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Nico Speranza: “Lieviti indigeni? Cazzata! Vini naturali? Per comunisti anni Novanta”

Il vino che lo ha reso noto si chiama Crocifisso, ma non ha nulla a che fare con la religione. La conversione di Nico Speranza riguarda piuttosto la sfera professionale. Un passaggio – più o meno brusco – dai canoni dei vini naturali a pratiche di cantina “convenzionali“. Come l’utilizzo di lieviti selezionati, al posto degli indigeni.

Un’eresia passata in sordina. Tant’è che Nico Speranza – alias Azienda agricola Vittorini di Monsampietro Morico, borgo di 600 anime della provincia di Fermo, nelle Marche – continua ad essere invitato ad alcune tra le maggiori fiere dei vini naturali italiani, tra cui quella che si svolge annualmente a Faenza (RA), in Emilia Romagna.

Nico – fresco del riconoscimento della critica all’ultima edizione del Premio San Martino d’Oro, dedicato ai vini fermani – non ci gira troppo intorno, in occasione della visita del gruppo di giornalisti chiamati in giuria, tra cui noi di WineMag.it.

“So benissimo cosa significa fermentare con i lieviti indigeni, è inutile che ce la raccontiamo: se ti va male, butti via tutto. Io ho vissuto gli anni Novanta, quando per distinguersi dagli altri c’erano le tessere di Rifondazione comunista. Si parlava in una certa maniera, si ascoltava certa musica. Ormai la politica non esiste più e questi si sono riversati lì: nel mondo dei vini naturali”.

“Se faccio una cosa è perché ci credo – continua Speranza – e ho provato a fare le fermentazioni coi lieviti indigeni: sono una cazzata pazzesca!”. Uno dei riferimenti di Nico Speranza è il compianto Didier Dagueneau, vignaiolo simbolo della Valle della Loira, artefice di capolavori come il Pouilly Fumé “Silex“: “Quella roba lì è un altro mondo – sottolinea – non si riesce neppure ad avvicinarsi a quel livello, senza usare i lieviti selezionati”.

Tra le rinunce vinnaturiste della cantina Vittorini, anche le macerazioni. Un tempo più prolungate su etichette come il Marche Bianco Igt. “Ho perso diversi clienti – ammette Nico Speranza – ma in realtà ne ho guadagnati altri. Qualche ristoratore me lo ha fatto notare, ma continua comunque ad acquistare i miei vini, apprezzandoli”.

E a Faenza? “Il pubblico – risponde Speranza – è piuttosto schematizzato. Chi viene al mio banco d’assaggio non fa troppe domande. Io parlo, parlo, parlo e cerco di evitare quegli argomenti. Non c’è questa finezza. Anche il tecnico più tecnico, raccontando storie, si lascia in un certo modo influenzare”.

Eppure, quando Nico Speranza è tornato nelle Marche per dare vita alla cantina Vittorini, l’idea di fare vino naturale era centrale nel progetto. Era il 2005. Speranza, cresciuto tra Pavia e Verona, amico di Romano dal Forno e Celestino Gaspari (Zýmē) ammira i produttori della Valpolicella per la capacità di ottenere grandi risultati, assemblando uve diverse. Una filosofia fatta propria nei 4 ettari di vigna, nell’areale di Monsampietro Morico.

“Negli anni scorsi – rivela il vignaiolo marchigiano – ho chiesto all’istituto di San Michele all’Adige di fare una selezione sui miei mosti: hanno trovato tre tipologie di lieviti, nessuno dei quali adatto alla fermentazione a bassa temperatura, mia esigenza. Un responso che ha contribuito al cambio di rotta necessario per produrre vini genuini, puliti e privi di difetti”. Prendere o lasciare.

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Gli Editoriali news

La grande beffa dei lieviti indigeni dei Consorzi del vino


EDITORIALE –
Nell’enomondo 2019 sono due le parole che riecheggiano da Aosta a Taranto e da Bolzano a Siracusa: “zonazione” e “lieviti indigeni“. Se la prima deve confrontarsi coi tempi biblici della burocrazia italiana, la seconda – il più delle volte – è in voga tra i vignaioli che si riconoscono nei metodi di produzione biodinamica e “naturale”.

Sempre più spesso, però, anche i Consorzi del vino annunciano l’avvio di studi per la selezione di “lieviti indigeni” o “autoctoni” da mettere a disposizione delle cantine associate. Un’alternativa, insomma, ai lieviti commerciali ad uso enologico reperibili sul mercato, con estrema facilità.

In occasione del convegno “Il lievito, il vigneto, la biodiversità: una discussione sui lieviti autoctoni”, tenutosi a Montagna (BZ) durante le Giornate del Pinot Nero 2019, la relatrice Angiolella Lombardi – microbiologa che è stata in servizio per 25 anni all’Istituto di Ricerca alimentare Veneto Agricoltura – ha confermato che si tratta, in sintesi, di un clamoroso caso di “non sense.

Tradotto: i lieviti di Consorzio sono una grande beffa, se non altro nei confronti dei consumatori convinti di bere un vino “più tipico”, grazie a questo “accorgimento”. Come spesso accade in questi casi, tutto si gioca su un filo estremamente sottile.

Se l’obiettivo di un produttore è tipizzare il proprio vino sulla base delle caratteristiche microbiologiche del proprio vigneto, che senso ha l’utilizzo di ceppi di lieviti individuati all’interno dell’area (più o meno vasta) del Consorzio di riferimento?

Utilizzare i lieviti di Consorzio non equivale a spostare il problema dal generale al macro-particolare, senza comunque arrivare al risultato di una vera caratterizzazione delle singole etichette di vino? Dove finisce il marketing e dove inizia la vera necessità di individuare a tutti i costi dei “lieviti di Denominazione”?

Il rischio dei “lieviti di Consorzio” non è quello di assistere a una forma alternativa di standardizzazione dei vini prodotti in un’area determinata, che ha poco a che fare con la vera tipicità e unicità (anche stilistica) esprimibile da ogni singolo produttore all’interno di una Denominazione?

Insomma: parlare di lieviti indigeni “di Consorzio” pare un ossimoro. E sono rari gli esempi in cui gli studi portano a conclusioni adottate su larga scala. Basta chiedere, in giro per l’Italia, quanti produttori siano ricorsi all’utilizzo di questi “acceleratori” di fermentazione, capaci di donare “tipicità” e “unicità” al vino di una Doc o Docg.

I COSTI
Eclatante, su tutti, il caso del Veneto. I lieviti indigeni selezionati una decina di anni fa nell’ambito di un progetto che ha visto coinvolti la Regione e il Consorzio di Tutela Doc Prosecco risultano ancora inutilizzati. A chi giovano questi studi, se non ai laboratori incaricati dagli stessi Consorzi, spesso finanziati da fondi Pac?

Il vero problema, di fatto, sono i costi delle sperimentazioni, difficilmente sostenibili da singoli vignaioli. “La spesa da sostenere – spiega Angiolella Lombardi – dipende dal numero di campioni che si vuole raccogliere in vigneto e dalla vastità della zona che deve essere campionata”.

“Oggi non si parla più delle cifre esorbitanti dello scorso decennio – continua la microbiologa – ma la spesa è comunque alta, aggirandosi tra i 7 e i 15 mila euro.

La parte più costosa è relativa all’identificazione molecolare dei ceppi funzionali allo scopo che si vuole ottenere sulla singola varietà”.

Ma ha senso parlare di “lieviti di Consorzio”? “In pratica no – ammette Lombardi – se non altro per l’enorme biodiversità presente nell’ambito microbico: una biodiversità invisibile, diversa di anno in anno. E’ stato inoltre dimostrato che non è possibile isolare sempre il medesimo ceppo in un determinato vigneto”.

Inoltre le vigne, così come le cantine, sono ambienti aperti, soggetti a contaminazione crociata, mediata dall’attività dell’uomo e degli altri esseri viventi. Non esiste una stabile colonizzazione di un vigneto o di una cantina da parte di un singolo lievito”.

Ma c’è di più. “Nella campionatura necessaria alla selezione dei lieviti indigeni – sottolinea l’esperta – si rischia addirittura di isolare dei lieviti selezionati industriali, se utilizzati in precedenza. Per questo è importante effettuare le campionature lontano dalle cantine, dalle strade e dagli edifici, per ridurre le probabilità che sia avvenuta una contaminazione”.

LIEVITI SELEZIONATI, INDIGENI O “DI CONSORZIO”?
L’alternativa, oltre dell’utilizzo di lieviti indigeni “non selezionati” tipici dei produttori di vino naturale – “che espongono tuttavia il vignaiolo al rischio di arresti fermentativi e a controindicazioni come la produzione di solforati, volatile e scarsa resistenza all’alcol”, ammonisce la ricercatrice – è sotto gli occhi di tutti.

La quantità di lieviti secchi utilizzati annualmente su scala mondiale nel settore vitivinicolo, secondo il dato fornito dall’esperta, ammonta a 600 mila tonnellate. E la loro varietà è piuttosto limitata: “I ceppi selezionati non sono moltissimi e di certo non rispecchiano la varietà ampelografica mondiale. Lo stesso ceppo può essere commercializzato con nomi diversi, in base all’azienda che lo produce”.

Tra gli ultimi Consorzi impegnati nella promozione dei lieviti indigeni c’è quello del Gavi, che ha presentato il progetto a Milano, a fine marzo 2019. Grazie alla consulenza del Laboratorio Enartis di Trecate (NO), sono stati individuati due ceppi di lieviti Saccharomyces cerevisiae (CTdG12 e CTdG07) su cui sono in corso i test da parte de La Mesma e Cantina Produttori del Gavi.

Tornando in Veneto, oltre al Prosecco Doc ha investito nei “lieviti di Consorzio” l’Asolo Montello, con un progetto avviato nel 2011 che ha portato alla sola produzione della bottiglia istituzionale, nel 2016 e 2017. Uno studio interrotto nel 2018 e non ancora discusso per la vendemmia 2019.

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Approfondimenti news

Di additivi e di altri mostri: un altro linguaggio è possibile (sul vino naturale)

La grande bellezza dello stare nel vino è la sua interdisciplinarità, occorre conoscere di chimica, fisica, botanica,biologia,meccanica, economia, è importante mantenere sempre una mente aperta ed una visione d’insieme.

Cosi’ per rimanere sempre con la mente aperta, non rimanere chiusa nel mio ghetto. Avevo una giornata libera e sono andata a Live Wine a Milano.

Ho assaggiato, parlato con produttori, incontrato amici e colleghi e si mi sono divertita molto. Come tutte le volte in cui sono nel vino con leggerezza. “Leggerezza di linguaggio naturale”, vorrei leggere.

Basta focalizzare l’attenzione sui lieviti selezionati!

Si limita il racconto del vino ad un unico elemento, mentre il cammino dall’uva alla bottiglia è molto più lungo e complesso.

Basta addentrarsi in diatribe fra industriali vs artigianali!

Correte due campionati diversi, inutile sprecare fiato.

Il terrorismo sugli additivi e sui coadiuvanti non ha portato a nulla. La casalinga di Voghera e la sua amica di Voghiera non conoscono la differenza fra queste due famiglie di prodotti.

E poi vi ricordo che la gomma arabica è un principale componente delle caramelle.

Raccontate del vino naturale figlio del tempo e non delle logiche commerciali. Raccontate del vino fatto da viticoltori che sono custodi del territorio.

Non parlate di vino fatto con le ricette!

Il vino è un lavoro di squadra, un racconto corale, non un susseguirsi di fredde operazioni di fabbrica.

Amici naturali, non correte dietro – in etichetta – ad api, coccinelle, farfalle, foglie con le stelline… Siate minimalisti ed essenziali, il vino parlerà da sé.

I giornalisti e le guide non vi hanno fatto nulla, non sono faziosi. Sono solo dei curiosi del vino che vogliono capire e conoscere il vostro mondo. Un nuovo linguaggio è possibile. Basta volerlo.

Claudia Donegaglia – enologa

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