Più fenoli nei rossi e più acidità nelle basi spumanti. L’ultima ricerca sui portainnesti M rivela che non fungono solo da barriera contro la siccità e il calcare, ma rappresentano un vero e proprio veicolo «per ottenere una qualità superiore nei vini». Lo studio è stato condotto dal team dell’Università di Milano guidato dai professori Attilio Scienza e Lucio Brancadoro, con il supporto di Winegraft, società che riunisce alcune delle principali realtà vitivinicole italiane.
La nuova generazione dei portainnesti M si sta così rivelando una soluzione efficace non più solo per gestire le conseguenze dei cambiamenti climatici, ma anche per affrontare in modo diverso il complessivo cambio di orientamenti del gusto da parte dei consumatori in tutti i mercati mondiali. La tipologia contrassegnata dalla sigla M è associata principalmente alla ricerca e allo sviluppo in viticoltura condotto dall’Istituto di Miglioramento Genetico della Vite di Montpellier, in Francia. Grazie al lavoro di Vivai Cooperativi Rauscedo, la diffusione dei portainnesti M è ormai ottimale in tutti i principali territori vitati d’Italia.
PORTAINNESTI M: LA NUOVA FRONTIERA PER LA QUALITÀ DEI VINI
La sorprendente scoperta arriva dopo oltre venti anni di sperimentazioni e microvinificazioni in dieci diverse aree produttive, dal Piemonte alla Sicilia. Lo studio ha dimostrato che i “4 moschettieri” della serie M (M.1, M.2, M.4, M.5) non solo garantiscono resistenza agli stress ambientali, ma offrono anche prestazioni produttive e qualitative superiori, influenzando aspetti chiave come il vigore, la maturazione tecnologica, fenolica e aromatica delle uve. «La portata di questa ricerca è davvero rivoluzionaria», ha dichiarato Marcello Lunelli, presidente di Winegraft,Winegraftla società che da dieci anni sostiene lo sviluppo dei portainnesti M, distribuiti in esclusiva dai Vivai Cooperativi Rauscedo. Vivai Cooperativi Rauscedo
«Da oggi – ha aggiunto – non dobbiamo più considerare i portainnesti solo come una barriera contro fillossera, siccità e altre avversità, ma come strumenti biologici per migliorare la qualità dell’uva e del vino». Attilio Scienza ha sottolineato come questa scoperta porti la viticoltura in linea con altri ambiti delle colture arboree, dove il portainnesto è riconosciuto come un fattore cruciale per il miglioramento qualitativo. «È stato un lavoro complesso e lungo oltre due decenni – ha spiegato – a causa delle molteplici interazioni tra portainnesto, ambiente di coltivazione e vitigni. Tuttavia, abbiamo finalmente dimostrato che il portainnesto può influire in maniera diretta sulla qualità delle uve e dei vini».
Lucio Brancadoro, coautore dello studio, ha evidenziato come la ricerca abbia permesso di chiarire l’impatto dei portainnesti M sulle performance produttive e qualitative della vite. «In diverse combinazioni d’innesto con vitigni rossi e bianchi – ha spiegato – abbiamo osservato non solo l’estrema adattabilità dei portainnesti M ai vari ambienti italiani, ma anche la loro capacità di regolare le risposte della vite agli stress abiotici, sempre più estremi a causa del cambiamento climatico». Questa regolazione permette un decorso maturativo più favorevole, premessa essenziale per ottenere vini di alta qualità.
RISULTATI CONCRETI: FENOLI NEI ROSSI E ACIDITÀ NEGLI SPUMANTI
Le sperimentazioni condotte su vitigni iconici come Cabernet Sauvignon, Chardonnay, Nero d’Avola e Sangiovese hanno confermato le straordinarie potenzialità dei portainnesti M.
Nel Cabernet Sauvignon, i portainnesti M hanno garantito risultati produttivi bilanciati, con elevati livelli di zuccheri e concentrazione fenolica.
Per lo Chardonnay in Franciacorta e Trento Doc, si è registrata una maggiore acidità titolabile, con prevalenza di acido malico, e un pH inferiore, elementi fondamentali per la produzione spumantistica di qualità. I vini ottenuti sono risultati più intensi, aromatici e con una struttura olfattiva complessa, arricchita da note di frutta tropicale.
Un aspetto determinante è emerso anche nei vini rossi. Nei campi sperimentali, le uve di Nero d’Avola, Cabernet Sauvignon e Sangiovese hanno mostrato una maggiore concentrazione di polifenoli, una tonalità più accesa delle sostanze coloranti e una persistenza cromatica superiore durante l’affinamento. Questi parametri influenzano direttamente la qualità dei vini, rendendoli più strutturati e longevi.
«PORTAINNESTI M PER VINI DI QUALITÀ SUPERIORE»
Un altro aspetto innovativo riguarda la composizione aromatica delle uve. «I portainnesti M influenzano il metabolismo secondario della vite, con effetti diretti sulla qualità aromatica», spiega Brancadoro. Le analisi su Chardonnay e Sangiovese hanno rilevato incrementi significativi di composti aromatici come tioli, esteri etilici, fenoli e norisoprenoidi, che contribuiscono alla complessità dei vini ottenuti.
«Questa scoperta – conclude Marcello Lunelli – ci porta a riconsiderare completamente il nostro approccio ai portainnesti. La prova scientifica del loro ruolo nella qualità del vino sottolinea l’importanza di una scelta oculata della combinazione d’innesto, che tenga conto non solo delle caratteristiche varietali e ambientali, ma anche degli obiettivi enologici da raggiungere». Con i portainnesti M, una buona parte della viticoltura italiana promette di entrare in una nuova era. In cui sostenibilità e qualità si uniscono, per affrontare le sfide di un mercato sempre più esigente e di un clima in continuo cambiamento.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Fondazione Vino Patrimonio Comune è realtà. Soci fondatori Federvini e Alleanza delle Cooperative Italiane -Agroalimentare, che si pongono così l’obiettivo di «consolidare il valore del vino italiano e a contribuire alla difesa e al sostegno del patrimonio delle imprese vitivinicole del Paese», sotto la guida del primo presidente, Marcello Lunelli (Cantine Ferrari Trento). In particolare, la Fondazione opererà per «studiare i profili di autenticità e sostenibilità di prodotti, imprese e territori, qualità alla base dell’apprezzamento del Made in Italy nel mondo».
«Quello della Fondazione Vino Patrimonio Comune – spiegano i promotori – è un percorso avviato nel 2020, con uno studio preliminare sulla variabilità dei rapporti degli isotopi stabili dell’ossigeno e dell’idrogeno dell’acqua del mosto/vino, in relazione alle principali variabili naturali e di processo agronomico ed enologico. Dal progetto pilota è derivata la definizione del profilo isotopico dell’acqua dei mosti e dei vini, grazie al quale iniziò a prendere forma la prima Banca Dati Sperimentale Vino Patrimonio Comune 2020-2023».
Uno studio che, a partire dalla vendemmia del prossimo anno, si amplierà ancora coinvolgendo un maggior numero di attori delle istituzioni, della ricerca, delle imprese, degli enti di certificazione e degli stakeholder commerciali del mondo del vino. Come spiegano i promotori di Fondazione Vino Patrimonio Comune, accanto al primo presidente Marcello Lunelli ci sono il vicepresidente Luca Rigotti (Gruppo Mezzacorona e Coordinatore del settore vitivinicolo di Alleanza delle Cooperative) e un Consiglio di Amministrazione paritetico in rappresentanza delle due associazioni fondatrici, di un Comitato Esecutivo e di un Comitato Scientifico composto da «autorevoli esponenti del mondo della ricerca con una comprovata esperienza nel settore agroalimentare e in quello vitivinicolo».
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
TRENTO –Ruben Larentis, enologo e direttore tecnico di Ferrari Trento, ha ricevuto a Londra il “Lifetime Achievement Award” in occasione di The Champagne & Sparkling Wine World Championships 2019.
“Un premio – commenta la cantina trentina di proprietà della famiglia Lunelli – che rende onore al mirabile lavoro che porta avanti da oltre trent’anni”. Sessant’anni, trentino, diploma all’Istituto Agrario di San Michele all’Adige, Ruben Larentis è entrato alle Cantine Ferrari nel 1986.
Ha saputo raccogliere il testimone di un grande maestro, Mauro Lunelli, per quasi quarant’anni l’enologo principe di Casa Ferrari e, a fianco di Marcello Lunelli, Vicepresidente, creare etichette uniche e di grande prestigio.
“Questo riconoscimento – commenta Ruben Larentis – è per me particolarmente significativo sia per la sua portata internazionale, sia perché si accompagna ad un risultato straordinario per i vini a cui mi dedico, anima e corpo, da 34 vendemmie”.
“Premia un sistema di lavoro che mira sempre all’eccellenza e una squadra che si distingue per passione, capacità, cultura enologica. E proprio al team che mi affianca ogni giorno va la mia riconoscenza. Dedico il premio a mia moglie e a mia madre: è il mio modo di ringraziarle per la loro silenziosa presenza”, conclude Larentis.
The Champagne & Sparkling Wine World Championships deve la sua importanza e il suo prestigio soprattutto all’autorevolezza del suo fondatore, Tom Stevenson.
È autore della Christie’s World Encyclopedia of Champagne & Sparkling Wine di cui è appena uscita la quarta edizione, realizzata con il prezioso supporto di Essi Avellan, anch’essa grande esperta di bollicine e membro della giuria di The Champagne & Sparkling Wine World Championships.
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Dalla capitale Ferrari, Trento, ai feudi di Podernovo (Terricciola, Toscana) e Castelbuono (Bevagna, Umbria). E’ un triangolo ideale quello che unisce le Tenute Lunelli, dal nord al centro Italia.
Un tour di 584 chilometri, macinati (volentieri) per raccontare l’idea imprenditoriale di una delle famiglie del vino più eleganti e illuminate del Paese. Capace di rinnovarsi e, al contempo, restare saldamente attaccata alle tradizioni più genuine.
Alle classiche “bollicine” Trento Doc, di cui è simbolo Ferrari, la terza generazione della famiglia Lunelli ha voluto affiancare la produzione di vini rossi fermi. Lo ha fatto scegliendo due delle zone più vocate d’Italia: i Colli Pisani (Tenuta Podernovo) e l’Umbria (Tenuta di Castelbuono, 35 Km a sud di Perugia).
Nei primi anni Duemila, entrano così nel “portafoglio” dei Lunelli il Sangiovese, il Merlot e il Cabernet Sauvignon toscano. E il Sagrantino umbro. Tutti vitigni nobili, capaci di raccontare come pochi il terroir d’appartenenza.
Per i vini bianchi fermi, del resto, la famiglia Lunelli si affida all’ormai collaudatissima Tenuta Margon, a meno di 5 Km dalla sede produttiva trentina di via del Ponte, 15.
Chardonnay, Pinot Nero, Sauvignon, Incrocio Manzoni e Pinot bianco i vitigni allevati in un contesto mozzafiato, tra le ripide colline che dominano la valle scavata dal fiume Adige.
Insomma: anche se il tour delle Tenute Lunelli è ancora affidato alla buona volontà dei visitatori (è allo studio un servizio di collegamento “istituzionale”, che coinvolgerà in una prima fase la cantina toscana e quella umbra) i chilometri da affrontare in auto sembrano un lontano ricordo, una volta giunti alle varie destinazioni.
L’accoglienza, in loco, è garantita in particolare in Toscana: Casale Podernovo costituisce infatti l’opera di recupero delle case dei fattori, restaurate e rese ancora più accoglienti dalla presenza di una splendida piscina, con vista sui vigneti.
In Umbria, Tenuta Castelbuono di Bevagna è invece l’opera del maestro Arnaldo Pomodoro: il Carapace. Una cantina a forma di guscio di tartaruga la cui parte esterna sta mutando nel tempo, sotto l’azione degli agenti atmosferici che stanno ossidando le placche di rame. Integrando sempre di più l’edificio con l’ambiente circostante.
Qui l’accoglienza non è prevista. Ma tutt’attorno è un tripudio di piccoli e grandi alberghi. Di borghi e di viuzze caratteristiche. Di monumenti e di ristoranti-enoteche, come l’Osteria Antiche Sere di Luciano Sabbatini, da visitare per testare la vera cucina locale.
Anche in Trentino, ovviamente, l’offerta ricettiva non manca. Con la possibilità di scegliere una struttura nell’accogliente città di Trento o negli ancora più tranquilli dintorni, spingendosi verso la vicina e bella Rovereto.
TENUTA PODERNOVO Il nostro tour inizia dalla Toscana. Da un paesello di 4.500 abitanti, Terricciola, che sta ai Colli Pisani come Greve sta al Chianti. Ad accompagnarci nella visita di Tenuta Podernovo c’è un pezzo di storia dell’enologia italiana: Corrado Dalpiaz. Tessera numero 63 di Assoenologi.
“Tanto per i pomi torna”: la madre di Corrado, nel 1968, rassicurava così il marito. Era convinta che il figlio, diplomatosi a San Michele all’Adige (classe 6ª S) e in partenza per il suo primo “viaggio-lavoro”, sarebbe tornato a breve, per la raccolta delle mele (i “pomi”, appunto).
L’enologo trentino, invece, ha trovato in Toscana la sua nuova patria. Prima a Montescudaio, dove contribuì a istituire l’omonima Doc. Poi a Podernovo. “Fu Mauro Lunelli a chiamarmi – spiega Dalpiaz – nel 2000. Forte della nostra decennale conoscenza, dal momento che a San Michele eravamo compagni di banco, mi colpì al cuore, proponendomi di guidare il progetto delle tenute toscane”.
Sessanta ettari complessivi, di cui 25 vitati per il 70% a Sangiovese. Seguono Merlot, Cabernet Sauvignon e Franc. Un ettaro è destinato al re dei vitigni a bacca rossa del Trentino: il Teroldego. “Abbiamo scoperto che ne è permessa la coltivazione sui Colli Pisani e lo abbiamo voluto, quasi per forza di cose, nei nostri vigneti”.
Il Teroldego, di fatto, svolge a Podernovo la funzione del Colorino: con i suoi antociani, “trentinizza” (anche se in minima parte, con 1-2% di addizione nei blend) i vini rossi prodotti a Terricciola.
In vigneto, le pratiche sono quelle dell’agricoltura biologica. La certificazione arriverà a breve: il percorso – fortemente voluto da Marcello Lunelli che, dopo Trento, mira a estenderlo a tutte le Tenute – è iniziato nel 2009. Trattamenti di solo rame e zolfo, utilizzo di insetti antagonisti e pratica del sovescio sono ormai una consuetudine.
La novità, introdotta per la prima volta in Italia nel 2005 dalla famiglia Lunelli, proprio a Podernovo, è l’utilizzo di un macchinario che consente di stabilire lo stato di “salute” delle piante.
“Un sistema a infrarossi – spiega Dalpiaz – che ci aiuta a capire quando e dove raccogliere esattamente l’uva, attraverso una stima scientifica della vigoria del singolo ceppo”.
Ne scaturisce una mappa, con chiazze di diversi colori. Le aree identificate con il colore verde sono quelle del “Libro dei sogni”. Da lì, sotto la guida del responsabile dei vigneti, Filippo Accardi, le squadre di vendemmiatori raccoglieranno le uve destinate ai “cru” di Podernovo.
Ci spostiamo poi in cantina, dove l’ultima novità sono le anfore e gli orci di Manetti, su cui sono in corso alcuni esperimenti (in particolare sul Sangiovese, con buoni risultati). Splendida e moderna la struttura, in cui non manca un collegamento con il Trentino.
A partire dalla progettazione, riservata allo studio di architettura Giorgio e Luca Pedrotti. Passando per i materiali: il tetto in legno, perfettamente abbinato al “sasso” recuperato nelle campagne circostanti, riporta alla mente la tipica ambientazione montana. Moderna e funzionale anche la barricaia, inaugurata nel 2005.
LA DEGUSTAZIONE
I vini prodotti a Tenuta Podernovo (150 mila bottiglie complessive) sono Aliotto (60% Sangiovese, 20% Cabernet Sauvignon, 20% Merlot) e Teuto (65% Sangiovese, 30% Merlot, 5% Cabernet Sauvignon).
Ma due nuove etichette completeranno l’offerta tra fine settembre 2018 e gli inizi del 2019. Per un totale di 7-8 mila bottiglie. Si tratta di un Cabernet Franc (barrique nuove, il primo che sarà presentato) e di un Sangiovese (tonneaux, barrique, botte grande), entrambi vinificati in purezza.
“La Denominazione – anticipa l’enologo Dalpiaz – sarà ‘Igt Costa Toscana’, che affiancherà l’Igt Toscana e comprende i territori di Massa, Lucca, Livorno, una parte della provincia di Pisa e Grosseto. Sono due selezioni delle migliori uve identificate in mappa come ‘Libro dei sogni’, ottenute da vigneti di 15 anni, in occasione della vendemmia 2015”.
Entrambi i vini degustati convincono, per motivi diversi. Ma il fil rouge che li lega è evidente. La grande eleganza e finezza, coniugata in maniera più “pop” in Aliotto e in versione “luxury” in Teuto.
Aliotto, acquistabile anche al supermercato (è presente per esempio nell’assortimento Esselunga e in quello de Il Gigante) è un vino rosso che si presta anche a un consumo “estivo”, a una temperatura più fresca rispetto al consueto.
Di Teuto degustiamo la vendemmia 2015. Vino più complesso e gastronomico rispetto al “fratello minore” Aliotto (2 anni in legno e 6 mesi in bottiglia, prima della commercializzazione) perfetto per abbinamenti più complessi in cucina.
Splendida la trama tannica, ben definita al palato, capace di mostrare ulteriori margini di miglioramento del nettare. Quelli che sono evidenti in Aliotto 2001, il vero “colpo di scena” della degustazione guidata da Dalpiaz.
Un vino che non è in commercio, di cui i Lunelli conservano gelosamente alcune decine di bottiglie per le occasioni speciali. Il colore tiene, evidenziando sfumature solo vagamente granate.
Il naso si apre su un ventaglio infinito di profumi, dalla terra bagnata al tartufo, passando per il frutto rosso, la macchia mediterranea e i richiami balsamici.
Il palato non delude: il tannino di pura seta accompagna una beva giocata su frutta, mineralità e balsamicità. Chapeau. Un rosso che ricorda, per certi versi, i Brunello del versante grossetano.
TENUTA CASTELBUONO Dicono tanti testimoni che, durante la realizzazione del Carapace, quest’angolo di Umbria disegnato col pennello sulle colline di Bevagna (PG) fosse capace di ricordare le scene immortalate in certi quadri rinascimentali.
Una “bottega” a cielo aperto. Fra 30 ettari di vigneti. Un vespaio di artisti, architetti, progettisti e operai. Tutti guidati dal maestro Arnaldo Pomodoro. E’ il 2001 quando la famiglia Lunelli dà inizio ai lavori del Carapace, aperto al pubblico nel 2012.
Una vera e propria cantina-opera d’arte, capace di coniugare come poche l’idea di “Bello” e di “Buono”. Dalla spina vertebrale centrale si dipanano le volte, che poggiano a terra sinuose e leggere, grazie alla dinamicità delle ampie vetrate.
Un edificio vivo, dall’anima aperta e accogliente: il cuore è la barricaia, raggiungibile discendendo una rampa di ampie scale vorticose. Un’ambientazione idilliaca ospita le botti di legno, sotto al livello del terreno. Ma le pareti sono azzurre, illuminate. E ricordano il cielo, in una bella giornata di sole.
All’esterno, un dardo rosso conficcato nel terreno segnala la presenza del Carapace a diversi chilometri di distanza. Un punto, nel terreno. L’ennesimo collegamento tra un’estetica divina e ciò che c’è di più terreno: il suolo. E gi uomini che lo popolano.
LA DEGUSTAZIONE Ammaliati da tanta bellezza, il vino non può che completare un’esperienza che non è eccessivo definire “mistica”. I vini di Tenuta Castelbuono sono in evoluzione, ancor più dei rossi di Podernovo.
E non è solo una questione di uvaggio (il Sagrantino richiede e merita un lungo affinamento, per le sue caratteristiche).
L’arrivo del noto enologo Luca D’Attoma, nel 2015, ha portato a un vero e proprio cambio nella gestione del legno rispetto alle scelte precedenti di Ruben Larentis.
Il sorso delle ultime vendemmie di Carapace (Montefalco Sagrantino Docg), Lampante (Montefalco Rosso Riserva Doc) e Ziggurat (Montefalco Rosso Doc) è più internazionale e moderno. Ziggurat e Carapace, acquistabili anche al supermercato (Esselunga e Il Gigante) sono i vini umbri più “pronti” della Tenuta Castelbuono.
Nonostante ciò, mostrano ampi margini di ulteriore miglioramento in bottiglia, in linea con le caratteristiche dei rossi dell’area di Montefalco. Lampante 2014 è il vino top di gamma, che va ancora aspettato per esprimersi al meglio nel calice.
FERRARI TRENTO – TENUTA MARGON La “casa madre”, dove tutto ebbe inizio. E’ il 1902 quando Giulio Ferrari, appassionato imprenditore trentino, decide di iniziare a produrre un vino capace di competere con lo Champagne.
Un vino autentico, in grado di valorizzare la tipicità locale. Quale vitigno migliore dello Chardonnay, portato a Trento in seguito ad alcuni viaggi studio in Francia? I soldi non mancano a Giulio, di famiglia benestante e proprietaria di parecchi vigneti. Le attrezzature, seppur rudimentali, consentono il miracolo.
Le bollicine Ferrari – commercializzate all’epoca come “Champagne Maximum Sec G. Ferrari” – iniziano a far parlare l’Europa e poi l’Italia.
Che le apprezza e le consuma, prosciugando le scorte della piccola cantina ricavata nel seminterrato di un palazzo, nel centro di Trento.
Per l’esattezza in via Rodolfo Belenzani. A cento passi dal Duomo, la Cattedrale di San Vigilio. Col passare degli anni la domanda aumenta. E così l’affermazione del brand.
Soprattutto dopo la scoperta che le “bollicine” Ferrari migliorano nel tempo. E’ il 1945. Il muro eretto davanti all’ingresso della cantina per evitare saccheggi durante la Seconda guerra mondiale custodisce intatte le vendemmie 1937, 1938 e 1939.
Nasce così la prima riserva Ferrari. Da vini perfetti, rimasti in forma smagliante. Chi invecchia è il suo ideatore, che nel 1952 si decide a cedere l’attività a un giovane enotecario del posto, sicuro che avrebbe saputo valorizzare quel patrimonio come nessun altro. Quel giovane si chiama Bruno Lunelli.
Nasce così la Ferrari Trento, simbolo del Made in Italy e dello stile italiano nel mondo. La produzione passa dalle circa 12 mila bottiglie ai 5,4 milioni attuali (export al 15%).
La famiglia Lunelli, negli anni, coinvolge professionisti di tutti i settori (dal marketing all’arte, per intenderci) all’interno di un progetto a tutto tondo che forse, trova proprio nel Carapace umbro l’immagine più fulgida. La sua sinesi metafisica.
La terza generazione viene inglobata senza forzature all’interno di una “macchina da guerra” commerciale che fonda tutto sulla semplicità della qualità.
Marcello, Matteo, Camilla e Alessandro si formano nelle maggiori realtà internazionali e tornano “a casa” per scelta. Una famiglia del vino in cravatta (e tailleur) che sa valorizzare i propri dipendenti, premiati ogni anno con incentivi.
Non solo economici, ma anche umani: vietato non dare del “tu” al capo, incontrandolo tra i corridoi della Ferrari. Uno stile riassunto perfettamente da Franco Lunelli (nella foto) che incontriamo per un’intervista.
“Diciamo che negli anni ci è andata abbastanza bene – scherza il classe 1935 – se pensiamo che tutto ha avuto inizio dalla bottiglieria aperta da mio padre in un periodo simile a quello odierno, in cui tutti chiudevano”.
Bruno Lunelli fu il primo a proporre in zona “il vino da asporto”. “Andava casa per casa, coi fiaschi. E ne vendeva 15 ettolitri al giorno. Vino a un prezzo onesto, ma di qualità”.
Franco Lunelli ricorda ancora bene il giorno in cui il padre annunciò alla famiglia l’acquisto della Ferrari: “L’ho comprata perché si può incrementare, ci disse. Il signor Giulio vende 10 mila bottiglie l’anno. Ho firmato le cambiali e voi le pagherete per tutta la vita”. “Ci è andata bene anche in quel caso – continua a scherzare Franco Lunelli – perché abbiamo finito prima!”.
La Ferrari fu pagata 30 milioni di lire. Sette volte il suo fatturato. Oggi questa cifra si assesta su 71 milioni di euro (+12% rispetto al 2016). Sale a 100 milioni il fatturato complessivo del Gruppo Lunelli, che cresce del 7% rispetto al 2016 e commercializza, in totale, 11 milioni di bottiglie.
Un impero che comprende anche la casa prosecchista Bisol di Valdobbiadene, la storica distilleria trentina Segnana e Surgiva, brand di acqua che sgorga nel Parco Naturale Adamello Brenta, scelta dall’Associazione Italiana Sommelier (Ais) e destinata alla migliore ristorazione.
CUCINA GOURMET. E DAL 2019 L’AMARO Un ramo, quest’ultimo, che completa l’offerta trentina di Ferrari. Poco lontano da Villa Margon e dall’omonima Tenuta che dà vita ai vini fermi a marchio Lunelli, si trova infatti Locanda Margon.
Un paradiso per il palato guidato dallo chef Alfio Ghezzi (due stelle Michelin), dove è possibile godere di un menu ricercatissimo, servito nel cuore dei vigneti. Ma non finisce qui. Manca l’amaro, per restare in tema ristorazione.
Anzi, mancava. “Nell’autunno scorso – spiega Franco Lunelli – l’amico Dell’Elmo Saracini, famoso per la sua grappa e per il suo amaro Re Laurino, ci ha espresso la volontà di vendere. Gli amari hanno ricominciato ad essere apprezzati ultimamente. E così abbiamo accettato la proposta, acquistando l’azienda”.
Ferrari Trento inizierà a produrre l’amaro dal prossimo anno, rilevando il marchio Re Laurino – legato a una delle più note leggende trentine – senza modificare la ricetta originale.
“So che i ragazzi hanno in mente qualcos’altro – chiosa Franco Lunelli – ma questo ve lo racconteremo la prossima volta!”. E allora arrivederci, ragionier Franco. Prosit!
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Tutti i vigneti trentini di proprietà del Gruppo Lunelli destinati alla creazione di Ferrari Trentodoc hanno ottenuto la certificazione biologica. “Una notizia attesa – commenta in una nota la casa di Trento – che a pochi giorni dal Vinitaly 2017 e corona l’impegno della famiglia Lunelli nel riportare al centro dell’attività agricola il concetto stesso di fertilità naturale del terreno, il rispetto dell’ambiente e di chi vi lavora”.
“La certificazione biologica di tutti i vigneti trentini della nostra famiglia – commenta Marcello Lunelli, vice presidente delle Cantine Ferrari – rappresenta un grande traguardo che ha ricadute positive su tutto il processo produttivo, e rafforza ulteriormente il nostro impegno in termini di responsabilità sociale verso i territori in cui operiamo”.
Il punto di arrivo di un percorso lungo e impegnativo, iniziato oltre vent’anni fa. Numerosi studi e sperimentazioni in campagna condotti con il supporto della Fondazione Mach di San Michele all’Adige (TN), hanno portato alla convinzione che, una volta ottenuto un adeguato equilibrio del vigneto, sia possibile fare viticoltura biologica anche in territori di montagna.
Negli anni è stato introdotto il divieto totale di utilizzo di diserbanti e concimi chimici, a favore di pratiche tradizionali come il sovescio, di fertilizzanti naturali come il letame e dell’uso esclusivo di fitofarmaci ad alto grado di sicurezza, che prediligono l’impiego di prodotti naturali quali il rame e lo zolfo.
In questo contesto, nel 2014 è iniziato il processo di conversione al biologico di tutti i vigneti di proprietà delle Cantine Ferrari, che è terminato con successo qualche giorno fa.
“Questa cultura della sostenibilità e del rispetto per il territorio – sottolinea Cantine Ferrari – negli anni è stata condivisa anche con le oltre 500 famiglie che ci conferiscono le proprie uve, attraverso un lungo processo di formazione e di educazione da parte del team di agronomi di Casa Ferrari”.
A tutti i conferenti è stato chiesto di seguire un vero e proprio protocollo di viticoltura di montagna salubre e sostenibile denominato “Il Vigneto Ferrari”, elaborato sempre col sostegno scientifico della Fondazione Edmund Mach e certificato da CSQA.
IL TRENTODOC “SOSTENIBILE” A garantire una migliore qualità della pianta e dell’uva prodotta, queste iniziative hanno avuto importanti ricadute su tutto il territorio circostante, che oggi beneficia di una più ricca biodiversità, confermata anche dalla certificazione “Biodiversity Friend” da parte della Worldwide Biodiversity Association.
Un territorio, quello delle montagne del Trentino, che nei secoli il lavoro dell’uomo ha trasformato, rendendo più dolci i pendii con filari di viti coltivati e mantenuti come giardini.
Oggi questi vigneti di montagna, gli unici ad assicurare l’eccellenza della base spumante Trentodoc, sono ancora più in sintonia con la natura, grazie all’importante traguardo raggiunto dalle Cantine Ferrari, che dimostrano di conservare lo spirito pioneristico del loro fondatore. Fu proprio Giulio Ferrari, infatti, oltre un secolo fa, a individuare le montagne trentine come terreno ideale per la produzione del migliore Chardonnay destinato alla produzione di Metodo Classico.
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