C’è un’anima ancora sconosciuta tra le colline del Romagna Doc Sangiovese della sottozona Modigliana. Rullo di tamburi: è quella del Cabernet Franc. Ne è una riprova Floss 2020, prima annata del Cabernet Franc di Cantina Maurizio Costa di Modigliana. Un vino di razza pura, venduto solo in un (curioso) formato da litro, in tiratura limitata: solo 1.050 bottiglie. Profondo nella speziatura, matura. Molto setoso nel tannino, pur presente e di prospettiva. Polposo nel frutto, che spazia dall’arancia rossa alla prugna, dalla ciliegia alla mora. Floss 2020 sfodera un allungo sapido, teso, che accompagna in una persistenza da campione. Cercando (pur inutili) contraltari, riporta alla mente la Rive Droite di Bordeaux, decisamente più della Loira.https://www.consorziovinidiromagna.it/le-sottozone-del-romagna-sangiovese-doc/#2
E contribuisce, dal canto suo, in maniera esemplare, ad avvicinare due territori che si sono sempre guardati dall’alto al basso: la Toscana e la Romagna (del Sangiovese – Predappio docet – e, ora, persino del Cabernet Franc). Le sottozone volute dal Consorzio Vini di Romagna nel 2011 sono uno dei progetti più riusciti, in campo enologico e viticolo, degli ultimi 20 anni d’Italia. Ma il Cabernet Franc Floss 2020 di Cantina Maurizio Costa mostra come, nel cuore di Modigliana, si possano produrre anche bordolesi di altissima gamma, da varietà in purezza. Pur fuori dalla Doc e dalle sottozone – riservate a vini con un minimo del 95% di Sangiovese – Floss 2020 è l’eccezione che non conferma la regola. Nel quadro (un po’ storto) di una Igt da grandi volumi e prezzi stracciati, come la Rubicone.
CANTINA MAURIZIO COSTA DI MODIGLIANA
Per inquadrare ancora meglio Floss 2020, occorre fare un passo indietro e capire chi lo produce e perché. Cantina Maurizio Costa di Modigliana è il nome scelto per il “rebranding” di Torre San Martino società agricola. Con questa denominazione, l’azienda fondata nel 2001 dal compianto architetto Maurizio Costa ha operato sino al 2019. Le difficoltà della pandemia e, ancor più, la scomparsa stessa del fondatore, avvenuta nel novembre 2022, hanno portato Torre San Martino a uno stop di quattro anni, culminato col passaggio di mano ai figli Angelo e Francesco. Loro l’idea di un “rebranding” che ha del celebrativo. La società agricola continua a chiamarsi Torre San Martino, ma sull’etichetta frontale appare chiara la scritta Cantina Maurizio Costa di Modigliana. Nome, cognome e località, nel segno di quel genius loci – i francesi direbbero terroir – che il fondatore ha sempre voluto valorizzare.
Una missione che spetta ai discendenti, nonché all’enologo Donato Lanati, chiamato a Modigliana proprio da Maurizio Costa, prima della sua scomparsa, per sostituire Francesco Bordini. Accanto a Lanati, l’agronomo toscano Andrea Paoletti. Tra passato e futuro, la cantina ha svolto e intende ancora svolgere un ruolo chiave nella riscoperta e valorizzazione del Sangiovese di Romagna, grazie al recupero di un antico vigneto risalente al 1922, considerato tra i più vecchi d’Italia.Le vigne da cui nasce il nobile Sangiovese oggi chiamato Cento – l’ex Vigna 1922 di Torre San Martino – sonoallevate con la tradizionale forma ad alberello su suoli prevalentemente marnosi. E a 20 anni di distanza dall’avvio dell’avventura enologica, oggi la famiglia Costa coltiva un altro sogno: una catena di ristoranti-pizzeria, Crazy Pizza, in collaborazione con il noto imprenditore Flavio Briatore.https://crazypizza.com/
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Angelo Gaja Erbaluce Oltre alle Langhe c’è di più. Angelo Gaja pianta Erbaluce e sperimenta sul vitigno tipico del Canavese, che sta vivendo un momento di riscoperta e rinascita. Secondo le informazioni in possesso di Winemag, il produttore piemontese ha fatto impiantare un vigneto sperimentale in uno dei Comuni in cui è autorizzata la produzione di Alta Langa Docg. A confermalo è lo stesso Angelo Gaja. «È una piccola prova che facciamo», ammette prima di riagganciare la cornetta. Sonia Franco della Segreteria di Angelo Gaja fornisce ulteriori dettagli.https://gaja.com/
«Il minuscolo vigneto di Erbaluce è stato piantato nel 2024. Per avere le uve idonee a fare delle prove – scrive a Winemag – ci vorrà qualche anno. In viticoltura occorre sapere attendere». Ma cosa c’entra l’Alta Langa Docg con l’Erbaluce? A prima vista nulla, dal momento che il disciplinare di produzione del nobile spumanti piemontese non autorizza l’utilizzo del vitigno originario della zona di Caluso, nel Canavese (sperimentazioni sono state invece avviate sul Pinot Meunier dalla cantina Enrico Serafino). Il link tra Angelo Gaja, l’Erbaluce e l’Alta Langa può essere spiegato da una delle versioni di maggiore successo del vitigno: quella “Spumante”.
ANGELO GAJA SULLE ORME DI REMO FALCONIERI DI CIECK?
Chiedere per credere a Remo Falconieri, l’uomo che è riuscito a trasformare una passione in una rivoluzione: portare l’Erbaluce nel mondo degli spumanti Metodo classico. Tecnico Olivetti e figlio di contadini, Falconieri si formò in Francia – fra i vigneti di Champagne – per affinare la tecnica spumantistica. Nel 1985, con appena 2.500 bottiglie, fondò Cieck, oggi punto di riferimento per le bollicine piemontesi. Situata nel cuore del Canavese, la cantina – che celebra nel 2025 i 40 anni dalla fondazione – ha valorizzato l’Erbaluce. Un vitigno antico e versatile, coltivato con la tradizionale pergola e con un sistema brevettato ad hoc, il “Metodo Cieck”, che protegge l’uva dalle gelate, dalle malattie fungine e dallo stress idrico. Vinificandolo in chiave moderna, grazie al duo di enologi Gianpiero Gerbi e Tommaso Scapino. https://www.cieck.it/it/vini-erbaluce-cieck/
Oggi la cantina di San Giorgio Canavese (Torino), guidata da Lia Falconieri e Domenico Caretto, continua l’eredità di Remo con un Metodo classico che esprime al meglio il terroir morenico di Ivrea, tra sapidità e longevità. Una storia di visione, radici e innovazione che ha cambiato il destino delle bollicine piemontesi. Qualcosa che non può passare inosservato. Anche in Langa, o giù di lì. Il clamoroso investimento di Angelo Gaja sull’Erbaluce, di fatto, è un’altra spilletta sul petto di Remo Falconieri. Un sigillo sulla carriera di un vignaiolo che a 92 anni, ancora tra i filari di Cieck, sta scrivendo la storia del vino italiano, nel suo Piemonte.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Mladen Dragojlovic, l’enologo che firma i vini di Novak Djokovic, è una vera e propria star del settore in Serbia. Un successo che è tutto tranne che riflesso. Grazie alle decine di riconoscimenti internazionali, ottenuti realizzando vini per diverse cantine dei Balcani, il winemaker classe 1983 non poteva passare inosservato agli occhi del campione del tennis, che nel 2020 ha fondato la sua cantina vicino Topola, nella regione vinicola serba di Šumadija. Una collaborazione che ha dato ulteriore spolvero a un giovane capace di trasformare l’uva in oro. Ma il sogno nel cassetto di Mladen Dragojlovic è anche quello di tornare a lavorare in Italia, dopo l’esperienza maturata in Abruzzo con Marina Cvetić (Masciarelli), durante gli studi. Se il Belpaese chiamasse, difficilmente Mladen Dragojlovic direbbe di no. cantina vini Djokovic.
Mladen Dragojlovic, qual è il percorso che ti porta sino ad oggi?
Ho conseguito un master in Biotecnologie alimentari presso l’Università di Novi Sad, in Serbia. Durante i miei studi, ho sviluppato un profondo interesse per la viticoltura. All’epoca, le cantine non erano molto sviluppate in Serbia, così ho deciso di andare all’estero per acquisire conoscenze ed esperienze. Questo viaggio mi ha portato in Italia, dove ho lavorato con Marina Cvetić presso la cantina Masciarelli in Abruzzo, e in Cile, dove ho collaborato con RR Wine e Viña Carmen. Tutte le visite mi hanno fornito una chiara visione di ciò che volevo realizzare in Serbia e, alla fine, sono riuscita a trasformare questa visione in realtà.
Dopo aver completato gli studi, ho deciso di fondare la mia società di consulenza enologica. Ora collaboro con sette aziende vinicole della Serbia e della Croazia. Insieme, abbiamo ottenuto un notevole successo, vincendo numerosi premi prestigiosi e punteggi elevati, tra cui le medaglie di Decanter e il riconoscimento per i migliori vini dei Balcani. Per mia soddisfazione personale, ho avuto l’onore di essere nominato Enologo dell’anno 2023. Questo riconoscimento significa molto per me e mi ha dato la forza e la motivazione per intraprendere un progetto personale e familiare: lanciare il mio marchio, Dragojlovic Winery.
Tra le cantine di cui sei enologo, quella che più salta all’occhio per la popolarità del nome è Djokovic Winery. Come è avvenuto l’incontro e come è nata l’idea di Novak Djokovic di produrre vino?
Persone del settore vinicolo mi hanno raccomandato alla famiglia Djokovic per una potenziale collaborazione. Dopo un paio di incontri, abbiamo scoperto di condividere la stessa energia e la stessa visione, che si allineavano perfettamente. Di conseguenza, abbiamo deciso di lavorare insieme, con reciproca soddisfazione. La cantina Djokovic è guidata dallo zio di Novak, Goran Djokovic, che ha voluto utilizzare il terroir nel modo più unico e prezioso per produrre vini degni del nome Djokovic.
Come descriveresti Novak nel privato, lontano dai riflettori?
Personalmente, devo dire che mi sento molto privilegiato per aver conosciuto Novak. Tutti noi gli siamo profondamente grati per tutto ciò che ha fatto per la Serbia. In privato, lontano dai riflettori, Novak è straordinariamente concreto e genuino. Nonostante la sua fama mondiale, rimane umile e disponibile, mostrando sempre un sincero interesse per le persone che lo circondano.
Novak Djokovic interviene nelle scelte di cantina? Si intende di vino?
Novak è il più grande tennista della storia e ha un’agenda molto fitta. Ma ogni volta che l’ho incontrato, si è sempre dimostrato molto interessato al processo di vinificazione, alla manutenzione dei vigneti e a tutti i dettagli coinvolti nella produzione di grandi vini. È concentrato al 100% sul tennis e non è coinvolto nelle scelte di cantina, ma è sempre interessato a conoscere l’intero processo. Suo zio Goran e io siamo profondamente coinvolti nel processo di vinificazione della cantina Djokovic.Non viene spesso, ma ogni volta che ha tempo si sforza di visitare e offrire il suo sostegno.
Sei anche l’enologo di altre cantine della Serbia che producono grandi vini: Matalj, Matijasevic Vinogradi, Ŝapat Wine Atelier e Kast Vjestina vina in Croazia. Quali sono i punti di forza di ognuna delle cantine, nella regione vinicola in cui operano?
La forza di queste cantine risiede nel loro terroir. È importante sottolineare che il terroir di ogni cantina e i suoi vigneti sono unici e l’approccio produttivo varia di conseguenza. Il mio compito, insieme ai miei colleghi, è quello di massimizzare il potenziale del terroir e di mettere in risalto l’unicità delle uve provenienti da zone specifiche. Spesso dico ai proprietari delle cantine che è impossibile utilizzare la stessa tecnologia in due cantine diverse, perché le condizioni non sono mai le stesse. Ogni regione richiede un approccio personalizzato. Per essere più precisi, Matalj è un’ottima cantina per i vini rossi, Matijasevic produce uno dei migliori Sauvignon Blanc di questa parte del mondo. Sapat si trova su un altopiano di loess e questo tipo di terreno è ottimo per i grandi rossi e gli Chardonnay. Kast, in Croazia, è un’azienda vinicola di pregio della città di Ilok, ben nota per eccellere nella produzione di vini da varietà Grasevina e Gewurtztraminer.
Presso la cantina Matalj state riscoprendo una varietà di uva autoctona che mi ha letteralmente folgorato, ovviamente in positivo: la Bagrina. Credi possa essere l’ennesimo elemento di successo per una cantina che già si è fatta notare con l’etichetta “Kremen Kamen”, grandissimo Cabernet Sauvignon in purezza?
Non sono del tutto sicuro che la reputazione di Kremen Kamen possa essere ripetuta, dato che è diventato un marchio che ha superato quello della stessa cantina Matalj. Tuttavia, credo davvero che la Bagrina possa contribuire in modo significativo al successo complessivo dell’azienda. La tendenza globale si sta spostando verso un ritorno alle varietà locali e autentiche. E la Bagrina si inserisce perfettamente in questo “movimento”. Le reazioni positive di persone come te ci danno la motivazione e la forza per lavorare ancora di più sulla promozione di questo vitigno autoctono. Sono molto felice della Bagrina in questo momento.
Vorrei “scavare” un po’ nella tua quotidianità di enologo. Cosa ti viene richiesto più spesso, a livello tecnico, dai titolari delle cantine?
È una domanda difficile, dato che ci troviamo sempre più spesso ad affrontare le sfide portate dai cambiamenti climatici e dalle condizioni meteorologiche estreme. Di solito, la domanda più frequente è: «Riusciamo a migliorare ulteriormente il livello rispetto alla vendemmia precedente?». Ogni vendemmia presenta nuove domande, ma l’obiettivo rimane lo stesso: ottenere una qualità del vino costante o addirittura migliorarla. Questo può essere molto impegnativo e spesso richiede maggiori sforzi e capacità di adattamento. Ma finora siamo riusciti a tenere tutto sotto controllo.
Ci siamo conosciuti grazie a Wine Vision by Open Balkan, che mi piace ribattezzare “Il Vinitaly dei Balcani”. Come vedi il vino dei Balcani (e, in particolare, quello della Serbia) nei prossimi anni?
Come persona proveniente dai Balcani, zona che spesso guarda all’Italia come a un Paese con un’industria vinicola ben sviluppata, sono molto orgoglioso che tu abbia paragonato Wine Vision by Open Balkan a Vinitaly. Da un punto di vista commerciale, WVbOB è un punto d’incontro cruciale in cui le persone possono entrare in contatto e concludere affari. Per il consumatore medio di vino, questa fiera offre al mondo l’opportunità di scoprire i vini balcanici e di riconoscere la nostra regione come produttore di vino tradizionale. Inoltre, aiuta a sfidare e forse a rompere i pregiudizi sui vini balcanici e sulla loro qualità. Pertanto, sono fermamente convinto che i vini balcanici prenderanno presto il posto che meritano sulla scena vinicola mondiale.
Quali sono i vitigni su cui la Serbia può (e deve) puntare per farsi sempre più riconoscere nel mondo? Gli internazionali oppure le varietà locali, come il Prokupac? Più vini bianchi o vini rossi?
La Serbia dovrebbe concentrarsi sui suoi vitigni locali. Purtroppo, al momento ci troviamo di fronte a problemi legati ai materiali di piantagione. Tuttavia, con il sostegno del governo e degli istituti scientifici, spero che riusciremo a colmare questo divario e a concentrarci maggiormente sulle nostre varietà locali. Questo approccio consentirebbe alla Serbia di presentarsi come veramente autentica sulla scena vinicola mondiale. Abbiamo grandi varietà autoctone come il Prokupac, il Grašac (ovvero il Riesling italico, ndr), la Bagrina, la Smederevka, il Probus e lo Začinak, ma è assolutamente necessario educare i consumatori. Queste varietà sono diverse da quelle internazionali e non ci si può aspettare che un Prokupac assomigli a un Cabernet o a un Merlot. La Serbia è fortunata per quanto riguarda il clima, anche se la situazione varia a seconda della regione. Per esempio, la Serbia settentrionale e centrale è un po’ più fresca, ideale per i vini bianchi e alcuni rossi più freschi. Le regioni meridionali e orientali sono più adatte per i vini rossi più audaci e alcuni bianchi specifici.
Il governo della Serbia sta puntando moltissimo sulla promozione del vino. Basti pensare all’organizzazione maestosa di Wine Vision by Open Balkan. Quanto è fondamentale questo appoggio per il settore del vino serbo e come vengono impiegate principalmente le risorse da parte delle cantine?
Il sostegno dello Stato è molto importante, soprattutto per un settore in così rapida crescita in Serbia. I produttori di vino utilizzano questa fiera, ovviamente, per presentare i loro vini. Ma Wine Vision by Open Balkan serve anche per educare i produttori stessi. Una serie di regole per la vendita del vino si applica al mercato nazionale, mentre altre completamente diverse si applicano ai mercati esteri. In questa fiera, i produttori imparano queste regole. Imparano a presentarsi e imparano a vendere i loro vini in modo più efficace.
Cosa pensi della crisi dei consumi che sembra attanagliare il settore del vino internazionale, soprattutto sul fronte dei vini rossi?
Questo è ovviamente un problema importante, soprattutto lo squilibrio tra il consumo di vini bianchi e rossi. Non conosco la ragione esatta di questo squilibrio. Tuttavia, la crisi generale del consumo di vino è causata dagli sconvolgimenti geopolitici, dalle guerre, dalla diminuzione del potere d’acquisto dei consumatori. E, allo stesso tempo, dall’aumento dei prezzi del vino dovuto ai maggiori costi di produzione. Quando l’economia globale si stabilizzerà, tutto diventerà più certo, chiaro e prevedibile.
Qual è la tua opinione sui vini senz’alcol? Pensi di produrne uno, un giorno?
Il vino è una sinergia di numerosi componenti, ognuno dei quali svolge un ruolo importante e significativo in questo sistema. L’alcol è uno di questi elementi essenziali. A mio parere, se dovessimo eliminare l’alcol, si interromperebbe questa delicata sinergia. Sarebbe dunque difficile definire e giudicare il vino con i canoni a cui siamo abituati. Tuttavia, sono molto aperto a nuove sfide e possibilità. E chissà che non cambi idea.
Spostiamoci fuori dai Balcani. Qual è il tuo vino italiano preferito?
Questa è di gran lunga la domanda più difficile! Amo l’Italia in generale. Per i suoi vini, la cucina, il caffè, la moda, la passione per lo sport, lo stile sartoriale dello “spezzato”, eccetera. È molto più facile per me rispondere quale sia il mio vino francese, spagnolo o austriaco preferito. Ogni regione italiana ha vini autentici di alta qualità. Per me i migliori bianchi sono quelli dell’Alto Adige, mentre i migliori bianchi e rossi da bere tutti i giorni sono quelli del Veneto. I più grandi esempi di Barolo sono imbattibili. Al Brunello di Montalcino non posso dire di no, lo adoro. Amo la Toscana per molte ragioni. L’Amarone della Valpolicella dei migliori produttori è così ricco e stratificato. E ce ne sono molti, molti altri!
Se potessi lavorare in Italia come enologo, quale regione e denominazione sceglieresti?
Ho lavorato in Abruzzo ed è stata una grande esperienza. Ma credo di essere più orientato verso le zone settentrionali, come il Trentino-Alto Adige o il Friuli-Venezia Giulia. Sarebbe bello anche lavorare in Toscana. Penso che mi troverei benissimo in quelle regioni.
Quali sono i tuoi progetti per il 2025 e gli anni a venire?
Amo quello che faccio e voglio continuare il più a lungo possibile. Voglio continuare a dare il mio contributo all’industria vinicola della regione, cercando di ottenere qualche altro riconoscimento internazionale. Continuare a lavorare come consulente enologico, che è la mia attività principale. E lavorare all’ulteriore sviluppo del progetto della mia cantina di famiglia (cantina Dragojlovic). Essere in salute e felice con la mia famiglia.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Cantina Bolzano(Kellerei Bozen) ha presentato a Milano la seconda annata di Tal 1930 e Tal 1908. Vini che – per prezzo, ma ancor più per qualità – si posizionano all’apice della gamma della cooperativa dell’Alto Adige, accanto a un’icona come il Lagrein Riserva “Taber”. Due “Cuvée Superior”, Südtirol-Alto Adige Doc, vendemmia 2021, che restituiscono al calice la fotografia dei vigneti da cui provengono le uve. Chardonnay (80%), Sauvignon (10%) e Pinot Grigio (10%) per il bianco Tal 1930, da piante di età media superiore ai 30 anni allevate tra i 400 e i 700 metri d’altezza, in località Leitach e Renon. Lagrein (83%), Cabernet sauvignon (12%) e Merlot (5%) per Tal 1908, da viti fino a 50 anni di età selezionate nei “cru” di Gries e San Maurizio. Dopo l’ottimo esordio dei due vini nel novembre 2023, l’enologo di Cantina Bolzano, Stephan Filippi, è riuscito a superarsi, ricorrendo a una modifica delle percentuali delle due cuvée.
«Tutto dipende dalla qualità dell’annata – ha spiegato il winemaker di Kellerei Bozen, ormai un veterano della cooperativa altoatesina – ma anche dalla qualità espressa dalle singole uve che andranno a comporre il puzzle finale». Rispetto alla 2020, le condizioni della vendemmia 2021 hanno consentito a Filippi di incrementare dell’11% la percentuale di Chardonnay nella cuvée Tal 1930 (dal 69% all’80%), a discapito del Sauvignon (passato dal 21% al 10%), lasciando invariata la quota del Pinot Grigio (10% in entrambe le annate). Stesso copione per la cuvée rossa Tal 1908, resa ancora più “territoriale” con un 3% in più di Lagrein (83%; era all’80% nel 2020) e un 2% in più di Merlot (passato dal 3 al 5%), a discapito del Cabernet Sauvignon (sceso dal 17% della 2020 al 12% del 2021).
TAL 1930 (95/100 WINEMAG) E LA SCELTA (AZZECCATA) DI UN GRANDE PINOT GRIGIO
Salta all’occhio – sarebbe meglio dire “al palato” – il carattere tipicamente altoatesino della quota di Pinot Grigio presente in Tal 1930. Non sorprende, dunque, che l’unica percentuale a non variare nell’arco delle due vendemmie dei “Tal” sia proprio la sua. «Per i limiti comunicativi di questa varietà – afferma Stephan Filippi – in Alto Adige si preferisce spesso puntare sul Pinot Bianco. Ma a Cantina Bolzano abbiamo tutto Pinot Grigio di collina, tra i 650 e i 700 metri di altitudine. Dunque abbiamo basse rese. E zone selezionate, dove non dobbiamo neppure intervenire per diradamenti».
«Anzi – continua – abbiamo il problema inverso, ovvero che il Pinot Grigio produce troppo poco. Si tratta della selezione effettuata da un vivaista della zona, che è riuscito a fare un lavoro straordinario sul vitigno. L’uva per Tal 1930 arriva in cantina in cassette. Da lontano, gli acini sono di un ramato tanto intenso da poter essere scambiati per Pinot Nero. Per non parlare della gran bella acidità di queste uve. Un altro motivo che mi convince a ricorrere al Pinot Grigio, in una cuvée che deve essere il nostro optimum». Altrettanto efficace lo switch deciso da Filippi dal Sauvignon allo Chardonnay, a cavallo delle due annate. Oggi, Tal 1930 Cuvée 2020 risulta infatti molto condizionato dal primo vitigno. Mentre in Tal 1930 Cuvée 2021, l’equilibrio tra le varietà è già perfetto.
TAL 1908 (94/100 WINEMAG): PIÙ LAGREIN E MERLOT, MENO CABERNET
Ancora più pratica – nonché altrettanto azzeccata – risulta la scelta di ridurre la quantità del Cabernet Sauvignon in Tal 1908, vendemmia 2021. Il 5% complessivo in più tra Lagrein e Merlot, in un’annata (genericamente) dalle acidità più spiccate e dalle alcolicità più moderate rispetto alla 2020, regala un sorso subito più rotondo e goloso rispetto a quello della cuvée rossa d’esordio, dal tannino tuttora “caberneggiante” e giovanile. Il tenore alcolico delle due annate della cuvée rossa di Cantina Bolzano è il medesimo (14%). Ma il salto di qualità in termini di prontezza di beva è netto con l’annata 2021, garantendo al contempo una buona prospettiva di affinamento.
E le vendite? «Produciamo per l’esattezza 1.897 bottiglie di Tal 1930 e 2.989 di Tal 1908 – spiega a Winemag il responsabile vendite Horeca Italia di Kellerei Bozen, Daniele Galler -. A quest cifra vanno aggiunti, rispettivamente, 59 e 99 magnum. I numeri della vendemmia 2021 non si discostano di molto da quelli della 2020, che è stata distribuita solo nell’alta ristorazione e nelle enoteche. È durata sul mercato un paio di mesi». Un successo immediato, dettato anche dalla strategia commerciale della cooperativa altoatesina. «Non abbiamo scelto di procedere con una vera e propria assegnazione – precisa Galler – bensì cerchiamo di distribuire le Cuvée Tal 1930 e Tal 1908 tra i nostri clienti top, in Italia e all’estero, proporzionalmente alle quantità sviluppate anche sulle altre referenze». Selezione, insomma. Dal vigneto alla rete vendita, prescelta per due vini degni dell’Olimpo dei cosiddetti “Super Alto Adige”.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Nominati i nuovi componenti del Comitato Nazionale Vini Dop e Igp per il prossimo triennio (2025-2027). Il nuovo presidente è Michele Zanardo, già enologo di Bosco del Sasso, la cantina dell’Oltrepò pavese guidata da Michela Elsa Centinaio, sorella del vicepresidente del Senato, Gian Marco Centinaio. Con lui Pietro Gasparri, Andrea Rossi, Piero Amorese, Sergio Marchi, Luigi Bavaresco, Vittorio Portinari, Rosanna Zari, Giancarlo Vettorello, Paolo Brogioni. E ancora: Alberto Mazzoni, Francesco Ferreri, Palma Esposito, Domenico Mastrogiovanni, Valentina Sourin, Antonello Ciambriello, Gabriele Castelli e Paolo Castelletti.
«Un onore per me ricoprire la carica di presidente del Comitato Nazionale Vini Dop e Igp – sono le prime parole del nuovo presidente Michele Zanardo – per la quale mi impegnerò al massimo nell’interesse del settore. Ringrazio il signor Ministro per la fiducia che ha voluto accordarmi». «A tutti i neoeletti e, in particolare, agli enologi e soci di Assoenologi, ovvero il presidente Michele Zanardo, il direttore Paolo Brogioni, Alberto Mazzoni, Vittorio Portinari e Giancarlo Vettorello, le congratulazioni del presidente Riccardo Cotarella e i migliori auguri di buon lavoro», commenta invece Assoenologi.
COS’È IL COMITATO NAZIONALE VINI DOP E IGP?
Il Comitato Nazionale Vini Dop e Igp è un organo consultivo del Masaf che ha il compito di tutelare e promuovere i vini a Denominazione di Origine Protetta (Dop) e a Indicazione Geografica Protetta (Igp), oltre a valutare le richieste di protezione e le modifiche ai disciplinari di produzione. A firmare il decreto con le nomine dei nuovi componenti è stato il Ministro dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste, Francesco Lollobrigida.
«Desidero congratularmi con i nuovi componenti del Comitato e con il professor Michele Zanardo – ha dichiarato il Ministro Lollobrigida -. Rafforziamo ulteriormente il settore vitivinicolo, lavorando sui disciplinari di produzione, essenziali per garantire qualità ed eccellenza sui mercati internazionali. Continuiamo a investire sulle straordinarie potenzialità dei nostri vini, ambasciatori del patrimonio agroalimentare italiano, che si distinguono per innovazione e identità, riconosciute e apprezzate in Europa e nel mondo».
RUOLO CHIAVE PER IL FUTURO DEL VINO ITALIANO
Il Comitato Nazionale Vini Dop e Igp svolge un ruolo cruciale nel sistema di certificazione e promozione delle denominazioni italiane. L’esame delle richieste di modifica dei disciplinari di produzione permette di mantenere aggiornate e competitive le norme che regolano il settore, assicurando ai produttori italiani la possibilità di valorizzare al massimo le proprie eccellenze. Con queste nomine, il Masaf punta a rafforzare la sinergia tra istituzioni e produttori, favorendo una crescita sostenibile e duratura del comparto vitivinicolo.
Come ha spesso sottolineato il ministro Lollobrigida, i vini italiani continuano a rappresentare uno dei fiori all’occhiello del Made in Italy, con una reputazione che cresce anno dopo anno nei principali mercati internazionali. L’attenzione del nuovo Comitato verso l’innovazione e l’identità territoriale sarà fondamentale per sostenere la competitività del vino italiano, senza perdere di vista il legame con le tradizioni e la cultura che rendono unico il patrimonio vitivinicolo.
I COMPITI DEL COMITATO NAZIONALE VINI DOP E IGP
Il Comitato Nazionale Vini Dop e Igp svolge funzioni fondamentali per la tutela e la valorizzazione del settore vitivinicolo italiano. Tra i suoi compiti principali: la valutazione delle richieste di riconoscimento delle Dop e Igp: il Comitato esamina e approva le istanze per l’ottenimento della Denominazione di Origine Protetta (Dop) o dell’Indicazione Geografica Protetta (Igp) per i vini, prima della trasmissione alla Commissione Europea. Il Comitato procede inoltre all’analisi e alla modifica dei disciplinari di produzione, regolamenti dettagliati che definiscono le caratteristiche, i metodi di produzione e le zone di origine dei vini Dop e Igp.
Importante anche la tutela delle denominazioni, in stretta collaborazione con il Masaf e con gli altri enti, per garantire che i vini Dop e Igp siano adeguatamente protetti da contraffazioni, usurpazioni o utilizzi impropri delle denominazioni. Promozione della qualità e dell’identità territoriale sono altri compiti del Comitato Nazionale Vini Dop e Igp, che si impegna a rafforzare il valore delle denominazioni italiane, assicurandosi che rappresentino un’espressione autentica e certificata del territorio di origine. L’organismo supporta inoltre le politiche di settore, fornendo indicazioni e pareri al Ministero su questioni legate alla vitivinicoltura, come strategie di promozione, sviluppo del settore e rapporti con le normative europee e internazionali.
Non ultimo, svolge il monitoraggio del settore Dop e Igp, raccogliendo dati e informazioni sulle denominazioni esistenti, analizzando il loro impatto economico e la loro evoluzione sui mercati nazionali e internazionali. Il lavoro del Comitato è essenziale per mantenere alto il livello di qualità dei vini italiani, garantendo la coerenza con i disciplinari e la capacità di innovare. In un contesto di crescente competizione internazionale, l’attività di questo organo è fondamentale per preservare il patrimonio vitivinicolo italiano e consolidare la reputazione dei vini Dop e Igp nel mondo.
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Si chiama Lunaria il primo Pinot Nero Metodo classico di Bosco del Sasso, la cantina dell’Oltrepò pavese guidata da Manuela Elsa Centinaio, sorella del vicepresidente del Senato, Gian Marco Centinaio. Uno spumante di qualità (Vsq) – non un Docg Oltrepò – dosaggio Brut, 30 mesi sui lieviti, che mostra la struttura corpulenta del Pinot Nero dei vigneti situati tra la Valle Versa e la Valle Scuropasso. Senza tuttavia perdere di vista l’obiettivo primario: la beva. Quattro gli ettari a disposizione di Bosco del Sasso in frazione Roncole 8, a Canneto Pavese. La cantina, tuttora in allestimento sul fronte dell’accoglienza del pubblico, ha aperto i battenti nel 2022, con Manuela Elsa Centinaio nel ruolo di amministratore unico della società. Un ritorno alle origini pavesi nelle vesti di imprenditrice vinicola, dopo i trascorsi nel settore Food & Beverage come responsabile della qualità.
ECCO LUNARIA, IL METODO CLASSICO DI BOSCO DEL SASSO
«Con Lunaria – ha spiegato Centinaio lunedì 2 dicembre, in occasione del lancio ufficiale del nuovo spumante, all’Enoteca Regionale della Lombardia di Broni – completiamo la nostra gamma di vini che raccontano l’Oltrepò pavese, nostra casa e territorio che abbiamo scelto e in cui crediamo molto. Dopo Buttafuoco Doc, Buttafuoco Storico Doc e uno spumante Extra Dry Metodo Martinotti “19.09“, chiudiamo il cerchio con un Metodo classico ottenuto da sole uve Pinot Nero». Lunaria richiama il nome di una pianta, conosciuta in Italia anche come “Moneta del Papa” – in Olanda come “Judaspenning”, ovvero “Monete di Giuda”, allusione ai trenta denari d’argento, paga di Giuda Iscariota – ma soprattutto il colore e la luminosità della Luna.
L’etichetta nera esalta la scritta dorata del logo di Bosco del Sasso, il cui simbolo è un cipresso. «Un filare di cipressi conduce all’ingresso della nostra cantina – ha sottolineato la titolare – aprendo la porta al nostro mondo. Lo stesso fa il packaging studiato da Alberto Cei, design director della branding agency Robilant, offrendo un’esperienza tattile, oltre che visiva, grazie ai rami del Pinot Nero stilizzati sullo sfondo, in rilievo. Un modo per comunicare che si può iniziare a degustare Lunaria sin dall’etichetta, a bottiglia chiusa».
L’OLTREPÒ PAVESE DI BOSCO DEL SASSO
L’enologo di Bosco del Sasso è Michele Zanardo. «Avevamo già tre vini – ha commentato – ma uno sgabello sta in piedi con quattro gambe. Dopo i primi due vini rossi è arrivato un Martinotti. Ma l’Oltrepò pavese è terra di Metodo classico e di Pinot Nero. Così è nato Lunaria, uno spumante che vuole essere fine, elegante e di gran bevibilità, in assoluta coerenza con il percorso dei vini di Bosco del Sasso, tutti orientati sul piacere della beva e sul desiderio che un sorso chiami l’altro, senza appesantire. Del resto sono convinto che il lavoro dell’enologo può dirsi compiuto solo quando la bottiglia finisce facilmente sul tavolo».
«Con Lunaria – ha aggiunto il sommelier della cantina, Roberto Galli – abbracciamo finalmente tutte le sfumature dello spumante da uve Pinot Nero dell’Oltrepò. Un vino perfetto come aperitivo con salumi, formaggi freschi o di media stagionatura, o in abbinamento con antipasti di pesce, crostacei o cucina di mare gourmet». Soddisfazione anche per il presidente dell’Enoteca regionale della Lombardia. «Eventi come questo – ha evidenziato Roberto Allegrini, sempre in occasione del lancio del primo metodo classico di Bosco del Sasso – consentono all’Enoteca regionale della Lombardia di raggiungere uno dei suoi obiettivi. Questo spazio non è di Regione Lombardia, ma è dell’Oltrepò pavese e dei produttori. Mi auguro che in molti prendano esempio, rendendo l’Enoteca regionale un riferimento per questo territorio e non solo».
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Si scrive “Rizzini“, si legge “perla nascosta”. Di una Franciacorta che ama poco la ribalta e lavora a testa a bassa, in silenzio. Ma con una formula ben precisa, che sa di dogma infrangibile. Di comandamento non scritto, nell’immaginaria Bibbia della bollicina perfetta: un solo vigneto, una sola uva (Chardonnay). Solo millesimati e solo lunghi affinamenti sui lieviti. “Solo”, o quasi, è anche Guido Rizzini in azienda. Anima e corpo – qualcuno direbbe Deus ex machina – di questa piccola cantina di Monticelli Brusati da 2 ettari e 15 mila bottiglie dell’universo Fivi. Senza sito web. Senza cartellonistica in ingresso. Senza frasi fatte. Anzi, di parole da estrapolare come dentisti a un produttore che t’accoglierebbe semplicemente con calice e bottiglie da stappare. Che tutto il resto, in fondo, è contorno. Cornice. Non quadro.
Rizzini Franciacorta – e non c’è da meravigliarsi – è tutto tranne che una nuova realtà. «Mio padre è nato qui – spiega Guido Rizzini, classe 1976 – e qui lavorava come mezzadro. Alla morte del proprietario, è riuscito ad acquistare questo piccolo terreno, con annessa la casa in disuso, poi ristrutturata. Nel 1985 ha piantato il primo vigneto di Chardonnay e Pinot Bianco, varietà poi estirpata. Fino al 1991 abbiamo venduto le uve. Le nostre prime mille bottiglie “non ufficiali” risalgono al 1992. Poi, dal 1994, abbiamo messo le carte in regola, con una produzione di 5 mila bottiglie». Un paio d’anni, dunque, per fare il “salto di categoria”. Da dilettanti a professionisti. Affidandosi a un enologo del calibro di Alberto Musatti, tra i “padri” del Franciacorta, rimasto a Rizzini sino al 2007. L’anno in cui è subentrato Andrea Rudelli.
RIZZINI FRANCIACORTA DAGLI ESORDI AGLI ANNI DUEMILA
Era l’epoca in cui l’esperienza contadina portava, nel bresciano, a produrre più vini rossi che bianchi e spumanti. «Tra l’85 e il ’92 – ammette Guido – mio padre aveva provato da solo a fare un bianco, ma il risultato era stato un orange. Grazie all’enologo abbiamo fatto un salto di qualità, indirizzando tutta la produzione sullo spumante Metodo classico». Tempismo perfetto, a cavallo di quel 1995 in cui la Franciacorta si è vista riconosciuta la Docg, prima denominazione italiana della categoria ottenuta con il metodo della rifermentazione in bottiglia.
Visionarie anche le scelte sul clone dello Chardonnay (da spumante) e portinnesto (SO4, poi Kober, prima del recente ritorno all’SO4, meno vigoroso e dunque meno soggetto a mal dell’esca). Nel 1999, dopo la scomparsa del padre, Guido Rizzini si ritrova una cantina avviata: «Da buon bresciano volevo la bici – ricorda con una certa commozione – e ho iniziato a pedalare. Ma soprattutto non volevo abbandonare il sogno di papà, oltre a dover fare i conti con una mia grande convinzione: o tutto, o niente. Compromessi zero». Parole che spiegano più d’una scheda tecnica i vini targati Rizzini Franciacorta.
«COMPROMESSI ZERO»: LA FORMULA MAGICA DI RIZZINI FRANCIACORTA
«Equilibrio sopra la follia», direbbe Vasco Rossi. E, a guardar bene, Guido Rizzini «cammina per la strada senza nemmeno guardare per terra», un po’ come Sally. «Se mi basassi solo sulla convenienza economica – ammette – le mie scelte sarebbero chiaramente sbagliate, soprattutto per i lunghi affinamenti e la volontà di produrre solo nei migliori millesimi». Elementi che fanno quasi passare in secondo piano il dettaglio del “singolo vigneto” da cui provengono le uve Chardonnay, posto su un terrazzamento che sovrasta la piccola cantina di Monticelli Brusati.
«Imbottiglio al 100% Franciacorta da singola annata – spiega ancora il produttore – e in catasta ho solo vini da singola vendemmia. La decisione di non uscire sul mercato dopo 18 mesi è dettata dalle caratteristiche dei suoli, che hanno sempre dato vini di grande struttura e di grande corpo. Allungando i tempi per avere vini più “pronti”, sono arrivato a portare l’uscita del mio vino “base” solo dopo 60 mesi sui lieviti, per poi salire a 130, 140…».
In cantina, il Franciacorta millesimo 2005 è il più datato: «Volevo arrivare a 240 mesi sui lieviti (20 anni, ndr) – ma adesso che ci sono quasi arrivato mi spiace, quindi forse lo lascerò lì ancora un po’». Non scherza, Guido Rizzini. Spoiler alert: nel 2025 Rizzini Franciacorta compirà 40 anni. Lo stock da cui attingere per i festeggiamenti? Circa 120 mila bottiglie. Quasi una bottiglia per ogni abitante della vicina Brescia. Trentatré a testa per quelli del piccolo comune di Monticelli Brusati.
RIZZINI FRANCIACORTA: LA DEGUSTAZIONE
Franciacorta Docg Brut Millesimato 2017 (92/100)
Sboccatura 11/2023, 3/3,5 grammi litro il dosaggio. Solo acciaio, 68 mesi su lieviti. Perlage raffinato. Naso e sorso sul frutto, in particolare su una mela gialla matura e su ricordi di frutta esotica. Chiusura lunga che non perde l’impronta decisamente fruttata. Un Brut goloso, pur teso e dissetante.
Franciacorta Docg Dosage zero 2016 (95/100)
È il re della batteria di Rizzini Franciacorta sottoposti in assaggio. Settantadue mesi sui lieviti, solo acciaio, sboccatura a marzo 2023. Diciotto mesi di tappo, dunque. Un dosaggio zero che rispetta i canoni della tipologia, su una tensione acida e una verticalità marcata, tanto da staccarlo in maniera netta dal Brut 2017. Meno opulenza del frutto, più stratificazione e balsamicità. Chiude giustamente asciutto, senza risparmiarsi sul fronte della spalla acida, neppure in retro olfattivo. Un pugile più che mai pronto per il ring, con cui giocare negli abbinamenti.
Franciacorta Docg Extra Brut 2010 (92/100)
132 mesi sui leviti, 90% acciaio e 10% barrique usata. Sboccatura avvenuta ad aprile 2022: 30 mesi di tappo. Un altro (ris)volto di casa Rizzini Franciacorta, forse quello più vicino all’opulenza dei suoli dei vigneti di Monticelli Brusati. Struttura e trama vinosa, complessità della lisi. Chiusura precisa, sul frutto giallo, mai urlato. Sorso giustamente fresco, che chiama la beva e ammalia, grazie al tocco mielato riscontrabile in persistenza aromatica intensa.
ANTEPRIMA E “ARCHIVIO”
Franciacorta Docg 2018 (93/100)
Aperto à la volée, dunque senza liqueur. Dà la tara al gran lavoro compiuto in vigna e in cantina da Guido Rizzini e dall’enologo Andrea Rudelli. Sorso di gran sostanza e buona struttura, abbinato a una certa morbidezza glicerica naturale, in un’annata genericamente generosa per la denominazione bresciana e di qualità medio-alta per chi ha superato indenne fenomeni temporaleschi violenti e improvvisi. Sarà ulteriormente sboccato tra dicembre 2024 e gennaio 2025, quando avrà passato la soglia dei 70 mesi sui lieviti. Con un dosaggio che dovrebbe aggirarsi attorno ai 2,5 grammi per litro.
Centoventi mesi sui lieviti per il Brut Nature Riserva 2009 di Rizzini. Sboccatura ad aprile 2022, senza aggiunta di zucchero. Ancora una volta, acciaio e barrique usata. Giustamente il Franciacorta più evoluto della gamma scelta per l’assaggio ma il primo che vira in maniera netta sulla pasticceria, chiudendo su ricordi netti di zabaione. Consueta struttura, resa ancora più compatta dalle note evolutive-terziarie, che tuttavia non sovrasta né scalfisce la finezza. Bollicina da pasto, che non teme piatti strutturati e le carni.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
A S’Abba ‘e S’Alinu, il mare sembra destinato a rovesciarsi sulle montagne, da un momento all’altro. Quella linea blu sottile all’orizzonte sovrasta le cime e toglie il fiato, dall’omonimo vigneto di Antichi Poderi di Jerzu. Muovendosi verso gli 800 metri d’altitudine, pare d’essere immersi in una Jacuzzi. Con l’acqua salata pronta a riempirla in un baleno, scivolando dentro dai bordi. Giochi di prospettiva che abbracciano una terra dove tutto ha un nome. E dove ogni nome ha un perché. Come S’Abba ‘e S’Alinu: “S’Abba” è l’acqua di sorgente; “S’Alinu” è l’ontano, una pianta che cresce lungo i torrenti di cui ha sempre più sete questa terra.
Il sole di mezzogiorno – caldo, anche ad ottobre – accende le schegge di scisto ai piedi delle piante di Cannonau, tanto da farle somigliare a una distesa di cocci di vetro. Luccichii a intermittenza capaci di mescolare luoghi e memorie. Quello che potrebbe sembrare un angolo d’Alta Rioja, è invece il teatro dei più ambiziosi progetti della cooperativa di 408 soci distribuiti in una decina di comuni dell’Ogliastra, la costa e l’entroterra più selvaggio della Sardegna. Sette milioni di euro di fatturato e una ridistribuzione degli utili che, anche in tempi difficili per il mercato del vino, garantisce la sopravvivenza della viticoltura in aree a serio rischio di abbandono.
BACCU IS BAUS, BACCU S’ALINU E CINQUESSE: I CANNONAU DI PUNTA
«Grazie alla zonazione dei vigneti dei nostri soci – spiega con gli occhi persi all’orizzonte Franco Usai, direttore commerciale della 74enne cantina di via Umberto I – sono nati in passato vini come Marghia, Chuerra e Josto Miglior, dedicato al nostro fondatore. Da oltre cinque anni, il concetto delle macrozone si è evoluto. Siamo andati ancora più a fondo nell’analisi delle parcelle dei nostri Sardegna Doc Cannonau, individuando ulteriori eccellenze all’interno di ogni singola zona, come qui a S’Abba ‘e S’Alinu». Ecco dunque gli ultimi vini da “macro cru”. Ovvero Baccu Is Baus, Baccu S’Alinu e Cinquesse, la cui etichetta omaggia la nota artista sarda Maria Lai. «Il concetto di terroir – continua Usai – non è solo legato al suolo, ma anche alle competenze e all’interazione dell’uomo con la natura».
«Provo ogni volta delle emozioni nell’osservare colori e luci che si susseguono a perdita d’occhio, dal mare fino alla montagna, racchiudendo il senso del nostro territorio. In 15 minuti si può partire dalla spiaggia e arrivare alle sommità di un monte, incontrando sul tragitto i piccoli appezzamenti dei nostri soci». Un percorso che si traduce in una solida gamma di vini, territoriali e autentici. E in crescita qualitativa, di annata in annata, anche grazie alla consulenza dell’enologo Franco Bernabei. L’uso sempre più frequente del cemento e del legno grande, insieme al progressivo abbandono della barrique o a un suo utilizzo meno marcante, sta rendendo i vini di punta Baccu Is Baus, Baccu S’Alinu e Cinquesse vere e proprie gemme della Sardegna enoica.
ANTICHI PODERI DI JERZU: CANNONAU CERTEZZA, VERMENTINO FRONTIERA
Quello di Antichi Poderi di Jerzu è un puzzle bucolico che ha superato scossoni e burrasche tipiche di una terra da sempre sulla difensiva; mai abbastanza unita nel presentare all’Italia (figurarsi all’estero) le proprie eccellenze assolute. La cooperativa nuorese si è messa alle spalle il drastico calo delle superfici vitate della Sardegna degli anni Ottanta. Oggi è un autentico baluardo della grande tradizione vinicola sarda e del Cannonau, che guarda al Vermentino come nuova frontiera.
«I nuovi trend di consumo e la crisi generalizzata dei vini rossi – sottolinea il presidente Marcello Usala – non ci hanno toccato più di tanto. Il nostro Cannonau tiene, ma è importante pensare al Vermentino come a un’opportunità, in un’epoca in cui i vini bianchi vengono sempre più prediletti dai consumatori». Difficile, però, convincere i soci, in questa fetta di Sardegna legata a doppio filo al Cannonau. Le resistenze, certo, non mancano. Ma le azioni del management di Antichi Poderi di Jerzu sta dando i suoi frutti, coinvolgendo i viticoltori con ottime remunerazioni delle migliori uve a bacca bianca. Al punto che, al Vermentino, la cooperativa dedica ben tre etichette riservate all’Horeca.
La punta di diamante è Filare, ottenuto da una sapiente vinificazione in tonneau di rovere francese: un “SuperVermentino” che si regge sulla spina dorsale acido-sapida, lasciando al legno il ruolo di stratificare il sorso, ancora più gastronomico (tutt’altro che sbagliato osare nell’abbinamento con le carni bianche o la cucina orientale, speziata) e mostrando a tutti quanto Jerzu possa essere (anche) terra di ottimi vini bianchi. Alle sue spalle nella gamma Lucean le Stelle, volto agrumato, teso e sapido del Vermentino della Linea Il Fondatore. Un vino che chiama l’estate e, in cucina, i frutti di mare e i piatti di pesce. C’è poi Telavè (linea Selezione), che cattura l’attenzione col suo naso aromatico e convince con la freschezza di un sorso che invoglia la beva.
PODERI DI JEZU: PRIME PROVE SU UN (SORPRENDENTE) METODO CLASSICO
Se il terzetto del Vermentino è destinato a crescere in volume, un altro progetto potrebbe vedere la luce nei prossimi anni. Antichi Poderi di Jerzu sta infatti sperimentando, ormai da un quinquennio, sul Metodo classico. L’idea di inserire uno spumante nella gamma di vini della cooperativa stuzzica la presidenza e la direzione commerciale. Ma l’ipotesi di riversare sul mercato l’ennesimo spumante charmat generico, da un territorio che non vanta grandi tradizioni spumantistiche, non convince. Da qui la ferma decisione di virare su uno Champenoise, con affinamento sui lieviti medio-lungo. Guardando al Trento Doc denominazione italiana modello.
Il team enologico guidato da Franco Bernabei è andato tuttavia ben oltre, proponendo ad Antichi Poderi di Jerzu – al posto dello scontato Vermentino – due varietà di uva non certo avvezze alla Sardegna: Riesling italico e Petit Manseng. Il primo è diffusissimo in Oltrepò pavese, dove è vinificato con il Metodo classico dalla cantina Calatroni – l’etichetta è “Inganno 572”, Vsq Brut – con ottimi risultati. «Qui da noi matura benissimo», assicura il duo Usai-Usala.
Il secondo, più aromatico, è stato da poco ammesso alla coltivazione sull’isola e trova in Toscana un antesignano, ne “L’Eccezione” Brut Nature di Podere La Regola (ottenuto in realtà da una cuvée del “parente” del Petit Manseng, il Gros Manseng, con lo Chardonnay). Un’opportunità in più, il futuro Metodo classico di Antichi Poderi di Jerzu, per crescere all’estero rispetto all’attuale quota del 17%. Rafforzando un marchio che ha tutte le carte in regola per essere già considerato simbolo dell’isola, grazie a Cannonau e Vermentino.
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La vendemmia 2024 in Franciacorta è già nella storia. L’inizio della raccolta delle uve è coinciso con l’avvio delle attività del nuovo Laboratorio di microvinificazione del Consorzio Franciacorta, in via dell’Industria 46/F, ad Erbusco (Brescia). Questa struttura innovativa, realizzata in collaborazione con Accademia Symposium in una parte degli spazi dell’Istituto Oeno Italia, supporterà d’ora in avanti le attività del team di Ricerca e Sviluppo guidato da Flavio Serina. Il Laboratorio di microvinificazione, investimento da circa 300 milaeuro, è il supporto essenziale per trasformare le diverse “tesi sperimentali” in vino spumantizzato secondo il metodo classico, valutando sul prodotto finito la bontà delle scelte agronomiche ed enologiche. La supervisione delle fasi di vinificazione è affidata, in loco, all’enologo Mario Falcetti (ex Quadra Franciacorta) e a un gruppo di tecnici. Un passo decisivo rispetto al passato, quando tali operazioni venivano svolte presso strutture esterne. Più attrezzate, ma lontane da Brescia.
FRANCIACORTA, VISITA AL NUOVO LABORATORIO DI MICROVINIFICAZIONE
Uno degli aspetti più significativi delle attività di ricerca e sviluppo condotte dal nuovo Laboratorio di microvinificazione del Consorzio Franciacorta riguarda la selezione genetica. Il gruppo di ricerca genetica dell’Istituto di San Michele all’Adige ha avviato degli incroci che potrebbero portare a ottenere, nel lungo periodo, nuove varietà di vite con caratteristiche adattive e qualitative superiori. Questi incroci, nati da genitori come l’Erbamat e lo Chardonnay, mirano a combinare resistenza alla siccità e qualità del raccolto, rispondendo così alle sfide poste dal cambiamento climatico in Franciacorta.
Nel vigneto sperimentale di Erbusco sono state messe a dimora circa 50 piante per incrocio, frutto delle selezioni iniziali. Lo screening continuerà negli anni, eliminando gli incroci meno promettenti e studiando quelli con maggiore potenziale e resistenza alle avversità. È il futuro che bussa alla porta del Consorzio Franciacorta, con la possibile introduzione di nuovi incroci capaci di sintetizzare (ed elevare) le caratteristiche positive di Chardonnay ed Erbamat. Un percorso che si svilupperà nell’arco dei prossimi decenni, con Mario Falcetti pronto a mettere a disposizione del territorio le competenze acquisite in anni di sperimentazione sull’Erbamat, con risultati sorprendenti a Quadra.
PIWI FRANCIACORTA: UN CAMPO SPERIMENTALI SUI VITIGNI RESISTENTI
In parallelo, il Laboratorio di Microvinificazione del Consorzio Franciacorta ha in carico lo studio dei comportamenti di una serie di vitigni Piwi resistenti alle malattie fungine, come Johanniter e Solaris, che potrebbero accelerare i tempi di risposta alle sfide climatiche. Alcuni di questi sono ancora in fase di omologazione. Altri sono già stati testati con successo in ambienti montani, come presso la Fondazione Mach di San Michele all’Adige. L’adattamento dei vitigni Piwi alle condizioni specifiche della Franciacorta è uno dei principali focus di questa fase di valutazione. Una sorta di risposta della più nota denominazione spumantistica italiana del Metodo classico alle sperimentazioni condotte in Champagne dall’Institut National de l’Origine et de la Qualité (Inao), sul vitigno Piwi Voltis.
In questo senso, il nuovo Laboratorio di microvinificazione del Consorzio – che sarà ufficialmente inaugurato il 5 ottobre, alle ore 11 – si presenta come un vero e proprio incubatore di idee e innovazioni. Oltre a fornire risultati nel breve termine, come la possibilità di vinificare in micro-lotti, in condizioni controllate, rappresenta un punto di svolta strategico per il futuro della viticoltura della Franciacorta. Il Consorzio, in collaborazione con l’Università di Milano e l’Accademia Symposium, sta infatti esplorando nuove tecniche di potatura, ombreggiamento e gestione del “microclima” delle vigne franciacortine. Tutte iniziative rivolte a migliorare la qualità dei vini della denominazione, con un occhio alla sostenibilità della produzione.
LABORATORIO DI MICROVINIFICAZIONE: IL FUTURO DELLA FRANCIACORTA È OGGI
La ricerca sui portainnesti resistenti alla siccità e il miglioramento genetico delle varietà tradizionali rappresentano infatti solo una parte di un piano molto più ampio e ambizioso. L’iniziativa, di fatto, ha anche un forte valore formativo, coinvolgendo studenti e tirocinanti che potranno apprendere “sul campo”, partecipando in prima persona alle attività del Laboratorio di Microvinificazione. Un apporto significativo della Franciacorta alle competenze delle generazioni future di tecnici del settore che, proprio in via dell’Industria 51 ad Erbusco, potranno “sporcarsi le mani” e fare vera esperienza.
La struttura non solo permette di vinificare sul territorio bresciano le uve cresciute nella zona, evitando i problemi legati al trasporto delle uve in altri laboratori – come in passato avveniva appunto con l’Istituto di San Michele all’Adige, nei pressi di Trento – ma offre anche la possibilità di migliorare le tecniche di vinificazione e di sperimentare con una varietà di tecnologie innovative. Tra queste l’uso di kegs in acciaio (gli stessi contenitori utilizzati per la birra) per lo stoccaggio e il controllo delle fasi della fermentazione di piccole partite di mosto.
MARIO FALCETTI: «FRANCIACORTA PRONTA ALLE SFIDE INTERNAZIONALI»
«Il nuovo Laboratorio di microvinificazione del Consorzio Franciacorta – commenta Mario Falcetti – getta le basi per una nuova era di ricerca e sviluppo della denominazione, in grado di confrontarsi non solo con le sfide poste dai cambiamenti climatici, ma anche con il panorama competitivo internazionale, valorizzando ancor più le specificità e le eccellenze del territorio. La sfida, dunque, non è tanto competere con altre zone vitivinicole, come la Champagne, quanto valorizzare e potenziare le risorse locali attraverso l’innovazione scientifica e tecnologica».
Laboratorio di microvinificazione del Consorzio Franciacorta
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«In cantina, il lavoro è stato cruciale per valorizzare l’uva, lavorando con precisione per compensare gli squilibri creati dalle condizioni meteorologiche». Riccardo Cotarella, presidente di Assoenologi, elogia il lavoro degli enologi ed enotecnici italiani alle prese con le difficoltà della vendemmia 2024. «In campo, abbiamo dovuto adottare strategie precise per ottimizzare l’uso delle risorse idriche (emblematico il caso della Sicilia, ndr), monitorare lo stato di salute delle piante e decidere il momento esatto della vendemmia, per ottenere uve al massimo del loro potenziale», ha precisato il noto winemaker durante la presentazione delle stime della vendemmia 2024 in Italia, elaborate in collaborazione con Ismea e Unione italiana Vini (Uiv). «È stata una delle vendemmie più impegnative che ricordi nella mia ormai lunga esperienza di enologo», ha sintetizzato il presidente di Assoenologi.
COTARELLA PARLA DELLA QUALITÀ DELLE UVE DELLA VENDEMMIA 2024
Una raccolta, quella del 2024, che in base ai riscontri raccolti da Cotarella risulta «condizionata in maniera importante da una significativa trasversalità meteorologica , in grado di mettere alla prova i viticoltori italiani. Da nord a sud del Paese». In particolare, la vendemmia 2024 in Italia si inserisce in un «quadro meteorologico estremo», caratterizzato da «un’instabilità climatica che ha influito inevitabilmente sulla produzione delle uve».
«Le varietà più precoci, in alcune zone – ha aggiunto Riccardo Cotarella – sono state raccolte con rese inferiori e una qualità segnata dalle condizioni meteorologiche avverse. Le varietà più tardive hanno subito ritardi o anticipi nella maturazione, con un impatto significativo sul bilancio zuccherino e acidico delle uve stesse. Tuttavia, nonostante le difficoltà, ciò che emerge come un fattore determinante per la qualità finale dei vini è proprio il lavoro degli enologi. Mai come quest’anno – ha concluso il numero uno di Assoenologi – siamo stati chiamati a dimostrare la nostra competenza scientifica e il nostro sapere tecnico per gestire al meglio sia la conduzione della vigna sia quella della cantina».
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Prendi un sogno, credici davvero. Trova qualcuno che sogni con te. Chiudi gli occhi. E tutto sembrerà in discesa. Non c’è immagine che spieghi meglio il progetto ad ampio respiro di Davide Zoppi e Giuseppe Luciano Aieta, dei loro vigneti verticali, a picco sul mare della Liguria: dipende da dove li guardi. Cà du Ferrà è questo. Molto più di una cantina: uno stile di vita.
Flashback, utile a rimettere insieme i pezzi di una storia senza pari nel mondo del vino italiano, fatta di preparazione, coraggio, spirito imprenditoriale. Amore per le proprie radici, voglia di cambiare il mondo con tenacia, un pezzo alla volta. Realtà e sogni. Davide, laureato in Giurisprudenza, incontra Giuseppe, laureato in Ingegneria, con un Master in Finanza.
Se ne innamora e lo convince, a suon di tramonti mozzafiato, a cambiare vita. Anzi, orizzonte. Da Milano, i due si trasferiscono a Bonassola (La Spezia), noto borgo della Liguria di Levante dove i genitori di Davide, Antonio Zoppi e Aida Forgione, gestiscono dal 2000 una piccola cantina famigliare con agriturismo per l’ospitalità, chiamata Cà du Ferrà (“Casa del Fabbro”).
DAVIDE ZOPPI E GIUSEPPE LUCIANO AIETA, UNITI NELLA VITA E NEL VINO CON CÀ DU FERRÀ
Il matrimonio civile tra Davide e Giuseppe, officiato il 12 novembre 2016 nel castello di Bonassola, finisce addirittura in tv, protagonista di una puntata di “Real Time”. L’unione viene celebrata dalla più nota matrimonialista italiana, l’avvocata e saggista Annamaria Bernardini de Pace. Ospite speciale Enzo Miccio, il più noto Wedding Planner d’Italia. È la base per la “seconda vita” di Cà du Ferrà, con Davide e Giuseppe pronti ad entrare nell’organico dell’azienda agricola, rivoluzionandola sotto ogni aspetto.
«Abbiamo semplicemente continuato ad essere quello che eravamo a Milano», riferisce la coppia ricordando il trasferimento in Liguria. Nel 2017 viene costruita l’attuale cantina, che ospita una produzione di circa 28 mila bottiglie e che presto sarà ampliata, per consentire alla coppia di dedicarsi ancora meglio alla produzione e alle visite in cantina e in vigna. Ciliegina sulla torta è la collaborazione di Cà du Ferrà con una delle enologhe italiane più note: Graziana Grassini.
CÀ DU FERRÀ MIGLIOR CANTINA ITALIANA 2025 PER LA GUIDA WINEMAG
«L’aspetto umano nel mio lavoro è fondamentale – racconta la winemaker – e l’incontro con Giuseppe e Davide è stato tra i più belli, perché ci siamo affidati l’una agli altri naturalmente, senza forzature. Fare l’enologa vuol dire rendersi interprete della filosofia del produttore e di un territorio, fonderli insieme e saperli tradurre in caratteristiche sensoriali e nell’aspetto più emozionale del vino. Se manca il piacere di stare insieme, manca tutto».
Bonassola, grazie all’impegno delle anime belle di cui profumano tutti i calici di Cà du Ferrà – dal Vermentino al “Vino dolce dell’anno” della nostra Guida 2025, prodotto con l’antica e riscoperta uva Ruzzese – diventa simbolo della riscossa della viticoltura italiana dei piccoli borghi, spesso abbandonati alle proprie sorti.
Il teatro di una riscossa sociale, con la storia d’amore tra Davide Zoppi e Giuseppe Aieta che diventa impresa, nel duplice senso del termine, all’insegna di un approccio alla vita e al lavoro che brilla come un esempio. Non ultimo, Bonassola è la sintesi della forza delle idee e dei grandi progetti, tanto forti da richiamare e convincere grandi personalità come Graziana Grassini diventando realtà. Senza smettere mai di essere anche un bel po’ “sogni”.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Enologi, «piccoli chimici» o alchimisti? Che sui vini dealcolati serva chiarezza è ormai evidente. A maggior ragione sul ruolo (in cantina) di chi, a quei vini senza alcol, dà vita. Non a caso Assoenologi, l’associazione italiana che raggruppa enologi ed enotecnici italiani, ha pubblicato sull’ultimo numero della sua rivista un interessante intervento di Gianmaria Zanella, Lab Manager di Enologica Vason, azienda con sede a San Pietro in Cariano (Verona), nel cuore della Valpolicella, con più di 50 anni di attività nell’offerta di know-how ai consulenti vitivinicoli, attraverso opportunità e servizi per il mondo enologico. Ripubblichiamo di seguito l’intervento di Zanella su l’Enologo.
VINI DEALCOLATI, LOW-NO ALCOHOL: IL RUOLO DELL’ENOLOGO
«Il ruolo dell’enologo nella produzione dei vini dealcolizzati – scrive Zanella – è importantissimo. Solo questo professionista può far capire a tutti gli attori della filiera cosa sono questi vini e come possono andare incontro alle esigenze del mercato. La dealcolizzazione è un processo molto complesso che nasce come risposta al global warming, come modulazione per ridurre le elevate gradazioni alcoliche.
Per determinare il giusto livello di alcol occorre attuare lo “sweet spot tasting” ossia il giusto bilanciamento per ottenere lo stile desiderato. Si simula la dealcolizzazione su un campione e si esegue una degustazione del prodotto con gradazioni alcoliche crescenti (0,2% per volta). In base al risultato della degustazione si definirà quale grado alcolico meglio valorizza il vino.
Tre sono le tecniche di separazione recepite dal Reg. Ue 2021/2117 che possono essere utilizzate singolarmente o in modo combinato: la distillazione; le tecniche di membrana e l’evaporazione sottovuoto. La distillazione sottovuoto è adatta anche per la dealcolazione totale ha però una temperatura di processo intorno ai 40 gradi e in alcuni casi potrebbe esserci la possibilità di aggiungere acqua, cosa non consentita, quindi non è performante. Oppure abbiamo lo “spinning core column” (colonna a cono rotante), adatto anche a dealcolizzazione spinta, che consta di due processi: un recupero degli aromi a 20-25 gradi a cui segue la dealcolizazione vera e propria. La forza centrifuga in questo caso aiuta il processo».
VINI DEALCOLATI: TECNICA E MERCATO
«Come tecnica a membrana – continua l’intervento di Gianmaria Zanella – un esempio può essere la “membrana contattore”, un processo svolto a temperatura ambiente dove la driving force è l’acqua. Si adatta bene alla dealcolizzazione parziale. Il ruolo dell’enologo è dominare questi processi e riuscire a lavorare d’anticipo con la propria conoscenza. Parlando di questi tre filoni di tecniche dobbiamo renderci conto che sono diverse per concentrazioni aromatiche e di altri macrocomponenti del vino.
Il mercato ce lo chiede e noi enologi dobbiamo capire come gestire questi processi. È’ necessaria una progettualità in cui l’enologo sia al centro. La maturazione e lo stato sanitario delle uve devono essere eccelsi. Non si può pensare di partire da una raccolta anticipata perché ci sarebbe uno squilibri nel contenuto di maturità fenolica che in assenza di alcol peserebbe tantissimo. L’obiettivo enologico deve essere ben definito e condiviso con tutti gli attori della filiera.
Low alcol, parziale, totale, stile del vino, packaging e chiusure: tutto va definito nel dettaglio, soprattutto perché questi prodotti hanno un’ossidabilità completamente diversa dai normali vini e un’alta pericolosità dal punto di vista microbiologico. Con questi prodotti occorre essere maniacali con i controlli microbiolgici continui, piani di igiene, filtrazioni sterili, ecc. L’obiettivo del processo – conclude il suo intervento Gianmaria Zanella – è una bevanda che sia simile al vino anche se l’assenza di alcol dal punto di vista sensoriale pesa tantissimo, influenza l’acidità, la percezione olfattiva, la struttura, l’amaro. Bisogna quindi lavorare in anticipo con correttivi e pratiche enologiche».
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Come gestire la siccità e lo stress idrico in viticoltura in Sicilia? Innovazione, portainnesti, gestione del suolo, utilizzo di sostanze organiche per mantenere il più possibile l’umidità del suolo: sono queste le soluzioni delle cantine siciliane aderenti ad Assovini Sicilia, utili a governare solo alcune delle piaghe dei tempi moderni, dal punto di vista meteorologico e climatico. A precisarlo, a pochi giorni dall’inizio della vendemmia 2024 in Sicilia, sono alcuni agronomi ed enologi che operano sull’isola continente, protagonisti di una raccolta delle uve che dura oltre 100 giorni.
«I portainnesti – spiega Tonino Guzzo – devono garantire non solo la resistenza alle condizioni estreme ma anche una qualità eccellente. In Sicilia occorre applicare i principi dell’agricoltura in maniera scientifica e fare ricorso, moderatamente, all’ irrigazione di sostegno». Alcuni viticoltori, dall’inizio del germogliamento, durante la primavera, visto il contesto pedoclimatico siciliano, eliminano le erbe infestanti al fine di ridurre la competizione idrica con il vigneto. Poi in autunno, si favorisce l’inerbimento.
EMILIANO FALSINI LANCIA L’ALLARME: «SERVE UN PIANO IDRICO IN SICILIA»
«Per riparare le viti dagli stress ambientali, ovvero da siccità e ondate di calore – aggiunge l’agronomo Filippo Buttafuoco – utilizziamo dei prodotti innovativi naturali, detti corroboranti. Si tratta della zeolite e caolino, che applicate sull’apparato fogliare riparano dai raggi solari ed evitano le scottature, creando ambiente ostile per insetti nocivi quali la cicalina e la tignola. In tutti i nostri vigneti l’acqua viene dosata e misurata tramite impianti di irrigazione goccia a goccia».
A lanciare l’allarme sul tema della siccità e dello stress idrico della viticoltura in Sicilia è però l’enologo Emiliano Falsini. «Purtroppo – dichiara – la mancanza di acqua deve essere principalmente contrastata con un piano idrico importante che metta al centro la regimazione delle acque, la costruzione di invasi fruibili dagli agricoltori, un piano di rimboschimento per evitare i fenomeni di desertificazione e lotta serrata agli incendi dolosi. Il problema deve essere affrontato nel giusto modo perché nei prossimi anni rischia non solo di condizionare la viticoltura ma purtroppo anche l’economia di intere regioni».
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Mario Falcetti lascia Quadra Franciacorta e la notizia è di quelle che fanno rumore. Grazie a un lavoro scrupoloso avviato sin dal suo ingresso in azienda, nel 2008, il direttore generale ed enologo della cantina di Cologne (Brescia) è riuscito a diventare in pochi anni il simbolo, anzi il sinonimo stesso, di Quadra Franciacorta. In un’intervista esclusiva rilasciata a winemag.it, Mario Falcetti chiarisce di aver rassegnato le proprie dimissioni dal consiglio di amministrazione all’inizio del mese di aprile. I primi dissidi con la dirigenza della cantina, fondata nel 2003 dall’imprenditore del settore dell’energia rinnovabile Ugo Ghezzi, risalirebbero tuttavia a oltre un anno fa. Nulla, sino ad oggi, lasciava presagire un tale epilogo.
«Ci sono cose a cui mi sono riavvicinato molto nell’ultimo periodo, come la ricerca e la sperimentazione nel territorio franciacortino – commenta Mario Falcetti a winemag.it – che rimarranno primari nel mio futuro. La mia strada si divide definitivamente da quella di Quadra per differenti vedute sul futuro, ma non voglio e non posso perdere di vista il fatto che sono un agronomo ed un enologo ed è questo che continuerò a fare in futuro, molto probabilmente nel ruolo di consulente».
MARIO FALCETTI: «CHIUDO CON QUADRA, NON CON LA FRANCIACORTA»
La rottura di Falcetti con Quadra non significa infatti una rottura con la Franciacorta. «Tutt’altro – continua Mario Falcetti – anche perché sono in una fase della mia vita professionale in cui la qualità di quello che faccio sarà privilegiata rispetto alla quantità. Per esempio continua ad affascinarmi il lavoro avviato con il Consorzio Franciacorta sull’Erbamat, nel ruolo di coordinatore del Gruppo Sperimentazione e Ricerca». Ma non è escluso un ruolo di Falcetti anche all’estero, per esempio in Champagne o in Provenza, territori con i quali è sempre rimasto in contatto, nell’arco di tutta la carriera. «In ogni caso voglio tenere la Franciacorta baricentrica», annuncia l’ormai ex direttore generale di Quadra, sempre in esclusiva a winemag.it.
La decisione di troncare dopo 15 anni con l’azienda della famiglia Ghezzi, per divergenze di vedute sul futuro “piano industriale” della cantina, è stata annunciata da Mario Falcetti attraverso una «nota» diramata da un ufficio stampa specializzato nel settore del vino, poco prima delle ore 16 odierne. Tra le righe del comunicato, l’ex dirigente si dichiara «pronto a un nuovo capitolo della vita professionale, dopo aver contribuito al consolidamento dei primi dieci anni di Contadi Castaldi e dopo altri quindici di direzione aziendale e tecnica in Quadra: un lungo tempo, questo, che ha dato all’azienda un’identità riconosciuta sul panorama nazionale».
MARIO FALCETTI “L’ERETIQ”: «IO, DA SEMPRE CONTROCORRENTE»
«Da sempre una visione controcorrente – si legge ancora nella nota diramata alla stampa – immaginando prima e creando poi, vini del tutto innovativi, il Satèn, l’Eretiq e il Vegan, solo per citarne alcuni, diventati un paradigma stilistico autorevole e un riferimento per il comparto». Mario Falcetti ha alle spalle una più che trentennale esperienza agronomica ed enologica in aree vinicole italiane e straniere, partendo dal Trentino-Alto Adige (il suo primo incarico presso l’istituto Tecnico di San Michele all’Adige), passando per Toscana, Sicilia e Puglia per approdare, infine, in provincia di Brescia. Da un biennio nel CdA del Consorzio Franciacorta, ha assunto la delega alla Ricerca & Sviluppo, coordinando quindi l’operatività del comparto tecnico.
Falcetti definisce il suo approccio «scientifico di matrice “francese”», tanto da averlo portato «a stimolare la nascita del Rapporto di Attività (sempre con il supporto dell’Ufficio R&D e del Comitato Tecnico stesso), l’annuario che raccoglie e sintetizza i lavori di monitoraggio e di ricerca svolti in ambito consortile, con il contributo di diversi atenei». Altre importanti innovazioni alle quali l’ex direttore generale ed enologo di Quadra ha prestato il suo contributo, sempre in seno al Consorzio Franciacorta, «vedranno presso la luce».
«ESSERE PRODUTTORI SOLO IN CHIAVE BUSINESS NON BASTA PIÙ»
Negli ultimi anni, Mario Falcetti ha intensificato le relazioni con diverse realtà transalpine, in primis la Champagne, apportando a più riprese il proprio contributo come relatore. In questo contesto, ha contribuito a portare in Franciacorta, o meglio a Brescia, la seconda edizione dello Sparkling Wine Forum, un partecipato e dinamico incontro di carattere tecnico-scientifico per il settore spumantistico.
«Il nostro settore sta cambiando rapidamente – conclude Mario Falcetti – e sta ridefinendo i propri paradigmi valoriali. Essere produttori solo in chiave business non credo possa più bastare. Occorre una visione strategica di lungo periodo, implementare ricerca, innovazione, valori di sostenibilità etica ed ambientale. La mia mente, per come si muove, non può certo accontentarsi di “gestire” una navigazione di conserva. Meglio sempre il mare aperto, le onde alte, inseguendo un nuovo, bellissimo approdo».
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Saranno disponibili a partire da gennaio 2024 i vini italiani di Messi. Un viaggio da nord a sud della Penisola per l’8 volte Pallone d’oro e capitano dell’Argentina, che ha scelto Veneto, Campania, Puglia e Sicilia per la nuova linea di vini denominata Lionel GOAT 10 Collection. Il viso del calciatore Lionel Messi campeggerà sulle etichette di Prosecco, Pinot Grigio, Chardonnay, Sauvignon Blanc, Cabernet Sauvignon, Merlot, Taurasi, Aglianico del Sannio, Negroamaro, Primitivo, Syrah, Grillo e Nero d’Avola.
Tra le novità anche due vini rossi della linea Lionel GOAT 10 Titanium, un Primitivo e un Syrah. Infine, due vini di punta della linea Lionel Diamond Collection, un Taurasi Docg e un Aglianico del Sannio Doc. I prezzi dei vini del “GOAT” – acronimo di Greatest of all times – variano da 32 a 495 euro a bottiglia.
La gamma nasce dalla collaborazione di Lionel Messi con MM Winemaker SA, società con sede a Rue du Fort-Barreau, 15 a Ginevra, in Svizzera. Dietro alle lettere “MM” si cela l’enologo Marco Maci – classe 1967 originario di Cellino San Marco (Brindisi), figlio di Angelo Maci, fondatore di Cantine Due Palme – che sembra condividere con il noto calciatore e campione del mondo una certa confidenza di sé.
I VINI ITALIANI DI LIONEL MESSI: CHI È MM WINEMAKER
«La notorietà acquisita “sul campo”, unita a solidi valori nella vita e nel lavoro – scrive di sé Marco Maci sul sito web che porta il suo nome – lo portano a creare importanti relazioni, a conoscere celebrità di ogni tipo e a frequentare amici ed estimatorispeciali tra i quali ama ricordare: Papa Giovanni Paolo II, Diego Armando Maradona, Tom Hanks, il presidente Cinese Xi Jinping… e molti altri».
Sempre sul proprio portale, Marco Maci winemaker parla del suo «innovativo ed unico sistema enologico, il Metodo Marco Maci®, che contraddistingue ogni sua bottiglia e che gli ha fatto vincere la doppia Medaglia d’oro, impresa mai riuscita a nessun enologo al mondo». Nel curriculum del winemaker brindisino che ha realizzato i vini italiani di Messi anche «una condanna a cinque anni e due mesi per la bancarotta della sua azienda vinicola», come riferiscono diversi articoli di cronaca del marzo 2017.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Il Comune di Entracque, circa 800 abitanti in provincia di Cuneo, in Piemonte, ha dato vita insieme a Réva Winery, azienda vitivinicola delle Langhe, al primo vigneto della Valle Gesso, a 1042 metri sul livello del mare. Nascerà così il primo Riesling di Montagna della zona, per l’esattezza in località Tetti Violino, nella comunità montana delle Alpi del Maree del Parco delle Alpi Marittime. Le prime bottiglie dovrebbero essere pronte nel 2027. «Si tratta di una piccola produzione, più o meno duemila bottiglie, con vino affinato in buona parte in anfore», spiega Daniele Scaglia, general manager del Gruppo Réva che, a Monforte d’Alba, gestisce oltre 35 ettari di proprietà a conduzione biologica, su sei diversi terroir delle Langhe del Barolo e dell’Alta Langa.
«Abbiamo scelto il Riesling – continua Scaglia – perché, dopo diverse analisi, crediamo che la varietà d’uva e il terreno siano perfetti l’uno per l’altra. Avremmo potuto semplificarci la vita piantando una varietà più resistente, come fanno in altre valli, ma questo non ci darebbe modo di lavorare su un prodotto di qualità come vogliamo che sia questo vino». Per il Riesling di Montagna di Entraque, la cantina ha messo a disposizione l’agronomo Roberto Abbate e l’enologo Beppe Caviola. Il progetto nasce dalle preoccupazioni di Miroslav Lekes, proprietario di Réva Winery originario di Brno, in Repubblica Cieca, sui cambiamenti climatici, oltre che dal suo desiderio di produrre un Riesling di declinazione tedesca.
IL RIESLING DELLA COMUNITÀ MONTANA
A condividere il progetto Gian Pietro Pepino, sindaco di Entracque, luogo in cui nessuno, prima, aveva mai pensato di fare vino. Le temperature in aumento spingono a pensare a nuove soluzioni e a sfide diverse. Iniziano così la ricerca e le analisi dei terreni e il progetto prende forma. Con il sostegno ufficiale del Comune di Entracque, il 18 luglio 2023 sono state piantumate 2.300 piante di Riesling. Il terreno argilloso è perfetto per la coltivazione della vite e ha una colorazione rossastra, caratteristica che indica la presenza di ferro e sedimenti rocciosi da erosione, graditi dal Riesling. Altro importante fattore è la temperatura, che in estate va dai 14-16° ai 28-30°, capace di fornire la giusta concentrazione di zuccheri in ogni acino e un notevole sviluppo degli aromi.
Il progetto prevede un vino portavoce dei tempi odierni e delle sue mode: ecco perché è in corso lo studio sull’affinamento di questo Riesling di Montagna in anfore e piccole botti. «Siamo fiduciosi sui risultati, ma lo siamo ancora di più per il grande potenziale di un progetto che sta dando una seconda occasione a terre ormai in disuso da anni, creando un nuovo potenziale prodotto tipico. Una nuova proposta per i visitatori di Entracque e delle zone limitrofe e una nuova possibilità di lavoro per i giovani e i meno giovani. In poche parole stiamo creando un nuovo futuro per la nostra comunità». Non a caso, l’intera produzione sarà realizzata nel territorio di Entracque, coinvolgendo piccole realtà locali «per fare sì che diventi un progetto capace di rappresentare l’intera comunità e, in prospettiva, un’alternativa per i territori montani».
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Tal 1930 e Tal 1908 sono i due nuovi vini simbolo di Cantina Bolzano. Due cuvée targate Südtirol Alto Adige Doc che portano a compimento il rinnovamento avviato da Kellerei Bozen sin dall’inaugurazione del nuovo, modernissimo stabilimento “green” di via San Maurizio 36, avvenuta nell’aprile 2019. Si tratta di un vino bianco e di un vino rosso, entrambi frutto della vendemmia 2020, prodotti in tiratura limitata di 1.888 e 2.999 bottiglie. Tal 1930 è ottenuto dall’assemblaggio di Chardonnay (69%), Sauvignon Blanc (21%) e Pinot Grigio (10%). Tal 1908 lascia invece il palco al Lagrein (80%), affiancato da Cabernet Sauvignon (17%) e Merlot (3%). Due cuvée di magistrale esecuzione, pensate e realizzate dallo storico enologo di Cantina Bolzano, Stephan Filippi, dopo oltre 10 anni di sperimentazioni con le uve delle migliori parcelle.
Con le due nuove etichette, presentate ieri in anteprima alla stampa e alla rete vendita in abbinamento ai piatti dello chef Jörg Trafojer (Kuppelrain* di Castelbello – BZ), Kellerei Bozen rivede (al rialzo) il posizionamento prezzo della propria gamma “Superior“. Taber, la storica Riserva di Lagrein prodotta sin dal 1988 fino a raggiungere le 10-12 mila bottiglie complessive annue, lascia il posto a Tal 1930 e a Tal 1908 al vertice della piramide. La cuvée bianca si collocherà infatti sul mercato a circa 90 euro; circa 60 euro quelli necessari per assicurarsi la cuvée rossa (prezzi operatori Horeca). L’idea è di monitorare le vendite del primo anno, per poi procedere con la vendita su assegnazione dei futuri millesimi.
Simbolico il nome scelto per i due nuovi vini. La parola “Tal“, dal tedesco “Valle“, è accostata a due date che hanno segnato la storia di Cantina Bolzano. Il 1908 evoca l’anno in cui 30 viticoltori decisero di unire le proprie forze e fondare la cooperativa di Gries. Nel 1930 il loro esempio fu seguito da 18 produttori di St. Magdalena. Tra il 1944 e il 1945 le due cantine iniziarono a produrre insieme i loro vini, nei locali di Gries; per poi decidere di unire le forze nel 2001, fondendosi sino a unificare le sedi produttive, nel 2015. Risale all’anno successivo la posa della prima pietra della cantina inaugurata nel 2019 nel quartiere di San Maurizio, con un investimento di circa 35 milioni di euro. Oggi Cantina Bolzano conta 224 soci e un parco vigneti di 350 ettari.
SÜDTIROL ALTO ADIGE DOC 2020 TAL 1930
Vigne a Leitach e Renon di età superiore ai 30 anni. Piante che affondano le radici su terreni porfirici, situati tra i 400 e i 700 metri d’altitudine. Maturazione di 12 mesi in piccole botti di rovere (barrique francesi) e affinamento per 14 mesi in acciaio, prima dell’imbottigliamento. Alla vista, la cuvée Tal 1930 si presenta di un giallo paglierino luminoso, con lievissimi riflessi verdolini. Primo naso netto su un Sauvignon Blanc teso e al contempo goloso, che invita generosamente ad approfondire il discorso, lasciando spazio alle note ammandorlate ed esotiche dello Chardonnay e alle tinte floreali e fruttate del Pinot Grigio (mela cotogna, tiglio, sambuco).
Freschezza e morbidezza glicerica molto ben bilanciate in un sorso di dosata opulenza e riequilibrante mineralità salina. Bella la trama fenolica che contribuisce a tendere verticalmente il sorso, prima di una chiusura dalle leggere tinte speziate ed ancor più agrumate. All’epoca dei bianchi “glou-glou”, una coraggiosa cuvée dalla chiara impronta gastronomica, capace di condensare (ed esaltare) le qualità intrinseche delle singole varietà, in un tutt’uno melodico. 94/100
SÜDTIROL ALTO ADIGE DOC 2020 TAL 1908
Nasce da vigne fino a 50 anni di età, situate tra Gries e San Maurizio. Maturazione di 12 mesi in barrique francesi di rovere, quindi affinamento per 15 mesi in cemento, prima dell’imbottigliamento. Il vino si presenta alla vista col classico cuore cupo del Lagrein; l’unghia violacea, luminosa, ne denota l’estrema gioventù. Al naso, Tal 1908 si lascia apprezzare per l’estrema eleganza dei sentori di frutta matura (prugna, ciliegia, lampone) e di spezia scura (pepe nero).
In bocca la cuvée si conferma sapientemente fine e raffinata, con il Cabernet Sauvignon che sembra quasi “tirare per la giacchetta” il Lagrein, regolandone l’opulenza e riportando il discorso su canoni distinti. Il saldo di Merlot contribuisce ad arrotondare una beva contraddistinta da freschezza, sapidità e profondità balsamica. Finale di gran persistenza, su ricordi di cioccolato nero, liquirizia e golosi accenni di uva passa. Vino che guadagna in termini di stratificazione se lasciato ad ossigenare nel calice. 93/100
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«Si parla spesso di sostenibilità ambientale, di clima e di siccità. Ma oggi, per produrre un litro di vino, occorrono circa 600 litri di acqua. Con le piante a piede franco ne basterebbe meno della metà». Così Donato Lanati nel suo intervento sulla sostenibilità della viticoltura del futuro, in occasione del 310° Capitolo della Selezione Grandi Vini dell’Albese 2023 andato in scena sabato 16 settembre, al Castello di Grinzane Cavour, nelle Langhe. «La ricerca – ha aggiunto Lanati – deve andare in questa direzione, trovando soluzioni che contrastino quelle malattie che, da oltre un secolo, impongono l’utilizzo dei portinnesti americani».
Le soluzioni non sono facili – ha precisato il noto enologo, insignito nell’occasione del titolo di Cavaliere Onorario dell’Ordine dei Cavalieri del Tartufo e dei Vini d’Alba – ma neppure impossibili. Vanno ricercate attraverso la conoscenza, lo studio, la ricerca, la sperimentazione e il rinnovamento continuo. Alzando lo sguardo oltre i consueti orizzonti. Poi, ci vogliono passione, curiosità, intuizioni e un pizzico di genialità».
Vanno proprio in questa direzione gli studi, le sperimentazioni e le ricerche che Lanati e la sua squadra di scienziati biologici, chimici ed enologi stanno portando avanti al al Centro di Ricerca Applicata all’Enologia Enosis Meraviglia di Fubine Monferrato, in provincia di Alessandria, in Piemonte. «Tornare a produrre con piante a piede franco – ha concluso Donato Lanati – significa apportare un grande valore aggiunto alla nostra enologia, in termini di sostenibilità, oltre che di qualità e di longevità del vino, nonché di difesa della pianta dalle malattie e dai cambiamenti climatici. Basta guardare all’esperienza georgiana, dove tutto ebbe inizio».
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Due vitigni su cui puntare, Manzoni Bianco e Turchetta, e un arcipelago di etichette attorno alle quali costruire una nuova storia del vino italiano. Sono gli assi nella manica di Carezzabella Winery, cantina di San Martino di Venezze che ha tutte le carte in regola per lanciare i vini del Polesine e del Delta del Po sulla scena nazionale e internazionale. Siamo in provincia di Rovigo, terra di mezzo incastonata tra il Veneto e l’Emilia Romagna, a metà tra Padova e Ferrara. Quelli di Carezzabella Winery – nome che identifica il progetto enologico dell’AgriturismoCorte Carezzabella, guidato dal giovane e talentuoso winemaker Francesco Mazzetto (ex Duemani) su incarico della famiglia Reato – sono vini che raccontano bene suolo e varietà. Tutti certificati biologici. Cosa aspettarsi? Freschezza e agilità di beva, senza rinunciare appunto a tipicità e carattere.
Caratteristiche che sono valse al Veneto Igt Turchetta 2020 il riconoscimento di “Vino quotidiano” nella Guida Top 100 Migliori vini italiani 2024 di winemag.it. Lo stesso vale per il Bianco Veneto Igt “Brillo“, il rifermentato in bottiglia (pét-nat) di casa Carezzabella Winery, ottenuto da uve Trebbiano, con un saldo del 15% di Pinot Grigio. La scoperta ancora più recente è il Manzoni Bianco 2022, vero e proprio emblema dei “vini di sabbia” (o “di fiume”) di questa giovane cantina veneta. Il vitigno nato negli anni Trenta presso la Scuola Enologica di Conegliano (TV) dall’incrocio tra Riesling Renano e Pinot Bianco si è adattato molto bene nel Polesine. È il risvolto della medaglia della varietà autoctona a bacca rossa Turchetta, che offre molteplici opportunità interpretative in termini di vinificazione (dall’acciaio all’anfora, senza dimenticare il legno) tanto da ricordare la Recantina del Montello.
VINI DEL POLESINE E DELTA DEL PO: UN’IDENTITÀ DA COSTRUIRE
Una “doppietta” destinata a diventare portabandiera di un territorio poco raccontato dalle cronache enologiche e dalle carte dei vini, ma già maturo al punto da confrontarsi col resto del mondo. Lo dimostra la degustazione organizzata il weekend scorso da Carezzabella Winery nella sala conferenze dell’Agriturismo, in collaborazione con i sommelier Ais Rovigo e Veneto. Manzoni Bianco e Turchetta non hanno sfigurato accanto a bianchi e rossi provenienti da Loira, Mosella, Reno, Douro e Trentino, in una sorta di gemellaggio tra zone vinicole caratterizzate dalla presenza di fiumi. Preziosa, in particolare, l’assonanza dimostrata dai calici di Manzoni Bianco e Turchetta rispettivamente con il Riesling del Rheingau targato Bibo Rung e con l’Igt Vallagarina Foglia Frastagliata Enantio Vigneto Storico dell’Azienda agricola Vallarom.
Meritevole di assaggio anche il Pinot Grigio di Carezzabella (in termini di confronti internazionali rappresenterebbe il perfetto contraltare al Muscadet della Loira, da abbinare alle ottime ostriche rosa Scardovari, tipiche della zona), oltre a Cabernet Franc e Merlot, già con qualche accenno alla stilistica della Loira. A incuriosire è anche il Rosso Veneto Igt “Temetum“, una sorta di “taglio Polesine” tra la Turchetta e i bordolesi Merlot e Cabernet Franc. L’ennesima riprova che la sfida di Carezzabella Winery e dell’enologo Francesco Mazzetto per un’interpretazione sempre più autentica e riconoscibile dei vini dei Polesine e del Delta del Po sia appena cominciata, ma già decisamente credibile. Prosit.
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Non c’è stato nulla da fare per Massimiliano Piermattei, enologo e capo cantiniere della nota cantina bresciana Monte Rossa morto schiacciato dalle macchine giropallet del Franciacorta. I colleghi lo hanno trovato riverso a terra, all’interno dell’azienda di Cazzago San Martino, attorno alle 14.30 di mercoledì 7 giugno, privo di sensi. Inutile la chiamata ai soccorsi, che non hanno potuto che constatare il decesso del 50enne, per schiacciamento. “Max” Piermattei lascia la moglie e i tre figli. Il funerale sarà celebrato domani, sabato 10 giugno, alle ore 10.30 nella chiesa parrocchiale di Roncadelle (BS).
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Uva, barrique, Vbung. E ottieni un vino «senza solfiti e additivi» aggiunti. Sembra l’ennesima trovata pubblicitaria, ma l’ideatore della tecnologia Vbung – supportato dai test compiuti dall’istituto di Geisenheim – è convinto di poter «rivoluzionare il mondo dell’enologia tradizionale» con la sua invenzione. Stravolgendo le più basilari regole sino ad ora conosciute, soprattutto sul fronte della fermentazione (alcolica e malolattica), ma anche della macerazione e dell’affinamento. L’ideatore di Vbung si chiama Vitalie Popa.
È un enologo moldavo, che si definisce non a caso anche “inventore“. Questa tecnologia game changer, sviluppata e brevettata in Australia nel 2020, si basa su una comune barrique di legno, rinforzata all’esterno da apposite forcelle metalliche e sigillata da aste in silicone alimentare, posizionate tra le doghe e sulla testa in legno del contenitore. L’altra testa, ovvero l’altra parte sferica della botte, è in acrilico trasparente, come una sorta di oblò. Da una parte consente alla luce del sole di penetrare; dall’altra di assistere alla vinificazione. Spettacolarizzando il processo.
VBUNG TECHNOLOGY, LE BOTTI DELL’ENOLOGO INVENTORE
Nel foro del tappo della barrique – il cosiddetto bonde – viene inserito un rubinetto multifunzione: valvola di sicurezza, foro di ingresso e uscita per gli assaggi, porta per Ossigeno (O2) / Azoto (N2) / Anidride carbonica (CO2) e, infine, un termomanometro, con sensore di pressione e temperatura. Sulla testa in legno della barrique è fissata una strumentazione che consente il controllo della temperatura del contenitore. Durante la fermentazione, la pressione all’interno della barrique è continua e omogenea. La Co2 fuoriesce dall’apposito ugello.
«La velocità di ossidazione durante la macerazione, la fermentazione, la fermentazione malolattica e l’invecchiamento – spiega Vitalie Popa – è molto più veloce del processo di vinificazione, il che rappresenta un enorme svantaggio e richiede un controllo con additivi e conservanti. Grazie a Vbung, la vinificazione avviene in ambiente isobarico, all’interno di botti di legno personalizzate. Ciò consente il controllo dell’ossidazione, della contaminazione e dell’evaporazione. La CO2, durante la fermentazione o l’iniezione di qualsiasi gas alimentare consentito dalla legge, genera una pressione positiva e naturale sulle uve. La pressione negativa può essere invece creata dall’ambiente “sottovuoto”».
I vantaggi, secondo l’enologo inventore Vitalie Popa, sono dunque molteplici. «Innanzitutto – spiega – Vbung è una tecnologia sostenibile e consente la vinificazione senza l’uso di additivi e conservanti. La barrique diventa una cantina mobile, posizionabile paradossalmente anche nel vigneto, al posto che in una struttura di mattoni, che consuma suolo. Il processo tecnologico di vinificazione e invecchiamento è accelerato e il controllo è totale su ossidazione, contaminazione ed evaporazione».
LA VINIFICAZIONE NELLE BOTTI VBUNG
Possono essere utilizzate botti nuove oppure usate, una volta che è avvenuta la personalizzazione dei legni, con la dotazione Vbund. Per la vinificazione, è possibile utilizzare grappoli interi, mosti già pressati o singole selezione di acini. Non è necessaria alcuna chiarifica del succo (nessuna flottazione, decantazione a freddo o centrifuga) o alcun controllo della temperatura o dell’umidità (la fermentazione a temperature elevate per la vinificazione in bianco non è un problema)».
Nodo centrale dell’invenzione di Vitalie Popa è il contatto con la luce solare diretta per l’intero processo tecnologico. Un «finto problema», secondo l’enologo moldavo, che porta alcuni studi realizzati in collaborazione con il centro di ricerca di Geisenheim a supporto della sua tesi. Con Vbung, inoltre, «non è necessario rabboccare le botti, il prelievo di campioni di vino per il laboratorio o la degustazione avviene senza ossidazione, contaminazione o evaporazione e la rigenerazione e sterilizzazione può avvenire con ossigeno o aria compressa, prima della vendemmia».
La vita delle botti di legno è prolungata e il contenitore può essere usato per la produzione e l’affinamento di vino, birra, sidro, aceto, nonché per i liquori. Non ultimo, l’inventore della tecnologia Vbund cita tra i vantaggi la «riduzione della manodopera, dei tempi e dei costi, nonché il «potenziale globale» della barrique personalizzata, se utilizzata su scala internazionale.
I TEST DI GEISENHEIM SU VBUNG
Sorprendenti i risultati dei test compiuti nel 2021 in Germania dal dipartimento di Enologia di Geisenheim, utilizzando la tecnologia Vbung per la vinificazione di uve Müller Thurgau dell’annata, vendemmiate a mano il 28 settembre. «Questa tecnologia – recitano le conclusioni del prestigioso istituto – consente di produrre vini senza additivi e coadiuvanti tecnologici che sono sensorialmente paragonabili ai vini prodotti in modo convenzionale. Notevole la riduzione delle tempistiche della vinificazione nelle botti di legno Vbung, rispetto alle varianti fermentate in vasche di acciaio inox. Questi ultimi spesso richiedono 3-6 mesi di maturazione prima che gli aromi di fermentazione siano integrati a tal punto da non dominare più l’aroma del vino».
«Dopo la pigiatura delle uve e il trasferimento del mosto nelle botti – continua Geisenheim nella sua relazione – non sono state necessarie altre tecnologie per la vinificazione. Il pompaggio non è necessario, perché il movimento avviene per pressione dei gas. Non è necessario rabboccare regolarmente le botti, poiché il tappo è a tenuta gassosa. Lo spazio di testa della botte è colmo da anidride carbonica o azoto. L’assenza di ossigeno fa sì che non avvengano reazioni microbiche o chimiche di ossidazione, dannose per il vino. I vini possono essere spillati direttamente dalla botte, con la pressione del gas, ma sono possibili anche la filtrazione e l’imbottigliamento con la stessa pressione».
Positivi anche i feedback sull’affinamento. «Anche dopo undici mesi in botti a riempimento parziale – riferisce lo studio di Geisenheim – questi vini bianchi non hanno mostrato alcun aroma di ossidazione, nonostante l’assenza di solfiti. Anche i vini imbottigliati non hanno mostrato sapori insoliti per un periodo di sei mesi e sono stati valutati positivamente. I vini dovrebbero essere imbottigliati in condizioni di riempimento a basso contenuto di ossigeno per evitare l’insorgere di processi di ossidazione indesiderati». Siamo a una svolta nel mondo dell’enologia internazionale? L’enologo inventore Vitalie Popa non ha dubbi. La risposta è «sì».
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Si chiama Capo di Stato ma potrebbe chiamarsi anche “Punto a Capo”. Quello della cantina Loredan Gasparini di Venegazzù, frazione del comune di Volpago del Montello, in provincia di Treviso, è molto più di un vino. È l’affermazione, in forma liquida, della nobiltà del taglio bordolese nella zona vinicola del Montello. La “Maremma del Veneto“, sintetizzerebbero gli amanti dei parallelismi eno-geografici, senza dubbio d’essere smentiti.
Lo dimostra la verticale del Capo di Stato organizzata dal Consorzio Vini Montello a Rossobordò 2022, evento che ha riempito – letteralmente – Palazzo Giacomelli di Treviso, nella giornata di ieri. In degustazione, accompagnati dalla voce narrante dell’enologo Mauro Rasera – padre dal 1987 dei vini targati Loredan Gasparin – le annate 2018, 2012, 2009, 2007, 2005 e 2003.
Un vino che cambia, mutando il resto della storia del Montello. Leggendo l’annata, i tempi (di oltre mezzo secolo) e la burocrazia. Il Capo di Stato è un “Punto a Capo” che trasforma un vino sfuso comune, da tavola, in un vino sul modello Bordeaux, imbottigliato per la prima volta nel 1964, per volere del Conte Loredan Gasparini.
IL VIGNETO DEL MONTELLO, FOTOGRAFIA DI BORDEAUX
Si afferma tra il pubblico e diventa un “Colli Trevigiani Igt”, nel 2003. Nel 2009 è “Doc Montello Colli Asolani”, con la menzione della sottozona “Superiore” di Venegazzù. È qui che ha sede la cantina oggi gestita dalla famiglia Palla (Giancarlo, con i figli Alberto e Lorenzo).
Ma è soprattutto qui che ha sede un vigneto unico per il “Vigneto Italia”, frutto dell’intuizione del padre fondatore. Quel Conte Loredan Gasparini che volle “riprodurre” Bordeaux sul Montello. Mescolando – diranno le indagini ampelografiche compiute in epoca recente – più di 50 cloni di Cabernet Sauvignon a piante di Merlot e Cabernet Franc, cui si aggiunge (ma solo negli anni Sessanta) il Malbec.
Un patrimonio ampelografico immenso, che la famiglia Palla sta preservando grazie a una selezione che ha portato al reimpianto di una selezione ottenuta dai medesimi cloni. «Una fotocopia del vigneto originale – spiega bene l’enologo Mauro Rasera (nella foto, sopra) – che ha preso vita dagli anni Ottanta in poi, suddividendo i nuovi impianti in base al vitigno, al posto di mescolarli in un unico cru, come nel vigneto originale, tuttora produttivo».
Montello Colli Asolani Venegazzù Superiore Capo di Stato 2012 Inverno siccitoso, primavera fresca. È esploso il caldo in estate. L’uva, in questo modo, completa la propria maturazione in maniera repentina e concentrata. Alla vista, il vino si presenta di un bel rubino. Naso dolce, pieno di polpa, di frutto, quasi uno zucchero filato ai frutti di bosco, sferzato da una speziatura elegantissima.
In bocca è fresco, teso, sapido, ricordi di polvere di liquirizia sul frutto, che sembra intinto nell’acqua di mare. Non mancano risvolti balsamici, di mentuccia, che si riverberano anche al palato. Allungo disteso, sulla vena minerale e sulla progressione del frutto, ancora croccante. Vino più che mai godibile oggi, con buona promessa di evoluzione positiva.
Montello Colli Asolani Venegazzù Superiore Capo di Stato 2009
Annata «un po’ più disgraziata» rispetto alla 2012, come la definisce l’enologo di Loredan Gasparin, Mauro Rasera. Più fresca, in definitiva. Fase vegetative più allungate per via delle piovosità frequenti, soprattutto nel corso della primavera inoltrata.
Annata che dà un timbro “caramellizzato”, quasi affumicato, al nettare. Al naso ricorda con estrema precisione l’affumicatura dello speck. Al palato è meno intenso della 2012, ma il frutto è più maturo e concentrato. La spezia è netta in chiusura, su un pepo rifrescante che gioca con la polpa.
Colli Trevigiani Rosso Capo di Stato 2007
Annata un po’ più calda, con anticipo del germogliamento. Proseguo dell’estate con il giusto apporto di caldo e di precipitazioni. Il vino è equilibrato, nella media delle annate. E più raffinato. Centrale il ruolo del frutto, che con gli anni si è evoluto verso una speziatura di pepe.
Una bella fusione tra le due componenti, ma manca un po’ di profondità e di polpa, su tannino e acidità ancora sferzante. Vino che sta decisamente attraversando una fase evolutiva che cambierà: è da attendere, lascerebbe intendere.
Colli Trevigiani Capo di Stato 2005
Il naso più profondo, quasi scuro, della batteria. Liquirizia nera, tabacco, fumo di pipa, cioccolato. Non manca il frutto, ben concentrato, pieno. Marcatore selvatico leggero, avvertito in maniera più vaga nei vini che hanno preceduto in degustazione la 2005 di Capo di Stato.
Tannini dolci, maturi, piuttosto distesi, non ancora arresi alla preponderanza del succo, su cui lavorano divinamente. Annata, e momento storico dell’etichetta, votato alla beva e alla sostanziale eleganza. Con una bella fetta di vita ancora davanti.
Colli Trevigiani Capo di Stato 2003
Una delle annate più calde nella storia di questa etichetta. Molto verde al naso, da vendemmia anticipata, come conferma lo stesso enologo Mauro Rasera. Tannino e fenolico senza più materia da “aggredire” e plasmare, compensare. Vino chiaramente evoluto, giunto all’apice della sua maturazione.
Montello Colli Asolani Venegazzù Superiore Capo di Stato 2018
Vendemmia degustata in anteprima assoluta. Un’annata in cui la cantina Loredan Gasparini ha gestito con l’ombreggiamento la maturazione equilibrata dei grappoli. Vino molto giovane, come nelle attese, che racchiude intensità ed espressione centrata del territorio, nonché della storia senza fine di questa etichetta iconica del Montello che guarda a Bordeaux. Bello soprattutto il gioco tra frutta rossa e nera, con la mora di rovo netta che stuzzica il succo di ciliegia, sferzata da una freschezza imperante e da un tocco selvatico che non guasta.
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Un’idea chiara di dove vada il mondo del vino oggigiorno, senza perdere di vista le radici, ben conficcate nello straordinario “terroir” di Bolgheri. Terre del Marchesato è Miglior Cantina Centro Italia 2023 per la Guida Top 100 Migliori vini italiani di winemag.it.
Merito di una linea di vini coerente, tipica, in cui tutto sembra al proprio posto e funzionale al racconto (nel calice, s’intende) di una visione particolare e unica di una delle zone di maggior pregio dell’Italia del vino.
È l’idea (e l’ideale) di Bolgheri di Maurizio Fuselli, per dieci anni al lavoro tra le vigne di Guado al Tasso – l’allora Tenuta Belvedere – per poi decidere di «trasformare completamente l’attività di famiglia da agricola in vitivinicola». Senza dimenticare, però, le origini. Ovvero gli insegnamenti del padre e del nonno.
Due «contadini di origine marchigiane» a cui Maurizio Fuselli deve «molto di ciò che sa e di ciò che è». Insegnamenti rimodulati, adattati secondo la propria visione. E trasmessi alle nuove generazioni. Al suo fianco, a Terre del Marchesato, la moglie Giovanna e i figli Alessandro, Samuele e Filippo: il futuro.
L’azienda si trova a Castagneto Carducci e può contare su 16 ettari vitati. I vigneti di Terre del Marchesato sono situati nella fascia intermedia della denominazione, fra Tenuta Antinori (Guado al Tasso), Tenuta San Guido (Sassicaia) e Ornellaia. Una zona nota come “le Ferruggini”, per la buona presenza di ferro in un terreno a prevalenza argillosa, con sabbia e limo.
A occuparsi della vigna è Samuele Fuselli. Tra i vitigni a bacca rossa, vero patrimonio di Bolgheri, si trovano principalmente Cabernet Sauvignon, Merlot, Syrah e Petit Verdot. Per i bianchi il solo Vermentino. Uve lavorate in cantina da Alessandro Fuselli e dall’enologo Fabrizio Moltard, all’interno di un moderno impianto terminato nel 2003.
Determinante per il riconoscimento di Terre del Marchesato quale Miglior Cantina Centro Italia 2023 per la Guida Top 100 Migliori vini italiani di winemag.it, l’altissimo livello qualitativo dell’intera gamma (Vermentino compreso). Con l’exploit di un fuoriclasse: il Cabernet Franc in purezza “Franchesato“, vendemmia 2019. Un gioiello che incoraggia Bolgheri a investire ulteriormente sui rossi 100% Franc.
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Msc Crociere come veicolo del vino italiano. Un Vinitaly del mare, che aiuta le cantine ad entrare in contatto con una clientela internazionale targhettizzata e ad aprire nuovi mercati, grazie ad incontri con i buyer, tra una tappa e l’altra degli itinerari. Il progetto Wine Sea è solo alla terza edizione nel 2022, ma sembra destinato a lasciare il segno nel settore. Sia sul fronte B2B che B2C.
Proprio in queste ore, la nave da crociera Msc Splendida viaggia spedita verso Siracusa, per poi raggiungere la destinazione finale, Taranto. Alle spalle si è lasciata Civitavecchia, Genova e Marsiglia. A bordo più di 2 mila passeggeri che, nell’arco di una settimana di viaggio, avranno potuto degustare i vini di 12 cantine italiane.
Partner di Msc Crociere o, meglio, ideatori del format, sono i pugliesi Giuseppe Preite, titolare di Ruffo Viaggi e l’enologo Antonio Ponzetta. Grazie alla collaborazione con Gambero Rosso e Associazione italiana sommelier Puglia, i promotori del Vinitaly del mare sono riusciti a dare vita a un contenitore del tutto innovativo.
WINE SEA: UN FORMAT MSC CROCIERE NATO NEL 2019
«Da grandi appassionati del mondo del vino – spiegano Preite e Ponzetta a bordo di Msc Splendida – ci siamo resi conto del potenziale di una crociera interamente dedicata al vino. Msc Crociere, grazie all’avallo del Country manager Italia Leonardo Massa, ha accolto con grande interesse la proposta, nel 2019. Nel 2022 l’evento si prepara a raddoppiare, anzi triplicare».
Su Wine Sea e Wine Sea World si creano rapporti personali duraturi. Stare assieme per una settimana non è come fare una fiera o un evento in un albergo. Aziende come Paolo Leo, Masciarelli e Ridolfi hanno pensato di brandizzare alcuni eventi organizzati nell’ambito delle nostre crociere a tema vino. Nel 2023 lo farà Assoenologi, già rappresentata per tre anni dalla famiglia Cotarella».
Le opportunità di business per le cantine si moltiplicano, secondo i promotori dell’iniziativa, nei territori solcati dalle navi da crociera Msc. «I rappresentanti di diverse cantine – sottolineano Giuseppe Preite e Antonio Ponzetta – decidono di salire a bordo con noi, con un duplice scopo. Fanno conoscere agli ospiti i loro vini e incontrano i buyer, nelle città e nei Paesi toccati dagli itinerari nazionali e internazionali. Inoltre hanno la possibilità di organizzare viaggi incentive, o finalizzati alteam building».
IL VINO ITALIANO A BORDO DI MSC CROCIERE: CARAIBI, EMIRATI E NORD EUROPA
A bordo anche un concorso che vede protagoniste le cantine. Gli enoturisti e gli altri viaggiatori valutano i vini secondo il loro gradimento. Quelli scelti in ogni categoria, dagli spumanti ai rossi, finiscono nella carta vini internazionale di Msc Crociere, per un minimo di 6 mesi. Si tratta di aziende di dimensioni medio-grandi, con un potenziale non inferiore ai 2 milioni di bottiglie annue.
E nel 2022 Wine Sea diventerà International, con una crociera Msc nei Caraibi. L’obiettivo è di coinvolgere 50 cantine italiane in un viaggio che preveda masterclass, un beach party all’Ocean Cay Msc Marine Reserve (isola e riserva marina naturale di proprietà dalla compagnia di navigazione, inaugurata nel 2019) e un pool party, sul modello di quello in scena questa mattina sulla Msc Splendida.
La richiesta delle cantine è infatti quella di farsi conoscere da un pubblico sempre più ampio, grazie al Vinitaly del mare. «La nave da crociera Msc Meraviglia partirà da New York – anticipano Giuseppe Preite e Antonio Ponzetta -. Ma sono in fase di studio anche Dubai, negli Emirati Arabi, oltre ai Paesi del Nord Europa. Wine Sea diventerà la fiera itinerante in cui è il vino italiano a farsi conoscere dai consumatori, grazie a un numero sempre più corposo di crociere dedicate ai winelovers».
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Non solo «mesi pieni di eventi e celebrazioni». Fisar – Federazione italiana Sommelier, Albergatori e Ristoratori ha deciso di festeggiare i 50 anni dalla fondazione, che ricorrono nel 2022, accompagnandoli con un vino ottenuto dal vitigno autoctono Foglia tonda. Solo 1.200 bottiglie, che saranno distribuite tra le delegazioni e potranno essere acquistate dagli associati.
L’iniziativa è stata promossa dal vicepresidente Fisar Filippo Franchini ed è stata accolta con favore dal direttivo nazionale, presieduto da Luigi Terzago. «Non solo un vino ma una bottiglia celebrativa del Foglia tonda – spiega la Federazione di sommelier – speciale blend di annate 2019 e 2020» realizzato per celebrare i 50 anni.
FISAR E IL PROGETTO “FOGLIATONDA”
Un modo nuovo per puntare la luce «su un vitigno toscano che sta attraversando un’importante fase di recupero», proprio nella regione che ha dato i natali a Fisar, la Toscana. Anche l’etichetta del vino ha una valenza speciale. È stata infatti realizzata dagli studenti dell’Istituto tecnico agrario di Siena I.T.S Ricasoli.
«A dare il via al progetto – precisa la Federazione italiana Sommelier, Albergatori e Ristoratori – è stato il professor Tiziano Neri, coadiuvato dalla dirigente scolastica professoressa Nadia Riguccini, dalla responsabile prof.ssa Marilena Napolitano, dal prof agronomo Donato Bagnulo e dall’enologo Roberto Da Frassini».
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Alessandro Barabesi è l’enologo dell’anno2022 per la Guida Vini al Supermercato di winemag.it. Classe 1987, è il volto giovane, fresco e dinamico della rinascita della Agricoltori del Chianti Geografico, azienda acquisita dalla famiglia Piccini nel 2018. Anche suo, dunque, il merito di aver riportato ai fasti di un tempo la storica cooperativa di Gaiole in Chianti (SI).
«Barabesi ha solo 35 anni – commenta a nome della redazione il direttore Davide Bortone – ma può vantare un’esperienza invidiabile per l’età, maturata a livello nazionale e internazionale. Tecnica e visione che si riflettono nella svolta recente dei calici targati “Geografico”».
Nel difficile compito di bilanciare modernità e tradizione, nell’ottica di rilancio di uno storico brand toscano, il gruppo Piccini ha finito per regalarsi, con questo giovane enologo, pure un luminoso futuro.
Alessandro Barabesi è un tesoro che Mario Piccini e il suo staff hanno saputo scovare, attendere, coltivare e valorizzare più di chiunque altro, portandolo così alla definitiva consacrazione. E premiando, finalmente, i suoi tanti sacrifici».
L’ESPERIENZA IN AUSTRALIA, POI IL RITORNO IN TOSCANA
Originario di Bagno a Ripoli, uno dei borghi che costellano i Colli fiorentini, Alessandro Barabesi scopre ben presto di avere nelle vene la passione per la terra, ereditata dalla famiglia di origini montanare.
Frequenta il Liceo Scientifico, alternandosi tra lo studio e le lunghe estati passate a lavorare in vigna, presso Ruffino. Tra i filari di vite, il giovane Alessandro scopre una passione che lo accompagnerà per sempre: l’amore per il vino e per i ritmi della natura.
Sull’onda di questo interesse, nel 2008 si iscrive alla facoltà di Agraria dell’Università di Firenze, inseguendo il sogno di divenire un enologo. Durante gli anni universitari ha l’occasione di arricchire la sua esperienza in cantina, tramite lo stage svolto presso la tenuta “Il Borro”, della famiglia Ferragamo.
Dopo la laurea, Alessandro Barabesi lascia la Toscana e vola in Australia, deciso ad affinare oltreoceano il suo bagaglio di conoscenze, in una terra feritile per la cultura vinicola. Nelle cantine della McLaren Vale scopre un diverso approccio alla vinificazione, formandosi fianco a fianco ad uno dei migliori interpreti del vino australiano: Stephen Pannell.
SPIRITO AVVENTURIERO E IDEE CHIARE
L’esperienza australiana contribuisce in maniera decisiva alla sua formazione, oltre ad alimentare la sua sete di avventura. Quando non è impegnato in cantina, Alessandro accende il motore e gira in lungo e in largo la terra dei canguri, alla scoperta delle meraviglie locali. Il suo spirito impavido lo porta a solcare fiumi infestati da coccodrilli e a nuotare in compagnia dei barracuda.
Dopo 5 mesi lascia l’Australia con l’intento di girare il mondo e collezionare i segreti della cultura vinicola dei diversi Paesi. Ha già un piede in Francia quando riceve la chiamata di Frescobaldi. L’occasione è troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire.
Barabesi rinuncia momentaneamente ai suoi progetti per unirsi alla celebre cantina toscana, dove rimane dal 2015 al 2018. Questi anni si rivelano essenziali per affinare le proprie conoscenze tecniche, verso una viticoltura ed un’enologia di precisione.
IL NUOVO CORSO DEL CHIANTI CLASSICO CONTESSA DI RADDA
Nel 2018, Piccini 1882 punta i fari sul giovane enologo, identificando in lui la figura ideale per rilanciare la nuova acquisizione della famiglia toscana: il Geografico. Alessandro Barabesi si rimbocca le maniche e si lancia in questa nuova avventura, intenzionato a riportare il Geografico ai vecchi fasti di un tempo, servendosi di un approccio moderno ed innovativo.
L’operazione prende le mosse dall’etichetta simbolo dello storico marchio toscano: Contessa di Radda, selezione di Chianti Classico che vanta una lunga storia, iniziata nel 1978. Pur mantenendo fede alla tradizione, Alessandro Barabesi rinnova la linea, collaborando ad ampliare il ventaglio dei vini con l’inserimento di Chianti Classico Riserva, Toscana Igt e Bianco Toscana.
Dopo aver restituito la meritata gloria alla Contessa di Radda, Barabesi si concentra sullo sviluppo di un Super Tuscan, capace di mostrare al mondo del vino la qualità dei prodotti a marchio Geografico. Il risultato è “La Pevera“, un Toscana Igt elegante, che reinterpreta con stile l’antica tradizione vinicola.
L’ULTIMA SFIDA: I TERZIERI DEL CHIANTI CLASSICO
Più di recente, Alessandro Barabesi ha invece firmato il nuovo progetto i “Terzieri” degli Agricoltori del Chianti Geografico. Una linea che riprende il concetto delle menzioni geografiche aggiuntive slegato tuttavia dalla menzione Gran Selezione.
La nuova sfida si propone di raccontare l’immenso patrimonio vinicolo dei tre storici comuni del Chianti Classico: Radda, Gaiole e Castellina, definiti in antico “Terzieri”.
Bottiglie che mirano ad esaltare le preziose sfumature del Sangiovese, che in ciascuno dei tre Terzieri trova tre distinte ed esclusive espressioni del suo esuberante profilo, rendendo unico ed eccezionale il Chianti di ciascun territorio.
Il ricorso a tecniche di microvinificazione, affiancato da pratiche enologiche non invasive, consente di esprimere appieno l’animo esuberante del Sangiovese, rispettando le profonde peculiarità dei tre diversi vigneti, autentica espressione del relativo comune d’origine.
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Cantina Valle Isarco vola sui mercati. Il fatturato 2021 è pari a 6,3 milioni di euro, con 900 mila bottiglie vendute. Una crescita del 18% sul 2020 e un +3% rispetto al 2019. Più che mai positivi anche i dati degli ultimi mesi del 2021, successivi al bilancio che si chiude nel mese di agosto. Da settembre a dicembre, la crescita è stata del 37% rispetto al 2020. Un +23% rispetto all’anno record 2019.
Numeri che confortano la più giovane cooperativa vinicola dell’Alto Adige, “appena” 61 anni di attività. «Si tratta di un trend estremamente soddisfacente che ci lascia ben sperare per questo 2022 appena iniziato», commenta Armin Gratl, direttore generale di Cantina Valle Isarco.
È presto per fare delle previsioni, ma visto l’andamento degli ultimi mesi siamo molto fiduciosi. Speriamo di chiudere l’anno con un fatturato maggiore a quello dello scorso anno. Ovvero con un incremento percentuale di 15 punti che, per noi, significherebbe incrementare il fatturato di circa un milione di euro».
Cantina Valle Isarco punta ora a «migliorare ancora il posizionamento della linea selezione Aristos nella gastronomia medio alta». Nel cassetto, come annuncia Gratl, due nuovi vini. «Non sappiamo ancora se riusciremo a presentarli nel corso del 2022 – commenta il direttore generale -. La nostra scelta è quella di attendere il momento ottimale dal punto di vista della qualità per immetterli sul mercato».
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FOTONOTIZIA – I primi assaggi della vendemmia 2021 creano «aspettative altissime» da parte di Cantina Bolzano. «La varietà che davvero sorprende è la Schiava: il Santa Maddalena sarà eccezionale. Questa è una grandissima annata per il Sauvignon, ma anche lo Chardonnay, il Pinot Bianco e il Gewürztraminer promettono molto bene».
Ne è sicuro Stephan Filippi, enologo di Cantina Bolzano e vicepresidente dell’Associazione enologi ed enotecnici italiani (Assoenologi). «Un’ottima vendemmia anche per il Lagrein – aggiunge – aver ritardato la raccolta ripagherà l’attesa».
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Alzi la mano chi conosce la Lunigiana. Adesso alzi la mano chi la conosce per motivi enologici. Così poche mani alzate? Della zona si parla pochissimo, non c’è motivo di vergognarsi del “vuoto cognitivo”. Per colmarlo c’è tempo. Magari a partire dal premio Cantina italiana dell’anno 2022 assegnato da WineMag.it a una famiglia che, proprio in Lunigiana, ha trovato prima una casa e poi una ragione di vita, nel nome del nettare di Bacco: Podere Fedespina.
L’anno speciale di Mirta Fedespina e del marito Antonio Farina, quello tatuato sul cuore, è il 1990. Nasce Matteo – il figlio che oggi ha deciso di abbandonare il traffico di Milano (e l’architettura) per portare avanti l’attività vitivinicola – e la coppia acquisisce un antico casale del Seicento di proprietà dello zio di Mirta, trasformandolo in un pregiato agriturismo, tuttora attivo e rinomato.
DAL SOGNO ALLA REALTÀ NELLA “NUOVA TOSCANA”: LA LUNIGIANA
Con i proventi dell’attività turistica, la famiglia finanzia negli anni la ristrutturazione dei vigneti e la realizzazione di una piccola cantina, che profuma d’artigianalità. L’incontro della svolta è quello con un enologo appassionato, immerso con l’anima nella sfida di rendere grande l’Alta Lunigiana del vino al fianco di Podere Fedespina: Francesco Petacco.
«Noi siamo un’azienda artigianale e identitaria, a partire dal logo, proseguendo nel packaging e concludendo nella produzione di vini identitari», sintetizza Antonio Farina.
Provare per credere i quattro vini capaci di sfidare il tempo, nel segno della tradizione della Toscana: Merlot, Ciliegiolo, Pinot Nero e, più di recente, le novità Vermentino, Durella e Chardonnay. Ovvero “Fedespina“, “Ca’“, “Spinorosso” e l’ultimo arrivato, “Bianco“.
Dove incontrare Podere Fedespina? Certamente in cantina, in via Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, 35 a Mulazzo, frazione Arpiola (provincia di Massa Carrara – MS). Oppure al Mercato dei Vignaioli Fivi 2021 di Piacenza (date confermate: 27/29 novembre). Buon futuro, Podere Fedespina. Buon futuro, Lunigiana.
Matteo Farina ha raccolto l’eredità (e la sfida) di Podere Fedespina, lasciando Milano e l’architettura per dedicarsi all’attività di famiglia
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C’è una stanza che racconta più di mille discorsi il nuovo corso della Cooperativa La Guardiense. È la barricaia, ricavata nei sotterranei della cantina di Guardia Sanframondi (BN) da quello che, fino agli anni Novanta, era un serbatoio, utile alla raccolta delle fecce. Gli scarti della lavorazione delle uve finivano per riempire i circa 300 metri quadrati dei locali che oggi ospitano moderne barrique, di diverse tostature e legni.
Non fu una magia quella di Domizio Pigna, attuale presidente della cooperativa, in carica proprio dal quel 1997 che è l’anno di svolta per la cantina campana. Con un po’ di superstizione, potrebbe piuttosto trattarsi dell’influsso benefico delle Janare, le streghe di Benevento a cui La Guardiense ha dedicato un’intera linea di vini.
«La donna – spiega Pigna – ha un ruolo centrale nella nostra realtà. La cooperativa è stata fondata nel 1960, in una data particolare: l’8 marzo, Festa della Donna. Una centralità rimasta attuale e anzi rinsaldatasi ai nostri giorni, con i soci ormai diventati mille, rispetto ai 33 iniziali».
«La linea Janare – aggiunge Concetta Pigna, Responsabile ricerca e sviluppo de La Guardiense – allude alle Streghe di Benevento, ma ancor più al carattere indomito delle donne di questo lembo d’Italia. Erano le sacerdotesse di Diana, rappresentanti dello spirito femminile indipendente, combattivo. Donne votate alla sapienza, in una società maschilista che le voleva relegate al ruolo esclusivo di mogli e madri».
Amiamo dire che la saggezza, dalle nostre parti, non è stata bruciata come purtroppo è invece avvenuto nella storia a molte donne emancipate, considerate delle streghe.
In onore delle Janare abbiamo creato un brand evocativo. Per fare in modo che su questo territorio la magia non finisca mai, neppure oggi che La Guardiense è una splendida sessantenne».
Per ogni strega uno “stregone” che – scherzano i vertici della cooperativa di Guardia Sanframondi – risponde al nome di Riccardo Cotarella. È il più noto degli enologi italiani a firmare i 15 vini Janare, sin dal 2006. Al suo fianco, il resident winemakerMarco Giulioli.
LA LONGEVITÀ DELLA FALANGHINA DEL SANNIO
L’enologo della cooperativa La Guardiense, Marco Giulioli, nella barricaia
Tutte le etichette sono prodotte con i vitigni simbolo della zona e della Campania. Falanghina e Aglianico, ma anche Fiano, Greco, Piedirosso e il più raro Coda di Volpe. La vera scommessa è però sulla Falanghina.
«Un vitigno che dovremmo iniziare ad apprezzare per la sua longevità», sottolinea Cotarella. Un concetto sul quale La Guardiense si sta concentrando, anche dal punto di vista commerciale.
«Ho una passione personale per vini complessi e profondi – rivela Roberto Ravelli, responsabile vendite Horeca Nord Italia della cooperativa – e il mercato sta maturando in questa direzione. Più lentamente rispetto a quanto vorremmo, ma pian piano i consumatori stanno capendo che alcuni vini migliorano dopo due o tre anni».
Fondamentale il ruolo della ristorazione. «Il muro incredibile delle nuove annate da avere in carta a tutti i costi sin da gennaio – continua Ravelli – si sta pian piano sgretolando. Le difficoltà di comunicazione non mancano, ma dobbiamo siamo decisi a portare avanti questo concetto, sperando nella collaborazione di chi propone il vino nei ristoranti, nei wine bar e in tutti gli esercizi che vogliono fare cultura in campo enologico»
«Siamo consci che la variabilità dei suoli dei 3.636 singoli appezzamenti a disposizione dei soci de La Guardiense sia una vera ricchezza – sottolinea l’enologo Marco Giulioli (nella foto sopra) – e ci consenta di proporre vini capaci di affrontare il tempo senza paura».
«Tra questi – aggiunge – c’è proprio la Falanghina, uno dei vitigni su cui abbiamo avviato ormai da diversi anni un progetto di zonazione, per la valorizzazione dei “Cru del Sannio” della linea Janare».
JANARE LA GUARDIENSE, LA VERTICALE DI FALANGHINA DEL SANNIO
Falanghina del Sannio Dop 2020 Janare Senete
Giallo paglierino, luminoso. Al naso bel frutto tropicale e vena minerale, tocco erbaceo, ricordi agrumati. In bocca l’ultima “release” de La Guardiense entra larga e tesa, spessa, cremosa, burrosa, ma pur sempre fresca e tesa. Un calice giocato sull’equilibrio tra intensità aromatica e freschezza. Vino che darà certamente soddisfazioni nella sfida con le lancette dell’orologio.
Falanghina del Sannio Dop 2019 Janare Senete
Giallo paglierino poco più intenso del 2020. Naso ancora più cremoso, pieno, burroso, tropicale. Sorso che conserva una buona freschezza e guadagna punti in termini di sapidità, qui ancora più marcata. In chiusura, un tocco leggero di caramella mou e una chiusura amaricante chiamano il sorso successivo.
Falanghina del Sannio 2018 Janare Senete
Giallo paglierino carico. Naso che si è evoluto mettendo il microfono alla frutta esotica e alle tinte tropicaleggianti. Non solo. Tocco di sciroppata, in particolare di albicocca. La 2018, in provincia di Benevento, fu un’annata piovosa e complicata. Ne risulta un nettare dalla pienezza meno esplosa, dotato comunque di una buona freschezza e, soprattutto, di un tono di mandorla amara che consente al sorso di reggersi in equilibrio, verticale.
Falanghina del Sannio 2017 Janare Senete
Alla vista si presenta di un giallo dorato. Al naso un tropicale netto. È frutta a polpa gialla più che bianca, con un tocco prezioso di arancia candita. In bocca è una pregevole vena sapida a fare da spina dorsale. La nota burrosa e cremosa percepita al naso fa capolino in chiusura di sorso, controbilanciando la nota fresca d’arancia.
Falanghina del Sannio 2016 Janare Senete
Giallo dorato, luminoso. Al naso inizia a muoversi su venature sulfuree. Non manca, al naso, una nota di mandorla. Arancia e burro salato costituiscono il fil rouge col resto dei campioni della verticale. Buona la freschezza, che inizia fisiologicamente ad attenuarsi.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
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