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Jako Wine: la “cantina che non c’è” di Berti e Barzan, i globetrotter del vino italiano

Tutto, in fondo, è iniziato attorno a una “bollicina”. Uno spumante Metodo classico dell’Oltrepò pavese, per l’esattezza. Era il 2011. Oggi, a 10 anni di distanza, solo GianlucaLucaBerti e Severino Barzan sanno cosa può accadere quando un imprenditore del ramo della logistica e un noto ambasciatore del vino italiano mettono assieme l’unica cosa più forte delle idee: i sogni. Jako Wine è nata così. Dall’incrocio fortunato di due (e più) calici.

Un progetto innovativo, che si basa su tre capisaldi: niente cantina, niente vigneti di proprietà e ricerca della qualità assoluta, dal campo alla bottiglia. Da veri globtrotter del vino italiano, Berti e Barzan danno la caccia alle migliori parcelle, le affittano e le affidano allo staff agronomico ed enologico oggi capeggiato dal prof Leonardo Valenti e dal giovane winemaker veronese Lorenzo Dionisi.

Sono loro a supervisionare la vinificazione che avviene all’interno di cantine partner, prescelte nei vari territori (le stesse che affittano i terreni): Oltrepò pavese, Lago di Garda, Valpolicella e Montefiascone, nel Lazio.

Una volta imbottigliato, il vino viene trasportato nel magazzino all’avanguardia di Jako Wine, a Verona. Cinque Metodo classico, due bianchi e due rossi, per un totale di circa 30 mila bottiglie e un fatturato cresciuto lo scorso anno sino a quota 400 mila euro.

Passi da gigante, insomma, rispetto all’idea iniziale di produrre solo «Wine for Friends», con il brand name “Jako” elaborato dal nome di figlio di Luca Berti, Jacopo; e il fenicottero – per meglio dire il flamingo, simbolo di Miami – a celebrare lo sguardo internazionale del duo di eno-globetrotter.

Proprio a Miami e negli Usa finisce una buona fetta della produzione, distribuita in esclusiva anche in Danimarca, Inghilterra, Germania e Cina. Il mercato italiano è invece affidato a pochi selezionati ristoranti, enoteche e locali delle principali città: da Verona a Milano, da Roma a Firenze, passando per piazze “in” come Capri e Forte dei Marmi.

JAKO WINE: 6 VINI IN ASSAGGIO

  • Metodo classico Pas Dosé 2015: 90/100
    Sboccatura 4/2020, 12.5% vol. Vitigno: Chardonnay 60%, Garganega 40%. Alla vista di un bel giallo paglierino con riflessi dorati, perlage fine e persistente. Naso largo, sulla frutta matura: pesca gialla, esotico, un tocco di agrume, sempre maturo. Bel bouquet di fiori che spazia dalla camomilla al biancospino. Sorso di buona tensione, sapido in centro bocca, prima dei ritorni setosi pennellati dai ritorni di frutta matura, già avvertita al naso. Finale di buona persistenza, ancora una volta nel segno dell’equilibrio fra le tonalità tipiche dei due vitigni. Un Metodo classico che nasce da 5 ettari di terreno morenico, nella zona del lago di Garda.
  • Oltrepò pavese Docg Metodo classico Brut Rosé 2015: 89/100
    Sboccatura 12/2020, 12,5% vol. Vitigno: Pinot Nero in purezza. Alla vista un bel rosa salmone, tipico dei Cruasé oltrepadani. Perlage fine e persistente. Tanto floreale al naso, che lascia spazio anche ad agrumi e piccoli frutti rossi. Un quadro preciso e intrigante che si ripresenta anche al palato, con un’ottima corrispondenza. Il finale è piuttosto cremoso, con il dosaggio che arrotonda la beva, placando la tensione agrumata iniziale. Un Metodo classico ottenuto da 3 ettari di Pinot Noir in Oltrepò pavese e terreni di medio impasto calcareo.
  • Pinot Grigio delle Venezie Doc 2018 “Griso Venèxian”: 87/100
    13% vol. Giallo paglierino alla vista. Al naso le note esotiche tipiche del vitigno. Si avvertono ricordi di pesca e pera perfettamente matura, nonché agrumi come il mandarino, che spaziano dal succo alla buccia. Il sorso è agile, altrettanto tipico, di buon equilibrio acido-glicerico. I vigneti da cui nasce questa etichetta sono situati lungo le sponde del Lago di Garda, con terreni prettamente morenici.
  • Vino Bianco Igp Lazio 2017 “Campocasa”: 92/100
    12,5% vol. Rossetto 100%, varietà autoctona molto diffusa nella zona dei Castelli Romani. Alla vista un bel giallo paglierino, luminoso. Naso generoso, non solo in termini di intensità, ma soprattutto dal punto di vista della complessità. Si spazia dai fiori di camomilla secchi alla frutta a polpa bianca e gialla matura; da una speziatura leggera ai ricordi di radice di liquirizia, passando per la macchia mediterranea (alloro, rosmarino). Ingresso di bocca che abbina leggerezza e profondità, su note concordi col naso. L’accento agrumato iniziale, unito a una corroborante vena sapida, lascia spazio a un finale morbido, su vaghi ritorni vanigliati, ben combinati al resto del corredo. La chiusura è lunga e consistente, tanto da ampliare lo spettro di abbinabilità gastronomica di questo nettare. Un Rossetto che prende vita da terreni a 300 metri d’altezza, individuati dallo staff di Berti e Barzan nella zona di Montefiascone, friabili e ricchi di scheletro.
  • Rosso Veronese Igt 2018 “Ruber”: 89/100
    16% vol, uvaggio Corvina e Merlot. Rosso rubino dall’unghia violacea, alla vista. Al naso le note verdi e speziati dei due vitigni, ben abbinate a ciliegia e frutta di bosco matura: lampone, ribes, mora. Al palato una gran generosità e “abbondanza”, data soprattutto dall’alcol (non disturbante) e dai precisi ritorni di frutta matura. Buona la freschezza, che riequilibra la morbidezza del sorso. Vino in definitiva piacevole, da godersi anche con qualche grado di temperatura in meno rispetto alla media dei rossi importanti. “Ruber” nasce da terreni morenici, nella zona a sud del Lago di Garda.
  • Rosso Veneto Igt 2015 “Siresol”: 90/100
    16% vol, uvaggio Corvina, Rondinella, Oseleta, Croatina e Cabernet Sauvignon. Un piccolo “Amarone della Valpolicella”, in cui il Cabernet gioca il ruolo di mediatore, arrotondando le asperità (tannino, speziature, note verdi e durezze) dei vitigni tipici del “Re dei rossi” del Veneto. Alla vista un bel rubino dall’unghia granata. Naso molto interessante e stratificato. Si passa dalla frutta rossa, come ribes, ciliegia e lampone, all’agrume rosso, una sanguinella succosa. Non mancano ovviamente le spezie nere, oltre a una spolverata di cumino. Sorso teso in ingresso, con un bel ritorno fresco regalato dai tironi speziati, scuri. Vino strutturato e decisamente gastronomico che nasce dalle colline della Valpolicella, in particolare da vigneti posti fra i 100 e i 350 metri sul livello del mare e terreni di composizione argilloso-calcarea.

*** DISCLAIMER: La recensione di queste etichette è stata richiesta a WineMag.it da Jako Wine. I giudizi sono stati comunque espressi in totale autonomia, nel rispetto dei nostri lettori ***

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“Altro che vendemmia verde e distillazione. Bisogna ridurre le rese distorte dell’Igt”

No alla distillazione e alla vendemmia verde, sì alla riduzione delle rese dell’Igt. È ancora una volta fuori dal coro la posizione della Viticoltori associati Torrevilla, cooperativa dell’Oltrepò pavese che ha avviato da anni un percorso virtuoso, utile all’incremento della qualità della produzione. Secondo il presidente Massimo Barbieri e l’enologo Leonardo Valenti, sarebbe più utile “ridurre le rese distorte delle produzioni Igt“.

I massimali autorizzati da Regione Lombardia sarebbero di fatto “irraggiungibili in un territorio collinare come quello oltrepadano, anche nelle annate migliori”. C’è di più. Secondo Fabio Tonalini, nuovo socio conferitore di Torrevilla grazie all’accordo con Il Montù, “quantità così elevate autorizzano a produrre tanta roba cattiva“: “Ridurre le rese dell’Igt – prosegue Tonalini – potrebbe aiutare a prevenire anche le truffe“.

Un discorso che invece non riguarda le Doc dell’Oltrepò pavese. “Che, al massimo – sempre secondo il trio dell’Oltrepò pavese – potrebbero essere ritoccate di pochissimo, in quanto già ottimali coi massimali attuali”.

“Ritengo che per aiutare le aziende agricole italiane in questo momento di difficoltà ci sia solo una strada: quella dei contributi a fondo perduto, a sostegno dei cali del fatturato registrati a causa di Coronavirus e del lockdown”, commenta il presidente di Torrevilla.

“Tutto il resto – aggiunge Barbieri – sono palliativi. E non so quante zone in Italia potranno aderire a proposte come la distillazione o la vendemmia verde. Sorrido, anzi, perché si scopre questo genere di problematiche solo in questi momenti. In realtà, queste situazioni non nascono col Covid-19, bensì sono state amplificate dall’emergenza”.

I numero tornano, anche sulla carta. Con 600 ettari di vigneto a disposizione (700 con l’operazione Il Montù) la Viticoltori associati Torrevilla produce 45 mila quintali di uva: “Vuol dire che si parla di 80-90 quintali all’ettaro di media – precisa Leonardo Valenti – mentre i disciplinari di Pinot Nero e Pinot Grigio Igt c’è una distorsione di 30-40-50 quintali in più rispetto alle cifre raggiungibili dal territorio collinare”.

“Da svariate decine di anni – prosegue l’enologo – Torrevilla imbottiglia tutto quello che produce: non si vende nulla in cisterna. Per questo non abbiamo la necessità di chiedere contributi sulla distillazione. Abbiamo raggiunto un equilibrio che ci permette di fare a meno, tranquillamente, di questo tipo di soluzioni”.

“Autorizzare rese così alte per l’Igt – chiosa Fabio Tonalini – per poi ricorrere a contributi per la distillazione è un controsenso. Grazie all’accordo tra Il Montù e Torrevilla ci impegneremo a portare i vini dell’Oltrepò pavese all’estero. Un modo molto più nobile rispetto alla vendemmia verde e alla distillazione per risolvere il problema della sovraproduzione”.

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Oltrepò, Torrevilla alza la cresta: Pinot Nero “Genisia” a confronto coi grandi del mondo

TORRAZZA COSTE – Si può uscire da un confronto come pugili suonati. Ma aver vinto lo stesso. Il Pinot Nero Riserva 2016 Noir 110 La Genisia” di Torrevilla esce con le ossa rotte dal ring su cui ha deciso di salire con i pari varietà e pari annata provenienti da Nuova Zelanda, Borgogna e Alto Adige.

Ma la notizia della “Pinot Nero Challenge“, andata in scena ieri a Torrazza Coste (PV), sta fuori dal calice. Ed è la decisione stessa della cooperativa di confrontarsi col mondo, a casa propria, a pochi mesi dall’avvio di un progetto di valorizzazione dei migliori appezzamenti di Pinot Nero dei soci.

Venticinque quelli che hanno scelto di seguire la strada indicata dal presidente di Torrevilla, Massimo Barbieri, dal direttore Gabriele Picchi e dal professor Leonardo Valenti, consulente della cantina per la parte agronomica ed enologica. Tutto tranne che superbia, dunque.

Anzi, un grande atto di coraggio, che ha spinto la dirigenza a chiamare a Torrazza Coste la stampa di settore, per giudicare – rigorosamente alla cieca – 6 campioni di Pinot Noir. Nessuna indicazione prima di scoprire le bottiglie. Se non che, tra quei 6 calici, poteva celarsi almeno un’etichetta di Torrevilla.

Il Pinot Noir Riserva 110 La Genisia di Torrevilla è il numero quattro: costa 10 euro più Iva. All’uno il Pinot Noir di Greywacke (Marlborough, Nuova Zelanda, 15-18 euro). Al due il Santenay Charmes Aoc del Domaine Roger Belland (Borgogna, Francia, 25-30 euro).

Al numero tre il Blauburgunder Pinot Nero di Falkenstein (Alto Adige, 15 euro). Chiudono la batteria, dopo il campione oltrepadano, il Bourgogne Hautes-Côtes de Nuits “Les Dames Huguettes” e il Chambolle Musigny “Le Village” di Domaine Bertagna, Borgogna (rispettivamente in vendita a circa 25 e 50 euro, sempre Iva esclusa).

WineMag.it individua il campione oltrepadano alla cieca e giudica il numero 6 quale migliore della batteria. La verità è che nessuno dei campioni spicca sull’altro in maniera davvero marcata. Ma paiono comunque più centrati, rispettosi del varietale del Pinot Nero e soprattutto equilibrati del Noir pavese.

Dell’etichetta di Torrevilla non convincono la pulizia del frutto e la mancanza di una complessiva armonia. All’analisi olfattiva, l’oltrepadano è il più rustico. Una vena “selvatica” sotterra le pur presenti note di frutta (un po’ troppo) matura: frutto di bosco, mora, amarena.

La corrispondenza gusto olfattiva sottolinea tale disarmonia. Il tannino, sabbioso, non aiuta. La percezione glicerica, data dall’alcol, non rimedia del tutto all’amarezza finale. Elemento non di secondo piano è il colore: il Pinot Nero dell’Oltrepò pavese è il più carico di tutta la batteria.

“Abbiamo voluto coinvolgere la stampa di settore in questo particolare tasting che mette a nudo la situazione attuale di Torrevilla rispetto al Pinot Nero vinificato in rosso – commenta il presidente Massimo Barbieri – pur sapendo di non essere assolutamente ‘arrivati’, bensì nel mezzo del cammino“.

“Si tratta di un percorso rischioso per la nostra azienda – continua il numero uno di Torrevilla – dal momento che la scelta della cantina è quella di continuare a retribuire come un tempo le uve dei 25 soci interessati dal progetto qualità, pur avendo ridotto drasticamente le rese”.

Come riferisce lo stesso Barbieri, i prezzi si aggirano attorno agli 85 euro al quintale. Circa 25 euro in più della media, utili a equiparare le uve da Pinot Nero vinificato in rosso, destinate alla Riserva “101 La Genisia”, a quelle – solitamente più pagate – utili al Metodo classico Docg, vinificate in bianco.

“Cifre che incrementeremo se il Pinot Nero dell’Oltrepò pavese vinificato in rosso sarà meglio posizionato sul mercato e riconosciuto dai consumatori”, sottolinea il direttore di Torrevilla, Gabriele Picchi. “Nella mia testa ho in mente un modello – continua – che è il Pinot Nero 2015 ‘Bertone’ di Conte Vistarino“.

“Un vino che ha tutto – conclude Picchi – per la cui produzione è necessaria un’esperienza che, al momento, Torrevilla non è ancora in grado di esprimere, dalla vigna alla cantina. Le potenzialità di crescita sono molte e crediamo sia giusto procedere a piccoli passi, nel segno della responsabilità verso i nostri soci”.

È un dato di fatto, tuttavia, che la cooperativa oltrepadana abbia messo il piede sull’acceleratore dell’Horeca. All’interno del progetto qualità è stata inserita la figura di Alessandro Ferringo, cui spetta il compito di assottigliare il gap con la Gdo.

Ad oggi il rapporto tra i mercati della cantina si assesta sul 70-30%, in favore della Grande distribuzione organizzata. Ruolo centrale quello della Riserva “101 La Genisia”, passata dalle 2.500 bottiglie della vendemmia 2016 (in degustazione alla “Pinot Nero Challenge”) e le 30 mila della vendemmia 2019, tuttora in affinamento in legno.

Torrevilla continua al contempo a investire nella Gdo, tentando di migliorare il posizionamento grazie all’introduzione di una nuova referenza. Si tratta del Pinot Nero dell’Oltrepò pavese Dop 2018 “Turché”, reperibile nei supermercati Gulliver.

Un “Noir” – questo sì – davvero centrato, in vendita a 6,90 euro. Il passaggio in legno di una parte della massa lo rende gastronomico e adatto alle necessità dei consumatori in cerca di etichette dall’ottimo rapporto qualità prezzo, al supermercato.

Prosegue a ritmo serrato anche la riqualificazione della cantina di Codevilla, di proprietà di Torrevilla. “Entro fine novembre – precisa Barbieri – inizieranno i lavori per la realizzazione dell’area di stoccaggio del Metodo classico: 600 metri quadrati da coibentare e isolare, dopo l’abbattimento delle attuali vasche di cemento”.

Seguirà l’ampliamento della bottega e la realizzazione di una spettacolare sala di degustazione, al piano superiore della cantina. Fiore all’occhiello sarà l’ampia terrazza. Un investimento da oltre un milione di euro, in parte finanziato dal Programma di Sviluppo Rurale (Psr).

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Conta più la vigna, il fatturato o la “felicità” dei dipendenti di una cantina? Tutti e tre


MONTEFANO –
Il fatturato di una cantina conta più dei costi e delle modalità di gestione della vigna? In questo delicato rapporto, che peso ha la soddisfazione dei dipendenti? Se lo è chiesto, nelle Marche, la cantina Conti degli Azzoni. Domande che si sono tramutate in una vera e propria vision aziendale, che ha dato vita al “Bilancio di Sostenibilità“.

“Un documento prezioso”, come lo definiscono i fratelli Aldobrando, Filippo e Valperto degli Azzoni Avogadro Carradori. Lunedì 30 settembre la presentazione dei risultati dello studio, in occasione del “Simposio della Sostenibilità“, al Teatro La Rondinella di Montefano (MC).

Impegnarsi nella sostenibilità aziendale vuol dire dotarsi di un vero e proprio Bilancio – ha dichiarato Valperto degli Azzoni – e così abbiamo deciso di mettere per iscritto tutte le azioni che contraddistinguono la gestione della nostra cantina marchigiana: dai vigneti alle lavorazioni in cantina, dalla tracciabilità del prodotto alla scelta di fornitori etici, dal rispetto dell’ambiente a quello per le persone”.


Un anno di lavoro, per rispondere a una domanda tanto filosofica quanto concreta: “L’etica crea Felicità?“. Il tutto senza megalomania. Perché, come sottolineano i fratelli degli Azzoni, “l’importante non è essere l’azienda migliore ‘al mondo’ ma quella che cerchi di essere la migliore ‘per il mondo’: perché sostenibilità è felicità!”.

Il campo di studio del “Bilancio di Sostenibilità” sono stati gli oltre 850 ettari di superficie della proprietà, tutti in provincia di Macerata, di cui 130 a vigneto: Montepulciano, Sangiovese, Maceratino e Grechetto, ma anche vitigni internazionali come Merlot, Cabernet Sauvignon e Chardonnay.

Circa 50 i dipendenti di Conti degli Azzoni. Il 97% è marchigiano e, a parità di livello, uomini e donne hanno la stessa remunerazione lorda. Nelle novanta pagine del Bilancio emerge l’approccio al business di una cantina all’avanguardia sociale.

È stata una simpatica avventura – ha commentato Valperto degli Azzoni – iniziare a illustrare la vita aziendale secondo dei canoni differenti da quelli tradizionali ci ha costretti a conoscere ancora di più, e nel dettaglio, la nostra azienda e coloro che ci aiutano a crescerla e svilupparla”.

“Un esercizio utile a noi, ma sono certo anche a tutti coloro che lavorano alla degli Azzoni, per assumere consapevolezza di come, anche un piccolo gesto, una semplice parte del processo produttivo è in realtà strategica ed importantissima. È fondamentale rispettare ed essere rispettati non solo per ciò che si fa, ma anche per come lo si fa”, ha concluso degli Azzoni.

Significativo l’intervento del professor Leonardo Valenti, dell’Università degli Studi di Milano: “In ogni campo – ha dichiarato – chi lavora in situazione di benessere produce meglio. Basti pensare al peso del benessere animale nella qualità della produzione, o al benessere del vigneto per ottenere uve migliori. In una cantina che rispetta i propri dipendenti e li valorizza, questi sono più motivati a portare a termine gli obiettivi comuni”.

Dello stesso avviso Lorenzo Limonta, Consulente in strategie di EmployerBranding Lighthouse. “Le strategie della comunicazione – ha sottolineato- aiutano a rendere sempre più sostenibile il rapporto tra azienda e dipendente”.

“Per questo l’Employer Branding rientra a pieno titolo nelle voci della sostenibilità: attrarre e fidelizzare i dipendenti di talento e costruire un luogo di lavoro ideale – ha concluso Limonta – è qualcosa che, un giorno, anche in Italia, potrà tramutarsi in un valore aggiunto ‘a scaffale’ del prodotto finale, che in questo caso è il vino”.

Secondo i risultati della relazione presentata da Stefano Corsi dell’Università degli Studi di Milano, “la biodiversità in vigna è già un valore per molti consumatori, disposti a pagare di più in presenza di etichette di vino biologico”.

Parlano chiaro, di fatto, le previsioni sul consumo mondiale di “organic wine” del maggiore organismo di raccolta dei dati di mercato delle bevande alcoliche internazionali, l’Iwsr, secondo cui il “vino bio” toccherà quota 7,8 milioni di ettolitri entro il 2022.

A testimoniare l’impegno di Conti degli Azzoni su questo fronte c’è l’adesione ad alcuni progetti come Life Vitisom, che ha come obiettivo quello di promuovere una gestione sostenibile del suolo in viticultura, attraverso lo sviluppo e la sperimentazione di una tecnologia per la concimazione organica del vigneto.

Conti degli Azzoni aderisce poi a “Biopass“, utile alla misurazione, alla salvaguardia e all’incremento della biodiversità in viticoltura. Non ultimo “Ita.Ca“, l’unico calcolatore delle emissioni di gas a effetto serra per il settore vitivinicolo italiano, sviluppati in collaborazione con l’Università di Milano e con lo Studio Agronomico Sata.

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La Franciacorta di Castello Bonomi: indietro nel futuro con Cuvée 1564 e vecchie annate


COCCAGLIO –
Se non fosse per la vista sui pendii boscosi del Monte Orfano, l’ingresso “alberato” di Castello Bonomi suggerirebbe il Chianti, più che la Franciacorta. Hanno trovato casa qui, nel 2008, i veneti di Casa Paladin che oggi vogliono distinguersi col progetto di recupero dell’autoctono Erbamat (“Cuvée 1564“) e i lunghi affinamenti sui lieviti delle varie etichette, prima dell’uscita sul mercato (750 mila le bottiglie in affinamento in cantina a partire dalla vendemmia 1986, in gran parte dalla vendemmia 2009).

L’intenzione del gruppo, che nel cuore del Gallo Nero detiene in effetti la terza delle quattro tenute (Premiata Fattoria di Castelvecchi) è parsa chiara fin dagli esordi. Con buona pace di chi pensava che la “holding” capitanata da Roberto e Carlo Paladin fosse venuta qui a “far Prosecco”.

Castello Bonomi – che prende il nome dall’unico Chateau della Franciacorta, un edificio in stile liberty di proprietà dell’ingegner Marino Bonomi, progettato alla fine dell’800 dall’architetto Antonio Tagliaferri – è oggi un’azienda sana dal punto di vista finanziario e in espansione.

Il fatturato segna un +30% rispetto al 2018. Ma il 2019 non è ancora finito e l’obiettivo è festeggiare un +40%, il primo gennaio 2020. L’Italia tira le fila del business, con l’80% degli utili. Senza contare le 20 mila bottiglie in più previste in uscita il prossimo anno. Col rintocco del gong a quota 100 mila.

È sano anche il calice di Castello Bonomi, che opera in regime biologico e riduce sempre più i contenuti di solforosa grazie al lavoro di uno chef de cave rigoroso come Luigi Bersini, affiancato dal giovane e motivato agronomo ed enologo Alessandro Perletti. Un’attenzione che si traduce nel desiderio spassionato di “bere” il Monte Orfano.

Un terroir unico nel puzzle della Franciacorta, che si traduce in una marcata salinità e in un “frutto” ancor più difficile da cogliere al momento esatto in vigna, per via dei 2 gradi centigradi in più di temperatura rispetto al resto dell’areale della Docg.

È un po’ Chianti ma anche un po’ Sicilia, Castello Bonomi: tra i muretti a secco che delimitano le vigne non è difficile scorgere addirittura qualche pianta di cappero. Motivo in più per investire nel progetto di recupero dell’antica varietà autoctona bresciana Erbamat.

Castello Bonomi ne è capofila, assieme ad altre quattro storiche cantine franciacortine, tra cui spicca (per ettari vitati, coraggio e determinazione) la Barone Pizzini dell’attuale presidente del Consorzio, Silvano Brescianini. A coordinare il progetto il professor Leonardo Valenti, dell’Università degli Studi di Milano.

Grazie agli elevati tenori di acido malico dell’Erbamat, la Franciacorta pensa di aver trovato “l’ingrediente” adatto a sopperire ai cali della freschezza degli spumanti, provocati dalle ultime estati torride. Agli enologi il compito di trovare la giusta percentuale di Erbamat nelle cuvée con Pinot Nero, Chardonnay e Pinot Bianco.

LA DEGUSTAZIONE

L’Erbamat, infatti, è tutto tranne che una varietà “timida”. Marca il calice, con la sua spinta “acida” e “fresca”. Per aiutare i consumatori a comprendere le caratteristiche di questa varietà autoctona, con la quale saranno prodotti nei prossimi anni i Franciacorta Docg della tipologia “Mordace”, Castello Bonomi immetterà sul mercato ad aprile 2020 la “Cuvée 1564“.

Si tratta di un vino senza Denominazione Franciacorta, ottenuto addizionando un 30% di Erbamat (oggi il disciplinare consente un massimo del 10%) ai tradizionali Pinot Nero (35%) e Chardonnay (35%). Un Vsq (Vino spumante di qualità) destinato al canale tradizionale. Enoteche e ristoranti, dunque, a listino fra i 30 e i 40 euro.

La speciale etichetta – prodotta in quantità limitata, solo 800 bottiglie – si posizionerà su una fascia prezzo intermedia della gamma di Castello Bonomi. A circa la metà del Franciacorta che domina la piramide, la “Cuvée Lucrezia Etichetta Nera” (60 euro + Iva il costo dell’annata in commercio, una strepitosa 2009).

Utilissima la verticale riservata alla stampa proposta da Castello Bonomi venerdì 13 settembre, a meno di 24 ore dall’inizio del Franciacorta Festival 2019. Nel calice le annate 2011, 2012, 2013 e 2014, tutte sboccate ad aprile e dosate con 2 grammi litro.

Per noi – ha spiegato Roberto Paladin – il progetto di recupero dell’Erbamat è molto importante. Dimostra la nostra visione futura del Franciacorta, in un’ottica di continuità qualitativa che non può prescindere dall’innovazione e dalle strategie utili a contrastare i cambiamenti climatici”.

Vino spumante di qualità Vsq Brut 2011 “Cuvée 1564” (non in commercio)
Erbamat fra il 30 e il 32%, a completare Pinot Nero e Chardonnay. Naso piuttosto tipico del Franciacorta: crosta di pane, brioche, iodio caratteristico del Monte Orfano. Cremosa la frazione di Chardonnay, piuttosto riconoscibile. L’Erbamat marca il calice in due fasi: ingresso e retro olfattivo.

Vino spumante di qualità Vsq Brut 2012 “Cuvée 1564” (non in commercio)
Erbamat fra il 38 e il 40%, a completare Pinot Nero e Chardonnay. Complice forse un periodo inferiore sui lieviti, il naso risulta maggiormente appannaggio dell’Erbamat, nella sua caratteristica buccia di agrume, tra l’arancio, il pompelmo rosa e il verde del lime. Anche in bocca l’Erbamat è più presente con la sua verticalità. Al netto dell’annata differente, il 10% in più di Erbamat si sente, eccome.

Vino spumante di qualità Vsq Brut 2013 “Cuvée 1564” (non in commercio)
La cuvée ottenuta con le stesse percentuali della vendemmia 2013: Erbamat fra il 38 e il 40%, a completare Pinot Nero e Chardonnay. Siamo però di fronte alla migliore espressione dell’etichetta targata Castello Bonomi, al momento.

Naso che sfodera una bell’accento fumè, che gioca sul verde dell’Erbamat e sullo iodio. Oltre al frutto, giustamente maturo, una minore impronta della lisi favorisce l’espressione di uno spumante dal carattere pieno ed elegante.

Vino spumante di qualità Vsq Brut 2014 “Cuvée 1564” (in commercio da aprile 2020)
Ritorno al passato per la composizione della cuvée. Come nel 2011, Erbamat fra il 30 e il 32%, a completare Pinot Nero e Chardonnay. Naso tendente nuovamente alla buccia di lime e al pompelmo, impronta dell’Erbamat.

In bocca una freschezza sull’altalena, su e giù sul frutto, assieme alla percezione salina. Chiusura su ritorni di buccia di agrume, che rendono il sorso asciutto e piuttosto elegante. Uno spumante che troverà nei prossimi mesi una quadra e un equilibrio perfetto.

IN CANTINA

Al netto delle differenti percentuali di uve che compongono la cuvée, la tecnica scelta da Castello Bonomi per la produzione di “1564” è ormai definita in cantina, dopo anni di sperimentazioni. L’uva viene pressata intera e la resa tendenzialmente non supera il 50%.

La fermentazione e il successivo affinamento avvengono in serbatoi di acciaio inox a temperatura controllata. Successivamente i vini vengono mantenuti sulle fecce, fino all’arrivo della primavera successiva. Grazie al controllo delle temperature, non viene effettuata la fermentazione malolattica. L’affinamento in bottiglia è di almeno 48 mesi.

Da servire a una temperatura compresa tra i 6 e gli 8 gradi, il Vino spumante di qualità “Cuvée 1564” di Castello Bonomi è perfetto con antipasti a base di salumi tipici come il salame di Montisola e la Ret, se si vuole cercare l’abbinamento territoriale. Ottimo con piatti a base di pesce di lago come la tinca al forno, il pesce persico o il luccio.

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Biodiversità significa vino di qualità. In Franciacorta il primo studio al mondo


PROVAGLIO D’ISEO –
E’ la differenza che passa tra una bellezza naturale e una costruita dal chirurgo. Da un ambiente sano e ricco di biodiversità, non ritoccato dai “ferri” della chimica, nasce un vino “naturalmente” buono.

E’ quanto conferma per la prima volta al mondo uno studio avviato in Franciacorta dall’Università della California di Davis, in collaborazione con il professor Leonardo Valenti dell’Università degli Studi di Milano. Un progetto avviato tra i vigneti di Barone Pizzini, azienda pioniera della sostenibilità in Italia, poi diffuso in altre aree vinicole del Paese.

Non a caso Barone Pizzini ha affidato all’enologo Valenti la presentazione dei primi risultati dello studio, in occasione dell’assaggio delle basi spumante 2018 della maison franciacortina. L’analisi dei terreni dei “cru” – oltre 40 quelli a disposizione di Barone Pizzini – dà infatti vita a micro vinificazioni, utili alla perfetta composizione delle cuvée.

Un approccio che avvicina la cantina bresciana ad alcune note realtà cooperative dell’Alto Adige, che da anni vinificano separatamente le uve dei propri conferitori, per arrivare al miglior blend. La marcia in più è costituita dall’attenzione alle diverse condizioni registrabili nelle micro porzioni di ogni singolo vigneto.

Un puzzle nel puzzle, che si traduce per esempio in scelte differenti sui livelli di pressatura delle uve del medesimo “cru”, da stabilire in base alle caratteristiche di “croccantezza” ed elasticità della buccia.

Sembra una cosa ovvia la connessione tra la vitalità del suolo e la qualità del vino – spiega Silvano Brescianini, direttore generale di Barone Pizzini e neo presidente del Consorzio per la Tutela del Franciacorta – ma in realtà non sempre questo viene considerato”.

“Per di più – sottolinea Brescianini – non esistono pubblicazioni ufficiali su questo tema. Dobbiamo essere dunque orgogliosi, come italiani, di essere stati i primi a lavorarci. E un grande merito va al nostro enologo, il prof Valenti, e al nostro agronomo, Pierluigi Donna”.

I PUNTEGGI DI BIODIVERSITÀ
“Quando una vite è in equilibrio con l’ambiente – spiega Leonardo Valenti – lo dimostra con un comportamento vegetativo corretto e una tendenza a generare uve di qualità. Non abbiamo fatto altro che analizzare i fattori alla base di questa correlazione, nel sottosuolo”.

Sono stati messi sotto osservazione i differenti appezzamenti di Barone Pizzini, ritenuti più o meno in grado, secondo le evidenze storiche raccolte in occasione delle diverse vendemmie, di produrre uve di maggiore o minore qualità.

Abbiamo dunque assegnato dei veri e propri punteggi di biodiversità ai diversi terreni – aggiunge Valenti – provando per la prima volta al mondo le precise assonanze tra i valori di vitalità del suolo e la qualità dei vini da esso prodotti. Il medico non tratta tutti i pazienti alla stessa maniera. Conoscere le caratteristiche di ogni singolo terreno ci aiuta a comprendere come aiutarlo naturalmente a produrre meglio”.

L’ASSAGGIO DELLE BASI E L’ERBAMAT

Dal campo alla bottiglia, insomma, il passo è breve. E promette benissimo l’annata 2018 di Barone Pizzini, sulla base degli assaggi delle basi spumante dell’ultima vendemmia. Si tratta di prelievi di “botte”, che andranno a comporre i Metodo Franciacorta passando per il tiraggio e la successiva sboccatura.

Le uve atte alla produzione di spumante – ricorda il professor Valenti – devono raggiungere un’immaturità matura. Potremmo anche definirla una ‘maturità adolescenziale’, di un giovane che ha un carattere abbastanza formato, anche se ancora malleabile”.

E’ così che lo Chardonnay del “cru” Roncaglia, utile alla produzione dell’etichetta “Animante” (20-30 mesi sui lieviti) rivela una buona acidità, equilibrata col resto del corredo. Sarà infatti “tirato” a breve.

Più torbida la base dello Chardonnay di Ronchi, che finirà nella cuvée del “Satèn” o del “Naturae”. Una storia a sé per questo vino, ottenuto grazie a una selezione di lieviti indigeni compiuta in un magazzino sterile di Barone Pizzini, fino a individuare – tra 10 diversi – quello più capace di garantire elevati standard qualitativi in fermentazione.

Ben 5, ovvero la metà, sono risultati “gravemente problematici”: una riprova che anche tra i lieviti indigeni delle uve occorre fare selezione, per evitare arresti fermentativi o altri problemi indotti. Un progetto che Barone Pizzini intende comunque estendere ad altri vigneti.

Altro campione altra base: lo Chardonnay del “cru” del Roccolo è perfetto per il Franciacorta Riserva “Bagnadore”, prodotto di punta della cantina bresciana. Si tratta infatti delle ultime uve raccolte nel comprensorio aziendale.

Una maturazione più lenta che garantisce l’ottenimento di un vino base di potenza, struttura e maturità, grazie ad un accumulo di zucchero che non penalizza l’uva in termini di acidità e ph.

Non a caso le radici affondano in un suolo misto, dove parti profonde e sottili si mescolano. Una situazione simile a quella della fascia centrale della Borgogna, dove si trovano appunto i preziosi Grand Cru e i Premier Cru.

Tra gli assaggi più significativi anche quello dell’Erbamat, l’autoctono riscoperto da Barone Pizzini ed entrato ufficialmente tra i vitigni del Franciacorta dalla vendemmia 2017, con un massimo del 10%.

Un vitigno che dà vita a vini duri, ma dotati al contempo di una certa aromaticità, avvertibile nel retro olfattivo. In Italia può essere paragonato solo alla Durella, l’uva “tosta” con cui si produce il Metodo classico dei Monti Lessini.

“Il campanello d’allarme delle caldissime vendemmie 2003 e 2007 – spiega Silvano Brescianini – ci ha spinto ad interrogarci ancora più seriamente sui cambiamenti climatici. Tra le 18 varietà autoctone disponibili per la Denominazione abbiamo scelto l’Erbamat. Una scelta dovuta al fatto che matura 6-8 settimane dopo lo Chardonnay e mostra un’acidità malica elevata, oltre ad essere citata dall’agronomo bresciano Agostino Gallo già nel 1564″.

Barone Pizzini ha iniziato a reimpiantarlo nel 2008 in località Timoline (vigneto Prada). Nel 2011 le prime prove di vinificazione e nel 2016 i nuovi vigneti, per aumentare la massa critica. La cantina di Provaglio di Iseo, assieme a Berlucchi, detiene oggi la nursery dell’Erbamat.

Ci vorrà del tempo per capire se la sperimentazione avrà avuto gli effetti sperati – evidenzia ancora Brescianini – ma di sicuro avere un vitigno così sul territorio ci consente di presentarci all’estero con una storia autentica e di territorio da raccontare, oltre ai vantaggi garantiti dalle caratteristiche di questa uva”.

Secondo l’enologo Leonardo Valenti, la quota perfetta di Erbamat nella cuvée del Franciacorta è tra il 20 e il 25%, meglio se con Chardonnay e Pinot Noir. Sorprendenti, appunto, anche gli assaggi di Pinot Nero della vendemmia 2018 di Barone Pizzini: potenti, salini e dotati del giusto apporto di frutto.

Quel che è certo è che tutti i Franciacorta della cantina di Provaglio d’Iseo siano “ipocalorici”, come piace definirli al direttore Silvano Bresciani. Ovvero sostanzialmente privi di percezioni zuccherine. La “coda” dolce della liqueur d’expedition è poco percettibile ed è semplice capire perché: il vino “più dosato” è il Satèn, che registra tra i 4 e i 5,5 grammi di residuo.

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Torrevilla: nuova cantina per il Pinot Nero Metodo classico. Si chiamerà La Genisia

CODEVILLA – Una nuova cantina per puntare tutto sul Metodo classico da uve Pinot Nero, vera eccellenza dell’Oltrepò pavese. E’ il progetto della cooperativa Torrevilla di Torrazza Coste (PV). La cantina si chiamerà La Genisia, nome che oggi indica la linea top di gamma della cantina oltrepadana.

Un investimento da oltre un milione di euro, in parte finanziato dal Programma di Sviluppo Rurale (Psr), il circuito di sostegno all’agricoltura dell’Unione europea, attraverso Regione Lombardia.

La cantina non sarà realizzata ex novo. Per volere del presidente della cooperativa, Massimo Barbieri, sarà infatti ristrutturata l’imponente struttura in cemento della cantina di Codevilla, già di proprietà di Torrevilla.

L’adiacente Torre Vinaria potrà così diventare un importante polo di attrazione enoturistica, assieme alla nuova sala di degustazione pensata per winelovers e professionisti del settore. La spettacolare volta in mattoncini della cantina Codevilla sarà recuperata. E valorizzata, nella parte sottostante, da 500 metri quadrati dedicati esclusivamente al Metodo classico dell’Oltrepò pavese.

“Sino ad ora – spiega Massimo Barbieri (nella foto sotto, a sinistra) – la produzione di spumanti Metodo classico di Torrevilla è rimasta relegata alla linea top di gamma La Genisia. Con questo progetto vogliamo scommettere sull’eccellenza dell’Oltrepò pavese, puntando sul Pinot Nero che in questa zona si esprime in maniera unica”.

“L’idea di Torrevilla – aggiunge il direttore Gabriele Picchi – è quello di alzare il livello attraverso una linea di etichette che rappresenti il territorio e il terroir, sullo stile delle cooperative dell’Alto Adige. Senza però dimenticare il resto della produzione, su cui continueremo a credere e a garantire elevati standard qualitativi”.

IL PROGETTO DI ZONAZIONE

La nuova cantina La Genisia sarà il fiore all’occhiello del progetto di zonazione dei vigneti di Torrevilla. Uno studio che ha visto coinvolto il prof. Leonardo Valenti (nella foto, a destra), agronomo, enologo e docente dell’Università degli Studi di Milano.

“Siamo partiti dal Pinot Nero – spiega Valenti – per poi allargare la ricerca a tutte le altre varietà presenti nei 600 ettari di vigneto della cooperativa. L’obiettivo era quello di capire le caratteristiche dei singoli appezzamenti a disposizione dei 200 soci di Torrevilla, per individuare quelli più adatti al produrre vini di eccellenza”.

Il risultato è una vera e propria mappa, in cui sono riuniti sotto lo stesso colore i vigneti con le medesime caratteristiche microclimatiche e pedologiche. Il “Programma qualità” affidato da Torrevilla al prof. Valenti sarà anche la base di partenza di un nuovo sistema di remunerazione delle uve conferite alla cooperativa.

“Entro il prossimo mese – annuncia il presidente Barbieri – porteremo in assemblea una revisione dell’attuale sistema di pagamento dei nostri soci, che saranno retribuiti per superficie e non più per quantità di uva conferita”.

“In questo modo – precisa il presidente di Torrevilla – contiamo di poter intervenire in maniera più specifica sulla qualità della produzione, favorendo per esempio i diradamenti, che col sistema attuale risultano piuttosto invisi dai soci”. Tanta carne al fuoco, insomma, al 112° anno dalla fondazione della cooperativa di Torrazza Coste.

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