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La nuova moda è declassare. Così muoiono le Denominazioni del vino italiano


EDITORIALE –
Declassare uve e terreni è ormai diventata una “moda” in Italia, se non una tentazione incalzante tra i produttori. Un fenomeno che dimostra la crisi delle Denominazioni del vino italiano, che paiono contare sempre meno. Forse perché sono ormai tutto tranne che una garanzia?

In Italia, più che Doc o Docg, sono molti i produttori che virano su vini Igt o persino sul “Vino da tavola”. E non serve poi tanto chiamarlo poeticamente e religiosamente “Terregiunte“, come il “Vino d’Italia” di Vespa-Boscaini & Co, che altro non è che un Tavernello, solo col nome (e gli interpreti) più “fighi”: tanto arditi da usare il nome di una Doc e di una Docg per avvalorare un’operazione biecamente commerciale, più che enologica.

Se da un lato ci sono vignaioli che fanno di tutto per “esaltare il terroir”, e Consorzi come quello del Soave che tentano, attraverso le Unità geografiche aggiuntive, di valorizzare la tipicità dei singoli cru della Denominazione, a girar per vigne e cantine del Bel paese capita spesso di rimaner più colpiti dagli Igt che dai vini Doc o Docg.

Caso eclatante, capitato di recente durante il tour di WineMag.it in Calabria, quello di Cantina Enotria, a Cirò Marina. Igt di altissimo livello: veri, col vitigno nudo e “crudo” al naso e al palato, belli da morire. E i Doc ad uso e consumo del mercato internazionale, abituato a un gusto ormai standardizzato, che tende allo zuccherino.

Non è un caso la crescita esponenziale delle vendite dei vini a Denominazione in un settore come la Grande distribuzione organizzata. Notoriamente, chi è abituato ad acquistare vino al supermercato guarda innanzitutto il prezzo, prediligendo i vini con la “fascetta di Stato” più perché rassicurato sul fronte della contraffazione, che a garanzia di bere un vino di qualità, intesa come “rispetto” del vitigno e della Denominazione (che spesso neppure conosce).

Invece, nel mondo del vino di nicchia, spesso vale l’opposto. Il vignaiolo rinuncia alla Doc (o alla Docg) perché non ha bisogno che un disciplinare gli dica quanta uva raccogliere in quel vigneto: diraderà a priori, fottendosene della scartoffia ministeriale e consortile.

Il vignaiolo bypassa le regole dei Disciplinari perché sa che, nel 90% dei casi, il suo Igt o “Vino da tavola” vale – nel calice – più di quanto qualsiasi sgangherata e politicizzata commissione di degustazione possa sancire, durante gli assaggi dei campioni.

Lo stesso vignaiolo a cui, spesso, non viene riconosciuto il merito della valorizzazione del terroir in cui opera, costringendolo a “rivedere” ciò che è invece il semplice frutto della propria terra: magari non rispettoso dei canoni commerciali imposti dalle Denominazioni, ma veritiero del vitigno e del microclima, senza troppe correzioni enologiche, che spesso hanno tragico “effetto standardizzante“.

Succede poi che Consorzi come quello del Prosecco Superiore di Conegliano Valdobbiadene, diviso secondo indiscrezioni tra il fare “massa critica” con la Doc – unendosi persino sotto l’egida di un solo organismo, che decida della Glera veneta e friulana in maniera collegiale – o “contrastarla” eliminando addirittura la parola “Prosecco” dall’etichetta, ricerchi paradossalmente le ragioni della flessione dei prezzi delle uve (e delle vendite delle bottiglie) nel fenomeno dei vini base Glera non rivendicati.

Una presa di posizione assurda agli occhi di chiunque abbia mai provato un Igt Treviso prodotto sulle colline Unesco (dunque a Valdobbiadene, mica a San Polo di Piave) da gente come Eros Zanon, per citare solo uno che da anni non scende più a “compromessi” con nessuno, tantomeno con la politica. Nes-su-no, chiaro? E non è solo, Zanon.

In un quadro di forte incertezza per il futuro del vino italiano – stretto tra Brexit, Stati Uniti che sono più l’Eldorado di una volta e la concorrenza sempre più pressante del Nuovo Mondo – ci mancava solo il placet politico del governatore del Veneto Luca Zaia e dell’omologo pugliese Michele Emiliano al “Vino d’Italia” di Bruno Vespa e Sandro Boscaini (Masi). Un blend che, se non altro, ha il merito di diagnosticare il momento di panico.

COSA MANCA? UNA PROGRAMMAZIONE SERIA
La Doc Sicilia riduce le rese del Grillo, dopo aver scontentato molte aziende isolane col divieto di produrre vini Igt Terre Siciliane col noto vitigno isolano a bacca bianca e col Nero d’Avola (a ribellarsi sono anche “big” come Duca di Salaparuta, che di fatto continua a produrre Igt, forte di una sentenza europea a proprio favore).

Non va meglio al nord. La Doc Venezie del “fenomeno” Pinot Grigio, il Barolo, il Consorzio Asolo Montello e il Consorzio Tutela Vini Valpolicella guidato Andrea Sartori bloccano gli impianti dei nuovi vigneti per i prossimi tre anni.

Di lì a poche settimane, una delle cantine che meglio rappresenta la storia del vino veneto (Masi Agricola) annuncia di aver sostanzialmente declassato le uve Corvina, Rondinella e Molinara del proprio vino simbolo.

Si tratta di quello che la stessa cantina di Sant’Ambrogio di Valpolicella definiva fino a ieri “gigante gentile che assieme a Barolo e Brunello rappresenta l’aristocrazia dei rossi italiani”, ovvero “Costasera“. La priorità, ora, sembra essere il matrimonio “Nord-Sud” col Primitivo “Raccontami” del giornalista e conduttore tv più “plastico” della storia della Repubblica, Bruno Vespa.

Che il mondo del vino italiano stia andando verso la direzione di una “Doc Italia” è ormai chiaro a tutti. Del resto, il nostro tricolore e quella scritta “Made in Italy” sulle bottiglie (come sui sui capi d’abbigliamento) è una delle poche cose che ancora funziona del nostro Paese.

Una formula, “Made in Italy”, utile come strumento di promozione di un terroir, non di una minestra che rischia di creare ancora più confusione in un mercato già di per sé confuso e fortemente frammentato come quello del vino italiano nel mondo.

E non a caso Vespa promette (alla stampa compiacente) di vendere alla grande “Terregiunte” in Cina, Paese dove potrebbe andare a spiegare, magari assieme al signor Boscaini, le differenze tra Manduria e la Valpolicella, al posto di rovesciare semplicisticamente nello stesso calice una Docg e una Doc distanti tra loro mille chilometri.

LE RESPONSABILITÀ DELLE COMMISSIONI DI DEGUSTAZIONE
Dunque, per favore, abbiate almeno la decenza di non spacciare questa operazione come innovativa e salvifica per l’Italia del vino. Non parlate di “matrimonio” mentre sputtanate l’Amarone.

Non usate il nome di una Docg (col beneplacito delle istituzioni che costituisce l’aggravante, non il salvacondotto) per promuovere un vino che farete pagare come 30 bottiglie di una Glera Treviso Igt molto più rispettosa delle colline di Valdobbiadene (e dell’Unesco) di tanti Docg “fascettati” di zucchero.

E un altro favore, mica a me, ma al mondo del vino italiano: date un taglio alle commissioni tecniche di degustazione delle Denominazioni. Mica un taglio, inteso come “taglio”, “zac”, “tutti a casa”.

Intendo un taglio “commerciale”: fate andare a degustare i buyer (che so? Quelli della Gdo internazionale), assieme agli agronomi ed enologi nostrani, in imbarazzo a bocciare i vini dei colleghi al soldo degli imbottigliatori (etichette che poi finiscono al Lidl, con tanto di fascetta di Stato e sputtanamento della Denominazione, a 1,60 euro).

Ditelo chiaro e tondo che, in quel contesto, passano l’esame i vini destinati a un mercato di massa, o tutt’al più all’estero. Solo così si tornerò a dare centralità ai vitigni. A chi li rispetta per davvero. E a chi avrebbe voglia di vedere la Denominazione sulla propria bottiglia, al posto di rifugiarsi nell’Igt, perché nel proprio territorio crede davvero. Al di là del Dio Denaro.

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degustati da noi news vini#02 visite in cantina

La Boschera di Eros Zanon: da vitigno dimenticato a chicca enologica

TREVISO – Se non fosse per quel tipico intercalare veneto e per un altro paio di dettagli, Eros Zanon potresti scambiarlo per uno dei personaggi del Signore degli Anelli. Gli mancano l’ascia e l’elmo del nano Gimli. Ma il coraggio e la dedizione con cui sta salvando dalla scomparsa il vitigno Boschera sono degni del romanzo di Tolkien.

Dimenticatevi di Arda e della “Compagnia dell’Anello”. Siamo in Veneto. Nelle terre, piuttosto, della “Compagnia del Prosecco”. Zanon ha mappato alcuni vigneti dove è ancora presente questo autoctono. Sei ettari complessivi, in provincia di Treviso. Una rarità assoluta. Nel cosmo gleracentrico di Conegliano.

Cinque filari sulla collina. Una ventina più in basso, accanto alla Glera. A Fregona, la concentrazioni più massiccia di Boschera (pari a un ettaro) si trova nella splendida proprietà di Giuseppina Marangon.

A dominare i 10 ettari di vigneti, una dimora di fine Settecento. Nelle giornate in cui il cielo gioca a fare il poeta sol sole, da qui, si scorge l’Istria all’orizzonte. Giuseppina, rimasta vedova, vende l’uva della tenuta a diversi produttori della zona.

“Avere la Boschera è sempre stato un problema”, ammette oggi. Le uve, oltre a dar vita al Colli di Conegliano Docg Torchiato di Fregona – un passito bianco da Glera, Verdisio e Boschera – finiscono da sempre (ma non si può dire) nel calderone della produzione del Prosecco. Pagate però molto meno.

Se per un chilo di Glera viene riconosciuto oggi in media 1,50 euro, la Boschera – secondo indiscrezioni – vale 15-20 centesimi. “Io comunque non l’ho estirpata, nonostante i numerosi inviti a farlo – sottolinea Giuseppina Marangon – perché credo sia un patrimonio locale da preservare. E ho fatto bene, perché da qualche anno se ne occupa Eros!”.

GLI ESPERIMENTI

I primi esperimenti di Zanon, che nella zona alleva 7 ettari complessivi tra Glera, Pinot Grigio e Merlot, risalgono al 2012. Il vignaiolo trevigiano realizza le prime 800 bottiglie di Boschera.

“La vinificazione è avvenuta praticamente alla cieca – spiega il vignaiolo – ed è venuto fuori un prodotto dalla beva facile, che mancava però di spessore”. Il secondo anno, Zanon decide di effettuare un leggero appassimento in pianta.

L’obiettivo è chiaro: concentrare gli zuccheri e dare più orizzontalità al calice, andando a contrastare la nota verticale acida tipica del vitigno. “Ne è venuto fuori un mini capolavoro”, chiosa Zanon.

Nel 2014 le eccessive piogge rovinano il raccolto e la vinificazione in purezza della Boschera subisce una battuta d’arresto. Nel 2015, la svolta. Zanon scopre l’ettaro di Boschera nella tenuta di Giuseppina Marangon. I due si accordano per quella che, ad oggi, è l’annata col maggior numero di bottiglie di Boschera: circa 10 mila.

Un terzo dei grappoli appassisce in pianta, come nel 2013. “Un bel vino, molto particolare – assicura Zanon -. Un successo nella ristorazione locale, che assorbe praticamente tutta la produzione”. Una sorta di “Col Fondo” prodotto con la Boschera, che fa concorrenza al solito Prosecco.

IL FUTURO DELLA BOSCHERA
Annata completamente diversa la 2016: pianta mai in stress, alcol a 12,40 (naturale!) e un’acidità sopra i 6 in bottiglia (7,60 a raccolta, parametro da incorniciare). Un vino buono oggi (fresco, vivo, con sentori vendemmiali verdi in fase di attenuazione) che si presta a un ottimo affinamento in vetro, almeno nell’arco del prossimo anno e mezzo.

Non filtrato, non chiarificato e con una piccola aggiunta di solforosa, nello stile Zanon. Si arriva così alla vendemmia 2017 (80% di raccolto perso per via della grandine) che è ancora in vasca: 20 quintali complessivi, che saranno imbottigliati ad agosto (2.500 bottiglie).

Numeri molto variabili, dunque, vista l’esiguità degli ettari di Boschera. Ma il “movimento” creato da Eros Zanon non è passato inosservato in zona. E così, anche altri produttori stanno vinificando in purezza la Boschera. Tra questi la Cantina produttori di Fregona.

“Il mistero di questa uva – spiega Zanon – è che è presente solo nel Comune di Fregona. In altre zone, anche limitrofe, non esiste. Non è stato facile arrivare ad oggi: ma non perché io sia un genio, ma perché nessuno ha mai pensato prima a dargli valore”.

IL PROSECCO ZANON: ANZI, IL BIANCO IGT
Da sola, la Boschera di Zanon vale una visita ai colli di Conegliano. Ma anche il Prosecco di questo coraggioso vignaiolo – fuori dalle mode del vino e concentrato solo sulla valorizzazione dei suoi vigneti – è una vera e propria chicca. Di fatto, non è un Prosecco, ma un “Vino frizzante Bianco col fondo“, Colli Trevigiani Igt.

“Troppo diverso dal Prosecco del giorno d’oggi per pretendere di essere tale, anche in etichetta”, chiosa Zanon. Eppure, in bottiglia, non finisce che Glera prodotta nei diversi appezzamenti di proprietà, ben 11, a cavallo tra la zona storica della Docg (dove sono presenti viti di oltre 100 anni) e quella della Doc Prosecco.

Sono le macerazione sulle bucce, i lieviti indigeni e la mancata aggiunta di chiarificanti a rendere diverso (e speciale) il “Col fondo” di Zanon. Diverso dal Prosecco che tutti conoscono, perché punta dritto alla sostanza: un calice verticale, che conserva ricordi della caratteristica aromaticità della Glera, senza cadere nel tranello della piacioneria.

Ed è sempre la Glera, assemblata con un 30% di Pinot Grigio, a dare vita al rosato “Lo Diverso“. La vendemmia 2017, non ancora in commercio, ha bisogno di un’altra decina di mesi di bottiglia per arrivare al top della forma. Ma si fa già apprezzare, sfoderando non solo un colore stupendo, ma anche un naso ampio.

Dominato da una Glera che, col passare dei minuti, lascia sempre più spazio al Pinot, vinificato in botti di rovere di media tostatura. Già pregevole il finale salino, unito al frutto, lunghissimo. Un rosato di quelli veri, dall’anima pura. Forse più un rosso travestito da “bianco” che il contrario. Chapeau.

Il rosso vero, del resto, esiste. Anche se Zanon lo considera quasi alla stregua di “un gioco”. Il calice delle vendemmie 2015 e 2013 del Merlot allevato a Cison di Val Marino mostra i riflessi dell’andamento delle due annate, nel rispetto del pittore verista che ha dato loro vita, in formato Magnum.

Trentaquattro mesi in tonneau esausta per la vendemmia 2015, tuttora in affinamento in vetro. Naso morbido ma sincero che sfiora le note di toffee, oltre a un frutto succoso e a una mineralità salina che accresce il desiderio di un sorso pieno, largo.

“Fare Merlot qui è come sperare di far banane a Milano”, dice Eros Zanon sottolineando l’unicità della sua etichetta “diversamente bianca”, nella terra del Prosecco: l’unica nel raggio di 10-20 chilometri.

Ma l’evoluzione della vendemmia 2013 dimostra che la Boschera non è l’unica scommessa vinta dal vignaiolo di Follina. Quarantadue mesi di barrique, per un vino “che non sembrava mai pronto”.

Scalpita ancora oggi, nel calice, questo Merlot. Un altro vino rispetto al 2015, soprattutto per via di un naso meno malizioso. E in bocca, esattamente quello che ci si deve aspettare da un rosso di Zanon: dinamicità pura, libera da condizionamenti.

Un Merlot anarchico “Cison”, senza fronzoli. Vero. Splendido. Ennesima sintesi del lavoro di un produttore pronto a stupire tutti, di vendemmia in vendemmia. Unico alleato, il meteo. E la sua terra di viticoltura eroica, segnata dal sudore. Patrimonio dell’umanità. Anche senza il timbro dell’Unesco.

AZIENDA AGRICOLA ZANON di Zanon Eros
Via Peroz 1 – 31050 VALMARENO DI FOLLINA (TV)
TEL: +39 0438 971372

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Vinifera Forum 2018: i migliori assaggi di vini artigianali in Trentino

Un altro bell’evento, questa volta in un territorio meno “global” della media come Trento, con protagonisti i vignaioli artigiani. Vinifera Forum, dal 21 al 25 marzo, ha posto l’accento sul “vino artigianale”, con particolare attenzione alle Alpi e al Nord Italia.

Una viticoltura eroica raccontata da tante etichette presenti sul catalogo di Proposta Vini. Tra quelle presentate lo scorso mercoledì da Italo Maffei al Circolo Santa Maria di Rovereto (TN), segnaliamo la straordinaria Boschera di Eros Zanon.

Un Colli Trevigiani Igt frizzante ottenuto dall’omonimo vitigno, di cui sono presenti solo 6 ettari in tutta Italia. Siamo nella zona di Valdobbiadene e i ceppi di Boschera sono stati scoperti e conservati da Zanon tra filari di Glera.

Ne scaturisce un vino vivo, dal naso succoso di frutta a polpa bianca. Un bel palato minerale, verticale, accompagna verso una chiusura e agrumata e vegetale. Beva semplice, ma tutt’altro che banale: un vino quotidiano di assoluto livello.


Giovedì 22 marzo la visita all’azienda agricola Elisabetta Foradori a Mezzolombardo (TN). La nota produttrice trentina, artefice del successo del Teroldego nel mondo e promotrice della viticoltura biodinamica, ha aperto le porte a un nutrito gruppo di visitatori.

Un vero e proprio mausoleo i locali storici della cantina. Uno di quei posti in cui cala il silenzio, quasi per magia e per rispetto dei nettari che riposano in bottiglia, o sono in maturazione nelle oltre 120 anfore di terracotta spagnola Padilla: un marchio di fabbrica della Foradori.

Una vignaiola che, grazie alle selezioni massali sul Teroldego, operate sin dal 1984, regala al mondo del vino italiano vere e proprie chicche. Vini di prospettiva, pensati per evolversi nel tempo, subendone le curve e i sali e scendi.

Di fatto, oggi, il vino più “pronto” tra i rossi degustati è certamente il Vigneti delle Dolomiti Igt Foradori 2016. L’etichetta storica dell’azienda, prodotta sin dal 1960. Naso infinito: cannella, finocchietto, radice di liquirizia, ginger e richiami che ricordano l’agrume maturo, in particolare l’arancia rossa.

Vena floreale di viola e minerale profonda che si ritrova anche al palato, decisamente verticale. Tutto si gioca su note di frutta a bacca rossa come melograno e ribes: l’acidità torna a parlare di agrumi e il tannino fa presagire buone prerogative di affinamento del nettare in bottiglia.

Strepitosi anche i due cru di Teroldego firmati da Elisabetta Foradori: Sgarzon 2015 e Morei 2016. Tra i due, è il primo a convincere di più, in questa fase. Un naso solare, ricco, concentrato come il colore che dipinge il calice, un rosso purpureo impenetrabile.

Palato vibrante, giocato su un’acidità che ricorda più la buccia rossa che la polpa d’agrume. Leggera percezione tannica, ben integrata col sorso. Morei è invece ancora un po’ chiuso, con le parti vegetali e speziate in attesa di confondersi amabilmente col frutto.

Il Granato 2015 è, in assoluto, il Teroldego di casa Foradori che parla più di futuro. Un vino, oggi, da dimenticare in cantina e riscoprire evoluto entro una decina d’anni. Bello constatare la presenza, assieme, di note terrose ghiaiose ed eteree che ricordano tabacco dolce e fumè, in un quadro fruttato di ribes e ciliegia.


Eugenio Rosi, Viticoltore Artigiano – Cantina di Affinamento. Entrare a Palazzo Demartin, in via 3 novembre a Calliano, piccolo borgo di 2 mila anime alle porte di Trento, in Vallagarina, è come fare un tuffo nel passato.

Rosi apre la porta e invita all’interno di quella che sembra, di primo acchito, la bottega di un falegname. E lui, Mastro Geppetto. Capelli lunghi brizzolati, raccolti in una coda. Sorriso timido, stretta di mano calda.

Si percorrono due corridoi pieni di cartoni, poggiati su un pavimento della fine del Quattrocento. Ti senti un po’ Pinocchio, tra le mani del genio. L’ambiente ti avvolge, come in un sortilegio. Un antico portone di legno conduce alla panica della balena.

Ventidue gradini di pietra, in pendenza, conducono nella barricaia. Al centro una tavola di legno, come fosse un altare, con decine di bottiglie alla rinfusa. Eugenio Rosi si posiziona al centro. E versa, versa. Versa. E racconta.

Si inizia con il blend Anisos 2015: Nosiola (50%) Pinot Bianco (30%) e Chardonnay (20%), allevati tra i 400 e gli 800 metri. La prima poesia in un calice che si colora di macerazione e profuma di fiori di montagna come un campo. In bocca, l’acidità della Nosiola la fa da padrona, smussata dalla fine eleganza degli altri due vitigni.

Dorato il colore di Anisos 2009 (“orange” è una definizione che a Rosi non piace, “anche se so benissimo che stiamo parlando di quello”, ammette). Naso di quelli che ti tengono incollato al bordo come un bambino che guarda fuori dal finestrino, mentre guida papà. Miele, scorza d’arancia, anice stellato, zenzero.

La predominanza della Nosiola, in bocca, si fa sentire: prima amara, poi arrotondata dall’azione mitigatrice di Pinot Bianco e Chardonnay. Un vino lunghissimo, che conta pure su uno spunto tannico nel retro olfattivo.

“Ci sono i vini artigianali e i vini industriali – spiega Eugenio Rosi – senza vie di mezzo. Non che il primo sia migliore. L’artigiano produce cose uniche. Dall’altra parte si agisce su ‘ricette’ precostituite”.

“E’ tutta una questione di persone – sostiene Rosi che, da giovane enotecnico, ha rinunciato a un posto di lavoro sicuro per seguire il sogno della viticoltura eroica – perché nell’industria la persona diventa un semplice ‘esecutore’. Spesso vengo in cantina con l’idea di fare dei lavori: poi assaggio e lascio lì, non tocco niente. Provate a farlo in un’industria: sarebbe impossibile”.

Si prosegue con Riflesso Rosi 2016, Merlot e Cabernet in prevalenza, con una punta di Marzemino. I tre uvaggi macerano con le vinacce del bianco: si ottiene così il colore perfetto. Pare d’essere in un bosco, nonostante la leggera volatile: piccoli frutti rossi che dominano anche il palato, dritto, sincero. Rinvigorito dalla spezia leggera del Marzemino.

Il meglio di questo vitigno, in purezza, lo esprime la vendemmia 2015 di Poiema. Rosso impenetrabile e un naso più fruttato e meno speziato rispetto ai Marzemino di Isera. In bocca splendido equilibrio: amarena, uvetta, lampone, prugna, ma anche mela renetta.

Le note dolci sono dovute al leggero appassimento cui vengono sottoposte le uve per circa 30-40 giorni, per un buon 30%. Uve su cui, in seguito, avviene la rifermentazione della “base”.

Una tecnica con cui Rosi sopperisce ai problemi di maturazione (e dunque di asperità) del Marzemino, donandogli maggiore piacevolezza e facilità di beva, ma senza perdere neppure un minimo di tipicità.

Forse, però, il vero asso nella manica di questo vignaiolo artigiano della Vallagarina è il blend 2013, 2014 e 2015 di Cabernet Franc, in stile “solera”. Naso tipico, bocca di una finezza rara, capace di esprime i sentori caratteristici del vitigno in un sorso aggraziato, posato, allo stesso tempo potente e raffinatissimo.

Le uve provengono più da un clos che da un cru. Il giardino di una villa tutelata dalle Belle Arti, dotato di un terreno di sabbia profonda, quasi da cava. Vinificazione in vasche di cemento a cappello sommerso, dopo una cernita spasmodica delle uve, i primi di ottobre.

Fermentazione spontaea, con il vino nuovo immesso sul “vecchio”, assieme al suo corredo di lieviti vitali, freschi. Un filo di solforosa in botte e il risultato di un’eccellenza rara tra i rossi italiani.

Un livello su cui si assesta anche Esegesi 2013, blend di Cabernet Sauvignon (80%) e Merlot (20%) che si riassume nella massima di Rosi: “Il vino è interpretazione, emozione ed equilibrio”.

“Ma se tornassi indietro – ammette il vignaiolo – non so se rifarei le stesse scelte. Ho sacrificato e sto sacrificando la mia famiglia, i miei tre figli. Io e mia moglie Tatiana siamo partiti da zero, qui. Più ci guardiamo attorno, più ci rendiamo conto che l’errore più grande sia stato quello di non partire”.

In Vallagarina o in Liguria, la battaglia sarebbe rimasta la stessa: “Concentrarsi nel fare vini più buoni degli altri (industria, ndr) facendo crescere nel consumatore la consapevolezza e la conoscenza fondata, tangibile del senso della nostra attività”.

Amare considerazioni per un dolce finale, con lo splendido Marzemino passito 2013: un inno a profumi carezzevoli e finissimi di frutta a polpa rossa e nera, con richiami decisi a datteri e fichi. Corrispondente al palato, dove sfodera un tannino piuttosto vivo.


I MIGLIORI ASSAGGI A VINIFERA FORUM – SALONE DEI VINI ARTIGIANALI ALPINI

Bello vedere tanti giovani a caccia di calici pieni di contenuti e di storie, ancor più che di vino, al Salone dei Vini Artigianali Alpini. Vinifera Forum si è chiusa così, tra sabato 24 e domenica 25 marzo.

Un migliaio gli ingressi alla degustazione che ha visto protagonisti 50 artigiani del vino provenienti soprattutto da Trentino, Alto Adige e Veneto, ma anche da Lombardia, Friuli, Piemonte, Liguria, Slovenia e Austria.

Bello, anzi stupendo, lo scambio con molti vignaioli: tutti meno “ultrà” rispetto a tanti bevitori enofighetti di “vino naturale”. La necessaria rivoluzione culturale del vino italiano, utile ad accompagnare il mercato verso il successo che merita, si favorisce così.

Con eventi di nicchia ma ragionati. Peccato solo per la scarsa adesione di tanti “big” trentini a questo Forum, ampiamente compensata da qualche mostro sacro altoatesino (terra più generosa di quanto possano far presumere certi stereotipi).

Bellissimo vedere produttori affermati come Haderburg, Patrick Uccelli e Martin Abraham sostenere la “causa” di un’associazione di eno appassionati che amano il proprio territorio e le tradizioni: perché questo è l’Associazione di promozione culturale Centrifuga, ideatrice e artefice del programma di Vinifera 2018. Ecco i migliori assaggi.

SPUMANTI
1) Metodo Classico Vsq “Man 283” 2013, Giuliano Micheletti. Dosaggio zero biodinamico, tradotto: Chardonnay dritto al cuore. Suoli calcarei profondi, su argilla, che si esprimono sopratutto in un palato dritto, verticale, sottile, corroborato da una piccola (ma sapientissima) aggiunta di muscoloso Pinot Nero.

Un metodo classico talmente vibrante al naso da sembrare dosato con qualche mistica pozione d’alpeggio. Vino dal rapporto qualità prezzo imbarazzante: 25 euro per portarselo a casa. Chapeau.

2) Metodo Classico Trento Doc Dosaggio Zero “Maso Nero” 2012, Az. Agr. Zeni. Pinot bianco in purezza per questo prezioso sparkling che si discosta dalle caratteristiche usuali trentine, non solo per via della scelta dell’uvaggio.

Prodotto per la prima volta nel 2010, era stato pensato originariamente per essere dosato come Brut, con aggiunta di liqueur. Dagli assaggi, Rudy Zeni e la sua famiglia hanno compreso le potenzialità espresse dal Pinot Bianco. Optando per valorizzarle appieno. Nature, appunto.

Una scelta azzeccatissima, dal momento che il legno utilizzato per metà della fermentazione – seppur di secondo e terzo passaggio – aveva già ammorbidito il sorso, conferendogli un’opulenza perfettamente integrata con le note esotiche mature. Super.

3) Metodo Classico Trento Doc Nature Riserva 2012, Marco Tonini. Un vulcano questo vignaiolo, affabile come la sua batteria di Trento Doc, dall’ottimo rifermentato all’eccellente Riserva che, da poco, ha iniziato a commercializzare (prima la produceva solo per gli amici).

La Riserva Nature 2012 di Tonini è uno di quegli spumanti che vorresti avere sempre in casa: una beva tesa e molto elegante, su note fruttate mature corroborate da ottima vena balsamico-vegetale e minerale.

4) Vino Spumante Brut Nature “Silvo”, Villa Persani. Un Metodo Ancestrale coi fiocchi quello proposto da Villa Persani in una comoda bottiglia da 0,50. “Non solo per discostarlo dai Metodo classico – spiega Silvano Clementi – ma soprattutto perché lo abbiamo pensato come lo spumante perfetto per un aperitivo intimo, per due persone”. Anche il prezzo è ottimo: 8 euro in cantina.

Con Villa Persani siamo a Pressano di Lavis, vicino Trento. L’azienda si è specializzata nell’allevamento di varietà resistenti (Piwi). “Silvo”, di fatto, è un metodo ancestrale con tappo a corona ottenuto da Souvignier gris e Aromera. Bel sorso per questo sparkling dai connotati aromatici, agrumati e minerali.

5) Prosecco Frizzante “Di Fondo”, Bresolin Enrico. Il tipico Prosecco da “shakerare” prima dell’uso, per rimescolare i depositi presenti sul “fondo” e godersi appieno tutto il parterre aromatico. A produrre “Di Fondo” sono tre giovani: Enrico (25), Matteo (26) e Davide (35), nella loro azienda biologica di Maser, sui Colli Asolani.

Bel Prosecco frizzante il loro, capace di risvegliare, dal torpore dei lieviti ammassati alla base della bottiglia, sentori che vanno ben al di là di quelli classici della Glera. E dunque, oltre alla frutta a bacca bianca come la pera Williams, ecco richiami spiccatamente floreali ed erbacei, oltre a una leggera vena di radice di liquirizia.

VINI BIANCHI
1) Pinot Blanc 2015 “Art”, Weingut Martin Abraham. Tutti capolavori assoluti i vini di Martin Abraham, vignaiolo altoatesino tanto schivo quanto pronto a raccontare le sue “creature” con un calore che in pochi riescono a trasmettere.

Questa volta segnaliamo la versione che fa legno del suo Pinot Bianco In Der Lahm, vendemmia 2015, che nasce da una selezione della stessa vigna. Due anni sulle fecce, senza travasi, anche la malolattica in legno nuovo.

Ne risulta un naso ancora un po’ troppo condizionato da questa scelta, che tuttavia guarda al futuro e alla longevità di un’etichetta destinata ad affinarsi ulteriormente nel tempo.

Il palato, invece, è un’esplosione. La componente minerale fa da cornice a richiami fruttati a metà tra l’agrume e la pera. Straordinario l’equilibrio tra la cremosità dell’alcol e le durezze. Il finale, lunghissimo, è tutto giocato sulle spezie, quasi piccanti. Un vino dal valore assoluto.

2) Vino bianco biologico 2016 “Monte del Cuca”, Menti Giovanni. Cambiamo zona e cambiamo radicalmente tipologia di bianco. Con “Monte del Cuca” siamo in Veneto, nella zona di Gambellara.

Si tratta di un 100% uve Garganega, raccolte a mano nella prima metà di ottobre, diraspate e fatte fermentare sulle proprie bucce, senza l’aggiunta di lieviti e senza controllo della temperatura.

Le uve restano in acciaio per circa due anni, prima dell’imbottigliamento, senza filtrazione e senza aggiunta di solfiti. Ne scaturisce un “orange” dal naso tra i più belli dell’intera Vinifera (e non solo). Come rotolarsi in un campo di fiori, alle pendici di un vulcano.

Il suolo fa la sua parte soprattutto al palato, conferendo all’assaggio una struttura verticale. Ma la lunga macerazione regala al contempo grassezza a una beva instancabile. Nel retro olfattivo anche una leggera percezione tannica.

3) Riesling 2012 “Limen Bianco”, Giuliano Micheletti. Oltre al Metodo Classico segnalato sopra, Micheletti conquista il podio anche tra i bianchi, con uno splendido Riesling 2012 che regala sentori di idrocarburo, resina, erbe. Un bianco più che mai vivo, sulla cresta dell’onda anche al palato, dove mostra uno splendido bouquet di frutta matura.

4) Sauvignon Blanc 2014 “Garnellen Anphora”, Tropfltalhof. Più difficile da pronunciare che da apprezzare, il vino in anfora di Tropfltalhof. Siamo a Caldaro, in Alto Adige. La vena agrumata tipica del vitigno non manca. Ma, per il resto, questo è uno di quegli assaggi da conservare nella cartella “Sauvignon Blanc” della memoria. Nome del file: “Eccezioni”.

I 21 mesi in anfore di tre tipi (due spagnole, alla Foradori ma di due produttori diversi, e una toscana) uniti ai 7 complessivi sulle bucce, conferiscono a questo Sauvignon una concentrazione organolettica unica, sia al naso sia al palato. Ottima la scelta di raccogliere all’ultimo la varietà, ottenendo una maggiore pienezza.

La bocca, in particolare, è tesissima. Sul filo di agrumi come lime, e pompelmo che accentuano la salivazione. Seguono spezie, sentori erbacei d’alpeggio e di pietra focaia, prima di un finale caldo. Solo 800 le bottiglie prodotte nella scarna vendemmia 2014, che fanno lievitare il prezzo a 41 euro.

5) Sampagna 2016, I Canevisti. Sampagna è il nome con cui, in dialetto veneto, si identifica la Marzemina bianca. Solo uno dei vitigni autoctoni della zona di Breganze, in Veneto, che il gruppo di amici vignaioli “I Canevisti” sta cercando di recuperare e valorizzare.

Andando oltre alcune punte di volatile, il vino che convince di più al banchetto di Vinifera è la Sciampagna 2016. Il risultato ottenuto con il lavoro su questo vitigno è a dir poco eccezionale.

Un naso infinito, ampio, giocato principalmente sulle erbe e sugli agrumi. Corrispondente al palato, dove sfodera altrettanta ampiezza. Da bere a fiumi, una volta riusciti a staccare il naso dal calice.

VINI ROSATI
1) Rosato di Dolcetto “?” 2017, Forti del Vento. Il nome di fantasia, i due amici Marco Tacchino e Tomaso Armento, devono ancora trovarlo per il loro rosato da uve Dolcetto, vinificato e affinato in anfore di terracotta da 300 litri.

Un rosato di quelli veri, di sostanza. A partire dal colore carico, senza compromessi provenzali. Mille bottiglie prodotte, in totale. Una bella chicca.

2) Riviera del Garda Classico Doc Valtenèsi Chiaretto “La moglie ubriaca” 2017, La Basia. Ha bisogno di ancora un po’ di “bottiglia” questa “moglie ubriaca”. Ma, barcollando, riuscirà certamente ad arrivare in porto: frutto, sostanza e mineralità ci sono tutte. Devono solo raddrizzarsi. E lo faranno entro qualche mese.

Terreni calcarei per dare al verticalità al calice di questa chicca di casa La Basia, azienda agricola condotta grande passione da Davide, Irene, Carla, Giacomo, Emilio e papà Antonio, che hanno preso in mano l’azienda alla morte di mamma Elena.

VINI ROSSI
1) Igt Terrazze Retiche di Sondrio, Pizzo Coca
. Elogio alla semplicità. Segnaliamo questo vino per la sua capacità di arrivare al cuore, con grande semplicità. E’ il vino d’entrata (10 euro) di Pizzo Coca, realtà di appena 1,7 ettari vitati, vocata al biologico.

Siamo in Valtellina, uno dei simboli della viticoltura eroica in Italia. Qui, Lorenzo Mazzucconi, con un amico, ha deciso di mettere le radici, di ritorno da diversi viaggi di formazione enologica, in giro per il mondo.

Il monte Pizzo Coca è sullo sfondo dei vigneti e vigila sul futuro di questa combriccola, che ha da poco trovato un locale da adibire a cantina: l’ex latteria del Paese. Tutto attorno i vigneti, a Ponte, Tresivio, Poggiridenti e Montagna in Valtellina.

Il Nebbiolo di questo Igt Terrazze Retiche di Sondrio è lavorato solo in acciaio. Il risultato è un’esplosione tutt’altro che banale di frutto, di una grandissima pulizia. Un vino quotidiano con i contro fiocchi. Avanti così!

2) Piemonte Doc Albarossa 2013 “Altaguardia”, Forti del Vento. Torniamo in Piemonte, di nuovo a casa di Forti del Vento a Castelletto d’Orba, in provincia di Alessandria. Tra i rossi presenti a Vinifera Forum, infatti, spicca l’Albarossa 2013 “Altaguardia”.

Albarossa è il nome del vitigno frutto dell’incrocio tra Barbera e Nebbiolo. Un concentrato di Piemonte, insomma, reso possibile dell’ampelografo Giovanni Dalmasso. “Altaguardia” 2013 è un rosso ancora giovanissimo, ma di grande prospettiva.

Nel calice, evidente la “lotta” tra l’acidità intrinseca al vitigno e richiami vagamente surmaturi, più che concessi visto l’equilibrio raggiunto. Due, tremila bottiglie l’anno per l’Albarossa di Forti del Vento, allevata a un’altezza di 7-800 metri. Da comprare oggi e tenere in cantina.

3) Sorni Rosso Trentino Dop 2015 “Grill”, Eredi di Cobelli Aldo. Avete presente il Teroldego? Ma sì, quel rosso trentino che spesso comprate al supermercato. Ecco, scordatevelo. Il vitigno Teroldego è la base ampelografica della Dop Sorni.

E la Eredi di Cobelli Aldo lo interpreta alla sua maniera. Splendidamente. Le viti affondano le radici in terreni di gesso, che conferiscono al calice una mineralità spiccata.

Un Teroldego dall’ossatura ben definita, che non manca di sfoderare, al palato, un tannino austero e un frutto perfettamente delineato, pulito. Un altro grande vino di prospettiva, che incarna alla perfezione il senso di questo Salone dei Vini artigianali alpini.

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