosto della clonale, ma approfittando di altri vigneti storici”.
“Quello che tengo a sottolineare – conclude Scarzello – è che il Comune di Barolo non è retto da ignoranti o gente che non sa quello che fa: metà del Consiglio comunale è occupato da consiglieri che sono produttori di vino, tra cui il sottoscritto. Possedere un vigneto storico è preziosissimo, ma non in questo caso”.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
ROMAGNANO SESIA – Galeotta fu la truffa subita da un finto importatore di vino americano. “Ci ordinò il Nebbiolo rosato, ma non lo ritirò. La mia famiglia iniziò così a proporlo in altri stati, trovando clienti nel Nord Europa”. Luca Ioppa, nel 2008, non aveva ancora mosso i primi passi in cantina. Ma racconta quell’episodio, determinante per il successo di “Rusin“, il bel rosato di questa storica cantina piemontese, con la soddisfazione di chi si è tolto un sassolino dalla scarpa. O, meglio, un macigno.
Già, perché da allora la produzione di Nebbiolo rosato della cantina Ioppa di Romagnano Sesia (NO) è passata da 2 a 210 mila bottiglie. Non serve la calcolatrice per capire che si tratti un vero e proprio boom, avvenuto in soli dieci anni. Oggi risulta il vino più prodotto, nell’ambito delle 350 bottiglie complessive dell’azienda.
Numeri che fanno ancora più impressione se si considera che le Colline Novaresi – parte integrante del pregiato ecosistema enologico noto come “Alto Piemonte” – non sono certo note per la produzione di rosato, bensì per i rossi da uve Nebbiolo (appunto) e Vespolina.
“Rusin – spiega Luca Ioppa a WineMag.it – era una vino d’annata per il quale si cercava di correre, per finire le scorte. Grazie a quella truffa siamo esplosi in Norvegia, il nostro attuale mercato di riferimento per l’export, dove vendiamo più di 150 mila bottiglie. Oggi lo produciamo solo su prenotazione. Per il 2019 avevamo ordini per 240 mila bottiglie, che siamo riusciti a soddisfare solo in parte, arrivando appunto alla cifra record di 210 mila”.
Una vera e propria fortuna per l’Azienda Agricola Vitivinicola Ioppa F.lli Gianpiero e Giorgio, fondata nel 1852 da Michelangelo Ioppa e oggi alla settima generazione con Andrea, Marco e Luca.
“Per noi è ottimale poter produrre un rosato con questi numeri – spiega ancora Luca Ioppa – perché riusciamo a racchiudere più vigne di Nebbiolo. La collina verso Novara ha terreno collinare sabbioso. Sull’altopiano sono presenti argille. Unendo il frutto di vigneti con diversi terreni e microclimi, riusciamo a portare in bottiglia molta più complessità rispetto a quella che potrebbe garantire un singolo cru”.
La vendemmia della cantina Ioppa inizia appunto dalle uve destinate a “Rusin”. I grappoli vengono pressati per circa 3 ore, l’unico periodo di contatto con le bucce. Segue una flottazione con azoto, utile all’illimpidimento, prima della fermentazione in acciaio, a temperatura controllata per 40-45 giorni.
Il vino viene quindi messo in bottiglia tra la fine del mese di gennaio e l’inizio di febbraio, per essere stappato non prima di marzo o aprile. Un procedimento che esalta un Nebbiolo non “convenzionale” per il suo colore, eppure così rispettoso delle caratteristiche del grande vitigno a bacca rossa del Piemonte. Un “caso” in rosa, che fa felice Ioppa e tanti acquirenti nel Nord Europa.
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TREISO – Gli sguardi della gente. Penetranti come coltellate. Giudicanti, indignati o compassionevoli. Eppure tutti tremendamente uguali. Vestiti di quell’ironia beffarda che i bempensanti riservano ai temerari, cercando di convincersi che siano mezzi matti, che prima o poi falliranno. Per arrivare a festeggiare nel 2019 le 80 vendemmie di Cantina Lodali a Treiso (CN), la signora Maria Margherita Ghione ha dovuto costruirsi attorno almeno due corazze. La prima per proteggere il cuore. La seconda gli occhi.
Oggi, Rita – in paese la conoscono tutti con questo nome – è una donna del vino senza spillette da mostrare né slogan ritriti da snocciolare sui palchi. Un’eroina con una storia di vita e d’amore da raccontare, all’insegna del Nebbiolo e delle sue sfaccettature più alte, che in Piemonte significano Barbaresco e Barolo.
Rita, classe 1941, faceva la parrucchiera quando Lorenzo Lodali, figlio di Giovanni Lodali, fondatore nel 1939 di una grande cantina a Treiso, le chiese di sposarlo: “Ma devi lasciare il lavoro”, le disse. Lei non esitò un attimo.
Appese forbice e pettine al chiodo. Chiuse il negozio. E il 15 agosto 1976 diventò la moglie di uno dei vignaioli più in vista di Treiso. Erano gli anni in cui Lorenzo lanciava sul mercato i primi cru di Barolo e Barbaresco.
Ma la soddisfazione più grande della coppia fu Walter: il figlio tanto desiderato, nato nove mesi dopo il matrimonio, nel 1977. Proprio nella città dell’amore, Venezia, qualcosa ruppe l’idillio. All’improvviso.
“Era notte fonda – racconta la signora Rita – e Lorenzo continuava a tossire. Uscì a farsi un giro, per prendere un po’ d’aria. Ma non servì a nulla. Dovemmo tornare a casa, a Treiso, interrompendo il tour al quale eravamo stati invitati per ritirare cinque premi“. La diagnosi del medico, un amico fidato di Milano, fu terribile.
Con il figlio ancora piccolo, la signora Rita capì che aveva poco tempo per imparare il mestiere. “Senza dirlo chiaramente – racconta – mi mettevo accanto a Lorenzo, mentre lavorava. Con la scusa di stargli vicino, annotavo come compilava le carte e come si muoveva in cantina. Facevo domande per capirne di più, insomma. Ho imparato così anche a scrivere a macchina, perché non ero mica una ‘studiata’ come lui”.
Il marito di Rita scompare nel 1982, a pochi giri di lancette da quel “sì” sull’altare e quando Walter aveva solo 4 anni e mezzo. “La gente del paese e la banca si aspettava che vendessi tutto – commenta decisa la signora Rita – ma feci di testa mia. Ricordo ancora gli sguardi e le chiacchiere, attorno alla mia decisione di non mollare l’azienda”.
Qualcuno, di certo, pensava fossi matta. Ma oggi posso dire che tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per mio marito: la cantina non poteva chiudere o essere venduta. Al posto di vendere io e mio figlio abbiamo investito. E oggi siamo qui a festeggiare le 80 vendemmie di Lodali”.
La grande festa, in compagnia dei dipendenti, dei clienti e della stampa, si è svolta lo scorso 29 ottobre a Treiso. L’aperitivo e la cena curata dagli chef di Florian Maison e de La Ciau del Tornavento, Umberto De Martino e Maurilio Garola, hanno fatto da contorno a momenti di sentita commozione, a coronamento del grande legame tra mamma Rita e il figlio Walter.
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“Abbiamo tenuto duro con un consulente enologo – sottolinea la regina di casa Lodali – fino a quando Walter si è iscritto alla scuola enologica. Il professore mi diceva che non aveva voglia di studiare, ma ho saputo convincerlo! La mia soddisfazione più grande è stata quando il docente è venuto in cantina a dirmi che adesso è lui che deve imparare da Walter!”.
“Fin da piccolo, a 7, 8 anni – conferma Walter Lodali, un omone dallo sguardo gentile – andavo in cantina a mettere le bottiglie vuote sulla macchina imbottigliatrice. Mia mamma mi ha insegnato a fare le fatture, a scrivere a macchina. Le devo tutto. Di donne del vino, oggi, ce ne sono tante. Ma negli anni Ottanta, c’era lei. E forse altre due”.
Andava da sola al mercato del vino di Alba, in mezzo a soli uomini, tra cui Gaja. Tutti le dicevano che si sarebbe ‘mangiata’ tutto, che avrebbe venduto tutto. Erano sicuri che non ce l’avrebbe fatta.
Adesso, essere qua a festeggiare le 80 vendemmie, per me è la conferma di aver scelto la strada giusta: quella di continuare sui passi segnati da mio padre e mia madre e, ancor prima, da mio nonno”.
“Ottanta vendemmie sono un piccolo traguardo, ma un grande stimolo ad andare avanti con la consapevolezza di vivere la vita più bella del mondo: semplicemente quella dei contadini, che coltivano la vite riuscendo a dare un’emozione, trasformando con serietà e pazienza l’uva in vino”, chiosa Walter Lodali.
Ed è il Barbaresco, ancor più del Barolo, la migliore espressione dei vini dell’ormai storica cantina di Treiso. Rocche dei Sette Fratelli (Giacone) più del Bricco Ambrogio, dunque, il cru che il figlio di Giovanni Lodali è riuscito a valorizzare e rilanciare.
Gli investimenti dell’azienda continuano nella Denominazione, con il nuovo impianto nell’area ricompresa nel cru Bricco di Treiso, che darà i suoi primi frutti tra circa cinque anni.
La produzione di Barbaresco passerà così da 15 a 28 mila bottiglie, staccando ulteriormente il Barolo (per il quale Lodali ha l’autorizzazione all’imbottigliamento fuori territorio, come cantina storica) fermo a 18 mila.
“Mi sento più barbareschista che barolista – ammette Walter Lodali – perché sono di Treiso, l’azienda è di Treiso e nel cuore e nel sangue ho il Barbaresco. Senza dimenticare il Nebbiolo, che è il più grande vitigno del mondo!”.
LA DEGUSTAZIONE
Nebbiolo d’Alba Doc 2018 “Sant’Ambrogio” (Magnum): 91/100
Annata in commercio dall’inizio del mese novembre. Si presenta nel calice di un rubino intenso, luminoso, con riflessi granati. Il naso è suadente e disegna note di frutta a bacca rossa e nera molto precise, giustamente mature, croccanti.
Spiccano ribes e fragolina di bosco, sulla mora. Note accese di spezia stuzzicano le narici, avvolte in un soffice velo di rosa, viola e cipria. In bocca è un tripudio di gioventù assoluta, su note corrispondenti al naso. Con l’ossigenazione, il vino guadagna in complessità e freschezza.
Le uve provengono dai vigneti del Comune di Pocapaglia (CN). La vendemmia avviene a mano, in cassette. Alla pigia-diraspatura e alla macerazione a temperatura controllata per circa 12 giorni, fa seguito un affinamento di 12 mesi in botti da 26 ettolitri di rovere di Slavonia. Tre mesi in bottiglia precedono la commercializzazione.
Barbaresco Docg 2016 “Lorens” (Magnum): 94/100
Un Barbaresco che, in una parola, si può definire “profondo”. Le note balsamiche giocano su una vena di agrumi e frutti rossi di gran precisione, ammantate dal fiore di viola. Dopo un approccio iniziale prepotente, anche l’alcol si integra e lascia spazio al bel bouquet. Il frutto, pieno e croccante, risulta corrispondente al palato.
Spazio anche a liquirizia e mentuccia, in un sorso fresco e di grandissima prospettiva. Elegante il tannino: ruvido al punto giusto, asciuga ma non tronca il sorso, pur rilevandosi (giustamente) in fase giovanile. Ottima la persistenza. Vino destinato ad avere un’ottima evoluzione in bottiglia.
Le uve provengono esclusivamente da Treiso. Il Nebbiolo viene diradato all’invaiatura e raccolto a mano in cassette, al momento della piena maturazione. Seguono pigia-diraspatura, macerazione a temperatura controllata per circa 25 giorni e affinamento per 24 mesi in barrique e tonneau. Dodici i mesi di bottiglia prima della commercializzazione.
Barolo Docg 2015 “Lorens” (Magnum): 92/100 Vino che tinge il calice di un rubino intenso e luminoso, con riflessi granati. Colpisce per la maturità del frutto, più piena di quella del Barbaresco. L’impressione, al netto di un tannino vivo, è che ci si trovi di fronte a un Barolo gustoso e goloso, giocato su prontezza, freschezza e facilità di beva. Un Barolo che ha comunque molta vita davanti.
Le uve provengono da vigneti di proprietà di Lodali, nel comune di Roddi (Bricco Ambrogio). Come per il Barbaresco, il Nebbiolo viene diradato all’invaiatura e la vendemmia avviene in maniera manuale, in cassette.
La tecnica di vinificazione prevede pigia-diraspatura, macerazione a temperatura controllata per circa 25 giorni e 30 mesi di affinamento in barriques e tonneaux. Dodici i mesi di bottiglia che anticipano la commercializzazione.
Moscato d’Asti Dop 2019: 89/100
Gran freschezza e beva instancabile per questo Moscato d’Asti che accompagna alla perfezione la pasticceria e il fine pasto. Giallo paglierino acceso, profuma di fiori freschi e ha un sapore armonico, dettato dall’aromaticità dell’uva.
La zona di produzione è quella di Treiso. Anche per il Moscato, la vendemmia di cantina Lodali avviene in maniera manuale, con selezione dei migliori grappoli. La fermentazione avviene in autoclave e si protrae per circa un mese. Sono tre i mesi che precedono la commercializzazione.
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MILANO – Quando si dice “più forti della sorte”. Sono tornati in Piemonte dimenticandosi della pioggia e del traffico i 29 produttori langaroli intervenuti ieri alla Prima dell’Alta Langa, a Milano. Il debutto da record della giovane Denominazione spumantistica nel capoluogo lombardo è avvenuto a Palazzo Serbelloni. Circa 850 gli operatori Horeca coinvolti, tra cui 150 giornalisti di settore, nel centralissimo Corso Venezia.
Una giornata più che mai positiva – tira le somme il presidente del Consorzio, Giulio Bava – in cui finalmente ci siamo confrontati con Milano, il mercato più importante per il mondo del vino italiano”.
Tra tanti assaggi convincenti, connotati da conferme assolute come l’Azienda AgricolaPecchenino e new entry come Poderi Cusmano, la novità è il possibile aumento della percentuale di Nebbiolo nella cuvée. Una scelta in favore del vitigno autoctono delle Langhe.
Nulla di ufficiale, ma il dibattito è aperto tra i produttori per alzare l’asticella della tipicità, oltre la quota del 10% attualmente ammessa dal Disciplinare. A confermarlo in esclusiva a WineMag.it è un veterano come Sergio Germano.
So di prove di spumantizzazione che hanno dato risultati decisamente interessanti in Alta Langa – commenta il numero uno della storica cantina Ettore Germano di Serralunga d’Alba – ma non essendoci delle regole precise intorno al Nebbiolo, al momento ci sono tante espressioni, tanti stili. E forse un po’ di confusione”.
“È un vitigno che può dare carattere e personalità: personalmente ho intenzione di usarlo in futuro – annuncia Germano – per dare un risultato più ‘langarolo’ ai miei spumanti. Volendoci distinguere nel panorama mondiale, è bello ‘combattere’ ad armi pari con la Champagne, con Pinot Nero e Chardonnay“.
“Ma dare una vena di territorio un po’ più profonda, potrebbe avere un senso: non sarebbe comunque un obbligo ma un’opportunità. Ovviamente solo a fronte di sperimentazioni pluriennali”, conclude Sergio Germano.
Non è un nebbiolista Gianmario Cerutti, storico produttore di Moscato di Canelli salito volentieri sul treno dell’Alta Langa: “Crediamo nelle Denominazioni che portano il nome di un territorio – spiega il vignaiolo Fivi – e per questo abbiamo voluto aderire al Consorzio, avviando l’iter previsto per iniziare a produrre il Metodo classico dai vigneti autorizzati”.
Quello dell’Alta Langa è un bel progetto – continua Cerutti – perché c’è un territorio, c’è una filosofia, una realtà concreta, un marketing solido. E un Consorzio che tiene conto di una visione di alta qualità, più che dell’aumento del numero delle bottiglie. Anche per questo la crescita della Denominazione è costante e solida”.
L’Alta Langa, del resto, viaggia su rotaie sgombre d’ostacoli sul mercato italiano, confermando il suo ruolo di “nicchia in espansione” anche grazie alle défaillance storiche di zone spumantistiche come l’Oltrepò pavese. La Docg piemontese è passata da 16 a 40 produttori e da 600 mila a 2 milioni di bottiglie, in 6 anni.
“Entro il 2022 – annuncia il presidente del Consorzio, Giulio Bava – pensiamo di superare quota 3 milioni di bottiglie, sulla base di un ampliamento della base vigneti, sino a 350 ettari. Stiamo acquisendo un’autorevolezza sempre più importante, confermata dalle tante nuove aziende che scelgono di produrre Alta Langa”.
“Numeri – precisa Bava – che non sono frutto di una volontà speculativa. Occorre infatti una programmazione di 7 anni: bisogna pensare a una vigna che può dare solo Alta Langa, senza possibilità di attingere ad altre uve; aspettarne i frutti, per almeno quattro anni. Poi altri 3 anni di affinamento minimo, per uscire sul mercato”.
PRIMA DELL’ALTA LANGA A MILANO: I MIGLIORI ASSAGGI
LA CONFERMA
Azienda Agricola Pecchenino
Si conferma ad altissimi livelli l’Alta Langa disegnata nei calici dall’Azienda Agricola Pecchenino di Dogliani (CN). Ottime entrambe le etichette portate in degustazione a Milano, che evidenziano gran carattere, nerbo e capacità di raccontare il terroir.
In realtà si tratta sempre di “Psea“, Pas Dosé 2015 (secondo anno di produzione nella classica bottiglia da 0,75 cl) e 2014 (in versione magnum, per la prima volta). Si tratta della medesima cuvée, che prevede una prevalenza di Pinot Nero (70%) sullo Chardonnay (30%). Entrambe le varietà provengono dai vigneti di Bossolasco.
LA NOVITÀ Poderi Cusmano Sede di una delle ultime realtà entrate a far parte del Consorzio dell’Alta Langa è l’ex cooperativa delle mele di San Marzano Oliveto (AL). “Da una selezione delle nostre migliori uve produciamo i 5 vini della linea ‘Tenute Rade‘ – spiega Daniele Cusmano (nella foto sopra) – tra cui 25 mila bottiglie di Alta Langa”.
In degustazione il Pas Dosé 2014, ottenuto da un 70% di Pinot Nero e un 30% di Chardonnay, 50 mesi sui lieviti. “No barrique, no malolattica”, si affretta a spiegare il titolare della cantina. Il risultato è gratificante.
Alla gran pienezza e verticalità del sorso, si abbina una larghezza del frutto riequilibrante, spiegata dal solo utilizzo di mosto fiore. Pregevole chiusura salina, sussurrata ma capace di chiamare in fretta il sorso successivo. Chapeau.
LE GARANZIE
– Alta Langa Docg Blanc de Noir Pas Dosé 2014 “For England”, Contratto (magnum)
– Alta Langa Docg Blanc de Blancs Pas Dosé 2014, Contratto (magnum)
– Alta Langa Docg Riserva 2013, Coppo (magnum)
– Alta Langa Docg Pas Dosé 2013 “Zero”, Enrico Serafino
– Alta Langa Docg Rosé de Saignée Brut 2015 “Oudeis”, Enrico Serafino
– Alta Langa Docg Extra Brut 2015, Ettore Germano
– Alta Langa Docg Pas Dosé 2012, Giulio Cocchi
– Alta Langa Docg Pas Dosé 2011, Giulio Cocchi (jeroboam)
– Alta Langa Docg Rosé Brut “Rösa”, Giulio Cocchi
– Alta Langa Docg Brut Nature 2011 “Vigna Gatinera”, Fontanafredda
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NOVARA – Archiviata anche la terza edizione di Taste Alto Piemonte al Castello di Novara, uno dei maggiori eventi dedicati ai vini di questa eccellente zona vinicola.
Grande affluenza ai banchi d’assaggio presidiati da oltre cinquanta vignaioli, che hanno portato le ultime annate delle loro produzioni.
Un territorio, quello dell’Alto Piemonte, che sta vivendo un vero e proprio rinascimento: produzioni in costante miglioramento, intelligente attività promozionale del Consorzio e fattiva sinergia tra produttori.
Un esempio, insomma, per molte altre realtà italiane. Difficile bere male, livello mediamente alto a tutti i banchi. Ecco una selezione dei migliori assaggi di quest’anno.
I MIGLIORI ASSAGGI A TASTE ALTO PIEMONTE 2019
Boca Doc 2015, Azienda Agricola Barbaglia Non è che si possa parlare sempre bene di loro, ma non sbagliano un colpo e sono sempre in crescendo. Scherziamo con Silvia, donna del vino dal sorriso contagioso. Bisognerebbe scrivere tra i miglior assaggi “i vini di Barbaglia tutti”. Ma a questo giro parliamo del Boca.
Vino vulcanico, da porfidi rosa, blend 80% Nebbiolo, 20% Vespolina. Una produzione che stanno incrementando a circa 8000 bottiglie. Un matrimonio tra i due vitigni che inizia già dalla vinificazione.
La Vespolina viene raccolta manualmente al giusto grado di maturazione, prima che precipiti e pigiata insieme al nebbiolo. Tre anni di affinamento di cui due in botte grande. Un vino in frac, austero ed elegante con un bouquet di fatto di piccoli frutti scuri, speziature, sbuffi minerali e che al palato è a dir poco sontuoso.
Ricco di estratto ma non pesante. Tannino fitto, un vino dalle ampie potenzialità di invecchiamento, ma in piena armonia tra corpo, alcolicità e sapidità. Un calice che si distingue anche nella veste, la bottiglia deformata piemontese.
Gattinara Riserva 2012 Docg, Luca Caligaris Azienda nata nel 2002 che ad oggi, a seconda dell’annata, arriva a produrre circa 10.000 bottiglie. La Riserva 2012 è la seconda prodotta da Luca, la prima nel 2007, l’ultima nel 2017.
La riserva si fa se c’è quantità e gradazione, perché va dichiarata subito, ma soprattutto se c’è qualità. Luca è molto rigoroso in questo, un vignaiolo che ci mette testa e cuore, un metronomo alla Demetrio Albertini.
Questo nebbiolo affina 5 anni in botti e fa un altro anno tra acciaio e bottiglia. Naso tipico di frutti rossi, erbe aromatiche, speziatura” sapiente”. Il tannino si fa ancora sentire, scalpitante, ma non troppo. In bocca ampio, grande sapidità, elegante, grintoso nella progressione al palato. Finale lunghissimo.
Coste della Sesia Nebbiolo Vallelonga 2016, Fabio Zambolin Fabio Zambolin è davvero un personaggio. Papillon di legno, sguardo da Gian Burrasca, è titolare di una piccola azienda che produce circa 3000 bottiglie. Uno che si è fatto da solo, un garagista del vino.
Il Coste della Sesia Nebbiolo Vallelogna è ricavato per il 60/70 % da viti vecchie ed il restante da viti nuove. Nebbiolo in purezza, prodotto in parte in acciaio, in parte in legno con fermentazioni naturali e lieviti indigeni.
Regala immediatezza e piacevolezza nel suo tipico varietale senza fronzoli. Bella freschezza, bella mineralità. Il 90% della produzione (circa 1800 bottiglie) però finisce negli States. Una chicca. Well done!
Colline Novaresi Vespolina Il Ricetto 2018, Mazzoni Una delle migliori Vespolina in purezza offerta ai banchi d’assaggio. Quando si tratta di Mazzoni, la loro fama li precede. L’annata 2018 è fresca fresca di imbottigliamento e fa solo acciaio.
Nel calice rosso rubino ha un naso intenso di fragolina di bosco e di lamponi. Di ottima corrispondenza gusto olfattiva, al palato è tutto frutto e freschezza. Altissima bevibilità. Ci siamo ricascati.
Lessona Doc Pizzaguerra 2015, Colombera & Garella 95% di Nebbiolo e 5% di Vespolina affinate per circa due anni in barriques. Naso intrigante di frutti rossi, a tratti ematico e balsamico. Sorso di spessore, tannino “gengivale” e scia sapida al palato. Ottima persistenza. Il binomio Colombera & Garella è relativamente giovane, le loro prime etichette sono targate 2013. Due giovani intraprendenti, altro che bamboccioni.
Fenrose 2018, Poderi Garona Un rosato fresco e beverino blend di Nebbiolo, Vespolina ed Uva rara decisamente in antitesi per leggerezza e semplicità rispetto al Boca 2013 che comunque è un altro dei migliori assaggi.
Accantoniamo per un attimo tannini e longevità e ci facciamo affascinare stavolta da questo rosa tenue nel calice, sofisticato. Agrumi e fiori freschi al naso. Scende una bellezza, si può dire? Il Fenrose dei Poderi Garona strizza l’occhio all’estate: terrazza vista mare e cruditè.
Colline Novaresi Doc Vespolina 2018, Francesco Brigatti Vespolina in purezza imbottigliata da meno di una settimana. Sia al colore che al naso rivela tutta la sua giovinezza. Rosso violaceo ha un naso fresco, fruttato con leggere sfumature speziate.
Bello, pulito e schietto il sorso centrato sul frutto, ma con la spezia che ritorna. Tannino vivace, ottima bevibilità. Piacevolezza che si ritrova pressochè in tutta la sua gamma.
Gattinara Docg 2014, Mauro Franchino Sosta obbligata quella da Franchino, dove troviamo Alberto, da poco subentrato allo zio nella gestione. Macerazione di 20 giorni più 1 anno in cemento e tre anni in botte grande.
Il 2014 è da poco in bottiglia e a breve sarà in commercio. Da questa vendemmia, seppur notoriamente piovosa è nato comunque un Gattinara con la “G” maiuscola. Di struttura, dal tannino irruente e da approcciare con infinita pazienza. Ma che cosa saprà regalare poi?
Prunent Stella 2017, Edoardo Patrone Entriamo nel territorio delle Valli Ossolane. Edoardo Patrone. E qui la storia è obbligatoria. Giovane enologo con esperienza langarola ed australiana torna in Italia e diventa un moderno startupper. Il progetto è recuperare vigne di cui i proprietari anziani non più in grado di occuparsene.
Lo definiamo il “badante” delle vigne eroiche. Ben 17 gli appezzamenti di questa Monopoli vitata. Edoardo così ha la possibilità di capire quali sono i terreni più vocati per ciascun vitigno. E sperimenta da Archimede (anarchico) qual’è, addirittura un vino da ben 15 vitigni.
Vini tutti piacevoli dal più semplice a quello che rappresenta il “Parco della Vittoria” per restare in tema Monopoli: il Prunent Stella. Elegante, bel frutto polposo, fine speziatura, mineralità, ruffiano quanto basta. Non gli manca nulla.
Boca 2012, Cascina Montalbano Un altro Boca tra i migliori assaggi di questa edizione, nell’anno del cinquantesimo della Doc. Anche Cascina Montalbano ha una storia da raccontare. E’ quella di un recupero, di una vigna, di una storia, di un sogno.
Di un progetto che si era purtroppo arenato, perché la vita non è sempre dritta, come certi vini. Ma per fortuna, il progetto è stato recuperato. Due i Boca al banco d’assaggio, annata 2012 e 2013, molto simili.
Nel calice troviamo frutti rossi, note pepate ed un tocco balsamico fresco. Al palato grande pulizia, sorso vibrante, e dinamico. Tannini virili quanto basta. Bell’equilibrio davvero e tanta prospettiva.
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Il bello è che potrebbe tirarsela come pochi in Italia, Matteo Ascheri. Invece, il presidente del Consorzio del Barolo, Barbaresco, Alba, Langhe e Dogliani ti saluta con quel sorriso contagioso. Si libera presto dei buyer americani coi quali sta colloquiando. E ti concede l’intervista con una ventina di minuti d’anticipo rispetto all’orario prefissato a Vinitaly.
Se è vero che l’eleganza non è farsi notare ma farsi ricordare, Ascheri ha imboccato la strada giusta. Per sé. E per il Barolo. Da tutti i punti di vista. Già, perché quella che sta apportando al Consorzio piemontese è una vera e propria Rivoluzione.
Culturale, d’immagine, di metodo. D’approccio. Ma soprattutto di comunicazione del Barolo, in Italia e nel mondo. Una rivoluzione vera, concreta. Fatta di parole e di fatti. Una “Revolution” che parte da un semplice assunto.
Per anni, il Consorzio del Barolo e del Barbaresco ha affidato la comunicazione alle aziende, chiamate a raccontare le Denominazioni in piena autonomia. Poi si è concentrato sul trade. Adesso è arrivato il momento di parlare al consumatore finale“.
Come? Le strade pensate da Ascheri sono molteplici. La più interessante, per chi ha sete di Barolo – ebbene sì, il Barolo si produce ma poi va bevuto – è la partnership con Vivino. “Chiederemo alle aziende del Consorzio di mettere a disposizione da un minimo di 6 a un massimo di 12-18 bottiglie di Barolo, da vendere a un prezzo interessante, stilato dalle stesse cantine”.
Una sorta di “operazione flash” pensata, appunto, per il consumatore finale. Che per un breve periodo potrà acquistare online dei grandi Barolo. E si parla di etichette di gran valore. Anche perché c’è di mezzo un risvolto Charity.
Riteniamo che questo sia un modo molto efficace e diretto per promuovere la Denominazione e ampliare il parterre del pubblico a persone che pensano di non potersi neppure avvicinare al Barolo”, spiega Ascheri. La somma raccolta sarà poi devoluta in beneficenza dal Consorzio di Tutela a un ente bisognoso, ancora da stabilire. Chapeau.
IL BAROLO NEI DISCOUNT Un modo come un altro per far parlare di Barolo. E arginare il fenomeno del ribasso negli hard discount. “Parliamoci chiaro – sottolinea il presidente del Consorzio – questa non è una battaglia alla Grande distribuzione o ai consumatori che, per motivi di portafoglio, fanno la spesa al discount. Il nostro obiettivo è controllare l’offerta, arginando fenomeni speculativi che danneggiano l’immagine della Denominazione”.
Eppure Ascheri sa bene che il fenomeno del Barolo al Lidl o all’Eurospin, o quello del Barolo in promozione a 10 euro sugli scaffali di altre insegne della DO, è frutto di un sistema in perfetto equilibrio.
“Il meccanismo che genera questo tipo di prezzi è assolutamente sostenibile a tutti i livelli – commenta il presidente – perché è redditizio per il contadino, redditizio per l’insegna della grande distribuzione e, soprattutto, vantaggioso per il consumatore finale”.
Quindi o ci lamentiamo e basta, aspettando che la cosa degeneri – chiosa Matteo Ascheri – o facciamo qualcosa. E non si tratta di scacciare i mercanti dal tempio, perché in fondo siamo tutti mercanti. Piuttosto dobbiamo fare in modo che le aziende trovino altri canali di vendita per le loro uve, in modo da colmare il vuoto in cui si inseriscono imbottigliatori che condizionano il prezzo del Barolo negli hard discount”.
I dati, del resto, parlano chiaro nelle Langhe. Su oltre 650 aziende produttrici di Barolo associate al Consorzio, oltre 350 fanno parte della categoria “imbottigliatori“. Non va meglio al Barbaresco, dove il gap si riduce ancora: qui sono più della metà dei 300 produttori consorziati.
SOLUZIONI? “ANCHE L’AUTOTASSAZIONE”
“L’offerta di uve Nebbiolo e, di conseguenza, di Barolo come vino finito – evidenzia Ascheri – è cresciuta a livello esponenziale. In 20 anni siamo passati da 1.200 a 2.200 ettari vitati e da 6 a 14,5 milioni di bottiglie“.
E’ arrivato il momento di governare questa crescita. Abbiamo bloccato fino al 2022 i nuovi bandi per i vigneti e abbiamo intenzione di intervenire quanto prima anche sulle rese, magari introducendo la riserva vendemmiale“, annuncia Ascheri a WineMag.it.
Se necessario, per portare avanti il progetto di avvicinamento del Barolo al grande pubblico dei consumatori, il Consorzio è pronto all’autotassazione. “Abbiamo programmato investimenti per 3 milioni di euro in tre anni – ribadisce il presidente – finanziati dall’Erga Omnes”.
“Se non bastassero siamo pronti ad attingere dalle nostre tasche: in questo modo saremmo ancora più autonomi circa l’utilizzo dei fondi, focalizzandoli sugli obiettivi che ci siamo preposti”, precisa Ascheri.
E non finisce qui. Al vaglio del Consorzio di Tutela c’è anche la creazione di una “Barolo & Barbaresco Wine School“. Una sorta di Accademia, in stile Chianti o Valpolicella, in cui formare i professionisti chiamati alla comunicazione e alla vendita del Barolo e del Barbaresco, in Italia e nel mondo.
Il tutto a corollario dell’evento internazionale che segnerà il prossimo triennio della gloriosa Denominazione piemontese: Barolo & Barbaresco World Opening, l’Anteprima mondiale delle nuove annate (2016 e 2017) in programma a New York.
Prevista per febbraio 2020 e pensata come un vero e proprio spettacolo dedicato ai due rossi piemontesi, l’iniziativa sarà la vera sintesi della volontà del Consorzio di “cambiare passo e strategia sulla promozione delle Denominazioni che rappresenta”. Cin, cin.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
CEREA – Si è conclusa domenica 7 Aprile la sedicesima edizione di ViniVeri – Vini secondo Natura a Cerea (Vr). Una manifestazione in crescita costante che si conferma appuntamento fondamentale per winelovers e addetti ai lavori.
L’edizione del 2019 ha rilevato un incremento ingressi del 10% rispetto allo scorso anno ed una folta rappresentanza di importatori da Cina, Far East e Sud Est asiatico.
Il 40% degli operatori presenti nei tre giorni della manifestazione sono giunti a ViniVeri per la prima volta, “come per la prima volta – fanno sempre notare gli organizzatori – si sono aggirati tra gli oltre 120 banchi dei produttori diversi enologi di grandi e note aziende del vino italiano”.
Soddisfazione (confermata dai numeri) anche da parte del Presidente del Consorzio ViniVeri Giampiero Bea che ha così tirato le somme:
L’obiettivo della direzione di ViniVeri non è quello di aumentare i numeri senza qualità sia essa riferita ai vignaioli (che sono sempre individuati tra quelli che generano vini da agricoltura senza l’uso di chimica di sintesi in vigna – almeno biologica o biodinamica – senza l’aggiunta di sostanze ammesse per uso enologico a esclusione di modeste quantità di solfiti e senza l’uso di stabilizzazioni forzate), sia essa riferita ai fruitori dell’evento che, al fine di permettere un sereno avvicinamento ai vignaioli, devono essere non solo interessati ad assaggiare vino, bensì il vino buono, prodotto secondo natura”.
I MIGLIORI ASSAGGI A VINIVERI 2019
Dolcetto “A Elisabeth” 2018 – Cascina delle rose Prodotto dai vigneti dei cru Tre Stelle e Rio Sordo con vinificazione classica in acciaio. Nel calice si presenta rubino intenso con riflessi violacei, naso fresco di fragolina, violetta oltre nota vinosa. Al palato il sorso è molto coerente, bella freschezza, centro bocca con polpa notevole e suadente. Chiusura fresca e finale appagante. Davvero un dolcetto elegante e piacevolissimo.
Barbaresco Rio Sordo campione di botte 2016 – Cascina delle rose Rio Sordo è un cru da aspettare, difficilmente si scopre subito. I terreni su cui si trovano i vigneti sono compatti, fatti di marne bluastre e calcaree. La 2016 è stata una annata classica, che darà longevità. Chiuso e timido all’olfatto ha comunque richiami terrosi e di fungo e poi spezia sul finale. In bocca è ben bilanciato, giusta acidità e grande corpo. Conquista indubbiamente per la grande intensità del sorso.
Colli Orientali del Friuli Merlot Riserva 2015 – Ronco Severo Vendemmia leggermente posticipata per questo Merlot Riserva cui segue fermentazione e macerazione per 4 mesi in tini tronco conici a cappello emerso con follature manuali giornaliere. L’affinamento è di 4 anni in legno.
Grandissima spezia al naso, pepe, tabacco e liquirizia, erbe aromatiche, frutto scuro maturo, qualche sbuffo di mineralita’ e appena accennate le classiche note verdi. In bocca il tannino è lieve, grande freschezza e rimandi di mineralita’. Completo ed equilibrato è la sintesi di tutto ciò che appaga in un bicchiere di vino.
Paestum Igp Aglianico Rosato Frizzante Fric – Az Agr Casebianche Siamo a Torchiara in provincia di Salerno, località posizionata tra il monte della Stella, il torrente Acquasanta e il mare del Cilento. Il Fric è un rosato ottenuto da uve Aglianico, con poche ore di contatto sulle bucce e rifermentazione spontanea in bottiglia.
Di colore rosa lampone ha un naso sprizzante di frutti rossi, melograno e fragolina. In bocca la bollicina è vivace, ma non invasiva. Al palato, la componente fruttata unita alla freschezza e alla mineralita’ e sapidità conferite dalle marne e dalle arenarie del sottosuolo regala una bevuta di assoluta piacevolezza.
Meursault 2017 – Philippe Pacalet Un vino che non ha bisogno di presentazioni ma che tuttavia non può non essere menzionato tra i migliori asssaggi. Chardonnay di uno dei cru di Borgogna più vocati in assoluto lo approcciamo con diffidenza, immaginando di trovare un vino chiuso e marcato dal legno.
Nulla di tutto ciò. La nota boise è appena accennata al naso che “parla” anche di frutta a polpa gialla, pera e lievi note agrumate. In bocca è un concentrato di mineralità e freschezza. Bel corpo, leggera glicerina e lunghissima persistenza. Godibilissimo, “ruffiano” quanto basta.
Arshura 2016 campione di botte – Valter Mattoni Non scopriamo certo oggi Valter detto anche “la Roccia” Mattoni, ma questo Arshura 2016 è forse il migliore mai creato. Prodotto con cloni molto vecchi di Montepulciano viene vinificato e affinato in legno piccolo usato.
All’olfatto si presenta con le classiche note di visciola, sottobosco e cacao, Pulito e preciso anche in bocca. Magistrale la capacità di Valter di addomesticare, con i passaggi in barrique, la forza di quest’uva il cui tannino è gia armonizzato nelle sfumature di questo assaggio. Tre aggettivi: ricco, lungo, appagante.
Kupra 2015 – Oasi degli Angeli Prodotto del vitigno Grenache delle Marche, chiamato in loco Bordò, da una vigna ultracententenaria e fitta (circa 6000 ceppi x ettaro). Qualche centinaio le bottiglie prodotte ogni anno. Limpido nel bicchiere, il Kupra 2015 di Oasi degli Angeli ha un bouquet infinito.
Ogni minuto aggiunge qualcosa di sorprendente: china, rabarbaro, rosa canina, erbe aromatiche, buccia di arancia, spezia e poi balsamicità. In bocca è persistente, al limite dell’infinito. Incredibile la coerenza gusto olfattiva. Tra i migliori assaggi assoluti della giornata.
Langhe Doc Nebbiolo 2017 – Rinaldi Sono circa 23/25 i giorni di macerazione di questo nebbiolo. Dieci in meno del Barolo cui segue affinamento in botte grande da 30 ettolitri. Un vino tutta gioventù e spregiudicatezza. Naso ricco ed ammaliante di rosa e fragolina. Sorso fresco e lungo di bella struttura e polpa. In bilico tra il da bere subito per goderne la golosità o il da aspettare per goderne le evoluzioni.
Coste della Sesia 2016 Antoniotti Odilio Nebbiolo 100% , due settimane di macerazione poi passaggio in legno grande per 18 mesi. Non si eseguono travasi, il vino viene decantato naturalmente. Finisce con un passaggio di 6 mesi in acciaio per stabilizzare. Grandissima eleganza per un vino che regala immediatezza, gusto e piacere alle beva.
Un piccolo grande nebbiolo con classiche note varietali ben bilanciate dalla acidità e dalla nota minerale dei porfidi su cui l’apparato radicale si districa. Indubbiamente il “best buy” della fiera.
L’Aura 2016 – Az.agricola Gino Pedrotti Blend 50% Chardonnay 50% Nosiola prodotto con 15 giorni macerazione e poi 15 mesi in legno misto da piccole barrique fino a botti grandi. Insomma, dove c’è spazio Gino lo sfrutta. Tra i bianchi proposti in gamma certamente il migliore per equilibrio.
Legno appena percettibile in ingresso di sorso, poi nota minerale e di frutta a polpa bianca e gialla. Un vino che accosta la freschezza della Nosiola alla struttura dello Chardonnay, accontentando tutti i palati. Bella freschezza finale, nota di acidità giusta.
Passito di Pantelleria Decennale 2008 – Ferrandes Lunga fermentazione per questo passito. Mesi in cui l’uva passa viene aggiunta al mosto un poco alla volta. Affina in acciaio dove il vino è rimasto fino al 2018. Di colore dorato carico al naso è un trionfo di uva passa, scorza d’arancia,miele.
Un incredibile altalena tra accenni ossidativi e sale. Mediterraneo fino al midollo. Bocca in equilibrio tra dolcezza e grande sapidità. Salmastro. Tutta Pantelleria in ogni singola sfumatura. Non stanca mai.
Medico per vocazione e sommelier per passione. Mi sono poi riscoperto medico per passione e sommelier per vocazione. Sostieni il nostro progetto editoriale con una donazione a questo link.
TREISO – Un giovane volenteroso. Una piccola cantina. Dei vigneti vocati, che confinano con quelli di “grandi” delle Langhe come Pio Cesare. La “ricetta” dell’Azienda Agricola Baldissero ha pochi ingredienti, tutti di ottima qualità.
Non a caso il 32enne Marco Lorusso, che ha preso in mano le sorti della cantina del nonno, può essere considerato tra gli interpreti di punta del Rinascimento del Dolcetto d’Alba in Piemonte. Un fenomeno in grande evidenza e spolvero all’edizione 2019 di Grandi Langhe, andata in scena a fine gennaio.
LA CANTINA
Sette ettari, tutti di proprietà. Ottomila bottiglie complessive. Prima vendemmia nel 2016, con la vinificazione delle uve da Orlando Abrigo, dove Lorusso lavora come enologo dal 2007, dopo essersi formato all’Enologica di Alba.
Baldissero Vini è infatti il progetto “collaterale” di questo giovane piemontese, che sta prendendo forma di anno in anno, attraverso l’ampliamento e ammodernamento della cantina-scrigno di Treiso (CN).
Un cascinale, con annessi inizialmente 5 ettari di terreni vitati, acquistati dal nonno Guido negli anni Cinquanta. “Per 1 milione 200 mila Lire”. Oggi, il valore dei terreni di Treiso è salito a circa 350 mila euro all’ettaro.
Alle scarse quantità della vendemmia 2017 ha risposto una 2018 piuttosto generosa. Nebbiolo, Barbera, Syrah e ovviamente Dolcetto le uve a disposizione di Marco Lorusso, ormai pronto a presentare anche il suo primo Barbaresco: appena 3 mila “pezzi”, che saranno in bottiglia da giugno.
Tutte etichette dall’ottimo rapporto qualità prezzo quelle di Baldissero. Si parte dai 5,50 euro del Dolcetto, passando per gli 8 euro della Barbera, gli 8,50 euro del Langhe Rosso, i 9,50 del Nebbiolo. Per finire con i 20 euro del “futuro” Barbaresco (prezzo di cantina).
IN CANTINA
Lieviti indigeni, temperatura controllata. Pochi giorni di macerazione per il Dolcetto, che fa solo acciaio. Si sale a 20-25 giorni per i Nebbioli, che effettuano la malolattica in barrique.
Pochi, essenziali accorgimenti che consentono a Marco Lorusso di mettere sul mercato 4 etichette: Dolcetto, Barbera, Langhe Rosso e, tra qualche mese, anche il Barbaresco. La scommessa già vinta è quella del Dolcetto.
Una volta il Dolcetto era il vino della Langa – ricorda il giovane vignaiolo – che si vendeva moltissimo in damigiana. Ho voluto riprendere questa tradizione e coltivare il mio sogno. E’ un mestiere che amo, ma sono comunque partito coi piedi di piombo. Sono contento dei primi risultati ottenuti e spero che il Rinascimento del Dolcetto continui, grazie ai produttori e ai consumatori più attenti”.
Una riscoperta del territorio e delle tradizioni che parte dalla vigna, per tradursi in cantina e finire nel calice. Vini che parlano delle Langhe, quelli di Baldissero, anche grazie all’inconfondibile etichetta, sulla quale è riportata la mappa del Comune di Treiso e la collocazione del primo vigneto acquistato dal nonno di Marco, nel 1953.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
EDITORIALE – In questi giorni di Anteprime di Toscana ho avuto modo di assaggiare più di 700 vini, tra prelievi di botte ed etichette che stanno per essere messe in commercio.
A mente fredda, dopo tanti commenti sentiti da direttori, presidenti, tecnici dei Consorzi e addirittura politici che c’azzeccano col vino come Belen al telegiornale (categoria nella quale non rientra ovviamente Studio Aperto) mi viene spontanea una domanda: perché facciamo tutti così fatica ad ammettere che il vino deve semplicemente rispettare l’annata?
Ho assaggiato con “piacere” vini quasi irrimediabilmente compromessi da percezioni “verdi”, dovute alle difficoltà di maturazione dell’uva, per via delle avversità climatiche. E’ il caso della Vernaccia, in un’annata difficile come la 2018.
D’altro canto mi sono stupito (in negativo) di trovare frutti esasperati in annate fresche e regolari per altre Denominazioni del vino toscano, segno di un lavoro in vigna e in cantina funzionale solo al mercato.
Credo che nel dare le “stelle” alle vendemmie, le istituzioni del vino debbano privilegiare il confronto con quei produttori che guardano al mercato domestico come priorità, piuttosto che quello con le cantine che interpretano l’export come “costruzione” di vini adatti al “gusto internazionale”.
Il rischio, altrimenti, è che molte Denominazioni facciano la fine dell’Amarone. Già, uno dei vini bandiera del Made in Italy che, forse per la sostanziale convivenza-complesso di inferiorità regionale col (fenomeno) Prosecco, sembra aver perso la propria identità, intesa come equilibrio organolettico tra “polposità” del frutto e freschezza.
Dell’Amarone 2014 e 2015 si è detto e scritto di tutto. Tranne che tanti produttori paiono ormai brancolare nel buio con un lumino in mano, a caccia di consensi della critica nazionale e – soprattutto – internazionale. Passatemi la provocazione: oggi, sul mercato, ci sono dei Primitivo di Manduria che sembrano più Amarone di certi Amarone “veri”.
LA SUPERCAZZOLA DELLA “FINEZZA”
E’ così – nel nome della “finezza” e della tanto decantata “eleganza” – che tanti Amaroni sono diventati copie dei Ripasso. Che tanti Sagrantino di Montefalco assomigliano più ai Rosso di Montefalco. Che il divario tra il Nobile di Montepulciano e il Rosso di Montepulciano si sta sempre più assottigliando. Ma a nome di chi? Delle stelle?
E allora, quest’anno, ho trovato una gran consolazione nel caro, buon, vecchio Piemonte. All’Anteprima Grandi Langhe di Alba, l’inversione di tendenza (in questo caso positiva) è sembrata palese. I Nebbioli sono tornati ad essere Nebbioli, e i Barolo ad essere Barolo e basta. Non più l’uno l’immagine sbiadita dell’altro.
Una regione, il Piemonte, che sta tra l’altro tornando a puntare in maniera straordinaria su vitigni come il Dolcetto d’Alba e il Grignolino, oltre alla Freisa. Segno che mentre tanti parlano degli autoctoni, qualcuno li valorizza per davvero.
E allora mettiamoci tutti d’accordo e facciamo un favore al vino italiano: torniamo a parlare di stelle ai vignaioli che puntano tutto sulla tipicità, al posto di lodare stelle e stelline di chi punta solamente sul “mercato”, dimenticandosi da dove viene.
Facciamolo per noi. Per non gettare a mare (scegliete voi quale, dalla Liguria alla Sicilia) tutto il patrimonio di viticoltura italiana, intesa anche come stile e filosofia produttiva volta alla valorizzazione dei nostri vitigni e terroir. Roba che pure i francesi si sognano, ma che saprebbero certamente vendere meglio di noi. Cin, cin.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
BAROLO – Tutto bellissimo. Come in un omaggio onirico al re del “Barolo Contadino”, Beppe Rinaldi. Sfumature di Nebbiolo meno note rispetto a quelle delle Langhe, ma in grande spolvero a Vini Corsari 2018. Sembra quasi fatto apposta. Ma non lo è.
Le cantine della Valtellina e dell’Alto Piemonte illuminano la scena del Festival Europeo dei “vini artigianali” di Barolo a pochi mesi dalla scomparsa del “Citrico”. Avrebbe abbozzato un sorriso anche lui, degustando i rossi dei vicini di casa.
Una trentina i produttori artigianali intervenuti anche quest’anno su invito di Marta Rinaldi e dell’Associazione Culturale Giulia Falletti. Tanto spazio all’estero, come di consueto, per dimostrare che il vino abbatte le barriere e le stupide convenzioni dell’uomo. Francia, Portogallo, Spagna, Germania, Austria, Grecia, Repubblica Ceca. Tutti lì, sotto alle volte del castello. Ma anche tanta Italia, a tener alta la bandiera dei vini “non convenzionali”, con etichette di assoluta qualità.
Più alta, rispetto altri anni, l’incidenza di difetti nei vini stranieri. Un dato da tenere a mente per comprendere quanto il movimento dei “naturali” del Bel Paese stia crescendo, al netto della schiera di imbecilli e ultras che danneggiano l’immagine di onestissimi e validissimi produttori.
La palma di Corsari Doc, quest’anno, va alla Valtellina di Pizzo Coca, Barbacàn e Boffalora. Tre cantine che si muovono spesso assieme nelle fiere, in grado di rappresentare alla grande la tipicità eroica del Nebbiolo della Valtellina, localmente noto come Chiavennasca.
NEBBIOLO SUPERSTAR
La vera sorpresa – ma non per i lettori di Vinialsuper – è Pizzo Coca. Dopo varie peregrinazioni in giro per il mondo, il giovane bergamasco Lorenzo Mazzucconi ha deciso di mettere su un’azienda propria a Ponte in Valtellina.
Oggi è in grado di offrire un quartetto di assoluto rispetto, che va da un super “base” Igt Alpi Retiche 2017 (appena 9 euro in cantina, un affare) a un Inferno 2016 (25 euro), passando per Rosso di Valtellina e Grumello.
Vini che evidenziano lo stile di Mazzucconi, elaborato nel massimo rispetto del terroir e del vitigno: frutto e freschezza sempre centrali, in ogni assaggio. Ottima anche la batteria del più esperto Barbacàn (Angelo Sega e i figli Luca e Matteo). Splendido il Valgella “Pizaméj” 2016, succoso e di gran prospettiva.
Altissimi livelli anche per l’intera linea dell’Azienda Agricola Boffalora di Guglielmo Giuseppe, che raggiunge il picco col Valtellina Superiore Docg 2015 “La Sàsa”: frutto grasso, maturo e tannino giovane a riequilibrare un sorso lungo, ancora una volta giovane e promettente.
Un trio da nazionale, questo della Valtellina. Ma si difende benissimo, sempre col Nebbiolo, anche l’Alto Piemonte dell’Azienda Vitivinicola Barbaglia di Cavallirio (NO). A dir la verità, di questa cantina novarese, convince davvero tutto: dalla Croatina al Boca. Ma è “Il Silente” Nebbiolo 2016 a dare la cifra del gran lavoro di Silvia Barbaglia.
Altro vino da dimenticare in cantina, ma già in grado di dire tanto, specie se abbinato bene a tavola. Con la mineralità salina tipica della zona a fare da valore aggiunto a un frutto di gran precisione. Chapeau.
GLI ALTRI ASSAGGI DA RICORDARE Tra i vignaioli italiani di Vini Corsari 2018 spicca anche l’Azienda Agricola Monte dall’Ora di Castelrotto (VR). L’Amarone Docg 2010 è spaziale e vale davvero tutti e 70 gli euro del prezzo, per la freschezza e la tipicità del sorso che riesce ad esprimere.
Splendido anche il Valpolicella Classico Superiore 2015, degustato in anteprima. Sarà in commercio da gennaio 2019 e conviene fare già la scorta (16 euro più Iva): altro rosso giocato sulla freschezza, con un tocco si spezia e di balsamicità a completare un frutto rosso croccante, da mordere.
Da mani nei capelli tutta la linea di De Fermo, produttore “naturale” dell’Abruzzo (Loreto Aprutino, per l’esattezza) incontrato da Vinialsuper, nei mesi scorsi. Su tutti, il Pecorino “Don Carlino” (17 euro) e l’eccezionale Montepulciano d’Abruzzo 2015 “Prologo” (27 euro), oltre al commovente Pecorino Passito “Pie’ di Tancredi” (17 euro).
Fuori dai confini italiani, sbandando tra una volatile alle stelle e l’altra, si incontrano ottimi produttori come Eric Texier. Siamo nella parte Nord della Valle del Rodano. A convincere è il Saint-Julien en Saint-Alban 2016, biologico non filtrato di Syrah su suolo granitico, da vigne vecchie. Prezzo eccezionale per un vino di prospettiva come questo: 14 euro.
Molto buono anche il Mâcon Verzé 2017 “Le Chemin Blanc” di Nicolas Maillet, vignaiolo della Borgogna. Un bianco adatto a chi ama le percezioni saline forti, dure, con la mineralità iodica a spingere sin dalla prima olfazione e ad accompagnare tutto il sorso. Splendida la chiusura su una dosata percezione di tannino, dovuta alla raccolta volutamente anticipata dello Chardonnay in vigne di oltre 80 anni.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
COSTA VESCOVATO – Che poi, la vita, è un po’ per tutti come un’autostrada: piena di caselli. Ti fermi. Paghi. Se ti va bene ti danno il resto. E riparti. Altrimenti rimani lì. Fregato. Un infinito susseguirsi di stop and go. Da una parte chi dà. Dall’altra chi riceve. Fino alla prossima sbarra abbassata.
I panni del casellante, Daniele Ricci, se li è tolti volentieri. Nei primi anni Duemila. Per inseguire – fuor di metafora – un sogno chiamato Timorasso. Oggi, il 55enne vignaiolo è tra i riferimenti assoluti della piccola Denominazione piemontese portata in auge negli anni Novanta dal pioniere Walter Massa. Siamo sui Colli Tortonesi, in provincia di Alessandria. Per l’esattezza a Costa Vescovato.
Un campanile segna il paesaggio, all’orizzonte, tra le vigne appese alle colline che si alternano al bosco. Qualche sali e scendi e un tratto sterrato che macchia le gomme dell’auto di bianco, prima di raggiungere Daniele Ricci all’Agriturismo Cascina San Leto. Il “giocattolo” di famiglia, che suggella una vita di sacrifici, aperto due giorni a settimana, solo nel weekend.
I vini di Ricci, che oltre a diverse tipologie di Timorasso produce Barbera, Croatina e Nebbiolo, sono tra i più “naturali” della zona. Ma senza alcuna bandiera ideologica: “Avrei aderito alla Fivi – chiosa il vignaiolo – soprattutto per via dell’amicizia con Walter. Ma ultimamente hanno un po’ perso lo spirito iniziale e preferisco starne fuori, come sto fuori da qualsiasi altra associazione”.
Nessuna aggiunta di solforosa in cantina e rispetto massimo per il vigneto, con trattamenti che si riducono a rame e zolfo. Ma non è sempre andata così per il vignaiolo, che arriva all’appuntamento in pantaloncini corti e canottiera bianca, dalla vigna.
“Quando facevo ancora il casellante e la viticoltura era un’attività per così dire ‘secondaria’, portata avanti con mio padre – racconta Daniele Ricci – si lavorava come lavoravano gli altri: con la testa nel sacco. Senza porsi alcun problema ‘filosofico’. Non dimentichiamoci che siamo gente degli anni Ottanta, che ha bruciato tutto quello che poteva bruciare”.
“Io sono figlio del consumismo più sfrenato. Mio padre Filippo lavorava al Consorzio agrario. E per lui la novità erano i diserbanti ultimo modello, tutti i prodotti di sintesi che pensava fossero il meglio”
“Poi – continua il vignaiolo – il mio fisico particolarmente sensibile ha iniziato a dare i primi segni di cedimento. Davo i sistemici e sentivo una pressione al petto. Davo il diserbante nel grano e stavo male, pur indossando il casco per non respirarlo”. Ma la vera svolta è avvenuta alla nascita di Matteo (nella foto, sotto).
Oggi ha 22 anni e studia brillantemente enologia. “Da piccolo girava per i nostri campi, attorno all’attuale agriturismo. E io lo riprendevo: non puoi, non puoi! Una volta mi ha chiesto: perché non posso uscire? E da lì mi è scattata una molla. Ho detto basta. Succeda quel che succeda, basta con questi prodotti”.
“Ci dicevano che tutto sarebbe seccato – continua Ricci – senza l’aiutino dei sistemici. Ma era una balla. Era terrorismo. Ma fare vini naturali, per qualcuno, voleva dire fare vini con difetti. E ancora adesso, in certi contesti, essere biologici è penalizzante”.
Per questo non è presente alcun bollino sulle etichette dei vini di Daniele Ricci. Eppure l’azienda (15 ettari di cui 10 vitati, per 40 mila bottiglie complessive) è certificata biologica dallo scorso anno, al termine dei tre anni di conversione.
GLI ESORDI AL SUPERMERCATO
Nel percorso che ha portato Daniele Ricci ai fasti attuali, con la presenza di alcune sue etichette nelle carte del vino di molti ristoranti stellati, c’è anche un periodo nella Grande distribuzione organizzata.
“Erano gli anni Novanta – ricorda Ricci -. Grazie all’intermediazione di un broker abbiamo iniziato a lavorare con Finiper, ovvero Iper, la Grande i, che aveva capito l’importanza di avere in assortimento prodotti locali, quando ancora non era di moda al supermercato”.
Punti vendita come quelli di Tortona, Rozzano e Serravalle Scrivia, aiutano Ricci a farsi conoscere. “Ma mi sono accorto che non era il mio mondo. E ne sono uscito piuttosto velocemente, in quattro o cinque anni”.
“Nello stesso periodo, un’altra piccola catena di supermercati di Roma, oggi assorbita da Conad, volle i nostri vini. Il proprietario aveva anche un paio di enoteche nella capitale e ci commissionò due etichette diverse per i due canali, per lo stesso vino: un Timorasso”.
“Siamo andati avanti così, ancora per qualche anno. Tutto faceva mucchio: si portavano a casa due soldini e si reinvestivano. Tanto lo stipendio da casellante c’era. Mia moglie era tranquilla. Un anno compri la terra, un altro il trattore, un altro lo cambi: sempre senza soldi. Adesso è comico parlarne, ma allora no”.
Una svolta “naturalista”, quella di Daniele Ricci, che si può definire completata dalla realizzazione di una tettoia, immersa nel vigneto, sotto alla quale sono state interrate tre anfore da 10 ettolitri.
“La mia idea, anzi la mia fissa, era quella di fare il vino nella vigna. Fondamentale l’incontro con Josko Gravner, da cui andai negli Novanta, proprio con Walter Massa”
L’uva, raccolta nei vigneti attigui, viene diraspata e vinificata a “Chilometro zero” nei tre recipienti di terracotta di fabbricazione toscana, originari di Impruneta (FI). Nasce così “Io cammino da solo“, il Timorasso in anfora di Daniele Ricci. Cento giorni di macerazione sulle bucce e 12 mesi di affinamento ulteriore in botti di castagno.
Un vino non filtrato, non chiarificato. Ottenuto ovviamente con lieviti indigeni, così come tutti quelli di Daniele Ricci e della sua Azienda agricola di Costa Vescovato. Il tempo, sotto a quella tettoia, sembra essersi fermato al 1929.
L’anno in cui i nonni del vignaiolo, Carlo e Clementina, cominciarono a coltivare i terreni di marne Tortoniane di San Leto. Una calamita che ha riportato Daniele Ricci tra il verde dov’era cresciuto. Strappandolo anno dopo anno dall’asfalto del’autostrada.
LA DEGUSTAZIONE VsQ Metodo classico 2014 “Donna Clem”. Metodo classico base Timorasso, 36 mesi sui lieviti, dosaggio zero. La base è ottenuta dalla cuvée dalle uve di due cru: San Leto (vigne vecchie) e Giallo di Costa (90 giorni di macerazione sulle bucce).
Ad occuparsi della spumantizzazione è Dogliotti Vini 1870, cantina di Castagnole delle Lanze (AT) che ha nel suo portafoglio diverse realtà dell’Alta Langa. Le prove sono iniziate nel 2009, ma l’uscita sul mercato (con appena 2 mila bottiglie) risale al Vinitaly 2017.
Perlage fine, che stuzzica il palato in un gioco curioso con la “grassa” abbondanza del Timorasso. Il sorso, grazie al non dosaggio, mantiene tuttavia la verticalità che ci si deve aspettare dall’uvaggio. Finale amarognolo e salino, che racconta la fase fenolica di raccolta di un Timorasso spumantizzato ancora in fase di evoluzione.
Derthona 2016. Vinificato con macerazione di 3 giorni sulle bucce e affinamento di 12 mesi in botti di acacia da 700 litri. E’ il vino d’ingresso nell’universo di Daniele Ricci, che non a caso ha il colore dell’oro.
Un Eldorado chiamato Timorasso che qui mostra la sua faccia più giovane, ma non per questo timida. Darà il meglio di sé a partire dai prossimi tre-quattro anni, ma già oggi comincia a mostrarsi per quel che sarà.
Colli Tortonesi Doc 2013 “San Leto”. Eccolo qui, sua maestà il Timorasso. Vinificato con macerazione di 3 giorni sulle bucce, 12 mesi sulle fecce nobili e almeno 24 mesi di ulteriore affinamento in bottiglia.
Naso che si spinge a toni netti di idrocarburo che sono la cifra del vitigno. Un Timorasso giocato su una balsamicità che, per certi versi, ricorda quelli prodotti nell’unica sottozona della Denominazione, la Val Borbera (600 metri slm). Conservando tuttavia gli sbuffi florali tipici della media collina (300 metri slm).
Un palato che si diverte a esaltare a corrente alternata salinità e grassezza balsamica, evidenziando fasi larghe (quasi morbide) e fasi acide (dure) del sorso. Sinonimo di un nettare che migliorerà ulteriormente in vetro, ma solo per chi avrà il coraggio di conservarlo in cantina.
Giallo di Costa 2013. Il vino a cui è più affezionato il produttore. Timorasso vinificato con macerazone di 90 giorni sulle bucce a cappello sommerso e 24 mesi di affinamento in bottiglia.
Ci sentiamo di concordare con Ricci, perché quest è un vino che fa facilmente innamorare di questa straordinaria uva a bacca bianca autoctona dei Colli Tortonesi.
Un Timorasso semplice, tutto sommato. Giocato su intensi sentori erbacei, agrumati e di radice di liquirizia, con ottima corrispondenza naso-bocca. Pregevole la chiusura, carica e salina.
Rispetto 2017. Novanta per cento Sauvignon Blanc, completato da un 10% di Riesling italico. Tra le sperimentazioni del vignaiolo Daniele Ricci, anche questa, riuscitissima. Dimenticatevi, però, i tipici tratti del Sauvignon.
Soprattutto al naso, l’ottimo grado di maturazione di uve alla raccolta ha giocato in maniera fondamentale nella riuscita di un bouquet davvero seducente, quasi femminile. Si tratta, di fatto, del vino dalla beva più “easy” di Daniele Ricci.
Un complemento di gamma che non snatura la filosofia del produttore piemontese, dal momento che la macerazione di 20 giorni sulle bucce resta parte integrante della vinificazione.
Colli Tortonesi Doc 2012, Io Cammino da solo. Vinificato con macerazione di 100 giorni sulle bucce in anfore di terracotta interrate e ulteriore affinamento in botti di castagno, per 12 mesi. E’ l’orange wine di casa Ricci. Il vino, che al momento, sorprende di più.
Al naso l’impronta ossidativa è netta, ma integrata alla perfezione in un corredo di . Netti anche i sentori di legno, che contribuiscono a rendere avvolgente, anche al palato, questo orange di carezzevole potenza.
DUE NOVITA’ IN ARRIVO
In quel laboratorio a cielo aperto che sono le vigne di Daniele Ricci, sono due le novità in arrivo. La prima sarà “C.C.C.”, che sta per “Come un Cane in Chiesa”. “E’ come mi hanno fatto sempre sentire, anche prima di trasformarmi in una specie di santone. Io ero, sono e resterò sempre un cretino: un uomo semplice!”, spiega il vignaiolo.
Vendemmia 2011 per il Timorasso “C.C.C.”, che sarà imbottigliata a febbraio. Si tratterà del capitolo 2, dopo “Rebus”, l’etichetta enigmatica che riportava gli anni di nascita dei componenti della famiglia Ricci (in quel caso di trattava di un Timorasso in magnum, dimenticato in cantina, al buio completo, per 8 anni).
La seconda novità si tinge di rosso. Sarà un Nebbiolo particolare. “Una prova”, che aspira a sondare le capacità dei Colli Tortonesi di produrre etichette in grado di fronteggiare le Langhe, in termini di finezza. Un’evoluzione, insomma, dell’attuale Nebbiolo “San Martino” di Daniele Ricci.
L’affinamento in 14 barrique delle vendemmie 2016 e 2017 è tuttora in corso: il vino non sarà messo in commercio prima di 4 anni. Per assaggiarlo, dunque, bisognerà attendere il 2020. Non resta che aspettare.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Si scrive “Indicazione geografica tipica“, si legge “fate un po’ quello che ve pare”. A tuffarsi nel mondo delle “Igt” del vino italiano (oggi “Igp”) si scoprono più cose che sfogliando Men’s Health.
Quello che potrebbe essere lo scrigno delle “tipicità” enologiche regionali, sembra in realtà il quadro di tanti improvvisati Miró.
Non si spiega altrimenti la presenza di vitigni come il Refosco dal Peduncolo Rosso, allevato in Friuli (dove è pure “Doc”), in un paio di Igt del Centro e Sud Italia, tra cui quella della Valle d’Itria, in Puglia.
Per non parlare della Glera, divenuta ormai il vitigno non autoctono più coltivato in Sicilia, soprattutto nella zona di Palermo, dove è stata introdotta in Igt nel 2009. Che dire, poi, del Primitivo? Un altro vitigno che i comuni mortali accosterebbero alla Puglia.
E invece è presente in alcune Igt del centro Italia (in Basilicata, per esempio), così come il Nebbiolo e la Freisa. Per non allontanarsi idealmente dal Piemonte, ecco la Barbera: in Igt in Campania, Puglia e Calabria.
Non manca neppure il Lambrusco. Scordatevi l’Emilia e la Romagna, pensando che la coltivazione di questa varietà a bacca rossa è ammessa in regioni come la Puglia, nelle Igt Daunia e (ancora lei) Valle D’Itria. Per regolamento del Mipaaf, il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali.
Che dire del Teroldego in Toscana? L’ammissione alla coltivazione l’ha voluta tanti anni fa un dirigente originario del Trentino, appassionato di quest’uva. E lo ritroviamo, infatti, anche nella Igt Costa Toscana, di recentissima costituzione.
PAESE CHE VAI… Stranezze, stravaganze, o colpi di genio che voler si dica, che non possono trovare una reale giustificazione nella tradizione ampelografica di alcuni areali.
Diciamoci, allora, che le Igt – fin troppo spesso – rischiano di sembrare riuscitissime trovate commerciali.
Tutto tranne che strumenti utili a veicolare la tipicità (e la varietà) del Made in Italy nel mondo, al di là del “lavoro” delle Denominazioni d’origine.
Un campo, quello delle Indicazioni geografiche del vino, che deve aver impegnato tante capocce. Lo si capisce dal numero. Sono ben 181, da Nord a Sud Italia. Veri e propri agglomerati di regolamentazioni e burocrazia, utili più ad occupare cassetti che a favorire la promozione “global” delle eccellenze “local” (ci si accontenterebbe anche del “national”).
Per citarne alcune delle più curiose, in ordine alfabetico: Igt Alto Livenza, Igt Benaco Bresciano, Igt Bettona, Igt Catalanesca del Monte Somma, Igt Colline del Genovesato, Igt del Vastese o Historium, Igt Epomeo.
E andiamo avanti: Igt Fontanarossa di Cerda, Igt Marmilla, Igt Pareolla, Igt Planargia, Igt Quistello, Igt Rotae, Igt Terre del Valeja, Igt Tharros, Igt Valdamato. L’elenco è lunghissimo. Cui prodest?
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Torna Nebbiolo Noblesse, l’appuntamento dedicato alle nobili bollicine del Piemonte. Dopo il successo dell’anno scorso, l’edizione 2018 si sdoppia con due date: la prima lunedì 18 giugno al Palazzotto, in centro a Torino, in Via Mazzini 43 e la seconda lunedì 25 giugno al Palazzo Banca d’Alba (via Cavour 4, Alba).
Saranno ventuno i produttori di Piemonte e Valle d’Aosta coinvolti: dalle Langhe a Gattinara, da Acqui Terme ad Arnad, fino al Biellese tutti condividono la passione per le bollicine autoctone a base di uva nebbiolo. La novità è che in degustazione ci saranno solo spumanti Metodo Classico prodotti al 100% Nebbiolo.
«È stata una scelta condivisa da tutto il gruppo – spiegano i produttori di Nebbiolo Noblesse – l’obiettivo è di esprimere al meglio la versatilità del Nebbiolo che si presta bene alla produzione dei grandi rossi, dal Barolo al Barbaresco, dal Roero al Gattinara, fino al Lessona e al Carema, ma anche alla spumantizzazione».
Quest’anno partecipano nuove aziende che hanno iniziato a spumantizzare il nebbiolo, una pratica che in Piemonte è in uso fin dall’800. Il primo documento è datato 1787: si tratta di un resoconto sulla visita a Torino del presidente americano Thomas Jefferson che “alloggiando all’hotel Angleterre beve vino rosso di nebbiolo, trovandolo vivace come lo Champagne”.
Otto anni fa, nel 2010, un gruppo di aziende ha lanciato il progetto Nebbione: un metodo classico 100% nebbiolo che riposa 45 mesi sui lieviti. Anche loro fanno parte di Nebbiolo Noblesse. Oggi la produzione di bollicine di Nebbiolo si attesta intorno alle 200 mila bottiglie all’anno.
In entrambi gli appuntamenti, a Torino e ad Alba, la prima parte della giornata sarà dedicata a ristoratori, enotecari, giornalisti, sommelier e operatori professionali (ore 12-18) con degustazioni di formaggi piemontesi: Bra e Raschera. Dalle 18 alle 22 a Torino e dalle 18 alle 20 ad Alba, è apertura al pubblico con un biglietto a 25 euro che comprende assaggi liberi e una proposta di aperitivo in bolla.
Anche quest’anno i produttori di Nebbiolo Noblesse chiedono ai ristoratori locali di scommettere con loro e di inserire nella loro carta vini una pagina dedicata alle bollicine di Nebbiolo: “Chiediamo di mettere in carta almeno 6 etichette di spumante locale a base nebbiolo. Metteremo a disposizione dei ristoratori una logistica che permetterà loro di acquistare le bottiglie quando e quante ne avranno bisogno”.
Partner dell’evento sono: la Banca d’Alba, Langhe Tv per le foto e i video, i Consorzi del Bra, del Raschera e Joinfruit, Rastal Italia per la fornitura di bicchieri, gli Stralli di Fermo (un “grissino” schiacciato preparato con kamut o farro biologico che viene prodotto dall’azienda Fermo di Neive), la location Il Palazzotto di Torino e Acquaviva Italia per la fornitura dell’acqua.
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TRENTO – Sulle colline delle Langhe, in provincia di Cuneo, alla sommità di un dolce pendio sorge il paese di Barbaresco.
Assieme a Neive e Treiso è uno dei vertici di un immaginario triangolo geografico in cui nasce uno dei vini più noti del nostro Paese: il Barbaresco Docg.
Negli anni, fra l’Enoteca regionale del Barbaresco, con sede nell’omonimo comune e l’Enoteca provinciale del Trentino si è consolidato un rapporto di collaborazione che è culminato nella presenza del Trentodoc in Piemonte alla manifestazione “Piacere Barbaresco” tenutasi lo scorso mese di ottobre.
In occasione del Festival dell’Economia, dal 31 maggio al 3 giugno, Palazzo Roccabruna ricambia l’ospitalità, proponendo quattro giorni di degustazioni dedicate ad una delle principali declinazioni delle uve Nebbiolo.
Il gemellaggio fra Trentodoc e Barbaresco muove dall’idea di una collaborazione fra istituzioni del mondo del vino impegnate nella valorizzazione di prodotti enologici che per tipologia possono considerarsi complementari, secondo una logica di interscambio già collaudata da Palazzo Roccabruna in altri settori dell’agroalimentare.
Nelle sale del Palazzo di via Santa Trinità l’Enoteca piemontese proporrà in degustazione 19 etichette di Barbaresco Docg.
Si approfondiranno gli aspetti più caratteristici del vino attraverso due laboratori enogastronomici, giovedì 31 maggio e venerdì 1 giugno con orario 20-21, dal titolo: “Focus sul Barbaresco Docg e sul suo territorio“.
Giovedì 31 maggio dalle 19 alle 22 per il ciclo “Il piatto dello chef” Malga Juribello si cimenterà in un menù di territorio con “Bocconcini di Toséla di Primiero su crostino di polenta storese e carpaccio di carne salada” seguiti da “Gnocchi di pane, ricotta e spinaci su fonduta di Primiero fresco, filettino di maiale in crosta di pancetta e sauté di capussi grestani”. In abbinamento Trentodoc e Barbaresco.
Nei giorni dell’evento a disposizione degli ospiti ci sarà anche un’ampia collezione di bollicine trentine abbinate ai sapori della nostra montagna, in particolare ai formaggi d’alpeggio (“Trentino di malga”).
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Dopo aver acquistato nel 2015 da Gigi Rosso, uno dei migliori cru del Barolo, il vigneto Arione di Serralunga d’Alba, Conterno torna a far parlare di sè.
Si è diffusa da ieri, la notizia dell’acquisizione del 90% della Cantina Nervi di Gattinara. Sempre il Nebbiolo protagonista, ma stavolta non quello delle Langhe
“Conosco Erling da molti anni e ho sempre apprezzato il suo lavoro con questa cantina – ha dichiarato Roberto Conterno al quotidiano La Stampa di Torino- Un mese fa mi ha detto: “Mi piacerebbe che Nervi facesse un salto di qualità e vorrei che fossi tu a farglielo fare”. Non ci ho pensato due volte: mi sono confrontato con la mia famiglia e alla fine abbiamo deciso di rilevare vigneti e cantina, lasciando il 10 per cento ancora ad Erling Astrup“.
Resta segreta la cifra dell’operazione. Bocca chiusa sull’argomento anche da parte di Erling Astrup sul giornale norvegese Dn.No che lo ha raggiunto telefonicamente. Ma la strategia è confermata. “ Il nostro obiettivo è diventare una delle cinque migliori aziende vinicole in Italia. Richiede grandi investimenti e non ultima conoscenza. Roberto Conterno ha a lungo visto il potenziale e vuole investire ciò che è necessario” si legge dall’intervista.
Nuovo capitolo della saga della storica Cantina di Gattinara che dal 1906 ha affrontato numerosi “challenge”. Nella squadra di lavoro resta confermato Enrico Fileppo, storico enologo della cantina dal 1983. Dunque il Miglior produttore di Langa ha acquistato il 90% della cantina Nervi a Gattinara. Una bella sfida per poter trattare il Nebbiolo su un terroir diverso dalle Langhe ma altrettanto vocato. Sotto il Monte Rosa d’altronde si fa vino e si coltiva Nebbiolo da secoli.
Conterno lavora non bene, ma benissimo e finalmente ad investire nella nostra viticultura non solo solo ricche cordate straniere o pluri miliardari d’oltre Oceano ma forse al momento il miglior produttore d’Italia. La Valsesia è zona “talentuosa” ma che in termini di mercato non è mai riuscita a valorizzarsi come avrebbe dovuto.
Ma gia si sentono i primi mugugni. Scrolliamoci di dosso quel campanilismo becero da Italiano medio e scendiamo dal carro di chi Conterno in questi mesi lo ha criticato perché il Monfortino con l’ultima annata di uscita è schizzato a cifre da Top Class. Ricordiamoci che i Francesi , che in quanto a valorizzazione delle loro aree cru ci possono mettere sul banco di scuola , non si sognerebbero mai di criticare DRC e Krug tanto per fare due nomi.
Se parli di Conterno ad un Inglese, Tedesco o Americano, sono ancora increduli del fatto che un’azienda di tale importanza storica e mondiale ancora riceva i visitatori, pure i soli appassionati, e spesso e volentieri è il proprietario stesso in persona ad accogliere l’ospite. Lo stesso proprietario che ti dedica due ore anche se sei da solo, come successo a noi e ti parla di tutto il suo lavoro fino ai minimi termini, delle idee , del concetto che c’è dietro , della sua visione della vigna e della cantina. La passione la noti dagli incredibili dettagli.
Tutta l’area di Gattinara , compresi Ghemme e Boca non potranno che trarre beneficio da questa operazione, in termini di attenzione nazionale e internazionale, in termini di mercato e di valorizzazione perché diciamocelo il Nebbiolo dell’alto Piemonte è un vino incredibile, elegante e fresco con qualità eccelse da non avere nulla da invidiare ai Langaroli e se il miglior produttore di Nebbiolo di Langa decide di comprare una cantina storica come Nervi vuol dire che ne vedremo delle belle… anzi assaggeremo delle bombe. Stay tuned!
Medico per vocazione e sommelier per passione. Mi sono poi riscoperto medico per passione e sommelier per vocazione. Sostieni il nostro progetto editoriale con una donazione a questo link.
NOVARA – Si è svolta lo scorso weekend, al Castello di Novara, la seconda edizione di “Taste Alto Piemonte”, evento dedicato alle dieci denominazioni delle provincia di Novara, Biella, Vercelli e Verbanio-Cusio-Ossola organizzato dal Consorzio di Tutela Nebbioli Alto Piemonte.
Nessuna nuvola su questa manifestazione in cui, anche nei momenti di maggiore affluenza – duemila presenze registrate complessivamente nei tre giorni di degustazione – si è respirata curiosità e letizia.
Cinquanta produttori presenti, con 150 vini in assaggio. Tutti dritti verso l’obiettivo di valorizzare i prodotti di un territorio che nulla ha da invidiare a zone più “blasonate” del Piemonte.
Vitigni protagonisti principalmente Vespolina, Uva Rara, Croatina e Nebbiolo in tutte le sue sfumature. Espressioni di un terroir unico, diviso tra zone alluvionali e zone vulcaniche, interpretazioni tanto diversamente affascinanti.
I MIGLIORI ASSAGGI Il nostro tour inizia al banchetto dell’azienda agricola Tiziano Mazzoni di Cavaglio d’Agogna in provincia di Novara con la degustazione del Colline Novaresi Doc Vespolina il Ricetto 2017.
Una Vespolina in purezza che fa solo acciaio. Di un bel colore rosso porpora, ha un naso intenso di fragolina di bosco. Un vino giovane che però resta teso e gustoso fino alla fine. Ha la giovialità di un Grignolino.
Della stessa azienda livello molto interessante anche per il Ghemme 2013 “Ai livelli”, un vino nato nel 2007 con una produzione di 1500 bottiglie. Solo sette mesi dall’imbottigliamento, ma già molto piacevole.
Diciotto mesi di tonneau e altrettanti di botte grande. Un naso fruttato che spazia dalla mora alla fragola, note balsamiche fin da subito e spezie. Freschezza, tannino intenso, ma maturo ed equilibrato. Lungo al retrolfattivo. Interessante il prezzo in cantina di 25 euro.
Poco più in là il banchetto di un’altra azienda di pregio, La Prevostura di Lessona in provincia di Biella. Colline di antiche sabbie marine, limi e argille sulle quali il Nebbiolo è perfettamente a suo agio. Un fuoriclasse il Lessona Doc 2014.
Nebbiolo 100%, fermentato in acciaio ed affinato in legno di secondo passaggio per circa 20 mesi per non snaturarlo. Una produzione di 2900 bottiglie. Non particolarmente intenso al naso, ma in bocca touché. Una mineralità ed una finezza da godere tutta.
#EPCI. E poi c’è Ioppa. Ne abbiamo parlato ampiamente già due anni fa, durante la manifestazione i Rossi del Rosa. Una tappa pressoché obbligata.
Al banchetto una selezione suddivisa tra vini più semplici, acciaio, fermentazioni veloci e poi vini più importanti: una Vespolina in purezza e tre Ghemme (85% Nebbiolo e 15% Vespolina) fermentazioni naturali, lunghe macerazioniche, quattro anni di legno e un anno / due in bottiglia.
Primo assaggio il Colline Novaresi Doc Rusin 2017. Un rosato da migliaia e migliaia di bottiglie che va all’estero prodotto con uve Nebbiolo.
Ha ancora una certa pungenza, ma resta un vino molto equilibrato e piacevole, comprensibile il suo successo. Siamo certi che in Italia, con una fetta di salame, sarebbe un temibile antagonista del Prosecco.
Il secondo assaggio è il Colline Novaresi Doc Vespolina 2012 Mauletta. Un vino prodotto da un vitigno sul quale Ioppa ha deciso di scommettere. Ampelografia e clima gli sono venuti incontro. Romagnano è il primo paese della Valsesia, gode tutto l’anno di un microclima particolare, di un venticello che giova particolarmente a quest’autoctono.
Tante ore in vigneto per questa uva, il doppio di quelle che servono per il Nebbiolo: foglioline piccole, grappoli che si intrecciano e vanno liberati e defogliati per far prendere luce e aria. Lavoro che regala però tanta soddisfazione in bottiglia. L’annata 2012 ha sei anni sulle spalle non sentiti. Molto giovane, molto fresco.
Sembra un Barbera. L’olfatto regala mirtilli, frutti rossi giovani, ma anche note floreali e spezie. Al palato ha una grande struttura: corpo deciso, tannino presente, ma pulito. Grande equilibrio e finezza. Dimostrazione che la Vespolina ha un grandissimo potenziale: non è solo un vino aspro, semplice, d’annata o da taglio, ma può regalare emozioni. Tanto di cappello.
Bella sorpresa (ritrovata) il Ghemme Docg Bricco Balsina e Santa Fe. Entrambi annata 2012. Balsina nasce da un vigneto giovane sito su un terreno sciolto di sabbia e sassi “marci” che si sgretolano, radici che affondano in profondità. Mineralità e ferrosità dal terroir all’assaggio. Il Balsina è dritto ed austero, con un tannino percepibile: vino “wow” dal finale lunghissimo. Il Santa Fe è ancora più corposo, rispetto al Balsina è spostato verso la morbidezza, finale di sottobosco.
Ci spostiamo da Ca’ Nova, azienda di circa dieci ettari ai piedi del Monte Rosa, a Bogogno. Un battaglione di vini meritevoli, con una menzione speciale per il Colline Novaresi Doc Nebbiolo San Quirico 2010.
Direttamente dalla vigna che l’azienda ritiene più territoriale, un cru. Naso molto sul frutto e sulla spezia, palato più ferroso e minerale. Un vino ematico. Nonostante gli 8 anni sulle spalle il tannino si fa sentire, non graffiante, ma polveroso.
Estremamente gradevoli anche il Ghemme Docg e Riserva dell’azienda. Azienda da approfondire, con una visita in cantina.
Proseguiamo gli assaggi memorabili di questa edizione di Taste Alto Piemonte. Si fa apprezzare anche la “neonata ” cantina Pietraforata che si trova nell’antico ricetto di Ghemme:, attività cominciata solo nel 2012, un futuro promettente.
Il calice d’entrée è rosè. Si tratta del Colline Novaresi Doc Orezza. Un nebbiolo rosato che con la vendemmia 2016 è stato premiato con la medaglia d’argento all’International Rosè Championship. 5000 bottiglie prodotte per quello che si rivela un ottimo vino estivo, fresco.
Pulito ed agrumato e con una bella sapidità. Di poca persistenza forse, ma che importa:beva talmente piacevole da immaginarla in cambusa in barca a vela. Sognante.
L’ ultimo assaggio è eccezionale e lo facciamo in provincia di Vercelli da Mauro Franchino, “vestale” al maschile del Gattinara. In degustazione la 2012. Vino fermentato in cemento che fa 4 anni di botte.
Naso sontuoso e sinuoso: un tripudio di frutti e spezie: ribes, fragola, mora, mirtillo cui si aggiungono note speziate di pepe e chiodi di garofano e anche un accenno balsamico. E’ con che ritmo incede al palato! In punta di piedi, elegante come una ballerina. Un crescendo rossiniano. Emozionante.
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BOCA – E’ il Piemonte meno raccontato e, forse, meno noto. Ma non per questo il Piemonte di “serie B”. A pochi chilometri da Novara, la Denominazione incastonata più a nord e più a est dell’intera regione: Boca. La fotografiamo grazie a una degustazione di quattro vini dell’Azienda Agricola Le Piane.
Boca è un borgo di poco più di mille anime, storicamente vocato alla viticoltura. Un’areale che comprende anche parte dei Comuni di Maggiora, Cavallirio, Prato Sesia e Grignasco. La depressione economica sta portando a una riscoperta della viticoltura nella zona: una delle pochissime forme di agricoltura praticabile tra queste colline di origine vulcanica.
Alle chiusure di grandi superfici commerciali e industriali lungo le vie che collegano i borghi del novarese, tra Omegna e il fiume Sesia, rispondono nuovi vigneti strappati ai boschi. Le Piane, di fatto, è un’azienda che cresce. Assestandosi oggi a 9 ettari vitati (7 a Boca Doc) e 50 mila bottiglie prodotte.
I vigneti allevati col sistema tradizionale del Quadrato alla Maggiorina hanno un’età media di 100 anni. Sono state impiantate quasi un secolo fa anche le vigne a filare. Nuova linfa è stata data tra 1995 e il 1998 e di nuovo nel 2014, con gli impianti più giovani.
Proprio agli inizi degli anni Novanta Christoph Kuenzli e Alexander Trolf acquistarono le proprietà del produttore locale Antonio Cerri. Avviando quella che oggi è una delle più stimate realtà della viticoltura piemontese e italiana: Le Piane.
LA DEGUSTAZIONE 1) Vino Rosso Maggiorina 2016 (12,5%). E’ il vino d’entrée della cantina di Boca. Quello destinato ad essere consumato nell’annata.
Ma soprattutto è uno di quei vini “base” in grado di dare la tara all’intera produzione di una cantina: un ingresso con le scarpe di velluto nell’elegante mondo dei Nebbioli di Le Piane.
Qui la percentuale scende volutamente al 50% del blend. Non a caso. Se l’obiettivo è quello del vino “pronto subito”, occorrono altri uvaggi oltre al Nebbiolo. La Croatina, per esempio, con un bel 30%.
Il 20% restante è costituito da altri 10 uvaggi vinificati assieme, due dei quali a bacca bianca: Vespolina, Uva Rara, Tinturiè, Dolcetto di Boca, Barbera, Slarina, Freisa, Turasa, Erbaluce (Greco Novarese) e Malvasia di Boca.
Il calice si tinge di un rubino trasparente, mentre al naso affiorano le attese note di frutti rossi. La breve macerazione si traduce, in bocca, in freschezza e fragranza.
Ingresso fruttato elegante per un “base”, impreziosito da un allungo scandito da rintocchi salini, su un tannino flebile ma comunque presente.
E’ il muscolo del Nebbiolo, che graffia la terra dell’antico vulcano, tramutatosi in collina. Quattordici euro non sono pochi, ma ogni singolo centesimo è speso alla grande per Maggiorina.
2) Vino Rosso Mimmo 2015 (12,5%). Nebbiolo 70%, completato da un 30% di Croatina prima dell’imbottigliamento. Due anni in legno grande da 25-28 ettolitri e immissione diretta sul mercato, senza ulteriore affinamento in bottiglia.
Rubino con sfumature granate. Frutto rosso più maturo al naso e maggiore complessità generale, rispetto a Maggiorina. La Croatina apporta al Nebbiolo una speziatura che non si tramuta esclusivamente in pepe nero, ma anche (e soprattutto) in liquirizia. Sorso al contempo minerale salino, carico e pieno, instancabile.
3) Boca Doc 2012 (13,5%). Sale ancora la percentuale di Nebbiolo, che col Boca Doc 2012 Le Piane raggiunge l’85%. Completa il blend un 15% di Vespolina.
La selezione delle uve, in questo caso, è ancora più serrata. Se l’annata lo consente (cosa sin ora avvenuta nella maggior parte dei casi) la raccolta dei due uvaggi avviene contemporaneamente.
La macerazione è lunga e può variare da un minimo di 25 a un massimo di 35 giorni, in base alle condizioni della vendemmia. L’affinamento è di 4 anni in botte grande, più 6 mesi (minimo) in bottiglia.
Il naso del Boca Doc 2012 Le Piane si rivela complesso e di elaborata finezza. L’aggiunta di Vespolina contribuisce a colore e speziatura.
Un calice che rivela, oltre ai classici frutti rossi del Nebbiolo, anche chiari sentori di arancia rossa, sino a richiami balsamici, freschi. In bocca il tannino spinge, ma è ben integrato. Un vino pronto, con ampi margini di ulteriore evoluzione in bottiglia.
4) Boca Doc 2009 (13,5%). La tecnica di vinificazione è identica alla 2012, per un’annata in bottiglia da settembre 2013. Naso fine e ammaliante, dominato da note di frutti rossi maturi, con una punta di mora.
Non manca il solito apporto speziato: liquirizia, ma anche zenzero e tabacco dolce. In bocca frutta croccante, tannino perfettamente integrato ma ancora più che mai vivo.
Lungo il retro olfattivo, che rivela una sorprendente pennellata morbida di vaniglia bourbon. Un motivo in più di richiamo per un sorso fruttato e balsamico, connotato dalla solita vena salina. Gran vino.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Il nome Piemonte deriva dal latino Pedemontium, cioè la regione situata “ai piedi dei monti”. In origine tale nome era limitato a un territorio molto più ristretto dell’attuale, compreso tra il corso superiore del Po e il Sangone.
In seguito si estese sempre più, seguendo le fortune dei Savoia, fino a comprendere il Canavese, il Monferrato, le Langhe, le valli alpine, il Vercellese e il Novarese.
Proprio le Langhe e il suo vitigno principe, il Nebbiolo, sono l’oggetto del nostro wine tour. L’etimo del nome “Langa”, che in piemontese indica proprio la collina, è incerto. L’ipotesi più accreditata è quella di “lanka” con il significato di “conca, avvallamento”.
Le Langhe sono una regione del Piemonte situata a cavallo delle provincie di Cuneo e di Asti, confinante con altre regioni storiche del Piemonte, quali il Monferrato ed il Roero ed è costituita da un esteso sistema collinare delimitato dai fiumi Tanaro, Belbo, Bormida di Millesimo e Bormida di Spigno.
IL NEBBIOLO
L’origine del nome, un tempo scritto “Nebiolo”, pare derivare dal latino “nebia”, probabilmente dovuto al fatto che il periodo di raccolta è quello in cui le prime nebbie iniziano a salire dal fiume Tanaro verso la sommità delle colline.
Un’alternativa a tale ipotesi è collegata alla pruina biancastra che ricopre gli acini: la “pruina”, una cera secreta che produce un rivestimento biancastro sugli acini, concentrando sulla loro superficie i lieviti.
Il termine Nebbiolo apparve per la prima volta nelle Langhe il primo dicembre 1431, ed era riferito ad una varietà di vitis vinifera che qui aveva trovato il suo habitat naturale, e dai cui grappoli si otteneva un vino già allora lodato ed apprezzato.
In tutto il territorio delle Langhe il Nebbiolo viene considerato il re dei vitigni: ad esso vengono riservati i terreni migliori, vale a dire i versanti collinari esposti a mezzogiorno, con altitudine compresa tra i 200 e i 400 m slm.
Si tratta di una varietà molto vigorosa che richiede potatura lunga con 10-12 gemme, il cui bisogno di spazi si accentua grazie alla sterilità delle prime 2-3 gemme, che impediscono un infittimento d’impianto sul singolo filare; a tale scopo è possibile ridurre la distanza tra i filari.
Le Langhe si sono formate durante il Miocene (da 15 a 7 milioni di anni fa), per sedimentazioni successive di rocce prevalentemente terrigene (conglomerati, arenarie, argille).
I terreni delle zone del Barolo e del Barbaresco, formatisi in età Elveziana (era geologica che va da 15,97 a 13,82 milioni di anni fa, e Tortoniana, che va tra 7, 24 e 11,60 milioni di anni fa) sono composti da marne argillo- calcaree sedimentarie intervallati da strati di sabbia più o meno compatta e da arenarie di colore grigio- bruno.
BAROLO E BARBARESCO I terreni delle zone del Barolo e del Barbaresco si sono venuti a formare in Età Elveziana e Tortoniana e sono prevalentemente composti da marne argillo- calcaree sedimentarie, intercalate in strati di marne più o meno importanti di colore grigio- azzurro (dette Marne di Sant’Agata) e da strati di sabbia o arenarie di colore grigio- bruno e giallastro ( le così dette Arenarie di Diano).
Le Marne di Sant’ Agata che troviamo nei comuni di La Morra e Barolo danno origine a vini eleganti, profumati dalla maturazione un po’ più veloce, mentre le Arenarie di Diano (presenti nelle zone di Castiglione Falletto e in parte in quelle di Monforte) danno origine a vini più alcolici, più robusti e più longevi. Nella zona del Barbaresco predominano le Marne di Sant’Agata di origine tortoniana.
Nell’ambito di una zona completamente caratterizzata dal clima continentale temperato, i dati termici dimostrano che il comprensorio del Barbaresco gode di temperature lievemente superiori, rispetto ai comuni di Barolo con conseguente anticipazione della maturazione delle uve e della vendemmia di circa una settimana.
Nelle Langhe il mese più piovoso è maggio che registra precipitazioni medie vicine ai 100 millimetri, seguito da aprile (circa 80) e settembre (vicino ai 70). È evidente che l’influenza della pioggia può essere notevole sia in fase di fioritura (dove è in grado di determinare riduzioni produttive anche consistenti) sia in fase di raccolta (dove periodi di pioggia prolungata possono comportare problemi di muffe o marciumi).
Più in generale, modificando sensibilmente la qualità del prodotto finale. L’eccesso di pioggia nel periodo pre vendemmiale può, provocare una caduta di acidità non supportata da un incremento di zuccheri. Il Nebbiolo è senza dubbio un vitigno resistente, la zona è caratterizzata da una luminosità decisamente alta, che garantisce l’ottimale svolgimento della fotosintesi clorofilliana.
Altro fenomeno meteorologico di particolare rilievo è costituito dalla grandine, che può avere conseguenze sia sulla quantità dell’uva: in annate particolarmente flagellate si può arrivare a riduzioni complessive del 20-30%, con alcune zone in cui l’uva viene completamente rovinata, come è avvenuto nei raccolti del 1986 e del 1995. Per fortuna, la grandine non si avverte mai in modo generalizzato su tutta la zona, limitandosi a qualche fascia collinare.
GASTRONOMIA NELLE LANGHE: GLI ABBINAMENTI CIBO-VINO “Non di solo pane vive l’uomo”, Matteo 4,4 e Luca 4,4. Ma resistere, in Langa, è quasi impossibile. La cucina piemontese ha sicuramente risentito, nel corso dei secoli della vicinanza di quella francese, ma pur subendone l’influsso, ha conservato una sua inconfondibile fisionomia di schiettezza ed originalità.
Il Piemonte è una regione che offre ai visitatori una vastissima gamma di antipasti caldi e freddi, come i crostini di tartufo d’ Alba, il carpaccio di carne cruda condita con olio extra vergine d’oliva e una spolverata di pepe nero, i salumi crudi e cotti nel cui impasto viene messo spesso del vino nobile maturo come Barolo, Barbaresco, e Barbera d’Alba. Per gli antipasti sarebbe opportuno stappare un buon Barbera.
Tra i primi piatti, i più importanti e ricercati sono gli agnolotti del plin, nome che deriva dal gesto fatto per chiudere la pasta, ripiena in più versioni con carne magra, arrosto o al tartufo.
Da non dimenticare i tajarin al tartufo, pasta fatta in casa con 30 tuorli d’ uovo per chilo di farina, tagliata molto fine, condita con abbondante burro, parmigiano reggiano e sottili scaglie di tartufo. Da abbinare un Barbaresco.
Passando alle pietanze più ricercate dagli amanti della buona cucina, ricordiamo il brasato al Barolo, manzo marinato e stufato lentamente nel vino omonimo da abbinarsi con lo stesso Barolo con cui si è marinata la carne.
GAJA: LA STORIA La famiglia Gaja si stabilì in Piemonte a metà del diciassettesimo secolo. Cinque generazioni si sono alternate nella produzione di vino da quando Giovanni Gaja, nel 1859, fondò la cantina a Barbaresco, nelle Langhe.
Il bisnonno di Angelo, Giovanni, titolare di una fiorente attività di trasporti che sa far rendere il duro lavoro suo e dei suoi figli, cinque maschi e due femmine. tanto da lasciare in eredità una cascina ad ognuno di loro. Tre dei suoi figli la dilapideranno al gioco.
Fu nonna Tildin, vedova dal 1944, a reggere le redini della cantina che allora vendeva vino soltanto a privati. Privati illustri, come i Somaini di Milano, gli Zegna, i Nasi: famiglie con lo chef in cucina e la cantina colma di grandi vini francesi, che ordinavano le damigiane di Barbaresco per il consumo “da pasto”.
Il vino si vendeva, dunque, con cadenze tranquille, senza affanni: poteva restare anche dieci anni in vasca, in attesa che arrivassero i compratori. Già da allora, per volere di nonna Tildin si seguiva una politica di rigore di produzione, votata all’alta qualità.
Quando Angelo Gaja entra in azienda, nel 1961, trova una situazione economica invidiabile, un nome già famoso in Italia, oltre a 33 ettari di splendide vigne nell’areale di Barbaresco. Quando nel 1965-66 sente l’esigenza di entrare nella grande ristorazione, ha già a disposizione un’eccellente gamma di vini.
Poi nascono i cru: il primo, Sorì San Lorenzo, è del 1967. Nel 1970 entra in azienda l’enotecnico Rivella; nasce nello stesso anno Sorì Tildin, seguito nel 1978 da Costa Russi. Nel territorio delle Langhe vi sono terreni ed esposizioni dalla vocazione straordinaria, non soltanto atti a produrre grandi vini, da varietà autoctone, ma anche in grado di esprimere vini di qualità superiore anche da varietà non tradizionali, quali: Chardonnay e Sauvignon blanc.
LA DEGUSTAZIONE 1) BARBARESCO 2011 DOCG Uve: Nebbiolo 100% Titolo alc. Vol. 14,5%. Barrique e botte grande. Prezzo: 135 euro
Nel calice si presenta di colore rosso rubino, i suoi profumi sono di note scure, eleganti e profondi. Si percepiscono nettamente sentori di humus, funghi, sottobosco, foglie, in successione si presentano note fruttate di giuggiole, e note floreali di violetta oltre ad una leggera volatile.
Alla gustativa non delude rispecchiando alla perfezione tutto ciò che si è percepito all’olfattiva: il tannino è presente, ma non invadente, la freschezza e l’acidità si sorreggono e spalleggiano formando in degustazione due binari paralleli e ben distinti.
2) SORI’ SAN LORENZO 2011 LANGHE NEBBIOLO DOC Uve: Nebbiolo 95% Barbera 5% Titolo alc. Vol 14,5% Barrique e botte grande. Prezzo: 300 euro Granato non impenetrabile. Forte presenza di note scure di humus foglia di tabacco, legno di cedro; in seconda battuta sentori di erbe aromatiche. Le componenti olfattive sono di notevole spessore ed eleganza.
Anche all’assaggio a farla da padrona sono queste note scure: sapido e piacevolmente tannico, chiude con un finale di bocca pulito.
3) SORI’ SAN LORENZO 2004 LANGHE NEBBIOLO DOC Uve: Nebbiolo 95% Barbera 5% Titolo alc. Vol 14,5% Barrique e botte grande. Prezzo: 220 euro Granato luminoso. Impianto olfattivo molto generoso e complesso con note di arancia rossa, bouquet salino-salmastro con sentori di conchiglia, salamoia. Alla gustativa vi è una buona interazione tra parte acida, sapidità e tannino. La parte acida si percepisce in maniere preponderante sorreggendo l’intero vino.
4) GAYA&REY 1993 MAGNUM Uve: Chardonnay 100% Titolo alc.Vol 13,5% Botte grande.
Colore oro-verde brillante. Naso burroso, fumè, minerale con sentori riconoscibili nella frutta secca, frutta esotica, canna di fucile. Alla gustativa si percepisce una buona tridimensionalità, con freschezza centrale che racchiude una buona morbidezza e sapidità con una nota lunga burrosa in chiusura.
CANTINA CAVALLOTTO, TENUTA VITIVINICOLA BRICCO BOSCHIS La Tenuta Cavallotto si trova alle porte di Castiglione Falletto, nel cuore della zona del Barolo, sul Bricco Boschis, ed occupa una superficie di 23 ettari vitati.
I Cavallotto sono proprietari e produttori da generazioni: Giacomo ed i figli Giuseppe e Marcello acquistano nel 1928 la tenuta Bricco Boschis ed insieme continuarono a lavorare come viticoltori nei vigneti attorno alla cantina.
A quel tempo, gran parte delle uve era venduta alle cantine commerciali e solo una parte di essa vinificata nella proprietà per la vendita in bottiglia e in damigiana.
Nel 1944, Giuseppe e i figli Olivio e Gildo decisero di vinificare interamente le uve prodotte e nel 1948 nacque, ufficialmente, la Cantina Cavallotto con la commercializzazione delle proprie bottiglie etichettate. Ad oggi i figli di Olivio, Laura e i fratelli Giuseppe ed Alfio, entrambi enologi continuano a vinificare esclusivamente le uve prodotte nella tenuta e da loro dipende l’impostazione tecnica dell’azienda e la produzione dei vini.
Il pregio di questi vini deriva da un’interessante combinazione di svariati fenomeni: l’uomo con il suo attaccamento alla terra e a una civiltà contadina che dalla terra ha tratto le sue origini più remote; la lunga esperienza sul vino maturata negli anni; gli sviluppi costanti e la crescita della tecnica enologica e agronomica; e soprattutto, le condizioni pedoclimatiche di cui gode questa zona di Langa.
LA DEGUSTAZIONE 1) BARBERA D’ALBA SUPERIORE 2011 Vigna del Cuculo Uve: Barbera 100% Titolo alc. Vol. 14,5% Maturazioni in botte di Slavonia per 2 anni. Prezzo: 24 euro Rosso granato. Al naso si percepisce nettamente un frutto croccante molto accentuato (ciliegia, fragola, marasca), ma anche sentori di terziarizzazione quali cuoio, pellame, spezie dolci (ginepro). Alla gustativa si percepisce un tannino lieve e vellutato ed una marcata acidità. Un vino di gran classe.
LANGHE NEBBIOLO 2011 Uve: Nebbiolo 100% Titolo alc Vol. 14,5% Botte grande per 18 mesi. Prezzo:17 euro Colore granato. All’olfattiva si percepiscono sentori scuri e che escono con difficoltà dopo una lunga areazione nel bicchiere, di china, spezie, liquirizia, frutti maturi di prugna, ciliegia, pera. Alla gustativa si percepisce un calore leggermente cadente sull’acidità. Sfuma con erbe mediterranee. Lascia in bocca una sensazione alcolica troppo presente.
BAROLO RISERVA VIGNOLO 2008 Uve: Nebbiolo 100% Titolo alc. Vol. 14,5%. Quattro anni in grandi botti di rovere di Slavonia da 50 hl. Prezzo: 75 euro Rosso granato. Bouquet fruttato floreale si percepiscono note delicate e gradevoli di rosa, miele, prugna matura, giuggiole. Al gusto è “monocorde” esclusivamente fruttato con un tannino presente, ma levigato e piacevole. Uno splendido vino, un Barolo di assoluto riferimento.
CONCLUSIONI
Il 22 giugno 2014 durante la trentottesima sessione di comitato Unesco a Doha, le Langhe sono state ufficialmente incluse, insieme a Roero e Monferrato nella lista dei beni Patrimonio Mondiale dell’Unesco.
Svegliandosi a La Morra, spostando le tende oscuranti per far entrare la luce del giorno, ti si palesa davanti uno spettacolo mozzafiato, con vigneti a perdita d’occhio. Ricoperti da una nebbia fitta, ma sottile.ù
A rendere emozionante questa visuale è stata proprio la nebbia. Nebbia che nei giorni successivi riesce a farsi odiare, restandoti incollata addosso. Un po’ come il sole delle Puglie, che ti entra nelle ossa, ma con effetti differenti.
Che il Barolo sia il re dei vini è ormai noto a tutti. Ma quello che non sanno tutti è che anche la cucina langarola non è da meno. E si sposa magnificamente con un qualsiasi vino ottenuto da Nebbiolo. Che sia Barolo, Barbaresco, giovane o invecchiato.
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