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“Other area” a chi? Falstaff “declassa” l’Oltrepò pavese allo Sparkling Trophy 2018

EDITORIALE – D’accordo, diciamocelo. Ci sarà pure un po’ di paraculismo da parte dei tedeschi di Falstaff, per allargare la platea degli incoronabili. Ma la medaglia d’argento conferita alla Conte Vistarino allo Sparkling Wine Trophy 2018 ideato dalla rivista tedesca, a dire il vero, è un mezzo scandalo. E non perché non si tratta di un oro.

Il risultato è stato annunciato ieri, nella giornata di chiusura della Prowein Trade Fair 2019  di Düsseldorf.

Il premio ritirato dalla contessa Ottavia Giorgi di Vistarino per il Metodo Classico Oltrepò Pavese Docg Millesimato 2008 Pas Dosé “Cepage” rientra nella categoria “Other Areas Italy“. Ovvero: “Altre aree d’Italia“.

E’ un po’ come se una rivista di settore italiana creasse una categoria ad hoc per uno Champagne della Montagne de Reims, per premiare nella categoria “Francia” solo quelli della Cote Des Blancs o della Cote des Bar.

Per favore adesso qualcuno, dalle parti di Pavia, alzi la mano dal fondo della sala per ricordare ai tedeschi di Falstaff che l’Oltrepò pavese è una delle aree più vocate in Italia per la produzione di Metodo Classico.

Qualcuno alzi la mano, dalle parti di Pavia, per dire ai tedeschi che la famiglia Vistarino ha a disposizione 200 ettari di Pinot Nero e una modernissima cantina, inaugurata da pochi mesi.

Qualcuno alzi la mano, va bene anche da Garlasco (ex targa “PV”, per l’appunto) per dire ai tedeschi che è un insulto all’Italia inserire uno spumante dell’Oltrepò pavese nella categoria “Other Areas Italy”.

Qualcuno, da Torrazza Coste o giù di lì, inviti i tedeschi a farsi un giro in Oltrepò. Per scoprire, se non altro, quanto ben di vino c’è da quelle parti, non solo con le bollicine. A meno che l’eterno ruolo di “serbatoio” non faccia stare un po’ zitti tutti. Allora sarebbe il caso di berci su, anche in questa “Other Area of Italy”. Cin, cin.

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Mi hanno invitato a una degustazione di “vino selvaggio”. Che faccio, vado?


EDITORIALE –
Sondaggione perditempo di inizio settimana. Mi hanno invitato a una degustazione di “vino selvaggio“, che si terrà il 10 marzo a Cesena. Che faccio, vado? A guidarmi sarebbe un certo “Brutale“, che si è offerto di stare al mio fianco in questa “ricerca” (così l’ha definita).

In realtà si tratta di un “mercato coperto“, che ospiterà “degustazione, vendita e workshop”. Ingresso giornaliero a 15 euro, che diventano 20 euro con un piatto a scelta. “Oltre 40 le cantine presenti”, indica l’invito che è arrivato via Instagram, direttamente alla pagina winemag.it.

La voglia di mettere mano alla messaggistica istantanea del social è stata tanta. Ma ho meditato. Scrivere a ‘sto tale, “Brutale”, sarebbe stato come sparare sulla Croce Rossa. Meglio una pacata (ma nemmeno troppo) riflessione sul tema della comunicazione dei cosiddetti “vini naturali”. L’ennesima.

E’ possibile che questa gente senta così tanto il bisogno di ghetto? E’ possibile che ci sia gente così invasata da credere che questa comunicazione gretta possa avere risvolti positivi per la “causa” dei vini naturali?

Quando inizieranno a ribellarsi gli stessi produttori, al posto di restare in ostaggio di questo tipo di comunicazione abominevole?

Da frequentatore abituale delle fiere dei vini naturali – che affronto al pari di Vinitaly, del ProWein e di qualsiasi altro banco di degustazione, non me ne voglia “Brutale” – noto un crescente disappunto da parte di molti vignaioli sui toni utilizzati da quelli che più che appassionati di vino sembrano veri e propri “ultras“.

La verità è che in questi gruppi di idioti si annidano piccoli e piccolissimi distributori “di quartiere”, che con i loro toni da “lavaggio del cervello” (sui social, terra di tutti e di nessuno) sperano di attirare l’attenzione di nuovi clienti-adepti. Un linguaggio buono solo all’occorrenza, che alla lunga rischia di fare malissimo al “movimento”.

Questi veri e propri invasati politicizzati, con in mano la bandiera dei “vini naturali”, danneggiano un mondo fantastico fatto da vignaioli di vigna (e non da risvoltino) che degli slogan e delle stronzate sui social farebbero volentieri a meno. Sono in pochi gli ultras dei naturali, è vero. Ma il rumore, nelle stanze vuote, rimbomba. Chi abbassa il volume? Cin, cin.

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Perché non diciamo (semplicemente) che il vino deve rispettare l’annata?


EDITORIALE –
In questi giorni di Anteprime di Toscana ho avuto modo di assaggiare più di 700 vini, tra prelievi di botte ed etichette che stanno per essere messe in commercio.

A mente fredda, dopo tanti commenti sentiti da direttori, presidenti, tecnici dei Consorzi e addirittura politici che c’azzeccano col vino come Belen al telegiornale (categoria nella quale non rientra ovviamente Studio Aperto) mi viene spontanea una domanda: perché facciamo tutti così fatica ad ammettere che il vino deve semplicemente rispettare l’annata?

Ho assaggiato con “piacere” vini quasi irrimediabilmente compromessi da percezioni “verdi”, dovute alle difficoltà di maturazione dell’uva, per via delle avversità climatiche. E’ il caso della Vernaccia, in un’annata difficile come la 2018.

D’altro canto mi sono stupito (in negativo) di trovare frutti esasperati in annate fresche e regolari per altre Denominazioni del vino toscano, segno di un lavoro in vigna e in cantina funzionale solo al mercato.

Credo che nel dare le “stelle” alle vendemmie, le istituzioni del vino debbano privilegiare il confronto con quei produttori che guardano al mercato domestico come priorità, piuttosto che quello con le cantine che interpretano l’export come “costruzione” di vini adatti al “gusto internazionale”.

Il rischio, altrimenti, è che molte Denominazioni faccianla fine dell’Amarone. Già, uno dei vini bandiera del Made in Italy che, forse per la sostanziale convivenza-complesso di inferiorità regionale col (fenomeno) Prosecco, sembra aver perso la propria identità, intesa come equilibrio organolettico tra “polposità” del frutto e freschezza.

Dell’Amarone 2014 e 2015 si è detto e scritto di tutto. Tranne che tanti produttori paiono ormai brancolare nel buio con un lumino in mano, a caccia di consensi della critica nazionale e – soprattutto – internazionale. Passatemi la provocazione: oggi, sul mercato, ci sono dei Primitivo di Manduria che sembrano più Amarone di certi Amarone “veri”.

LA SUPERCAZZOLA DELLA “FINEZZA”
E’ così – nel nome della “finezza” e della tanto decantata “eleganza” – che tanti Amaroni sono diventati copie dei Ripasso. Che tanti Sagrantino di Montefalco assomigliano più ai Rosso di Montefalco. Che il divario tra il Nobile di Montepulciano e il Rosso di Montepulciano si sta sempre più assottigliando. Ma a nome di chi? Delle stelle?

E allora, quest’anno, ho trovato una gran consolazione nel caro, buon, vecchio Piemonte. All’Anteprima Grandi Langhe di Alba, l’inversione di tendenza (in questo caso positiva) è sembrata palese. I Nebbioli sono tornati ad essere Nebbioli, e i Barolo ad essere Barolo e basta. Non più l’uno l’immagine sbiadita dell’altro.

Una regione, il Piemonte, che sta tra l’altro tornando a puntare in maniera straordinaria su vitigni come il Dolcetto d’Alba e il Grignolino, oltre alla Freisa. Segno che mentre tanti parlano degli autoctoni, qualcuno li valorizza per davvero.

E allora mettiamoci tutti d’accordo e facciamo un favore al vino italiano: torniamo a parlare di stelle ai vignaioli che puntano tutto sulla tipicità, al posto di lodare stelle e stelline di chi punta solamente sul “mercato”, dimenticandosi da dove viene.

Facciamolo per noi. Per non gettare a mare (scegliete voi quale, dalla Liguria alla Sicilia) tutto il patrimonio di viticoltura italiana, intesa anche come stile e filosofia produttiva volta alla valorizzazione dei nostri vitigni e terroir. Roba che pure i francesi si sognano, ma che saprebbero certamente vendere meglio di noi. Cin, cin.

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Cosa non capisco di Luca Maroni e dei suoi Migliori Vini Italiani


EDITORIALE – Varietali appiattiti, utilizzo sostenuto dei legni, standardizzazione assoluta degli assaggi. La “sagra” del mosto concentrato e dell’appassimento in pianta. Il tutto nel nome di un dogma (aleatorio) come la “piacevolezza”. E’ quanto emerge dalla degustazione de “I migliori vini italiani“, l’evento milanese di Luca Maroni.

Un “critico del vino” davvero sui generis. Maroni, di fatto, ha coniato regole proprie per la degustazione, che solo lui utilizza. Alla base dell’Annuario dei Migliori Vini Italiani di Luca Maroni c’è infatti “l’analisi organolettica-dinamica“.

Mai sentita nei vostri corsi per sommelier e degustatori Ais, Fisar, Fis, Onav? Certo che no. E’ un marchio di fabbrica maroniano. Gran parte delle etichette premiate ha poco a che fare con la qualità assoluta ricercata da altre guide.

Del resto, la presentazione degli eventi del “critico” parla chiaro: “Luca Maroni guiderà il pubblico all’acquisizione del principio della piacevolezza del vino per comprenderne l’essenza e, senza strumenti né magie, condurrà il neofita e l’appassionato attraverso un percorso di fascinazione sensoriale“. E sticazzi, epicureisticamente parlando, of course.

I PREMIATI
Tre righe che potrebbero bastare (e avanzare) per giustificare l’assegnazione di premi come “Miglior spumante d’Italia”, per due anni consecutivi, a realtà come l’Azienda Vitivinicola Vanzini.

Otto milioni di bottiglie e poca rappresentatività (nel calice) di un territorio che vanta una tradizione spumantistica eccezionale sul Metodo classico, come l’Oltepò Pavese. Per vincere è “bastato” un generico “Charmat lungo” da Pinot Nero, in versione rosé lo scorso anno, vinificato in bianco nel 2018.

Ma la spiegazione migliore di cosa è realmente “I migliori Vini Italiani di Luca Maroni” l’ha offerta, a Milano, il rappresentante di uno dei maggiori colossi del vino italiano, Schenk Italian Wineries (55,6 milioni di bottiglie vendute nel 2017):

“I nostri sono vini moderni, dissociabili dal cibo, ottenuti lavorando sulle maturazioni e sul residuo zuccherino, lavorando in vigna, sulla pianta, attraverso appassimenti. Dopo i primi esperimenti fatti con i nostri vini veneti, in particolare con l’Amarone, abbiamo esteso il progetto alle altre tenute presenti in Italia: in Puglia e Sicilia ma anche in Piemonte, dove per smussare la Barbera ricorriamo a legni dolci”.

Siamo sicuri che si producano così i “Migliori vini italiani“? Siamo sicuri che è questo il compito dei critici enologici, in un periodo in cui l’internazionalizzazione sta portando sulle nostre tavole vini di territori dalla scarsa tradizione enologica (in attesa di quelli cinesi)? Siamo sicuri che questi premi valorizzino realmente il patrimonio della viticoltura italiana?

Ma soprattutto: siamo sicuri che Luca Maroni non abbia effettuato consulenze per alcune delle aziende premiate? Qualcuno si è accorto che la valutazione assegnata da Maroni ad alcuni vini Horeca presenti nell’Annuario si discosta di pochissimo da quella di alcune etichette presenti in Discount come Md o Aldi?

Un esempio su tutti: lo splendido Amarone “La Mattonara” 2006 di Zýmē in vendita a 230 euro (98/100 Maroni) e la Croatina Provincia di Pavia Igt “Cantina Clairevue” (96/100 Maroni, in vendita a 2,99 euro da Md Discount, prodotta proprio da Schenk). Sono solo io a pormi queste domande o c’è qualcosa che non va?

Di certo è tutto lecito. Ma ai giovani e giovanissimi presenti all’evento spetta il dovere di informarsi, prima di mettere in bocca il prossimo “piacevole” calice suggerito dalla guida Luca Maroni. E allora prosit. Se son zuccheri, ci addolciremo anche noi. Domani.

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Vedo la Fisar in fondo al tunnel

EDITORIALE – C’è un barlume di Fisar in fondo al tunnel dell’enofighettismo incravattato italiano. Con la firma della “Carta dei Vini” in abbinamento alle Vellutate Bonduelle, la Federazione Italiana Sommelier Albergatori Ristoratori accende la luce sul segreto di Pulcinella del vino italiano: la grande distribuzione.

Secondo i dati Nielsen di maggio 2018, il vino degli ipermercati, supermercati e discount vale 2,35 miliardi di euro. Sono 7,5 i milioni di ettolitri prodotti per la Gdo e 790 milioni i pezzi venduti tra vino e spumante, nei formati disponibili. Un giro d’affari del 71% a valore e del 59% a volume. Con i discount che rappresentano il secondo mercato a volume con il 28% (16% a valore).

Eppure, per molte cantine, parlare di Grande distribuzione è ancora un tabù. Molte di queste winery strafighe chiudono i bilanci in positivo grazie al canale moderno. Ma non si dica. Non si faccia troppa pubblicità alla linea destinata ai supermercati, perché “stiamo tentando di riposizionarci sull’alta gamma, con l’Horeca”.

Frasi di cui si riempie la bocca il 90% dei commerciali delle cantine italiane, che da una parte strizzano l’occhio al canale tradizionale e dall’altra attendono di stringere le mani del prossimo buyer Gdo. Magari proprio in qualche nuovo centro commerciale di Milano, Roma o Palermo.

E ALLORA VIVA LA FISAR
Ecco spiegata – cifre e indiscrezioni alla mano – la portata epocale dell’operazione che vede coinvolta la sommellerie Fisar e il marchio di minestroni fondato in Francia nel 1853, da Louis Lesaffre e Louis Bonduelle. E’ chiaro che – per una volta – non si parla di caviale, grandi chef, o ristoranti stellati.

Nel concreto, sugli scaffali delle maggiori catene della grande distribuzione di tutta Italia, sono a disposizione da inizio ottobre “I Piccoli Piaceri Bonduelle“. Si tratta di 3 speciali vellutate al gusto di Zucca & Salsa Sambal, Carote, Patate Dolci & Zenzero e Peperoni & Peperoncino, accompagnati da una carta dei vini digitale.

Fisar ha studiato tre abbinamenti per tipologia, “per offrire diverse esperienze gustative e guidare i consumatori, anche quelli meno esperti, nella scoperta delle eccellenze enoiche nazionali e dell’arte dell’abbinamento vino-cibo”. Chapeau.

Finalmente – e non solo per ragioni di “conti” – l’aristocratico mondo dei sommelier china la testa e guarda al volgo, alla gente comune. Quella che fa la spesa al supermercato al fine settimana, o la notte ai Carrefour aperti 24 ore, perché di giorno lavora.

Una dimensione popolare che manca a molti giovani freschi di diploma, pronti a buttare sui social le foto delle “bocce” da 70 euro acquistate nell’enoteca convenzionata. Il primo passo, quello di Fisar con Bonduelle, verso un cambio di rotta che deve riguardare anche i docenti della sommellerie nazionale, troppo spesso pronti a suggerire agli studenti dei “riferimenti” territoriali pressoché precompilati, al posto di spingerli a scoprire i territori, sporcandosi le scarpe in vigna e in cantina.

“Il progetto firmato con Bonduelle – dichiara Graziella Cescon, presidente nazionale Fisar – è una grande opportunità per far avvicinare un pubblico sempre più ampio al meraviglioso mondo del vino, in particolare quello italiano”.

“Guidare il consumatore alla scoperta di abbinamenti inediti tra un prodotto di grande consumo come le vellutate e le migliori produzioni vinicole – conclude Cescon – contribuisce sicuramente allo sviluppo di un cultura enogastronomica consapevole e alla portata di tutti e non solo dei winelover più esperti”.

E allora avanti tutta, con questo e con il prossimo “governo” della Federazione, prossimo al rinnovo elettorale. Viva la Fisar. E viva i minestroni caldi, da versare a cucchiaiate su critiche fredde come il rigor mortis degli anti progressisti e dei “negazionisti”.

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