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Flipper tour del vino ungherese: da Tokaj a Villány in 4 giorni (con tappe intermedie)

Si può fare. Partire con un pranzo veloce ma raffinato in uno dei nuovi templi dell’enogastronomia di Budapest – il Fiaker Cafe Wines Bistrot – proseguire per Miskolc – la città delle grotte preistoriche trasformate in cantine – far tappa tra Tokaj e Mád e concludere il viaggio dall’altra parte dell’Ungheria, a Villány, dopo una sosta ristoratrice al Baracsi Halászcsárda: il luogo perfetto per degustare la tradizionale zuppa di pesce del posto (Bajai halászlé) condita da fiumi di Kadarka di Szekszárd.

Poco meno di otto ore di viaggio in auto, spalmate su 4 giorni, utili a percorrere circa 700 chilometri, quasi tutti in autostrada. Un vero e proprio “flipper tour“, per chi ha poco tempo a disposizione e vuole scoprire in un batter di ciglio tutto (o quasi) del vino ungherese.

L’atmosfera rilassata del Fiaker Budapest è ciò serve per cominciare il viaggio col piede giusto. András Kálmán, fresco del premio Wine Spectator Reveals Restaurant 2020, ha messo su una parete degna di uno scalatore di calici.

Il concept è rivoluzionario. Una lista di 260 etichette ridisegna i confini del Paese, tratteggiando a suon di bianchi, rossi e spumanti (dall’ottimo rapporto qualità-prezzo) la carta geografica del Regno d’Ungheria, pre Trianon di Versailles (1920).

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Ecco dunque, una vicina all’altra, le chicche dell’ex Impero Austro Ungarico provenienti dalle attuali Romania, Slovacchia, Austria, Croazia, Serbia e Slovenia. Spazio anche per l’Alto Adige – unica regione d’Italia, ancora per poco – rappresentata da Alois Lageder. L’altra particolarità?

Al Fiaker Budapest – spiega a WineMag.it András Kálmán – sappiamo che per gustare un buon vino, spesso bisogna attendere. Per questo siamo in grado di offrire ai nostri clienti verticali di oltre 10 anni, per molte delle etichette presenti in carta”.

All’enoteca-bistrot di via Imre Madách 11, nel cuore del centralissimo Distretto V, si può degustare in serie tre bianchi da altrettante varietà, rappresentativi dei rispettivi terroir (ungherese, austriaco e sloveno).

  • Badacsonyi Olaszrizling 2019, Éliás Pince. Vino proveniente dall’areale vulcanico a nord del lago Balaton. Al naso è tipico, nel gioco tra note agrumate e mineralità. Al palato una bella pienezza conferita dai ricordi di frutta matura, in perfetto equilibrio con le note vulcaniche. Sorso agile ed elegante, di buona lunghezza. Insomma, tutto ciò che deve avere un buon “Riesling italico”, varietà molto diffusa in Ungheria.
  • Grüner Veltliner Smaragd Ried Achleiten 2017, Domäne Wachau. Solo una delle etichette che Fiaker è in grado di offrire ai propri clienti in verticale, indietro sino agli anni 90. Nel calice, il vino austriaco sfoggia un giallo paglierino acceso, luminoso. Lo stile, al naso e al palato, è quello di un nettare con l’armatura perfetta per affrontare la sfida col tempo. Alla larghezza delle note fruttate mature abbina una freschezza invidiabile. Vino al momento sull’altalena, in preda all’esuberanza dei suoi 14.5% d’alcol in volume.
  • Sauvignon Blanc 2018, Dveri Pax. La moderna cantina slovena ha una storia lunga 800 anni, legata ai monaci benedettini. La zona è perfetta per una varietà internazionale come il Sauvignon, tipico sin dalla sua veste paglierina, dai riflessi verdolini. Note tropicali, naso-bocca. Un accenno verde (buccia di pompelmo) e floreale (sambuco) gioca col succo e con la polpa. Al palato agrume e mineralità e un finale asciutto. Un vino semplice, perfetto per l’aperitivo e per l’estate, dall’allungo amaricante che invoglia al sorso successivo.
photo credit miskolcadhatott.blog.hu

Tre vini, tre cantine, tre storie, che paiono mescolarsi e confondersi nel balzo spazio-temporale dal Fiaker di Budapest, minimalista ed elegante, ai grovigli post industriali della città di Miskolc.

Il cielo minaccia pioggia. Ma a impressionare, all’orizzonte dell’autostrada M3 e della sua direttrice E79, è la vista dei palazzoni grigi, conficcati come denti consumati di un gigante, nella parte alta della quarta città d’Ungheria.

Sono i casermoni degli ex operai dell’industria pesante, fiorente durante la Seconda Guerra Mondiale e caduta in disgrazia negli anni Novanta, a ricordare che il verde della sconfinata pianura ungherese è ormai alle spalle.

Di fronte agli occhi, i rimasugli di una città che sta provando a lasciarsi alle spalle le scorie post socialiste. A suon di cultura, turismo e polizia, ma pur sempre tra un club striptease e l’altro. Il centro della città, oggi sede del governo della Provincia di Borsod-Abaúj-Zemplén e di un’Università, pullula di giovani diretti in discoteca.

È l’immagine dissacrante di un sabato sera d’agosto (2020, mica un anno a caso) di una nazione che, chiudendosi in se stessa, è riuscita a mettere la museruola al Covid-19, ma che ora ha voglia di tornare a vivere. Specie a Miskolc, dove il rumore delle industrie dell’acciaio si è spento da un pezzo. E la musica è cambiata, anche grazie alle nuove generazioni.

Ne sa qualcosa Roland Borbély, uno dei pochi ex meccanici del mondo che può dire di aver lasciato il “garage” due volte: la prima dopo aver mollato il lavoro in officina, per aprire la sua cantina; la seconda per essersi concesso una cantina vera, dopo i primi esperimenti enologici nel box di papà.

Gallay Kézműves Pince e il suo quartier generale nel villaggio di Nyékládháza, sono questo: un sogno divenuto realtà, nel segno della rivalsa di un intero territorio. La cantina di Borbély, di fatto, è una stella luminosa di appena 11 ettari, nel cielo spento della viticoltura di Miskolc.

La città è nota a livello turistico per la presenza di centinaia di grotte preistoriche, una accanto all’altra, lungo la matassa di viuzze che si accalcano ai piedi del monte Avas. Un tempo, questo era il crocevia del mercato del vino tra Budapest, Eger e Tokaj: il vino si respirava nell’aria.

Oggi, pochi ma strenui viticoltori vogliono riportare in auge una zona che, negli due ultimi secoli, ha visto più fumo librarsi dalle ciminiere che grappoli appendersi alle viti. Nulla è impossibile. E Roland Borbély lo sa.

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  • Gallay Genus 2019. Uno dei focus è sull’uva autoctona Zenit, presente in questo blend accanto a Chardonnay e Olaszrizling. Bel naso ampio, tocco minerale, nocciola. Agrumi, tra polpa e buccia. Uno sbuffo di spezia tiene sull’attenti la pesca matura. In bocca corpo leggero, ma bell’allungo fresco e agrumato.
  • Gallay Kabar 2019. Kabar è il nome della varietà ottenuta dall’incrocio tra Hárslevelű e Bouvier, inserita nel 2006 nel registro nazionale ungherese. Ancora una volta gli agrumi a fare da sfondo, al naso. Tocco di zenzero riconoscibile nella componente vegetale-speziata. La morbidezza in ingresso di palato precede una netta freschezza: il sorso è verticale, minerale. Preciso e di buona lunghezza.
  • Gallay Nyékládháza 2016. Zenit in purezza. Bel naso, minerale-pietroso più che salino, a stuzzicare note cremose di limone. Tocco leggero di spezia. In bocca conserva la nota minerale asciutta, abbinata magistralmente alla succosità del frutto: pesca a polpa gialla, ma anche agrumi.
  • Gallay Blanc 2012. Vino dal taglio internazionale, pur essendo ottenuto al 50% da Zenit, accanto al Pinot Bianco. Il primo naso è sulla suadenza e rotondità dei terziari del legno. L’ossigenazione libera una nota leggera di idrocarburo, oltre a un tocco di radice di liquirizia. Bel palato fresco e fruttato, per un vino di grande gastronomicità.
  • Rozé 2019. Colore carico, certo più vicino al saignée che alla Provenza, ma luminoso. Zweigelt in purezza, in quantità limitatissima: solo 700 bottiglie. Il naso è intenso nel bouquet di marasca e piccoli frutti rossi. Al palato la freschezza accompagna un corpo medio, in un sorso fruttato che chiama l’estate tanto quanto il piatto.
  • Miskolc 2015 “Bistronauta”. Ancora una volta Zweigelt in purezza. Colore e naso che ricordano il Pinot nero, affinato in legno. Ingresso di bocca su note tostate e di brace, ben abbinate ai sentori di piccoli frutti rossi. Bella freschezza per un nettare piacevole ma non piacione, che chiude su un accenno di spezia.
  • Turán 2017. Dalla varietà autoctona ungherese, Roland Borbély trae un vino dagli aromi unici nel suo genere, anche grazie all’ausilio di due tipi di legni. Il primo naso vira netto sull’origano. Lo si ritrova anche al palato, assieme alla nota di caramella mou. La nota vegetale e speziata fa da contraltare a un frutto succoso. Ne risulta un vino dalla beva instancabile, unico nel suo genere.

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Passato, presente e futuro dell’Ungheria si incrociano anche una cinquantina di chilometri a ovest di Miskolc, per l’esattezza a Mád, uno dei comuni più noti per la produzione dei vini di Tokaj-Hegyalja. La storia dell’Öreg Király dülő, letteralmente “Vigna del vecchio re” (The Old King’s Vineyard) è stata riscritta più volte.

Se oggi la collina fa parlare di sé, oltre ad offrire una vista mozzafiato, dai suoi 343 metri sul livello del mare, è grazie alla famiglia Barta, che l’ha acquistata nel 2003. Iniziando a reimpiantarla progressivamente sin dall’anno successivo, nel 2004. Un investimento ingente, a livello finanziario, quello della piccola cantina di Mád.

La Öreg Király dülő – spiega a WineMag.it Vivien Ujvári, giovane enologa di Barta Pince – era vitata sin dal 1200. A cavallo tra il 1600 e il 1700 rientrava tra i possedimenti della nobile famiglia Rákóczi, che guidò l’insurrezione del popolo magiaro contro gli Asburgo. Fu poi rasa al suolo dai russi, nella seconda metà degli anni Novanta”.

La ragione è semplice. In quegli anni, l’Ungheria era uno dei serbatoi del vino di bassa qualità destinato a Mosca. Le difficili condizioni di lavoro (63% di pendenza) e le rese basse della “Vigna del re”, segnarono la sentenza di condanna per questo pezzo di storia della viticoltura magiara, completamente estirpato.

La famiglia Barta è riuscita a riportare in vita la Old King’s Vineyard, proponendo un modello di viticoltura biologica che valorizza le terre rosse della collina, ricche di precipitazioni di ferro, nonché di minerali come la riolite e la zeolite vulcanica. Il risultato, nel calice di Barta Pince, lascia il segno.

  • Öreg Király dülő Mád Furmint 2016. Giallo paglierino. Tanto fiore, un profilo fruttato su cui spicca la pesca perfettamente matura. Il sorso è minerale e al contempo rotondo, grazie al residuo di 8,9 g/l. La chiusura, asciutta, sottolinea il concetto di un vino che vive su un equilibrio perfetto.
  • Öreg Király dülő Mád Furmint 2018. Giallo paglierino. Tocco di arancia più marcato rispetto all’assaggio precedente (cambia la vendemmia, non la vigna), sia al naso che al palato. Anche il sorso è più asciutto del precedente, a dimostrazione di una gestione ottimale dell’annata calda, a livello agronomico ed enologico. Conservate appieno, di fatto, le caratteristiche varietali. Un vino elegante, lungo negli aromi, giovanissimo.
  • Öreg Király dülő Mád Hárslevelű 2019. Un vero e proprio manifesto al vitigno, con le sue note tropicali spinte e il tocco del legno a giocare con la mineralità.

  • Öreg Király dülő Tokaji Szamarodni 2015. Naso ampio, sui fiori bianchi e sulla cera d’api, ancor più del miele. Seguono in successione e in crescendo l’albicocca e la pesca sotto sciroppo, oltre a un tocco di agrume rosa. In bocca perfettamente corrispondente. Vino che chiama il piatto e l’abbinamento con la cucina, specie quella asiatica e speziata.
  • Öreg Király dülő Tokaji Aszú 6 puttonyos 2016. Solo 768 bottiglie per questa chicca che svela un naso splendido, tinto di un colore giallo oro luminoso. Un tocco verde che ricorda la buccia di lime, difficile da trovare solitamente nella tipologia, spunta in mezzo alle note di agrume e zenzero candito. In bocca un’eccellente freschezza e lunghezza, su ritorni d’agrume che “tengono” per le briglie il sorso (e il residuo), prima di una chiusura cremosa, deliziosa, su note di frutta tropicale. Vino di prospettiva assoluta.
  • Öreg Király dülő Eszencia 2013. L’apoteosi dei vini di Tokaj, in una delle più giovani interpretazioni di Barta Pince, ancora in affinamento: basti pensare che, al momento, l’annata in commercio è la 2008. Un nettare che si attacca con le unghie alle pareti del calice, denso, tingendolo di un giallo dorato luminoso. Al naso è largo e profondo. Le note di frutta candita sono ultra concentrate; quelle di mentuccia e d’agrumi rinfrescano il giusto, attenuando la percezione dolce. La persistenza è infinita.

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È una storia di passione e tradizione anche quella di Patricius Borház, la tenuta di 85 ettari che sorge a Bodrogkisfalud, a pochi metri dalle rive del fiume Bodrog. A Dezső Kékessy e alla figlia Katinka l’onere e l’onore di portare avanti una tradizione pluricentenaria, che affonda le radici nel 1800.

La cantina, perfettamente integrata tra le vigne, vanta le più moderne tecnologie e un sistema di vinificazione incentrato sulla forza di gravità: le sale dove avviene la vinificazione sono invisibili, interrate sotto ai vigneti che circondano l’elegante estate.

“La nostra vera ricchezza – commenta a WineMag.it Péter Molnár, general manager di Patricius Borház e presidente del Tokaj Council – è l’estrema variabilità dei terreni, che cerchiamo di preservare nelle migliori annate con vini provenienti da cru o armonizzare negli assemblaggi delle uve di più vigneti, presenti con diversi cloni”.

  • Tokaj Green Furmint 2017. L’etichetta d’ingresso nel mondo di Patricius non poteva che essere un Furmint ottenuto da uve biologiche. Il naso è ricco, floreale e fruttato, mentre il palato è decisamente incentrato sulla mineralità. Un calice spensierato, testimone del terroir vulcanico.
  • Pezsgó-Sparkling Méthode traditionelle Brut 2015. Hárslevelű, Furmint e Sárgamuskotály si dividono una cuvée che ha riposato 3 anni e mezzo sui lieviti. Il risultato è un Metodo classico che riflette le caratteristiche delle tre uve simbolo di Tokaj: la frutta esotica dell’Hárslevelű, la freschezza del Furmint e l’aromaticità armoniosa del Sárgamuskotály. Bollicina cremosa in un sorso agile ma non banale.
  • Tokaji Furmint Selection 2018. Frutto, cremosità e mineralità, nonché una perfetta integrazione tra le note morbide, derivanti dall’affinamento in legno, e gli sbuffi di spezia. Un vino elegante e moderno, fresco e fruttato, che rappresenta appieno l’idea del Dry Furmint di Patricius, nella sua dimensione gastronomica.
  • Noble Late harvest 2017 “Katinka”. Furmint, Sárgamuskotály e Kövérszőlő per questa vendemmia tardiva che mira a mostrare al grande pubblico il potenziale della “muffa nobile”, la Botrytis cinerea, oltre alle capacità di conservare la freschezza da parte delle uve tradizionali di Tokaj, da “appassite”. Nonostante i 129 g/l di residuo zuccherino, il nettare si rivela infatti perfettamente equilibrato e per nulla stucchevole.
  • Tokaji Aszú 6 puttonyos 2016. Primo naso su ricordi di terra bagnata e di fungo, poi esce un frutto tutto da respirare, di albicocca e pesca sotto sciroppo. Miele, cioccolato, tabacco. Note che si ritrovano anche al palato, lungo e profondo, largo e verticale.

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Assaggi, quelli da Patricius Winery, che anticipano la “traversata d’Ungheria”. Già, perché se la parte settentrionale del Paese è perlopiù appannaggio delle varietà a bacca bianca, è il sud che si è affermato per la produzione dei vini rossi, anche a livello internazionale.

L’ultima tappa del “flipper tour” del vino ungherese è la Bordeaux d’Ungheria: Villány, a pochi chilometri dal confine con la Croazia e con la Serbia. Le 5 ore abbondanti necessarie a raggiungerla da Tokaj, sono un’ottima scusa per una sosta al Baracsi Halászcsárda, una taverna con pensione ai margini del villaggio di Baracs, lungo le rive del Danubio.

Siamo nell’altra patria del vino rosso ungherese, Szekszárd, a circa tre quarti del cammino verso Villány. Ad accompagnare la zuppa di pesce del Baracsi Halászcsárda, la tradizionalissima Bajai halászlé, sono due vini di Vesztergombi Pince.

Le redini della cantina sono oggi saldamente in mano a Csaba Vesztergombi, capace di raccogliere l’eredità del padre Ferenc (enologo ungherese dell’anno nel 1993) e della madre Piroska, dopo aver fatto esperienza all’estero. Il focus della produzione, tuttavia, è su diversi cloni del vitigno autoctono Kadarka.

I vini ottenuti da questa varietà presentano colore e sentori simili al Pinot Nero. Come il Noir risultano eleganti, caratteristici e straordinariamente longevi. Nell’interpretazione di Vesztergombi Pince, la Kadarka 2017 e la 2018 riflettono l’annata e la percentuale di uve botritizzate concesse dal meteo, in occasione della vendemmia.

Quel che è certo, è che la varietà consente la produzione di vini terribilmente moderni – nell’accezione positiva dell’avverbio – in grado di incontrare il gusto internazionale di tutte le età. Lo dimostra il pairing con il pesce, letteralmente azzeccato.

Alla stregua – per trovare un altro parallelismo con l’Italia – di una Schiava (a Caldaro, in Alto Adige), di un Bardolino (sul Lago di Garda) oppure, spostandosi in Meridione, di un Cerasuolo di Vittoria (unica Docg della Sicilia).

  • Kadarka 2018, Vesztergombi Pince. Colore tipico, rosso rubino luminoso, mediamente trasparente. Bel naso su fiori freschi, lamponi, fragolina di bosco. Vino dalla pienezza leggera e leggiadra, non ingombrante, ma totalmente riempitiva. Elegantissimo, pur trovandosi nel pieno della sua fase giovanile. Beva instancabile.
  • Kadarka 2017, Vesztergombi Pince. Il tono rubino è leggermente più carico, primo segnale (poi confermato al naso e al palato) di un vino dalla maggiore concentrazione, dettata anche dalla presenza di un 5% di uve botritizzate. Un rosso che rispecchia maggiormente le caratteristiche del vitigno “tesoro di Szekszárd”. Sorso fresco, eppure al contempo morbido e avvolgente. Eleganza da vendere, così come capacità di affrontare la sfida col tempo.

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Proseguendo verso sud, lungo la strada che da Szekszárd conduce a Villány, si trova Lajvér Borbirtok. La grande attenzione per i dettagli architettonici della cantina di Szálka, realizzata al centro di un anfiteatro di vigneti a terrazze circondati da boschi, rivela la matrice internazionale dell’azienda, sotto la guida enologica di Attila Nagy e del suo staff. Un aspetto confermato dagli assaggi.

  • Lajvér “Incognito” 2019. Una delle rare interpretazioni “in bianco” del Kékfrankos, versione esclusa dai disciplinari locali che ne giustifica il nome misterioso. Se chiudi gli occhi, di fatto, pare di avere nel calice un rosé. Ed è proprio questa la forza dell’etichetta: un bianco di carattere, dal sorso minerale e fruttato, che si divide tra l’esotico e i piccoli frutti a bacca rossa. Finale asciutto e di buona persistenza.
  • Lajvér Szekszárd Pinot noir 2017 Limited edition. Circa 2 mila bottiglie complessive per questo Pinot Nero affinato in legno, dopo una vinificazione attenta a preservarne i primari. Naso elegante, tra piccoli frutti di bosco, arancia sanguinella, spezia e macchia mediterranea, su un sottofondo di caramella mou, fondo di caffè e cioccolato. Bella presenza al palato, dopo l’ingresso sul frutto. Vino che chiama il piatto.
  • Lajvér Kékfrankos 2015 Limited edition. Solo 696 bottiglie per quest’altra edizione limitata ottenuta da un clone austriaco di Blaufränkisch. Dal bel rosso rubino si liberano note giocose di frutti rossi e spezia. L’affinamento in barrique ungheresi, protrattosi per 12 mesi, è tutt’altro che invasivo anche al palato. Il sorso è elegante, preciso, croccante, giustamente arrotondato dalla botte. Versione non banale di un vino che regge bene l’abbinamento, mostrando l’altro volto di un vitigno corposo.
  • Lajvér Szekszárd Merlot 2015 Selection. Piena maturità del frutto, nel segno di un’ottima gestione del varietale (dei primari, nello specifico). Al naso caratteristico fa eco un sorso agile ma consistente, anche grazie a un tannino piuttosto rotondo. I terziari sono tutti sulla liquirizia. Altro vino dall’alto gradiente di gastronomicità.

Vini, quelli di Lajvér, che fungono da “antipasto” all’ultima tappa. Già, perché ad attenderci a Villány c’è József Bock (nella foto, sopra). E non solo. Il 72enne, che accosta la direzione della propria cantina alla presidenza del Villányi Borvidék Hegyközségi Tanácsa – il Consorzio vitivinicolo regionale – ha chiamato a coorte altri 3 produttori della zona, per mostrare le potenzialità di un territorio che fonda tutto su un disciplinare di produzione rigorosissimo.

I vini che soddisfano i requisiti del Comitato di valutazione – spiega József Bock a WineMag.it – rientrano nelle categorie ‘Villányi classicus‘, ‘Villányi premium‘ o ‘Villányi super premium‘, sulla base delle rese, che variano da 35 a 90 quintali per ettaro, e dei parametri di qualità delle uve.

Nel 2014, per valorizzare ulteriormente i vini ottenuti da Cabernet Franc in purezza, abbiamo introdotto il marchio ‘Villányi Franc’ per le sole categorie ‘Premium’ e ‘Super Premium’. Quest’ultima contempla già di per l’esclusivo utilizzo del Cabernet Franc”.

Sono circa 10 milioni le bottiglie prodotte annualmente a Villányi. La storia di József Bock, che con la sua famiglia possedeva solo un paio di ettari di vigne negli anni Ottanta, somiglia tanto a quella di altre aziende cresciute a livello esponenziale nell’ultimo trentennio, se non altro dal punto di vista del riconoscimento internazionale.

I calici del gruppo di produttori locali chiamati a raccolta nel tempio del vino di Bock dimostrano la bontà del progetto vitivinicolo di Villányi, oltre alla linea comune intrapresa dai produttori, nel segno della qualità.

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  • Villányi Kadarka 2017, Gere Tamás és Zsolt Pincészete. Vino che lascia il segno per le sue caratteristiche uniche. Il carattere speziato è tipico del clone scelto per questa etichetta, che al naso abbina sinuosamente note di origano, piccoli frutti rossi e agrumi (ricordi di bergamotto). In bocca, la perfetta corrispondenza si misura con una facilità di beva strabordante, considerata la varietà dei sentori. Finale lungo, su ritorni di frutta rossa e rinvigorenti sbuffi speziati-vegetali.
  • Fekete Járdovány 2018, Gere Attila Pincészete. Una varietà molto diffusa in Romania, su cui la cantina punta molto, per le sue particolari caratteristiche. Corretto, trattandosi di una varietà rara mappata anche in Ungheria, cercare di semplificarne la comprensione inserendola – a livello degustativo – nel triangolo compreso tra Kékfrankos, Pinot Noir e Kadarka. E in Italia? Pare sensato il parallelismo col Grignolino del Piemonte. Sia al naso che al palato, il Fekete Járdovány 2018 di Gere mostra un equilibrio strepitoso tra spezia e frutto. Sfodera un tannino elegante e di prospettiva che si aggrappa al succo, rivelando tutto il potenziale futuro del nettare.
  • Villányi Franc 2016, Vylyan. Un vino catalogato nella tipologia “Villányi Premium” che bilancia bene le anime del Cabernet Franc, con particolare attenzione a pulizia e precisione del frutto.
  • Villányi Franc 2016, Gere Tamás & Zsolt Pincészet. Altra etichetta catalogata come “Villányi Premium”, ottenuto dalla singola vigna “Várerdő-dűlő”. Bellissimo rosso rubino, profondo ma luminoso. Primo naso sul lampone e su un tocco selvatico in cui spuntano note pregevoli di radice di liquirizia e mentuccia. Il palato è corrispondente e svela un apprezzabile accenno salino. Vino complesso, giovanissimo. In commercio la 2012.
  • Villányi Cuvée 2015 “Libra”, Bock. Uvaggio di Cabernet Franc (50%), Cabernet Sauvignon (25%) e Merlot (25%). Vino che fa della concentrazione e della rotondità il suo piatto forte. Al frutto tendente alla confettura abbina terziari di fondo di caffè e tabacco.
  • Villányi Kopár Cuvée 2017, Gere Attila Pincészete. Da poco sul mercato la nuova annata di uno dei vini simbolo della cantina. Compongono l’uvaggio Cabernet Franc (50%), Merlot (40%) e Cabernet Sauvignon (10%). Oltre all’evidentissima “gioventù”, il vino racconta una gran prospettiva. Un’etichetta destinata a diventare, nei prossimi anni, uno dei simboli dell’eleganza di Villàny. Con Bordeaux sullo sfondo.
  • Villányi Franc 2012 “Mandolas”, Vylyan. Solo barriques nuove, solo ungheresi. Scelta dei legni decisiva per questo Cabernet Franc in purezza molto condizionato dai terziari. Naso ammaliante, giocato sulle tostature e sulla spezia calda: ricordi di zafferano, fondo di caffé, terra bagnata. In bocca una struttura corpulenta. Il frutto è piano, il tannino – al momento – un po’ troppo esuberante.
  • Villányi Capella Cuvée 2009, Bock. Cabernet Franc (60%), Cabernet Sauvignon (30%) e Merlot (10%) da quelle che József Bock considera “le vigne più belle di Villány”: Ördögárok dűlőből (“Vigna del diavolo”) e Jammertál dűlőről. Un nettare che riposa 24 mesi in botti di rovere ungherese e viene prodotto solo nelle annate eccezionali, in quantità limitata (8.590 bottiglie nel 2009, in degustazione la 730). Siamo di fronte ancora una volta a un vino largo, il più concentrato e profondo della batteria, giocato su note di confettura, cioccolato, spezia calda (tra cui spicca la liquirizia) e macchia mediterranea (origano, mentuccia). Il tannino, conferito in parte dall’uva e in parte dal legno, asciuga il succo e il sorso. La freschezza è riequilibrante e il finale lungo e deciso. Un vino che ha ancora molta vita davanti.

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Ma il legame tra Villány e la viticoltura internazionale va ben oltre il calice. Il borgo di 2.500 abitanti della provincia di Baranya è noto per aver dato i natali a Zsigmond Teleki, nel 1854. A lui si devono importanti studi sulla fillossera. Ancora oggi, diverse aziende utilizzano portinnesti “resistenti” che portano il suo nome.

A Teleki, vera e propria figura mitologica del vino ungherese, è dedicata l’omonima gamma di vini di Csanyi Pincészet, una delle maggiori cantine d’Ungheria coi suoi 2 milioni di bottiglie prodotte, grazie a 370 ettari di vigneti (numero che sale a 450 ettari, considerando i vigneti di recente acquisizione e impianto).

A raccogliere l’eredità di Chateau Teleki, la cantina fondata dallo stesso Zsigmond Teleki nel 1881, è stato nel 2000 il secondo uomo più ricco d’Ungheria, Sándor Csányi, amministratore delegato del colosso bancario ungherese Otp Bank Group.

Csányi, titolare di numerose altre aziende del settore dell’agricoltura e dell’allevamento (Bonafarm Group), nonché presidente della gloriosa Federcalcio magiara (la Magyar Labdarúgó-szövetség), ha voluto realizzare una cantina con i migliori standard tecnologici, preservando il nucleo originario di Chateau Teleki.

Al suo fianco, dal 2016, un manager affermato come László Romsics e un enologo prelevato dal “vivaio” della stessa cantina, Zoltán Szakál, ormai ex allievo del veterano Antal Bakonyi. Gli assaggi dei vini di Teleki dimostrano come quantità e qualità possano fare rima, anche in Ungheria.

  • Csányi Teleki Villány RedY 2019. Lo scopo di questo blend di uve locali, alla base del brand “Redy”, è mostrare le peculiarità più fresche delle uve tipiche di Villány, dando vita a vini da bere a pochi mesi dalla vendemmia, che non necessitino dei lunghi affinamenti tipici delle varietà bordolesi. Una porta d’ingresso, insomma, al mondo dei vini rossi ungheresi. Nello specifico, l’uvaggio si compone di Blauburger, Kékfrankos e Portugieser, vinificati in acciao. Un vino che adempie appieno la sua funzione spensierata e quotidiana, nel gioco gioioso tra il frutto e la spezia. Da rivedere (ma vale per l’intera tipologia RedY di Villány) i massimali dell’alcol: 13% in volume risultano la ciliegina mancata in termini di “leggerezza”, su una torta perfetta.
  • Teleki Selection Villányi Kékfrankos 2017. Il vero vino spensierato, eppure concreto, dinamico e croccante, della cantina di Villány. Tutto frutto e spezia, per una beva dirompente e instancabile.
  • Château Teleki Villány Merlot 2015. In bottiglia da 10 mesi, dimostra di avere tutte le caratteristiche per un bell’allungo, in prospettiva. Al momento il naso è più ordinato del palato. Trait d’union i frutti rossi, col tannino a ringhiare sul succo.
  • Château Teleki Villány Franc 2017. Un Cabernet Franc letteralmente esaltato da un utilizzo del legno più che mai discreto. Ne risulta un vino dominato dal frutto, con richiami intensi a quelli di bosco e ricordi d’agrumi. Il tocco di spezia verde vivacizza, quello della liquirizia rende il quadro armonico. Bella prova, anche in prospettiva.

  • KőVilla Válogatás Villányi Franc 2015. Vino giocato sull’armonia e sull’eleganza, senza rinunciare alla struttura e al corpo. Gran gastronomicità: chiama il piatto.
  • Villányi Franc Super Premium 2015 Teleki Tradíció 1881. Un Franc al momento troppo condizionato dal legno a danno del varietale e, soprattutto, del frutto. Vaniglia e cioccolato un po’ troppo invadenti sulle note pepate e fruttate, pur presenti e distinguibili. Vino da aspettare: la stoffa c’è tutta. Il mercato non può aspettare, ma i consumatori attenti sì.
  • KőVilla Válogatás Villányi Cabernet Sauvignon Kopá 2017. In bottiglia da due mesi, rivela già un frutto pieno, succoso, oltre a un tannino a sua volta elegante. Chiusura su terziari di cacao, per un altro vino di prospettiva.
  • Villányi Cabernet Franc 2002. Vino tuttora sulla cresta dell’onda – e lo sarà ancora almeno per i prossimi 3 anni, ad alti livelli – a dimostrazione di quanto Villányi sia la patria del Cabernet Franc ungherese, ben prima della valorizzazione “ufficiale” del 2014. Colpiscono la freschezza e la succosità, ancora vive e armoniche sui terziari di cioccolato, tabacco e fondo di caffé.
  • Villányi Pinot Noir Rosé Brut 2016 Teleki Tradíció 1881. Sette grammi di residuo zuccherino per un Brut Metodo classico giocato sulla croccantezza del frutto di bosco e la vivacità e freschezza degli agrumi, più che sui sentori di lisi. Un’ottima “prima prova”, in attesa del bis della vendemmia 2018, in uscita a fine 2020.
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