Le Pievi del Vino Nobile di Montepulciano sono una nuova tipologia all’interno della denominazione, introdotta per valorizzare le specificità storiche e territoriali del comprensorio di Montepulciano. Il termine “Pieve” si riferisce alle antiche suddivisioni ecclesiastiche del territorio, risalenti all’epoca tardo romana e longobarda, che fungevano da centri religiosi e amministrativi per le comunità locali. Questa suddivisione storica è stata ripresa per identificare 12 Unità Geografiche Aggiuntive (UGA), ciascuna con caratteristiche uniche in termini di suolo, esposizione e microclima.
12 PIEVI DEL VINO NOBILE DI MONTEPULCIANO
Le 12 Pievi individuate sono: Ascianello, Argiano, Badia, Caggiole, Cerliana, Cervognano, Gracciano, Le Grazie, San Biagio, Sant’Albino, Valardegna e Valiano. A partire dal 1º gennaio 2025, con l’annata 2021, sarà possibile trovare in commercio i Vini Nobile di Montepulciano con la menzione “Pieve” seguita dal nome dell’UGA di appartenenza. Il disciplinare per la tipologia “Pieve” prevede criteri più restrittivi rispetto alle altre tipologie di Vino Nobile. In particolare, è richiesto che il vino sia composto almeno all’85% da Sangiovese (localmente noto come Prugnolo Gentile), con l’eventuale aggiunta di vitigni autoctoni come Canaiolo, Mammolo, Colorino e Ciliegiolo fino a un massimo del 15%.
Le uve devono provenire da vigneti di almeno 15 anni di età, con una resa massima di 70 quintali per ettaro. Il periodo di maturazione minimo è di 3 anni, di cui almeno 12 mesi in legno e 12 mesi in bottiglia. L’introduzione delle “Pievi” mira a esaltare le peculiarità di ciascuna sottozona, offrendo al consumatore vini che riflettano in modo autentico le diverse espressioni del territorio di Montepulciano, sia dal punto di vista storico che enologico.
PIEVI DEL VINO NOBILE DI MONTEPULCIANO ALL’ESORDIO NEL 2025
Il Vino Nobile di Montepulciano “Pieve” entra in commercio nel 2025. Il Comitato Nazionale Vini del 10 ottobre 2024 ha dato l’ok definitivo al testo di Disciplinare del Vino Nobile di Montepulciano “Pieve”, il decreto con annesso disciplinare è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 05 febbraio 2025 e la nuova tipologia della prima Docg d’Italia che sarà in commercio a febbraio 2025 con l’annata 2021. La previsione produttiva delle Pievi, secondo una prima stima del Consorzio, riguarderà circa il 10% del totale di produzione del Vino Nobile di Montepulciano (circa 600 mila bottiglie all’anno).
L’idea di far nascere il Vino Nobile di Montepulciano menzione “Pieve” (che andrà ad affiancare il Vino Nobile di Montepulciano e Vino Nobile di Montepulciano Riserva), nasce da un percorso metodologico che ha visto il consenso e la partecipazione di tutte le aziende produttrici. Un percorso di studio all’interno della denominazione stessa, che grazie a momenti di incontro, confronto e di analisi collettiva, ha portato alla nascita di una “visione” univoca di Vino Nobile di Montepulciano.
IL VINO NOBILE DI MONTEPULCIANO PIEVE
La scelta di utilizzare i toponimi territoriali riferibili a quelli delle antiche Pievi in cui era suddiviso il territorio già dall’epoca tardo romana e longobarda, nasce da un approfondimento di tipo storico, paesaggistico e produttivo vitivinicolo. In particolare, la volontà del Consorzio del Vino Nobile di Montepulciano è quella di ribadire e codificare una realtà fisica con antica radice storica, che ha caratterizzato il territorio poliziano fino all’epoca moderna e che trova la sua eco anche nel catasto Leopoldino dei primi decenni del XIX secolo, che suddivideva il territorio in sottozone definite con il toponimo.https://www.consorziovinonobile.it/
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Una quota di produzione di vini certificati biologici che si attesta al 95% per la Doc e al 91,5% per la Docg; un’ottima propensione all’export e un’ancor più spiccata organizzazione aziendale sul fronte dell’ospitalità, con il 100% delle cantine attrezzate per accogliere i visitatori. È il quadro che emerge dall’ultimo questionario interno compilato dalle aziende aderenti al Consorzio Vini Montecucco, in Toscana. Cantine che oggi valutano un’ulteriore opportunità di sviluppo, nonché di contrasto ai cambiamenti climatici. È infatti in discussione all’interno del Consorzio l’eventuale modifica del disciplinare di produzione, utile all’«estensione del territorio di produzione all’intera area amministrativa dei comuni di montagna».
«L’obiettivo – evidenzia ancora l’ente che ha sede a Cinigiano, in provincia di Grosseto – è aumentare l’altitudine dei terreni della Denominazione». In zona, il territorio dell’Unione dei Comuni Montani Amiata Grossetano comprende per l’esattezza sette comuni (Arcidosso, Castel del Piano, Castell’Azzara, Roccalbegna, Santa Fiora, Seggiano e Semproniano) e si estende per circa 700 chilometri quadrati, alcuni dei quali già interessati dalla viticoltura e inseriti nel puzzle della denominazione grossetana. La zona di produzione delle uve del Montecucco comprende infatti «le aree vocate» dei Comuni di Cinigiano, Civitella Paganico, Campagnatico, Castel del Piano, Roccalbegna, Arcidosso e Seggiano.
I VINI DEL MONTECUCCO VERSO LA MONTAGNA
I vigneti della Doc e della Docg Montecucco si trovano al momento su rilievi di bassa e medio-alta collina e affondano le radici su formazioni prevalentemente marnose, marnoso-pelitiche e pelitiche. Suoli franchi, ricchi di pietre e scheletro. Moderata l’acqua disponibile per le piante. La quota media è di circa 200 metri sul livello del mare, con le vigne attualmente iscrivibili alla denominazione ubicate approssimativamente a quote comprese tra 120 e 500 metri sul livello del mare.
La pendenza oscilla intorno all’8%, mentre l’esposizione media, sempre secondo i dati più aggiornati, è a est sud-est. Labase ampelografica dell’areale del Montecucco è composta per il 61% da Sangiovese, per l’11% da Vermentino e per il restante della percentuale da vitigni internazionali – principalmente Merlot, che detiene il 7% – e vitigni autoctoni da qualche anno tornati alla ribalta come il Ciliegiolo con il 5%.
IL SUCCESSO DEL MONTECUCCO ROSSO IN ACCIAIO
Non a caso la tipologia della Denominazione che al momento riscontra maggiore successo è il Montecucco Rosso, che prevede un minimo di 60% di Sangiovese accompagnato da altri vitigni a bacca rossa e ha un profilo più fresco, soprattutto grazie alla vinificazione in solo acciaio. Il Montecucco Docgha invece registrato un lieve calo anche alla luce dell’avversità delle ultime tre annate e alle scelte obbligate e strategiche a cui le stesse hanno costretto a volte i produttori.
Rilevanti anche i dati raccolti grazie al questionario del Consorzio sul mercato domestico ed export. Forte l’attenzione sul territorio nazionale che assorbe circa il 35% delle vendite, soprattutto il Centro e Nord Italia dove sono presenti rispettivamente il 95% e il 63% delle aziende socie. Proprio qui viene sollecitato un maggior presidio da parte del Consorzio, in particolare nelle regioni “target” Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte e Veneto.
Per quanto riguarda le vendite all’estero, i primi quattro paesi a trainare l’export in termini di volumi – e dove le aziende vorranno continuare ad investire in promozione – risultano Svizzera (30%), Germania (12%), Usa (8,5%) e Benelux (8%). Le cantine registrano un interesse sempre crescente da parte di Est Europa, Centro America e Asia orientale e sudorientale. Parlando di prossimo futuro, i primi tre paesi di interesse verso cui le aziende vorrebbero incrementare le esportazioni sono Canada, Regno Unito e Giappone.
L’ENOTURISMO NELL’AREA DEL MONTECUCCO
L’ospitalità è un altro tema importante per la Denominazione che l’indagine ha voluto approfondire. Qui i dati evidenziano che il 100% delle aziende è attrezzato per accogliere i visitatori. Le formule di enoturismo spaziano dalle visite in cantina e/o in vigna alle degustazioni e ai tour del territorio, e circa la metà delle aziende dispone di strutture ricettive in grado di offrire ai visitatori la possibilità di pernotto (83,3%) e/o ristorazione (75%).
Un’ulteriore conferma, come sottolinea il Consorzio Tutela Vini Montecucco, dell’ormai trentennale investimento della Denominazione in un enoturismo di qualità, volto a promuovere l’originalità di questo volto selvaggio della Toscana facendo leva sulla natura autentica e sui paesaggi incontaminati dell’areale, oltre che su storia, cultura ed enogastronomia.
IL QUESTIONARIO DEL CONSORZIO VINI MONTECUCCO
A tre anni di distanza dal primo lavoro di raccolta dati che lo consacrava come esempio virtuoso di sostenibilità ambientale in Toscana, il Consorzio Tutela Vini Montecucco si è quindi impegnato in una nuova indagine condotta presso le aziende socie. L’obiettivo era attestare, oltre a dati di produzione e certificazione, diversi altri aspetti ed elementi legati all’attività delle cantine dell’areale, per restituire una panoramica quanto più dettagliata e ampia dello status quo della Denominazione e promuoverne la crescita e lo sviluppo.
Attraverso la compilazione di un questionario, da metà giugno a metà luglio 2024 sono state raccolte le risposte di diverse aziende distribuite tra i sei comuni di Cinigiano, Castel del Piano, Seggiano, Civitella Paganico, Campagnatico e Roccalbegna e che da sole coprono una superficie vitata totale di circa 300 ettari, di cui circa 276 ha sono potenzialmente rivendicabili Montecucco Doc (tra Rosso e Vermentino), mentre sono 197,42 gli ettari potenzialmente atti alla produzione di Montecucco Docg.
I risultati raccolti, secondo l’ente toscano, sono in grado di fornire «un quadro generale estremamente fedele dello stato di salute e dei trend della Denominazione», considerato che il campione preso in esame rappresenta rispettivamente il 76% e il 79% della produzione totale di Doc e Docg Montecucco, tra aziende socie e non, ed include le più grandi imprese dell’areale detentrici della maggior parte delle quote di produzione e imbottigliato e, quindi, di vendite e presenza nei mercati.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 16 anni, tra carta stampata e online, dirigo oggi winemag.it, testata unica in Italia per taglio editoriale e reputazione, anche all’estero. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Segno Vergine allergico alle ingiustizie e innamorato del blind tasting, vivo il mestiere di giornalista come una missione per conto (esclusivo) del lettore, assumendomi in prima persona, convintamente, i rischi intrinsechi della professione negli anni Duemila. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Tre nuovi spumanti Metodo classico da uve Nebbiolo in Piemonte. È quanto ha richiesto la maggioranza dei produttori aderenti al Consorzio Tutela Barolo, Barbaresco, Alba, Langhe e Dogliani. L’esito delle votazioni, raccolte in parte attraverso una raccolta firme (l’assemblea fissata a metà giugno non aveva raggiunto il quorum di partecipanti), è stato comunicato ieri alle cantine aderenti al Consorzio piemontese. L’iter per l’approvazione definitiva delle modifiche ai disciplinari potrebbe portare alla nascita di due sparkling Blanc de Noir – Nebbiolo d’Alba spumante Metodo classico vinificato in bianco e Langhe Doc Nebbiolo Metodo classico vinificato in bianco – e di un rosato, il Langhe Doc Nebbiolo Metodo classico rosé. I tre nuovi spumanti Made in Piemonte potrebbero vedere la luce a partire dalla vendemmia 2024.
Le votazioni sono state accompagnate da un dibattito a tratti acceso tra i produttori. L’esito è frutto di maggioranze tutt’altro che schiaccianti. Secondo fonti di winemag.it, l’accordo maggiore sarebbe stato registrato dal Nebbiolo d’Alba spumante Metodo classico da Nebbiolo vinificato in bianco. Il disciplinare di produzione dei vini a Denominazione di origine controllata Nebbiolo d’Alba prevedeva già le tipologie “Nebbiolo d’Alba Spumante” (rosso) e “Nebbiolo d’Alba Spumante Rosé”. Il Blanc de Noir completerebbe la gamma di colori dello sparkling ottenuto da uve Nebbiolo, con l’avallo alla vinificazione in bianco della varietà allevata in 25 comuni situate sulle due sponde del fiume Tanaro. Un provvedimento che innalzerebbe il valore dei BdN albesi, per i quali al momento è obbligatorio il declassamento delle uve.
La vera svolta riguarda i due Metodo classico Langhe Doc da uve Nebbiolo, Blanc de Noir e Rosé. A spingere per questa tipologia sono soprattutto i produttori di Barolo e Barbaresco, a cui è stata negata l’introduzione del vitigno simbolo del Piemonte nel disciplinare dell’Alta Langa, lo Champenoise ormai diventato simbolo d’eccellenza del mondo delle bollicine piemontesi. Di qualche anno fa l’esplicita richiesta di produttori come Sergio Germano (Ettore Germano, Serralunga d’Alba), rispedita al mittente dall’allora management dell’Alta Langa, guidato dal 2013 al 2022 da Giulio Bava (Cocchi). Una decisione poi confermata anche dalla nuova gestione targata Mariacristina Castelletta (Tosti 1820), in carica appunto dallo scorso anno. Nessuna indicazione, al momento, sul periodo minimo di affinamento sui lieviti dei due nuovi spumanti langhetti base Nebbiolo (qualcuno spinge per un minimo di 24 mesi, proprio come previsto dal disciplinare dell’Alta Langa).
RESE, BAG IN BOX, VARIETÀ AROMATICHE, ALBAROSSA E ROSÉ
Le tre novità “spumeggianti” non sono le uniche ad essere state approvate. Sono state infatti richieste modifiche delle rese del Langhe Rosso e del Langhe Rosato, portate a 110 quintali per ettaro, rispetto ai 100 attuali. La recente introduzione del Langhe Doc Barbera, con rese pari a 110 quintali, impedisce al momento il declassamento utile alla produzione di uvaggi Langhe Rosso o Langhe Rosato. L’innalzamento di 10 quintali pareggia i conti tra le due tipologie e offre ai produttori nuovi strumenti di valorizzazione del Barbera.
Sempre sul fronte del Langhe Doc Bianco e Rosso, è stata introdotta la possibilità di utilizzo di varietà aromatiche nell’uvaggio. Un provvedimento già varato nel 2020 dalla Doc Piemonte. Si potrà quindi produrre, per esempio, un Langhe Doc Bianco da uve Moscato secco, pur con divieto di menzione della varietà. Permangono tuttavia dubbi su quello che sarà il nuovo profilo organolettico di vini “Langhe Doc Bianco” potenzialmente ottenibili da varietà aromatiche (anche in purezza), in precedenza non ammesse nell’uvaggio. Il mercato darà le risposte attese. A larghissima maggioranza è stata poi introdotta la tipologia Langhe Doc Albarossa, varietà ad oggi ascrivibile alla sola Doc Piemonte.
Un passo in avanti sui mercati internazionali riguarda poi il Bag in Box, tanto in voga nei mercati scandinavi, Norvegia in testa. Sarà presto possibile produrre Bag in Box Langhe Doc Bianco, Rosso e Rosato, pur senza menzionare le varietà dell’uvaggio né ricorrere a menzioni aggiuntive, come quella della vigna. In precedenza, i BiB langaroli non potevano essere etichettati come “Langhe Doc”, ma solo come vini generici. Un’altra modifica riguarda i rosati. Valoritalia, negli ultimi mesi, ha sanzionato diverse aziende piemontesi di Langa per aver etichettato i loro vini come “rosé” al posto che “rosati”. Con larga maggioranza, è stato proposto di introdurre nel disciplinare il termine “rosé”, ad oggi assente dai testi vagliati dal Ministero e pubblicati in Gazzetta Ufficiale.
MODIFICHE AI DISCIPLINARI DELLE LANGHE: LE TRE BOCCIATURE
Tre le bocciature alle proposte di modifica dei disciplinari del Consorzio Tutela Barolo, Barbaresco, Alba, Langhe e Dogliani. La prima riguarda la mancata approvazione della proposta di avvio dell’iter del “Doc Langhe Moscato secco“. Una denominazione a cui avrebbero potuto aderire molti produttori di Moscato d’Asti Docg i cui vigneti si trovano in provincia di Cuneo, in comuni importanti per la bollicina astigiana come Santo Stefano Belbo e Cossano Belbo, senza contare Neive, Santa Vittoria d’Alba e Neviglie. Un’opzione per il momento scartata, nonostante sul territorio del cuneese esista un brand, “Escamotage”, che raccoglie 13 produttori di Moscato secco.
La Doc avrebbe consentito loro di non declassare questi vini a generici bianchi da tavola, oltre a delimitare l’area di produzione del Moscato secco, creando valore e possibilità di accesso ai bandi europei, che ammettono solo vini a denominazione di origine. No anche al Langhe Doc Viognier, che continua comunque la sua strada nella Doc Piemonte. La terza ed ultima bocciatura riguarda la proposta di istituzione di un Langhe Doc Nebbiolo Superiorecon menzione di vigna, sulla scorta di Barolo e Barbaresco. La tipologia attualmente prevista, il Langhe Doc Nebbiolo, non ammette infatti menzioni di vigna per il Nebbiolo, a differenza di quanto invece concesso per i Langhe Cabernet Sauvignon, Chardonnay, Favorita, Freisa, Merlot, Nascetta, Pinot Nero, Riesling, Rossese bianco e Sauvignon.
I barolisti temono che questa concessione possa scalfire fette di mercato di Barolo e Barbaresco, intaccando la salvaguardia delle due denominazioni al vertice della piramide qualitativa. Per i proponenti, al contrario, il Langhe Doc Nebbiolo Superiore con menzione di vigna sarebbe un’ottima via per proporre sul mercato vini con le stesse rese di Barolo e Barbaresco, immessi tuttavia sul mercato almeno un anno prima. Vini freschi, più beverini e “pronti” dei grandi Re di Langa, che avrebbero portato in giro per il mondo il nome delle vigne di Barolo e Barbaresco, stuzzicando i consumatori a fare, in seguito, l’upgrade. Tra bocciature e approvazioni, una cosa è certa: nella Langhe non ci si annoia mai. Dentro. E fuori. Dal calice.
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Cresce il vigneto Docg del Piemonte: 622 ettari tra Barolo, Barbaresco, Gavi, Asti e Alta Langa. Le richieste (approvate) dei Consorzi
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Cambia il Chianti Classico Gran Selezione in seguito alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, il 1° luglio, del decreto di approvazione delle modifiche al disciplinare della denominazione. Due le novità: la possibilità di inserire in etichetta il nome di una delle 11 Unità Geografiche Aggiuntive – Uga (aree più ristrette e dotate di maggiore omogeneità); e l’obbligo di modificare la base ampelografica, a partire dalla vendemmia 2027, con la percentuale minima di Sangiovese che sale al 90% dall’80% e con l’eventuale apporto di soli vitigni autoctoni ammessi fino al 10%.
«È un traguardo storico per la denominazione – dichiara il presidente Giovanni Manetti – adesso tutti i consumatori potranno finalmente scegliere vini provenienti dalle diverse UGA e apprezzare le sfumature del territorio del Gallo Nero. Un ulteriore passo per la valorizzazione delle caratteristiche distintive del Chianti Classico».
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Scatto in avanti per le Marche del vino, con le modifiche ai disciplinari di produzione di due vini simbolo della regione. A partire dalla vendemmia 2024 sarà facoltativo per i produttori scrivere “Verdicchio” sulle etichette dei vini bianchi Riserva di Jesi e Matelica. Un modo per enfatizzare l’importanza del territorio in cui nascono le due Denominazioni di origine controllata e garantita (Docg), evitando di menzionare il nome di un’uva coltivata anche in altre regioni italiane (Trebbiano di Lugana e Trebbiano di Soave sono sinonimi di Verdicchio, così come “Verdone” in Umbria).
La mossa dell’Istituto Marchigiano Tutela vini (Imt), il mega-consorzio che tutela 16 denominazioni delle Marche, è studiata anche per salvaguardare i produttori dal potenziale (pur remoto) rischio di “scippo” del Verdicchio da parte di Paesi esteri. Un’attenzione particolare merita per esempio l’Australia, già protagonista della querelleGlera-Prosecco australiano. Il vitigno tipico delle Marche è presente sull’isola-continente almeno dal 1.064, importato col sinonimo di Peverella. È ora coltivato nel nord-est dello Stato di Victoria, oltre che nella regione di Murray Darling del Nuovo Galles del Sud, dove si è ormai acclimatato molto bene. Diverso il profilo organolettico, spesso un mix tra il naso di un Sauvignon blanc e il palato di una varietà aromatica.
In Italia, secondo i dati più aggiornati, gli ettari di Verdicchio sono in totale 4.682. La parte del leone è proprio quella del Verdicchio dei Castelli di Jesi, con 2.230 ettari. Matelica segue a ruota con 410 ettari. Evidente, dunque, come le due denominazioni di origine controllata e garantita marchigiane abbiano tutto l’interesse di profilarsi come «patria del Verdicchio», partendo proprio dai loro vini top di gamma: i Riserva.
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EDITORIALE – L’Oltrepò pavese è la casa del Riesling italico in Italia, ma il disciplinare di produzione dei vini DOC che prevendono il suo utilizzo è da riscrivere. Evidente, in più punti del testo, la confusione che regna sovrana tra il Riesling italico (alias Welschriesling, in Germania e Austria; Graševina, in Croazia; Olaszrizling in Ungheria, ecc.) e il Riesling renano, quasi come se si trattasse di vitigni “parenti” o cloni dello stesso vitigno. Come si evince all’articolo 1 dal testo ufficiale, scaricabile dal sito del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali e dalla Gazzetta ufficiale, la Denominazione di Origine Controllata “Oltrepò Pavese” prevede diverse tipologie: “Riesling”, “Riesling frizzante”, “Riesling spumante”, “Riesling superiore”.
I problemi riguardano l’articolo 2, riferito alla “base ampelografica“. In particolare, l’“Oltrepò pavese Doc Bianco” può essere ottenuto «dalle uve prodotte dai vigneti aventi, nell’ambito aziendale, Riesling e/o Riesling italico: minimo 60%». Le altre tipologie che contengono “Riesling”, senza specifica distinzione tra Renano e Italico, sono il “Riesling” fermo, quello “frizzante”, lo “spumante”, e il “Riesling superiore”. Ancor più clamoroso il caso dei vini etichettabili come “Riesling riserva”, che prevedono «Riesling e/o Riesling italico: minimo 85%».
La confusione tra i due vitigni genera un evidente inganno ai danni dei consumatori, ignari delle differenze tra Riesling italico e Riesling renano, in particolar modo per la possibilità di etichettare entrambi come “Riesling”. Un aspetto evidente nel marketing di alcune cantine. Dal sito della cooperativa oltrepadana Torrevilla si legge, per esempio: «Italiano o Renano, il Riesling è parte importante nella storia dell’Oltrepò, terra molto vocata a questi vitigni freschi e aromatici». Il vino in questione reca in etichetta la sola scritta “Oltrepò pavese Dop Riesling“. La scheda tecnica del prodotto parla, altrettanto genericamente, di “Riesling”.
MERCATO DROGATO E ASSURDITÀ: SANZIONI PER CHI ETICHETTA “RIESLING ITALICO DOP”
Un caos che si riflette anche sulle cifre relative agli ettari vitati dei due distinti vitigni. Come evidenzia il Consorzio Tutela vini Oltrepò pavese, «i dati a nostra disposizione, sono relativi al “Riesling” in generale, poiché la Denominazione non prevede una distinzione fra le due varietà». Fino al 2019, la somma degli ettari vitati delle due varietà era pari a 1.336,98 ettari, scesi a 1.227,13 nel 2021. Indubbio, dunque, che sul mercato italiano ed internazionale vengano immesse quantità drogate di “Riesling italico” etichettate (genericamente) come “Riesling”, nome che ha certamente più appeal sui mercati globali. Il tutto per via dell’escamotage presente nel disciplinare di produzione della Denominazione di Origine controllata Oltrepò pavese, che rende addirittura sanzionabile un’eventuale menzione in etichetta di “Riesling italico Dop“.
Quello che in Italia è (incredibilmente) legge, sarebbe un’assurdità in Paesi come Germania, Austria, Croazia, Serbia, Slovenia e Repubblica Ceca, dove il Riesling italico è molto diffuso. A tentare di valorizzarlo in chiave internazionale sta pensando il team di GROW DU MONDE, attraverso un concorso che ha messo sotto i riflettori – la scorsa settimana, in Croazia – oltre 250 campioni di Riesling Italico (in particolare Graševina) provenienti da 7 Paesi dei Balcani e dell’ex blocco austro-ungarico.
L’evento, organizzato da Igor Lukovic, Saša Špiranec e Zoltán Győrffy, punta a risollevare le sorti del vitigno e mostrare le punte di qualità raggiungibili. Ad emergere, oltre alla qualità medio alta dei campioni (12 le medaglie di platino) è stata la versatilità assoluta dell’Italico, in grado di dare vita a vini freschi e beverini, vini più strutturati con il giusto apporto di legno, vini orange di grande carattere e vini dolci degni di una ribalta internazionale. Nessun campione italiano in gara in questo 2023. Ma il Bel Paese si candida ad ospitare l’edizione 2025 di GROW.
OLTREPÒ PAVESE E RIESLING ITALICO: UNA NUOVA STORIA DA SCRIVERE
A dare ancora più credito a questa candidatura è la scoperta effettuata dai ricercatori del principale ente pubblico di ricerca in Italia, il CNR – Consiglio Nazionale delle Ricerche. Secondo quanto riportato a winemag.it dal portavoce Stefano Raimondi, oggi ricercatore indipendente, il team di cui faceva parte ha finalmente scoperto uno dei due genitori del Riesling italico. Si tratta della Coccalona Nera, vitigno molto diffuso in passato nella bassa Lombardia, in Piemonte, in Veneto e in Emilia Romagna (qui col sinonimo di Orsolina), oltre che in Svizzera, Austria e Germania. In particolare, gli areali in cui era presente questo vitigno o suoi diretti parenti erano la zona di Gavi, i Colli Tortonesi, l’Oltrepò pavese e i Colli Euganei, insieme a tutto il Baden-Württemberg, che si estende verso est tra l’attuale città svizzera di Basilea e la tedesca Heidelberg. Tuttora ignoto il secondo genitore che ha dato vita a quello che, sin dall’ottocento, viene descritto come Welschriesling, ovvero Riesling italico.
Il nome Riesling, affiancato dalla parola “italico” – precisa a winemag.it il ricercatore Stefano Raimondi – potrebbe essere spiegato proprio dal fatto che il vitigno era largamente presente in Italia. Utilizzando la dicitura “Riesling italico”, lo si voleva distinguere dall’altra varietà a bacca bianca più diffusa in Germania, ovvero il Riesling renano. Ed è corretto, perché si tratta di due vitigni ben distinti. Le ipotesi che si trattasse di una varietà francese, o meglio della Champagne, sono state screditate sin dall’Ottocento: una varietà tardiva come l’Italico non sarebbe mai giunta a maturazione all’epoca, in quella regione. E non maturava benissimo neppure in Germania».
Stabilire con certezza assoluta dove sia avvenuto l’incrocio naturale tra Coccalona Nera e l’altro genitore che ha dato vita all’Italico è tuttavia molto difficile. Di certo, la Coccalona nera ha lasciato sul campo diversi “figli”, tutti nel Nord Italia. Tra questi ci sono vitigni come Uva Rara, Durasa, Moscato Nero di Acqui, Moretto grosso in Val Borbera (Colli Tortonesi), Lambrusco di Fiorano in Emilia Romagna. E ancora: Cavazzina, Sgavetta, Pattaresco nei Colli Euganei. Nel 1840 il Riesling italico, o meglio il Welschriesling, viene citato tra i vitigni presenti anche nella zona di Vienna e in tutta la Stiria (quindi anche in Slovenia). Successive le citazioni storiche ufficiali di Olaszrizling in Ungheria e di quella che, inizialmente, veniva chiamata Talianska Graševina (letteralmente “Graševina italiana”), poi divenuta semplicemente Graševina, vitigno a bacca bianca più diffuso in Croazia.
«Il Riesling italico, così come lo conosciamo oggi – spiega ancora il ricercatore Stefano Raimondi – entra o rientra in Italia come tale tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Lo fa inizialmente in Veneto, presso la Tenuta dei Conti Papadopoli, a San Polo di Piave. Lo cita Salvatore Mondini nel 1903, in un libro sui “vitigni stranieri”, suggerendo che lo stessero (ri)piantando anche anche a Tassarolo, nel Gaviese. Una guida vinicola del 1911 fa poi riferimento al fatto che, in provincia di Alessandria, si stesse “provando a piantare Riesling come nel vicino Oltrepò pavese”». Dell’unico genitore noto dell’Italico restano pochissime piante. Stefano Raimondi e il gruppo di ricercatori del Cnr ne ha mappate tre in Val Borbera, presenti ai margini di due vigneti. La storia dice che oggi bisogna rivolgere lo sguardo oltre le colline tortonesi per trovare il presente del Riesling italico. Il futuro è tutto da scrivere. Chi comincia?
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 16 anni, tra carta stampata e online, dirigo oggi winemag.it, testata unica in Italia per taglio editoriale e reputazione, anche all’estero. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Segno Vergine allergico alle ingiustizie e innamorato del blind tasting, vivo il mestiere di giornalista come una missione per conto (esclusivo) del lettore, assumendomi in prima persona, convintamente, i rischi intrinsechi della professione negli anni Duemila. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Regole di produzione più restrittive e un nuovo nome: Oltrepò Docg Metodo Classico, senza “pavese“. Se da un lato l’Assemblea dei soci del Consorzio Tutela Vini Oltrepò pavese semplifica la comunicazione delle proprie “bollicine”, dall’altro introduce importanti novità verso il riconoscimento qualitativo internazionale. In particolare, la raccolta delle uve atte alla spumantizzazione (Pinot Nero e Chardonnay, ma anche Pinot Grigio e Pinot Bianco) dovrà essere manuale e in cassetta. Introdotta poi la tipologia “Riserva“, con almeno 48 mesi di permanenza sui lieviti.
Le modifiche al disciplinare della Denominazione di origine controllata e garantita sono state votate a maggioranza dai soci riunitisi martedì 6 dicembre 2022, presso la sala Gallini di Riccagioia a Torrazza Coste (PV).
IL COMMENTO DI VERONESE E FUGAZZA
«Il territorio – spiega Carlo Veronese, direttore del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese – ha approvato modifiche importanti per il futuro della denominazione al vertice della piramide qualitativa dell’Oltrepò, in un’assemblea caratterizzata da un clima sereno e costruttivo. Inizieremo subito a lavorare per dare attuazione alle richieste dei soci e poter inviare, nel più breve tempo possibile, alla Regione Lombardia la documentazione necessaria all’approvazione di Regione Lombardia, Masaf e Commissione Europea».
Soddisfazione anche da parte della presidente del Consorzio, Gilda Fugazza, che tocca anche altri argomenti: «Questo lavoro molto tecnico – ha dichiarato – è frutto di un percorso che parte da lontano, dai Tavoli dedicati alle Denominazioni e non è di fatto ancora finito. Da presidente mi auguro che in futuro la burocrazia che condiziona le “buone” pratiche del mondo della viticoltura e non solo si snellisca. E, soprattutto, sia più connessa alle esigenze dell’attualità, condizionata pesantemente da variabili che ci impongono la vera resilienza e capacità di affrontare gli imprevisti».
La recente modifica al disciplinare di produzione dei vini a Denominazione di origine controllata e garantita “Oltrepò pavese” Metodo classico – Doc dal 1970 e Docg dal 2007 – arriva a distanza di quasi 10 anni dall’ultimo ritocco, approvato dal Mipaaf tramite il D.M. 7/03/2014.
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«Con l’approvazione del disciplinare di certificazione nazionale della sostenibilità della filiera vitivinicola da parte del Ministero delle Politiche Agricole, l’Italia è il primo Paese a dotarsi di un sistema all’avanguardia e al passo con i tempi». Lo dichiara il deputato Filippo Gallinella (M5S), presidente della commissione Agricoltura.
Gallinella è il primo firmatario dell’emendamento che ha istituito il sistema unitario di certificazione della sostenibilità della filiera vitivinicola, che utilizza le modalità del Sqnpi (Sistema di Qualità Nazionale di Produzione Integrata).
UN LOGO PER LA SOSTENIBILITÀ DEL VINO
Attraverso un logo distintivo, i vini italiani potranno certificare e comunicare di essere realizzati seguendo specifiche regole di produzione che diano importanza e attenzione ai relativi impatti ambientali.
«Giunge così a compimento – prosegue Gallinella – il percorso tracciato dalla norma che abbiamo voluto introdurre nel Decreto Rilancio, che raccoglie il lavoro compiuto negli ultimi anni dall’intera filiera del vino nel solco delle principali strategie comunitarie Green Deal e Farm to Fork».
Un valore aggiunto per il comparto vitivinicolo nazionale, leader nel mondo, e un fattore rilevante per i consumatori e il mercato, anche in questo momento in cui sembra che le tematiche relative alla sostenibilità ambientale siano passate in secondo piano, dinanzi ai drammatici scenari internazionali».
«ADEGUATO REDDITO AGRICOLO»
Attraverso il lavoro del CoSVi (il comitato della sostenibilità vitivinicola a cui partecipano Mipaaf, Regioni, Crea, Accredia e, a titolo consultivo, i produttori) sono state messe a sistema «le buone pratiche da seguire in campo e in cantina per garantire il rispetto dell’ambiente, la qualità e la sicurezza alimentare, la tutela dei lavoratori e dei cittadini e un adeguato reddito agricolo».
Nell’attesa che si completi il processo di integrazione dei diversi sistemi di certificazione, si utilizzeranno procedure e standard previsti dal Sqnpi.
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Grandi manovre in Umbria attorno al Sagrantino di Montefalco. In futuro, il noto vino rosso Docg potrebbe essere prodotto anche senza affinamento in legno, aprendo le porte a contenitori come l’anfora. Favorevole a questa ipotesi una buona parte dei produttori, che ha avanzato la richiesta di modifica del disciplinare.
«Non c’è ancora nulla di deciso», precisa a WineMag.it Filippo Antonelli, presidente del Consorzio di Tutela Vini Montefalco. «Se da un lato il mondo sta andando proprio in quella direzione – continua – dall’altra parte qualche cantina è preoccupata per il segnale che si potrebbe dare e come verrebbe recepito dai consumatori».
Vero è che il Sagrantino è una varietà che non ama l’esagerazione con il legno. Con quello grande si può già ovviare a questo problema. La questione, insomma, è molto dibattuta.
Proprio per questo – conclude Antonelli – il Consorzio non è ancora giunto a una decisione. Sono in programma diversi incontri nei prossimi mesi. Entro il prossimo autunno avremmo un responso».
DEVIS ROMANELLI TRA I FAVOREVOLI
«Dobbiamo per forza passare in legno il Sagrantino di Montefalco?», si chiede Devis Romanelli (nella foto sopra), uno dei vignaioli favorevoli alla modifica del disciplinare. La risposta è secca: «No».
In occasione degli incontri con la stampa previsti nell’ambito dell’Anteprima 2021 – appena conclusasi in Umbria con la presentazione dell’annata 2017, qui i migliori assaggi – il vignaiolo di Colle San Clemente ha chiarito la sua visione.
Secondo Romanelli, anche il legno esausto condiziona il Sagrantino. Attraverso la degustazione di alcune prove di vini dell’annata 2020, serviti in contenitori in pet, Romanelli ha dimostrato come il giovanissimo Sagrantino non abbia tannini tanto più aggressivi di quelli del Sangiovese, utilizzato per il Rosso di Montefalco.
Sarebbe dunque l’affinamento in legno a stressare questa componente, facendo risultare i vini ancora più duri. L’ideale è «aggiungere quanto meno possibile», per rendere il Sagrantino godibile nel tempo, secondo le caratteristiche intrinseche dell’uva e non dell’affinamento.
I PIONIERI DI TERRE SAN FELICE
Della stessa idea di Devis Romanelli è Terre San Felice, piccola cantina artigianale di Castel Ritaldi che sta effettuando prove di affinamento del vitigno Sagrantino in anfora. Si tratta di contenitori di terracotta naturale, non vetrificati, provenienti dalla Toscana, per l’esattezza da Impruneta.
«È una scelta dettata dalla crescente attenzione dei consumatori nei confronti di questo tipo di vinificazione – commenta a WineMag.it l’enologo Andrea Pesaresi (nella foto sopra)- nonché dalla mia esperienza con le anfore maturata in altre cantine come Annesanti e Ninni».
Soprattutto non sono un amante del legno – continua – così come i titolari di Terre San Felice, Carlo e Douchanka Mancini. Siamo convinti che perdere tutto quel frutto, ovvero il grande lavoro della vigna, portato in cantina al solo scopo di valorizzarlo nella sua integrità, sia davvero un peccato».
«La proposta di rendere facoltativo l’uso del legno – aggiunge Pesaresi – va proprio in questa direzione e aprirebbe le porte a tipi di affinamenti alternativi, capaci di esaltare le caratteristiche del Sagrantino giovane. Un’uva che ha bisogno di essere “ammorbidita”, ma non per forza con le tecniche attualmente previste dal disciplinare».
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Dopo aver speso l’ultimo biennio a promuovere in giro per l’Europa e per il mondo il brand regionale, l’Umbria si prepara a “comparire” anche sulle etichette dei suoi vini simbolo. Grazie alle modifiche in vista sui disciplinari di produzione, in primis quello del Sagrantino di Montefalco Docg, la parola “Umbria” potrà essere usata dai produttori sull’etichetta dei vini rossi e bianchi per connotarne ancor più l’origine.
L’intenzione del Consorzio tutela Vini Montefalco, come rivela in anteprima a WineMag.it il presidente Filippo Antonelli, è dare seguito al lavoro compiuto dalle autorità regionali per la promozione del brand “Umbria”. Una novità che interesserà anche i vini della zona annessa di recente al Consorzio, quella di Spoleto.
La possibile modifica dei disciplinari di produzione necessaria per poter inserire su base facoltativa la parola ‘Umbria’ in etichetta – commenta Antonelli – è frutto di un’idea nata dal lavoro congiunto con Regione Umbria, per la promozione delle denominazioni di Montefalco e Spoleto soprattutto sul mercato svizzero e tedesco».
Quella del Consorzio umbro non è una scelta isolata nel panorama del vino nazionale italiano. Tra gli ultimi ad aver introdotto la novità a livello italiano ed europeo, nel luglio 2020, c’è l’ente di tutela del Vino Nobile di Montepulciano Docg.
La parola “Toscana” deve infatti comparire non solo sulla Docg, ma anche sulle etichette di Rosso di Montepulciano Doc e Vin Santo di Montepulciano Doc. Un modo in più per distinguere – da quelle abruzzesi – le produzioni toscane che rimandano al “Montepulciano”. Scelta simile anche in Sicilia, che da anni investe sul proprio brand regionale.
IL BILANCIO DEL 2020
In merito invece all’anno appena concluso, le Denominazioni del vino dell’Umbria possono tirare, tutto sommato, un sospiro di sollievo. «I numeri relativi agli imbottigliamenti e alle fascette consegnate – rivela ancora Filippo Antonelli a WineMag.it – dicono che i nostri vini hanno retto piuttosto bene all’urto della pandemia Covid-19, segnando sì un ridimensionamento, ma non drammatico».
Determinante a risollevare le sorti è stata l’estate 2020, in cui abbiamo lavorato parecchio con il turismo locale. Per fortuna i nostri vini possono affinare a lungo, salvo il Grechetto, proposto in larga maggioranza come vino di pronta beva.
Persino il Trebbiano Spoletino, largamente insufficiente a coprire le richieste mercato, guadagna in complessità nel tempo. Il 2020, in definitiva, è stato un anno duro dal punto di vista finanziario, ma a livello di credito e aiuti, lo Stato ha messo a disposizione delle imprese qualche strumento utile.
E il 2021 come è iniziato? «L’Europa del Nord un po’ si muove – commenta Antonelli – e anche gli Stati Uniti mostrano qualche segnale incoraggiante, seppur ancora timidamente. Sono sicuro ci sarà un grande boom e un grande interesse attorno al vino quando usciremo dalla pandemia: si tratta di tenere duro fino a quel giorno».
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“Modifiche storiche al disciplinare dell’Asti Spumante e del Moscato d’Asti Docg“. Così, il Consorzio per la tutela dei vini piemontesi, definisce le novità approvate dal Ministero dell’Agricoltura. Il provvedimento introduce nuove tipologie dell’Asti Spumante, oltre a modificare il residuo zuccherino e a riconoscere il valore delle singole vigne, riconosciute dal 2014 Patrimonio dell’Umanità.
Ecco dunque, oltre a Demi Sec, Secco/Dry ed Extra Dry, anche l’Asti Spumante Docg Brut, Extra Brut, Brut Nature e Pas Dosé. Sia il Metodo Martinotti sia il Metodo Classico potranno usufruire della menzione delle sottozone “Santa Vittoria d’Alba” e “Strevi”, due delle storiche enclave delle provincia di Cuneo e di Alessandria in cui si coltiva il Moscato bianco.
Prevista infine l’estensione a tutte le tipologie di Asti Spumante, Moscato d’Asti e Moscato d’Asti vendemmia tardiva dell’uso del termine “vigna“, seguito da toponimo o nome tradizionale. Nel complesso, le denominazioni interessate immettono sul mercato 85 milioni di bottiglie annue, con 9.700 ettari di vigneto.
“Questi – commenta Romano Dogliotti, presidente del Consorzio dell’Asti e del Moscato d’Asti Docg – sono importanti riconoscimenti al nostro territorio e a un paesaggio che non a caso , primo in Italia, l’Unesco dichiarò Patrimonio dell’Umanità. Ora questo orgoglio legato alla nostra terra potrà firmare anche le nostre etichette. In un mercato sempre più competitivo e che rischia l’omologazione è una differenziazione non da poco”.
“L’estensione naturale delle tipologie – aggiunge Dogliotti – favorisce la varietà degli Asti Spumante dalla versione più conosciuta ‘Dolce’. L’obiettivo primario è quello di andare incontro a un gusto sempre più differenziato dei consumatori offrendo un ventaglio più ampio di possibilità”.
“Non è solo un aspetto tecnico – rileva Giacomo Pondini, direttore del Consorzio -. Le aziende che producono e credono nelle tipologie ulteriori rispetto all’Asti Docg ‘Dolce’, hanno ora la possibilità di valorizzare il vitigno aromatico per eccellenza, il Moscato bianco, tra la gamma completa di residui zuccherini del nuovo disciplinare”.
“Uno strumento utilissimo dal punto di vista commerciale – conclude il direttore del Consorzio dell’Asti e del Moscato d’Asti Docg – per raggiungere gli estimatori di questa uva e dei nostri territori, in tutto il mondo. Una chance in più che siamo convinti sarà apprezzata e utilizzata al meglio”.
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Squilla a lungo il telefono di Cantina Toblino, prima che qualcuno alzi la cornetta. L’interno è quello dell’amministrazione. Una voce femminile rompe il silenzio del centralino di via Longhe 1, a Sarche di Madruzzo (Trento): “Provo a passarle il direttore” (Carlo De Biasi, ndr). Pochi secondi per rimbalzare l’ospite sgradito. “Non siamo interessati a queste cose“, taglia corto la voce femminile.
“Queste cose” sono il licenziamento in tronco dei due enologi Lorenzo Tomazzoli e Marco Pederzolli. Fatti fuori dalla cooperativa guidata dal presidente Bruno Luterotti, stando alla ricostruzione dei winemaker, per aver declassato circa 2.500 quintali di uve destinate alla produzione di alcuni vini IgtVigneti della Dolomiti: Nosiola, Schiava e Müller-Thurgau provenienti dai vigneti di 600 soci, nella Valle dei Laghi.
Un provvedimento impugnato dai due enologi, decisi a far valere le loro ragioni. Il licenziamento in tronco, di fatto, è stato deciso “per giusta causa“. Un duro colpo soprattutto per Tomazzoli, a Cantina Toblino da quasi 40 anni.
È il suo braccio destro Pederzolli a chiarire i contorni della vicenda, in una lettera inviata a WineMag.it condivisa in toto con il veterano Tomazzoli: “Secondo l’azienda – spiega l’enologo – avremmo dovuto adottare un’interpretazione diversa dal solito per alcune partite di uve, abbassando da 9 a 8,50% vol la gradazione minima naturale utile per essere rivendicate come Vigneti delle Dolomiti Igt, al posto di essere declassate alla produzione di vino da tavola”.
Sino a quel momento, secondo i due enologi, a Cantina Toblino non erano mai stati accettati gradi inferiori al 9% vol per l’Igt, nonostante il disciplinare dell’indicazione geografica non imponga soglie minime. Un motivo di vanto per la cooperativa, che al contempo assicurava una corretta remunerazione delle uve ai soci viticoltori virtuosi, senza ricorrere all’arricchimento in cantina.
“Ponendo di partire dai 10% vol prescritti per legge per il consumo dell’Igt Vigneti delle Dolomiti – continua Pederzolli – avremmo dovuto procedere, come mai fatto prima, a un eventuale arricchimento fino a 1,50% vol delle uve giunte in cantina a 8,50% vol. Una pratica lecita, ma mai effettuata prima, in difesa della qualità della produzione”.
Pederzolli non è in grado di stabilire a quanto ammonti il danno arrecato da questa scelta. Anzi, rincara la dose ai microfoni di WineMag.it: “Credo di essere oggettivo nell’affermare che il danno posto alla base del nostro licenziamento non esista affatto, dal momento che la vendita del vino come Igt o come vino da tavola, in canali interni all’azienda, avrebbe generato valori molto simili. L’azienda, peraltro, non hai mai parlato di cifre”.
La lettera di contestazione che preannunciava il licenziamento è stata notificata ai due enologi di Cantina Toblino alla fine di settembre. La coppia di winemaker, sentendosi in trappola, ha deciso di ingaggiare uno dei migliori avvocati giuslavoristi su piazza, Osvaldo Cantone del Foro di Verona (studio legale Menichetti).
La risposta dei due enologi è arrivata nei tempi previsti sulla scrivania del presidente Bruno Luterotti e del direttore generale Carlo De Biasi. “Abbiamo chiesto un’audizione orale di fronte al Cda, che si è sempre negato, mandando avanti l’avvocato. Non avremmo chiesto pietà o uno sconto di pena, ma quantomeno di essere ascoltati”, continua Pederzolli.
Per meglio comprendere quanto accaduto, l’enologo ricorre a un esempio figurato. “Mettiamo il caso che un trasportatore percorra un tratto urbano. Qui il limite di velocità non è segnalato, ma è risaputo essere di 50 km/h. Il trasportatore conduce il veicolo a 49,99 km/h, ma si vede contestare di non aver transitato a 55 km/h, esistendo probabilmente una tolleranza, ed avendo quindi creato un danno alla ditta per il ritardo che ha accumulato andando più prudente”.
Se poi avesse preso una multa o causato un incidente? A questo proposito i vertici di Cantina Toblino hanno sempre tenuto a ribadire che ‘chi sbaglia paga’. La contestazione viene mossa praticamente per ‘eccesso di zelo’ agli esecutori diretti o indiretti”.
“Nulla viene invece addebitato al direttore generale – continua Marco Pederzolli – più volte intervenuto nella gestione dei gradi minimi delle bolle, o al consulente incaricato dal Cda nella vendemmia 2017 (e anche dopo) di controllare ed impostare il funzionamento della contabilità vitivinicola”.
Inoltre si prescinde dal fatto che tutti, ivi compreso il Presidente e l’intero Cda avessero piena conoscenza circa l’operato oggetto di contestazione visto che era espressamente previsto nel regolamento di conferimento per soci e delegati dai soci”.
“Il grado minimo delle uve – continua l’enologo trentino – garantisce, attraverso il vinificatore, la migliore qualità possibile del prodotto al consumatore, tutelando l’immagine della maison e del territorio di cui porta il nome”.
Pederzolli rivolge alla sua ormai ex azienda una domanda: “Quale immagine dei ‘Vigneti delle Dolomiti’ passa al consumatore con un vino prodotto da uve a soli 8% vol? In questo caso meglio la denominazione generica ‘Vino Bianco’ o ‘Vino rosso’, che comunque i normali canali di vendita aziendali sono in grado di valorizzare nel prezzo”.
Carlo De Biasi, direttore di Cantina Toblino
I due enologi, di fatto, si sentono vittime di questa vicenda e non colpevoli: “La questione è un pretesto creato in ‘laboratorio’, sottoposto solo a cose fatte al Cda, il quale, ritengo in modo discutibile, non ha ritenuto di sentire altri punti di vista. La partita era già chiusa prima di essere aperta, poco importa delle giustificazioni addotte, e doveva essere messa via il più rapidamente possibile”.
Poi, alcune considerazioni più generali: “Secondo me la posta in gioco non è solo liberare i posti di due ‘rompi’. Ritengo che, alla vigilia del rinnovo di tutto il Cda, serva un capro espiatorio per ‘coprire’ la decisione arbitraria della cantina di pagare 40 €/q.le l’uva sotto i 14,20 babo (9 %vol), quindi Nosiola, Müller-Thurgau e Schiava.
Evidentemente questo ha messo in difficoltà i viticoltori eroici dei vitigni emblema della Valle dei Laghi che, con il precedente sistema di pagamento, potevano almeno coprire i costi di produzione”.
La situazione, a Sarche di Madruzzo, sarebbe agitata. “Se si conferma il trend dell’anno scorso – attacca Pederzolli – l’attuale presidenza potrebbe trovare un fronte critico alla prossima assemblea dei soci. Creando ad arte un motivo di preoccupazione si libera il campo da possibili outsider verso la riconferma”.
“Il più prestigioso e prezioso vignaiolo collettivo espresso dal Trentino’ – continua – oggi dimostra una triste similitudine con il Titanic. Tutti abbiamo in mente lo splendido ‘Transatlantico’ di quattro anni fa (2016)”.
Il lungo umile lavoro degli ‘Uomini della Toblino’ ha costruito in 50 anni di storia una azienda ben organizzata, con due società controllate (per gestire azienda agricola ed osteria) ambiziose ed in sostanziale equilibrio. Stiamo ancora apprezzando la qualità di vini buoni venduti ad un giusto prezzo, in decisa corsa verso il bio”.
“Da tempo il Titanic però ha cozzato nell’iceberg – continua Pederzolli – e sta calando su un fianco. Calano i prezzi delle uve, nonostante siano aumentate le liquidazioni del consorzio di secondo grado o le cantine consorelle migliorino le performance di bilancio”.
Per la prima volta è iniziata una fuga di soci verso altre cooperative dove, oltre alle migliori liquidazioni, possano trovare la disponibilità ad affrontare serenamente le situazioni che la produzione viticola propone. Le due società controllate sono entrate in una fase di pesante perdita di bilancio”.
Durissima anche la chiosa dei due enologi licenziati da Toblino: “L’orchestra continua a suonare sulle note di ‘circolari soci’ autocelebrative, post, foto che ritraggono un paesaggio ormai passato. E quando due marinai lanciano l’allarme, il capitano preferisce farli fuori e buttarli a mare, calpestandone la dignità di persone e lavoratori”.
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EDITORIALE – C’è una nuova, preoccupante deriva che interessa lo spumante del Veneto per eccellenza, ovvero il Prosecco. La recente approvazione della modifica del disciplinare che dovrebbe autorizzare, dal mese di ottobre 2020, la commercializzazione del Prosecco Rosé, sta già avendo risvolti devastanti per l’immagine della nuova tipologia “in rosa” della Doc Prosecco.
Il web, infatti, è inondato di decine di proposte di “Prosecco Rosé”. Si tratta in realtà di spumanti rosati comuni, che non possono fregiarsi della Denominazione di origine controllata in questione, riservata solo ai Martinotti (Metodo italiano o Charmat) prodotti in Veneto e in Friuli Venezia Giulia.
In alcuni casi, la dicitura “Prosecco Rosé” viene addirittura accostata al Prosecco Superiore di Conegliano Valdobbiadene, Docg che non ha nulla a che fare col via libera alla tipologia “Prosecco Rosé” da parte del Comitato Nazionale Vini del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, che riguarda appunto solo la Doc.
Per dirla tutta, più che a una nuova deriva siamo di fronte a una vera e propria involuzione del marketing legato al noto spumante italiano. Se fino a ieri non si poteva usare la formula “Prosecco Rosé“, perché ancora non ufficialmente approvato il matrimonio tra Glera e Pinot Nero, le nozze tra i due vitigni hanno aperto le porte ai farabutti del web, pronti a sfruttare la leva della notorietà del brand “Prosecco” per spingere le vendite di qualsiasi altro spumante rosato.Caso eclatante quello che appare sull’e-commerce “Negozio del vino“, dove il Vsq Rosé Brut “Faìve” della nota cantina Nino Franco di Valdobbiadene viene “spacciato” per Prosecco Doc Rosé (nel link, nel titolo e nella scheda descrittiva) pur essendo prodotto con uve Merlot e Cabernet Franc vinificate in rosa.
Più ingegnoso un altro e-commerce, “Wine Point“. Qui, il Vsq Rosé Brut “Roseo” della cantina Le Manzane di San Pietro di Feletto (TV) viene descritto come “Prosecco Superiore Metodo Charmat”. Non solo: viene utilizzato il vecchio nome della Glera, ovvero Prosecco, per trarre in inganno l’ignaro consumatore.
“La qualità del prodotto – si legge – è certificata dall’uso in prevalenza di uvaggio Prosecco, nella sua qualità autoctona Glera, che compone il 95% dell’etichetta. Il restante 5% deriva invece da uve Merlot, che vanno a conferire il classico colore rosato all’etichetta”. Lo stesso avviene per il Brut di Pinot della cantina Ruggeri.
Segue a ruota l’e-shop di vino online “BierreStore“, che nel pubblicizzare il Brut Rosato “Il Fresco” di Villa Sandi, parla di “Prosecco Rose”. Manca l’accento, ma il senso è quello e gioca sulla scarsa esperienza del consumatore che si imbatte nella scheda, per l’acquisto.
Vale la pena di citare anche il caso, sottile, del presunto “Prosecco Valdobbiadene Brut Rosé Doc” della cantina Col Sandago, tra i veri e propri fake che interessano la nuova tipologia del Prosecco Doc. Tutto, sin dal link, riconduce al taroccamento da parte dell’e-commerce “Di-vinità – di cibo, vino e altre storie“. Ecco, sono le “altre storie” che preoccupano chi ha a cuore il Made in Italy.
Concludo con un appello: la redazione di WineMag.it invita i lettori a segnalare ai Consorzi di Tutela tutti i link alle recensioni di “non Prosecco”, nonché di “Prosecco Rosé” tarocco scovate sul web. Questi gli indirizzi email a cui rivolgersi: info@consorzioprosecco.it e info@prosecco.it. Cin, cin.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 16 anni, tra carta stampata e online, dirigo oggi winemag.it, testata unica in Italia per taglio editoriale e reputazione, anche all’estero. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Segno Vergine allergico alle ingiustizie e innamorato del blind tasting, vivo il mestiere di giornalista come una missione per conto (esclusivo) del lettore, assumendomi in prima persona, convintamente, i rischi intrinsechi della professione negli anni Duemila. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
“Salvaguardare la reputazione e la riconoscibilità di uno dei vini simbolo del made in Italy nel mondo, l’Amarone della Valpolicella, attraverso la zonazione e la differenziazione di resa e cernita tra le aree collinari e di pianura“. È una vera e propria revisione del disciplinare di produzione del re dei vini della Valpolicella quella che chiedono le Famiglie Storiche. Una reazione decisa alle recenti misure intraprese dal Consorzio Tutela Vini della Valpolicella, anche a fronte dell’emergenza Covid-19.
Alberto Zenato, presidente dell’Associazione che complessivamente commercializza 2,2 milioni di bottiglie di Amarone, circa il 16% della produzione totale, per un fatturato complessivo di 70 milioni di euro, il 20% del totale delle vendite della Docg, di cui l’80% destinate all’export, non gira attorno al concetto.
È necessaria una differenziazione di resa e di conseguenza di cernita tra le aree collinari e di pianura. Siamo favorevoli a rese di 100 quintali per ettaro con una maggiore cernita di uva per Amarone nelle zone collinari, e a rese di 120 quintali per ettaro con una minor cernita in quelle pianeggianti”.
La collina, infatti, è maggiormente predisposta alla cernita perché, ricordano le Famiglie Storiche, “l’ambiente è più ventilato e quindi l’uva posta a riposo nel fruttaio è meno soggetta alle patologie”. In pianura, invece, dove i terreni sono più fertili, “si possono ottenere produzioni maggiori ma con un rischio superiore di incorrere in patologie che possono compromettere la qualità delle uve”.
Ci siamo sempre battuti e continueremo a farlo per la valorizzazione delle zone più vocate alla produzione dei grandi rossi della Valpolicella – evidenzia Zenato – e per questo riteniamo indispensabile la zonazione, per ridefinire attraverso un approccio multidisciplinare i fattori caratteristici di un terroir che ha una vocazionalità antichissima alla coltivazione della vite, e che oggi rischia di risentire di scelte che tengono conto solo del rapporto tra domanda e offerta, senza proporre nel contempo iniziative idonee a migliorare la qualità del prodotto”.
Alberto Zenato e le Famiglie Storiche ritengono sia “ormai imprescindibile una visione di lungo termine“. “Non possiamo dover gestire continuamente cambiamenti tecnici in corso d’opera – spiega l’associazione – perché in questo modo si danneggiano soprattutto i produttori che avrebbero invece bisogno di indicazioni chiare e stabili nel tempo per poter lavorare con maggior serenità e garantire la qualità dei propri prodotti”.
Tutto ciò mette a rischio l’equilibrio fisiologico della vigna stessa, oltre che la qualità del vino. È una questione di responsabilità nei confronti del territorio, da cui tutti dipendiamo, e nei confronti di tutti i produttori che qui hanno investito dai tempi più remoti”.
L’Associazione auspica una revisione condivisa dei disciplinari della Valpolicella: “Riteniamo che sia fondamentale riunire intorno a un tavolo tutti gli attori del mondo vitivinicolo del territorio e aggiornare il disciplinare, tenendo conto del consistente ampliamento delle superfici vitate soprattutto nella parte orientale della denominazione Valpolicella con conseguente aumento delle giacenze dei vini. Dobbiamo, inoltre, considerare le differenze qualitative tra le aree di collina e quelle di pianura in base alle nuove esigenze e tempistiche produttive”.
Conclude Zenato: “I nostri associati ricevono ogni anno attestazioni nazionali ed internazionali che testimoniano una produzione d’eccellenza che rappresenta un valore aggiunto importante anche sul piano economico nazionale. Abbiamo dato vita a questa Associazione proprio per contribuire a diffondere questo patrimonio con impegno, in Italia e nel mondo, e strenuamente intendiamo difenderlo”.
Alle Famiglie Storiche aderiscono le aziende venete Allegrini, Begali, Brigaldara, Guerrieri Rizzardi, Masi, Musella, Speri, Tedeschi, Tenuta Sant’Antonio, Tommasi, Torre d’Orti, Venturini e Zenato.
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Barolo col tappo a vite o, meglio, “Screwcap of stelvin type”. La richiesta è stata messa nero su bianco in un tender del Monopolio della Svezia. Lo Systembolaget, ovvero la rete di 445 negozi che controlla la vendita di alcolici nel Paese scandinavo, chiede mille bottiglie del vino simbolo del Piemonte, vendemmia 2014, 2015 o 2016, rigorosamente “tappate” a vite. È disposto a pagarle tra le 500 e le 999 corone svedesi (Sek): tradotto, tra i 45,54 e i 90,98 euro. Il prezzo di un ottimo Barolo, col tradizionale tappo in sughero. Nessuna operazione al ribasso, dunque.
Quella dello screwcap sul Barolo appare la scelta di un mercato pronto, su tutti i fronti. Consumatori e professionisti del settore (buyer, sommelier, enotecari) sembrano aver ormai digerito tutte le perplessità legate al tappo a vite. Tanto da accettarlo anche su vini rossi da lungo affinamento. Senza storcere il naso.
Il tender del Monopolio svedese contiene tuttavia un errore e dovrà essere riformulato per trovare qualche temerario vignaiolo di Langa disposto a soddisfarne le richieste. Il disciplinare del Barolo Docg, infatti, permette l’utilizzo del tappo a vite solo sui vini senza menzioni, come “base” e “riserva”.
Lo stelvin è vietato, invece, come metodo di tappatura dei Barolo in cui sia presente in etichetta una menzione di “vigna“, una menzione geografica aggiuntiva (Mga) o una menzione comunale.
Al contrario di quanto avvenuto in altri Consorzi italiani – Brunello di Montalcino e Amarone della Valpolicella, per citare altri due vini rossi italiani da lungo affinamento – nelle Langhe non ha raggiunto il quorum l’assemblea del Consorzio chiamata a recepire le indicazioni dell’Unione europea, in materia di chiusure da adottare sui vini comunitari a denominazione (Regolamento Ue n. 1308/2013).
Un aspetto chiarito a WineMag.it dal presidente del Consorzio di Tutela del Barolo, Matteo Ascheri: “Il Barolo con il tappo a vite è ammesso, in quanto il disciplinare di produzione non prevede limitazioni di sorta. I produttori stessi, una decina di anni fa, sono stati chiamati ad esprimersi in merito, ma l’assemblea convocata a riguardo non ha raggiunto il numero legale e quindi si è ammessa una liberalizzazione totale sulle chiusure“.
“Il futuro del Barolo – commenta ancora Ascheri (nella foto, sopra) – non è tuttavia legato al tappo a vite. Tale chiusura può essere ottima per vini con evoluzione breve, ma può dare problemi per vini destinati ad un lungo invecchiamento in bottiglia”.
Altre chiusure alternative al sughero naturale, come il sughero polverizzato e trattato o simili – aggiunge Ascheri – possono rappresentare il giusto compromesso tra neutralità della chiusura e potenziale evolutivo del vino. Oltre a garantire il 100% delle bottiglie prodotte, consentono di salvaguardare il percepito del cliente finale. Un aspetto che non è da sottovalutare”.
Quanto al tender dei Monopoli scandinavi: “Il più delle volte riscontriamo richieste estemporanee, quasi ‘umilianti’ per i produttori – chiosa il presidente del Consorzio piemontese – a volte assurde. Sono mercati importanti anche se ancora relativamente giovani, con consumatori attenti e alla ricerca di prodotti come i nostri. Dispiace che i Monopoli, che sono l’intermediario principale su quei mercati, rappresentino una interlocuzione a volte difficile e contrastante per i produttori stessi”.
Non occorre andare troppo lontano dal territorio d’elezione del Barolo per trovare, invece, grande entusiasmo nei confronti del tender targato Systembolaget. “Il Barolo col tappo a vite – commenta Gianluca Morino, vignaiolo Fivi di Cascina Garitina, a Castel Boglione (AT) – può aprire nuovi scenari per tanti vini e invogliare tanti altri produttori a usare un tappo sicuro”.
“Personalmente estenderei la possibilità di utilizzare lo ‘screwcap of stelvin type‘ anche ai vini con menzione vigna, geografica o comunale – aggiunge Morino – motivo per il quale il tender del mercato svedese dovrà essere modificato per trovare recepimento in Langa. Una forzatura dettata dal fatto che, spesso, i buyer non conoscono i disciplinari con precisione e avanzano richieste insoddisfabili”.
Per aggirare questo ostacolo, Gianluca Morino, così come altri produttori che utilizzano il tappo a vite in Italia, evitano la “menzione” in etichetta. “Sul mio Nizza Docg ‘900’ appare la scritta ‘Margherita‘ come nome di fantasia, ma in realtà si tratta della ‘Vigna Margherita’. Un escamotage che vorrei evitare di usare, se solo le normative me lo consentissero”.
Entusiasta del tender svedese anche un altro strenuo sostenitore del tappo a vite, il re del Timorasso Walter Massa. “Se sommelier, degustatori e importatori del Monopolio scandinavo hanno avanzato una simile richiesta – ipotizza il vignaiolo di Monleale – è certamente perché avranno avuto riscontri positivi sulla tenuta della denominazione, dopo aver effettuato appositi test in loco, ritappando dei Barolo almeno negli ultimi 15 anni“.
“Questo tender rivoluzionario – continua Massa, che a gennaio ha presentato il tappo a vite ‘intelligente’ sui suoi Derthona 2018 – è certamente la risposta dettata da risultati e degustazioni tecniche, ben oltre la mera richiesta del mercato: sfido chiunque a sostenere che gli svedesi propongano ai loro consumatori un vino ‘tarocco’, risultando responsabili in prima persona di questa scelta”.
Si tratta di un’operazione di grande rispetto nei confronti del consumatore finale – aggiunge – oltre che nei confronti del vino e della denominazione. Sono pronto a partire per Stoccolma e offrire al primo produttore di Langa che aderirà a questo tender una bottiglia del suo vino, appena sarà sul mercato!”.
“Anche perché – chiosa Massa – sono stufo di sentir dire che il Derthona è il Barolo bianco. Quest’auspicabile apertura del Barolo al tappo a vite fungerebbe da reale trait d’union tra un vino bianco e un grande vino, per dimostrare che anche i vini bianchi sono grandi vini, capaci di affinare a lungo nel tempo”.
Grande entusiasmo anche in Alto Adige, alla corte di un altro produttore simbolo della battaglia per la diffusione del tappo a vite in Italia: “Sono ormai sono 14 anni che lavoriamo con lo screwcap – commenta Franz Haas (nella foto, sopra) – ovvero dal 2006, senza essercene ancora pentiti. Anzi! Lo usiamo anche per vini importanti e abbiamo le prove che sia di gran lunga migliore del sughero, eliminandone tutte le influenze negative”.
In questi giorni di lockdown dettato dai decreti volti a contenere Covid-19, Haas sta approfittando per assaggiare vecchie annate in cantina. Tappate proprio con lo stelvin. “Ieri sera, in famiglia – rivela a WineMag.it – abbiamo aperto un Pinot Nero del 2001 risultato in condizioni straordinarie: sembrava Borgogna! Più passa il tempo, più il tappo a vite esalta il vino in bottiglia, compresi i vini rossi da invecchiamento”.
“Ben venga se qualcuno, anche in Langa, voglia cogliere l’opportunità di un tender del mercato scandinavo – conclude Haas – contribuendo a propagare la cultura di questa tecnica di tappatura. Più siamo e più importanti sono i vini tappati a vite, prima ci libereremo delle rogne legate al sughero”. Che la Svezia sia foriera di rivoluzioni?
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 16 anni, tra carta stampata e online, dirigo oggi winemag.it, testata unica in Italia per taglio editoriale e reputazione, anche all’estero. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Segno Vergine allergico alle ingiustizie e innamorato del blind tasting, vivo il mestiere di giornalista come una missione per conto (esclusivo) del lettore, assumendomi in prima persona, convintamente, i rischi intrinsechi della professione negli anni Duemila. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Da un lato l’idea di valorizzare una grande uva a bacca bianca, nella terra del rosso Sagrantino. Dall’altro la modifica al disciplinare, che consente l’utilizzo del Trebbiano Spoletino fino al 100%, per la produzione del Montefalco Bianco. Nasce così “Aria di Casa” 2018, l’ultimo arrivato di Tenuta Alzatura, cantina umbra della Famiglia (toscana) Cecchi.
L’etichetta farà il suo esordio ufficiale sul mercato ad aprile, in concomitanza con Vinitaly 2020. Ieri la presentazione a WineMag.it, in occasione del fitto calendario di eventi connessi ad Anteprima Sagrantino 2016, evento organizzato annualmente dal Consorzio Tutela Vini di Montefalco (24-25 febbraio).
“La famiglia Cecchi – spiega Alessandro Mariani, Agronomo di Tenuta Alzatura (nella foto, sotto) – ha pensato di investire a Montefalco nel 2000, in virtù dell’amore per questo territorio e per il suo grande vino, il Sagrantino. La recente modifica del disciplinare ci ha permesso di legare il nome di Montefalco a un’altra grandissima uva: il Trebbiano Spoletino, che condivide col Sagrantino le ottime doti di lungo affinamento nel tempo”.
Ecco spiegato perché il Montefalco Bianco di Tenuta Alzatura si chiama “Aria di Casa”. Da un lato Cecchi semplifica la comunicazione dello Spoletino, specie all’estero; dall’altro lancia la sfida agli altri produttori locali, proponendo l’idea di un alter ego “bianco” del Sagrantino di Montefalco. Ottenuto da un’uva autoctona di elevato profilo.
Un progetto destinato a crescere nei prossimi anni. Per la prima annata (2018), Alzatura ha prodotto solo 3 mila bottiglie, in vendita in cantina a circa 11 euro. La vendemmia 2019 darà 9 mila bottiglie. L’idea è di aggiungerne almeno altre mille per la vendemmia 2020, sul totale di circa 40 mila bottiglie della Tenuta umbra.
Raccolto in cassette dai vigneti in località San Marco, il Trebbiano Spoletino che dà vita al Montefalco Bianco 2018 “Aria di Casa” viene sottoposto a tavolo di cernita in seguito alla diraspatura.
Secondo i dettami degli enologi Miria Bracali ed Attilio Pagli, segue la pressatura soffice delle uve, il travaso in acciaio e l’inoculo dei lieviti selezionati per la fermentazione. Il vino atto a divenire “Aria di Casa” permane quindi in tonneau per circa 10 mesi, con bâtonnage settimanali, per i primi tre mesi circa.
Il nettare viene dunque imbottigliato, tra i mesi di aprile e maggio. Nel calice, il Montefalco Bianco 2018 di Tenuta Alzatura di presenta di un bel giallo paglierino luminoso. Al naso fiori di campo e richiami esotici, di frutta a polpa bianca e gialla. Non mancano ricordi di nocciola, derivanti dal legno.
È in ingresso di bocca che il Trebbiano Spoletino della Famiglia Cecchi sfodera tutta la sua tipicità. Un bianco di gran verticalità – determinata da salinità e freschezza – che chiude su ritorni cremosi, di nocciola, dettati ancora una volta dall’affinamento in legno.
Un vino che ha bisogno di qualche mese per iniziare a trovare la forma migliore, ma che mostra già le ottime prospettive di affinamento nel tempo (5 anni). Proprio nel solco dei migliori Trebbiano Spoletino.
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Un passo indietro, bello lungo. Sino al tempo dei Romani. Per farne cento avanti. Il Timorasso cambia nome (e disciplinare) e diventa Derthona. Un modo per legarsi a doppio filo col territorio d’appartenenza. Evocando l’antico nome di Tortona e blindando l’uvaautoctona Timorasso alla città dell’alessandrino e al suo circondario. Nel segno del claim “un vino, un territorio, un vitigno“.
Il Consorzio di Tutela Vini Colli Tortonesi, che attende entro la vendemmia 2020 il via libera dal Ministero per poter scrivere “Derthona” sulle bottiglie di Timorasso – oggi appare come “brand” – entra nella fase Due.Zero. Quella della consacrazione definitiva di un vino unico. Buono subito. Ottimo a partire dai 3 anni di vita.
Lo sa bene Walter Massa, il vignaiolo di Monleale (AL) che ha guidato la riscoperta del Timorasso, assieme a un manipolo di produttori piemontesi. Nel 1988, alla seconda prova di vinificazione, Massa si accorse che il vino dell’87 era più buono di quello appena messo in bottiglia. Stessa storia nell’89, con il vino dell’88. E così via.
Una propensione all’incomplessirsi, all’inspessirsi e a regalare emozioni nell’allungo che ricorda le volate di un ciclista simbolo dell’Alessandrino: l’Airone Fausto Coppi, nato nel tortonese e arrivato sul tetto del mondo come il Derthona, ormai presente sulle carte dei vini dei ristoranti stellati di mezzo pianeta. Da Milano a Shanghai.
Già, perché l’uva Timorasso dà vini “passisti”, capaci di arrampicarsi sulle lancette, in verticale, come Coppi sullo Stelvio. Belli da vedere e da bere dalla “borraccia”, da giovani. E da godere al cospetto di grandi piatti della tradizione italiana, con diversi anni sulle spalle. Un vino schietto, il Derthona. Che ai nastri di partenza mostra già dove vuole, anzi dove “può”, andare.
Poesia che si legge tra le righe e i tecnicismi dell’innovativo disciplinare, illustrato ieri al Museo Orsi di Tortona dal presidente del Consorzio, Gian Paolo Repetto. La sottozona Derthona è delimitata in verticale: “Conta l’altitudine per piantare, diversa per ogni Comune”, ha precisato Repetto.
Il grado alcolico minimo è di 12,5% per il “base” e di 13% per il Derthona Riserva. Il primo può essere messo in commercio dall’1 settembre dell’anno successivo alla vendemmia. Il secondo, invece, può essere venduto dall’1 marzo del terzo anno successivo alla vendemmia.
Incisivo il commento di Repetto su questa scelta: “Quando solitamente si smette di parlare di un bianco, considerandolo ormai seduto, il Derthona inizia il suo percorso per diventare più espressivo e complesso”.
Il nuovo disciplinare della sottozona Derthona guarda anche alla sostenibilità della produzione, con una bottiglia che non potrà superare i 600 grammi di peso. Così come “pesa”, in bocca, l’estratto secco: minimo 17 g/l per il base e 18 per la Riserva. Un bianco travestito da rosso. Passi avanti, dunque, per restare ai vertici.
Eppure sembra ieri quando, nel Tortonese, c’era solo mezzo ettaro piantato da Walter Massa. Era il 1987. Ci sono voluti 22 anni per arrivare a 25 ettari, nel 2009, anche grazie alla collaborazione dei Vivai Rauscedo. Oggi, i produttori di uva Timorasso sono ben 132 e allevano 175 ettari.
Una Denominazione, il Derthona, che ha registrato un vero e proprio boom nel 2018, con un +57% della superficie vitata. L’impianto di altri 100 ettari è in programma nei prossimi tre anni, sino alla cifra complessiva che non potrà superare i 350 ettari.
Tra le aree più in fermento dei Colli Tortonesi c’è la Val Borbera, rappresentata nel calice da Ezio Poggio: il “Walter Massa” della sottozona, denominata Terre di Libarna. Un territorio che sta trovando nella produzione degli spumanti la strada maestra – viste le altitudini maggiori, sino ai 600 metri sul livello del mare – ma in cui si registrano i bollori di alcuni giovani produttori, intenzionati a farsi largo sul palco dei cosiddetti “vini naturali“.
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MILANO – Etichette fuorilegge al supermercato per i vini aromatizzati a base Marsala. È quanto emerge dalla terza parte della nostra inchiesta sulle sfortunate sorti del vino simbolo della Sicilia. A sbagliare sono alcune insegne della Grande distribuzione organizzata, che sul cartellino del prezzo utilizzano la parola “Marsala” per descrivere quelli che, invece, sono semplici “vini aromatizzati” privi di Doc, come il “Cremovo” o il “Floriovo“.
Non succede al discount, ma nei punti vendita di grandi gruppi come Conad, Esselunga e Iper, La grande i (Finiper). La legge italiana non permette che vengano utilizzati a scopi pubblicitari o esplicativi i nomi che rimandano alle Denominazioni di origine, in accostamento a tipologie (di vini o di altri prodotti) che non rientrano nel disciplinare di produzione delle relative Doc, Dop e Docg.
Emblematico il caso dell’azienda friulana SchianchiSrl che, dal 2018, ha rinunciato all’utilizzo in etichetta del nome dei vini Doc utilizzati per la preparazione delle proprie “gelatine di vino“, per evitare di incorrere in sanzioni.
LA CONFERMA DELL’ESPERTO
“Il Marsala Doc – commenta Michele Antonio Fino, professore associato dell’Università degli Studi di Scienze gastronomiche di Pollenzo – è un ingrediente dei ‘vini aromatizzati’ in questione, come il Prosecco Doc può esserlo di uno Spritz”.
“Se uno imbottiglia dello Spritz e in etichetta ci scrive ‘Prosecco al Select’, ovviamente tutti ci scandalizziamo. La stessa cosa vale per le etichette eventualmente non rispettose della legge, o per i cartellini dei punti vendita che in modo poco accurato, invece di parlare di ‘bevanda a base di vino e uovo’, ancora parlino di ‘Marsala’ all’uovo”.
La più recente modifica del disciplinare di produzione del Marsala Doc, come ricorda Fino, risale al 2014: “Contrariamente a quanto era previsto nella legge del 1950, che fece del Marsala la prima Doc italiana giuridicamente regolamentata, e ancora nella legge di riforma 851 del 1984, oggi non esistono più quelli che venivano chiamati ‘Marsala speciali‘, prodotti con aggiunta di ingredienti diversi dall’uva e dall’alcool di origine viticola”.
“Il ‘Cremovo’, prodotto a base di Marsala Doc e uovo, che ancora era prevista nella legge del 1984 – aggiunge il professor Fino – viene oggi prodotto legalmente da diverse aziende che lo etichettano correttamente come bevanda a base di vino aromatizzato con uovo”.
Con l’autorizzazione del Consorzio di tutela – e solitamente a fronte del pagamento di somme relativamente ingenti – le aziende possono precisare che il vino utilizzato è Marsala Doc. “Tuttavia – conclude il docente di Pollenzo – non è corretto parlare di ‘vino’, nemmeno di ‘vino speciale’ e tantomeno di ‘Marsala Doc’ all’uovo”. Chi cambierà la musica?
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Riunione per certi versi “storica” dell’assemblea dei soci del Consorzio per la Tutela dei vini Doc Bolgheri e Doc Bolgheri Sassicaia, lunedì 7 ottobre. Due i punti all’ordine del giorno: il rinnovo delle cariche sociali, che ha portato al passaggio di consegne tra Federico Zileri Dal Verme e la nuova presidenteAlbiera Antinori (nella foto, a sinistra), e la modifica del disciplinare del Bolgheri Bianco, che potrà essere prodotto con Vermentino, Sauvignon Blanc e Viognier, con un 40% massimo di altre varietà ammesse in Toscana.
ELEZIONI
Il nuovo Consiglio di Amministrazione vede come consiglieri Marilisa Allegrini (Poggio al Tesoro), Albiera Antinori (Guado al Tasso), Martina Chiappini (Chiappini), Giovanni Geddes da Filicaja (Ornellaia), Stefano Granata (I Luoghi), Priscilla Incisa della Rocchetta (Tenuta San Guido), Silvia Menicagli (Fornacelle). Cinzia Merli (Le Macchiole), Fabio Motta (Fabio Motta), Michele Satta (Michele Satta), Federico Zileri Dal Verme (Castello di Bolgheri).
Il Consiglio neo formatosi si è subito riunito per eleggere la carica di Presidente e Vicepresidenti. All’unanimità sono state elette Albiera Antinori quale Presidente e Priscilla Incisa della Rocchetta e Cinzia Merli quali Vicepresidenti.
È con grande onore e particolare piacere che raccolgo la carica di Presidente di una denominazione così importante e innovativa – afferma Albiera Antinori – una realtà sempre più riconosciuta sia a livello nazionale che internazionale, come testimonia la presenza all’interno delle carte dei vini più prestigiose del mondo”.
“Ci tengo a ringraziare Nicolò Incisa della Rocchetta e Federico Zileri Dal Verme, che prima di me si sono succeduti in qualità di Presidenti, per il grande lavoro svolto per la nostra denominazione portandola da 7 a 56 produttori e da 190 a 1.370 ettari vitati”.
Anche se, più che quella quantitativa – continua Albiera Antonori – la crescita più importante rimane sempre quella qualitativa di tutti i produttori, soprattutto i piccoli produttori emergenti i quali hanno svolto un lavoro approfondito e di grande qualità”.
Il futuro, secondo la nuova presidente, “dovrà essere improntato sulla continuità con particolare attenzione alla qualità diffusa della DOC Bolgheri perché sia sempre rappresentata al meglio delle sue tipicità e delle sue potenzialità qualitative che sappiamo essere altissime”.
La crescita costante delle vendite (+16% nel 2018) e dei prezzi (+11% nel 2018) “fa inoltre ben sperare per il futuro anche sotto quel punto di vista. Ringrazio ancora una volta tutti i produttori, che sono onorata di rappresentare, e sono altresì molto contenta di continuare l’impegno che da sempre io e la mia famiglia abbiamo rivolto verso questa terra che amiamo profondamente”.
Albiera Antinori (nella foto, a destra) succede a Federico Zileri Dal Verme (in carica per 2 mandati dal 2013) e a Niccolò Incisa della Rocchetta (in carica per 6 mandati dal 1995 al 2013) diventando il terzo Presidente del Consorzio. Ad affiancarla, in qualità di Vicepresidenti (incarico confermato per loro), ci saranno Priscilla Incisa della Rocchetta e Cinzia Merli, completando una dirigenza del Consorzio tutta al femminile.
Inoltre la componente femminile è maggioritaria anche nel Consiglio, con 6 produttrici elette su 11 Consiglieri, a riconferma che quello vitivinicolo è un settore ampiamente popolato da donne estremamente capaci e assennate.
LE MODIFICHE AL DISCIPLINARE
Prima di passare alle elezioni i produttori bolgheresi si sono espressi su un altro importante argomento riguardante le modifiche al disciplinare del Bolgheri Bianco, una tipologia in cui si nutrono grandi speranze per il futuro e che finora non è stata utilizzata appieno per vie di una base ampelografica desueta e risalente per alcuni aspetti al primo disciplinare del 1983.
Seguendo l’esempio del Bolgheri Rosso sono state individuate tre varietà cardinali su cui impostare questa tipologia: Vermentino, Sauvignon Blanc e Viognier, che potranno essere impiegate da 0% a 100%.
Sarà inoltre possibile utilizzare anche vitigni complementari entro il 40%. È stata inoltre prevista per tutte le tipologie del disciplinare ed anche per il Doc Bolgheri Sassicaia la facoltà di utilizzare in etichetta il termine Toscana, naturalmente in caratteri inferiori rispetto a quelli della denominazione.
Tale misura “consente di contestualizzare meglio Bolgheri per i consumatori, appoggiandosi a uno dei marchi più forti che l’Italia abbia da offrire. Questa possibilità, prima impossibile, si è concretizzata grazie a quanto previsto dal nuovo testo unico della vite e del vino”.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 16 anni, tra carta stampata e online, dirigo oggi winemag.it, testata unica in Italia per taglio editoriale e reputazione, anche all’estero. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Segno Vergine allergico alle ingiustizie e innamorato del blind tasting, vivo il mestiere di giornalista come una missione per conto (esclusivo) del lettore, assumendomi in prima persona, convintamente, i rischi intrinsechi della professione negli anni Duemila. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
EDITORIALE – Articolo 2, comma 1 e 2. Articolo 5, comma 3. Tocca scomodare il Decreto del 12 luglio 2019, inerente le “Modifiche al disciplinare di produzione della Denominazione di origine controllata dei vini ‘Conegliano Valdobbiadene – Prosecco” per capire quanto, realmente, i produttori di Valdobbiadene abbiano perso un’occasione d’oro per “distinguersi” – al di là dell’etichetta – dal Prosecco Doc prodotto in pianura (anche in Friuli Venezia Giulia) e non solo sulle colline patrimonio Unesco.
L’8 agosto è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il provvedimento con cui il Ministero delle Politiche agricole alimentari, forestali e del turismo ratifica le richieste presentate il 29 marzo dal Consorzio di Tutela della Docg veneta.
Positiva la valorizzare della tipologia “Rive”, per la “qualità superiore delle uve provenienti da vigneti in forte pendenza, che richiedono un lavoro manuale più lungo e faticoso da parte dei viticoltori” e utile a “distinguere i diversi territori all’interno della Denominazione”. Una sorta di zonazione.
Commovente la “salvaguardia del legame con la tradizione, rendendo ufficiale la tipologia spumante ‘Sui Lieviti’ di Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore, che sta a cuore da generazioni ai produttori del territorio”.
Costruttivo “rispondere, con l’introduzione della tipologia ‘Extra Brut’, al gusto contemporaneo dei consumatori che hanno dimostrato un apprezzamento speciale per il Conegliano Valdobbiadene Prosecco Docg”.
Manca solo un dettaglio. Quello definito, appunto, dagli articoli 2 e 5, e relativi commi. La base ampelografica dei vini “Conegliano Valdobbiadene Prosecco” è sì costituita dalle uve provenienti dai vigneti del vitigno Glera.
Possono concorrere, in ambito aziendale, fino ad un massimo del 15%, le uve Verdiso, Bianchetta trevigiana, Perera e Glera lunga. Ma anche quelle dei vitigni Pinot bianco, Pinot nero, Pinot grigio e Chardonnay, “usate da sole o congiuntamente”.
Una “tradizionale pratica correttiva di aggiunta di vini” ottenuti da varietà internazionali, il cui utilizzo è consentito anche nel disciplinare del Prosecco Doc. Ma non ci si poteva (doveva) distinguere?
Se da un lato è sacrosanto che i vini (specie quelli buoni) non si fanno coi disciplinari, dall’altro, da parte dei produttori e del Consorzio, poteva arrivare un segnale importante, sul fronte della base ampelografica.
Gli esempi di Denominazioni che stanno puntando tutto sull’autoctono, in Italia si sprecano. Basti pensare alla Franciacorta, con il Consorzio concentrato nella valorizzazione e diffusione dell’autoctono bresciano Erbamat.
La necessaria corsa ai ripari dei produttori franciacortini, alle prese con il surriscaldamento globale e i conseguenti cali di freschezza delle basi di Pinot Nero, Chardonnay e Pinot Bianco, si è trasformata in un motivo di promozione del territorio, che porterà presto alla nascita della tipologia Franciacorta “Mordace” e al conseguente aumento delle percentuali di Erbamat ammesse nella cuvée del Metodo classico (ora ferme al 10%).
Hanno storia e storicità anche gli autoctoni divenuti ormai una rarità sulle colline di Conegliano e Valdobbiadene. Le prime testimonianze sul Verdiso risalgono al 1788 e sono legate ai coloni dell’Abbazia di Follina (TV). Il vitigno ha una buona vigoria e si adatta a molti tipi di terreno.
Anche le prime notizie della Bianchettatrevigiana risalgono al Settecento. Si suggeriva l’appassimento, per produrre vini dolci. In epoca più recente ha dimostrato il perfetto carattere alla spumantizzazione, tanto da risultare per decenni il vitigno più coltivato in una quarantina di comuni della Provincia di Treviso.
Varietà storica della zona di Conegliano e Valdobbiadene anche la Perera, nota anche come “Pevarise”. Santo Stefano e San Pietro di Barbozza (TV) le due zone in cui era più presente e riconoscibile, per la sua forma a “pera rovesciata”.
Apprezzata per le sue caratteristiche fruttate, fu decimata dalla fillossera ed ora è rara da reperire. Tre vitigni, insomma, non uno. Già in disciplinare. Chi ci crede, in Consorzio e tra i produttori, alzi la mano. Cin, cin.
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NEGRAR – Vigneti su misura, come disegnati dalle mani di un sarto: per dirla all’inglese, “taiolor made“. Usa questa definizione Daniele Accordini, dg ed enologo di Cantina Valpolicella Negrar, per definire l’approccio della cooperativa ai cambiamenti climatici e commentare le recenti modifiche al disciplinare di produzione.
“ll climate change – spiega Accordini – ha imposto nuove modalità di valutazione e analisi nella conduzione del vigneto. Poichè in Valpolicella le vigne si trovano da 80 a 600 metri di altitudine, diventa naturale, se non necessario, che ogni viticoltore possa trovare il miglior modo per dare espressione e valore al proprio vigneto, senza per questo aver paura di snaturare il prodotto Valpolicella”.
Ben vengano dunque soluzioni come quelle adottate di recente nel disciplinare, che consentono di poter aumentare la percentuale di uve di Corvinone, vitigno che ha dimostrato di essersi adattato molto bene alle nuove condizioni climatiche, specie in collina, nella produzione dei vini Doc e Docg della denominazione”, continua Accordini.
LA VENDEMMIA 2019
Dalle uve della vendemmia 2019, la premessa di vini Amarone “più affini al gusto contemporaneo”. In attesa di verificare i risultati delle future vendemmie della cantina cooperativa negrarese – 230 soci viticoltor per700 ettari di vigneto dislocati soprattutto nelle colline della Valpolicella Classica – Accordini anticipa le sue considerazioni sulla vendemmia 2019, iniziata una decina di giorni più tardi e con volumi ridotti del 15-20 per cento rispetto al 2018.
La vendemmia in Valpolicella ci riserva sempre delle sorprese, dopo anni di grande caldo nella fase di maturazione finale, in cui veniva privilegiato l’accumulo zuccherino rispetto a quello aromatico, abbiamo avuto, finalmente, un’annata in cui le basse temperature, unite alle escursioni termiche elevate, hanno consentito un ottimo accumulo di sostanze coloranti e una buona acidità”.
“Nonostante le abbondanti piogge del mese di maggio – evidenzia Accordini – le uve sono sane e spargole, particolarmente adatte, quindi, all’appassimento dell’Amarone. Avremo quindi vini con espressioni più territoriali, di maggior longevità e freschezza”.
“Caratteristiche queste – conclude Accordini – adatte a produrre vini Amarone dal gusto più contemporaneo e moderno, ricercato oggi dai consumatori. Adesso, come sempre, siamo nelle mani del meteo, che se ci regalerà giorni freschi e ventilati, consentirà di trovare riscontro a queste premesse, prima nelle uve e poi nei vini”.
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
FIRENZE – Un cambiamento importante, che permetterà alle aziende di adeguarsi alle normative europee e produrre vini di alta qualità e allo stesso tempo in grado di venire maggiormente incontro ai gusti dei mercati stranieri, soprattutto statunitensi, sudamericani e orientali. E’ l’obiettivo della modifica sulle caratteristiche al consumo del disciplinare del Vino Chianti Docg pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’8 agosto 2019 e diventata quindi realtà in ambito nazionale.
La modifica interessa il residuo zuccherino massimo e arriva dopo un lungo lavoro di istruttoria che ha visto in prima fila il Consorzio Vino Chianti come portavoce delle aziende toscane e della loro necessità di allinearsi alle normative europee. Un processo di riqualificazione e riposizionamento sui mercati internazionali che segue la tendenza manifestata già da altre denominazioni in Europa.
“Dopo lungo lavoro che ci ha visti impegnati per tanto tempo, il Ministero ha approvato la richiesta di modifica del disciplinare – ha dichiarato il presidente del Consorzio Vino Chianti, Giovanni Busi – Un processo di adeguamento alle normative europee che garantisce maggiore competitività e una maggiore capacità del vino Chianti docg di allinearsi ai gusti dei consumatori che inevitabilmente si modificano nel tempo.”
“Ciò permetterà alle aziende interessate – Prosegue Busi – di poter presentare dei vini secchi, sempre di altissima qualità ma più graditi al palato dai mercati prevalentemente orientali e americani. Un passaggio atteso da tante aziende che, se vorranno, potranno adeguarsi a questi nuovi standards. Ci aspettiamo dunque un aumento delle vendite su mercati esteri, che già presentano grandi potenzialità e su cui ci sono più ampi margini di sviluppo”
Il Consorzio ha già inviato una circolare a tutte le aziende con i dettagli delle modifiche e i riferimenti legislativi completi. Da un punto di vista tecnico, l’allineamento del valore del residuo massimo zuccherino ai parametri comunitari previsti per i vini secchi consentirà di avere un parametro massimo pari a 4 g/l, oppure entro 9 g/l purché il tenore di acidità totale, espresso in grammi di acido tartarico per litro, non sia inferiore di oltre 2 grammi al tenore di zucchero residuo.
Al momento la modifica è introdotta solo a livello nazionale, a partire dalla campagna vendemmiale 2019/2020 e per i vini atti a diventare Dop “Chianti” provenienti dalle campagne 2018/2019 e precedenti, a patto che siano in possesso dei requisiti stabiliti nel disciplinare consolidato. Prima di essere applicabile nel territorio dell’Unione europea e nei Paesi terzi, la modifica al disciplinare dovrà essere pubblicata sulla Gazzetta dell’Unione Europea.
La pubblicazione è prevista entro tre mesi dalla data di trasmissione della domanda da parte del Ministero alla Commissione Europea avvenuta lo scorso 25 luglio 2019. Quindi, solo dopo tale passaggio, i vini Chianti Docg con il nuovo limite del residuo zuccherino massimo potranno liberamente circolare anche al di fuori dell’Italia.
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FIRENZE – Giovanni Busi è presidente del Consorzio Vino Chianti, per il quarto mandato consecutivo.
Una riconferma eccezionale, resa possibile dall’approvazione all’unanimità della deroga al limite di tre mandati previsto dallo statuto.
Il Consiglio d’Amministrazione ha così dato mandato a Busi e nominato i due vicepresidenti: Ritano Baragli e Alessandro Zanette. Nominate anche le commissioni tecniche e marketing e i comitati di gestione tecnica, fondamentali per il funzionamento del Consorzio.
Questi i consiglieri eletti nell’assemblea generale del 28 giugno scorso: Tommaso Albergotti, Davide Ancillotti, Ritano Baragli, Rolando Bettarini, Giovanni Busi, Fabio Vittorio Carone, Cino Cinughi De Pazzi, Angiolo Del Dottore, Gianmarco Diddi, Stefano Fantechi, Marco Ferretti, Leonardo Francalanci, Paolo Gamberi, Filippo Gaslini Alberti, Francesco Gera, Ferdinardo Guicciardini, Malcom Leanza, Maria Grazia Mammuccini, Maurizio Masi, Mario Mori, Massimo Peruzzi, Mario Piccini, Filippo Rocchi, Andrea Rossi, Massimo Sensi, Vasco Torrini, Giovanni Trambusti, Alessandro Zanette, Gianni Zipoli
“Accetto con orgoglio e soddisfazione questa riconferma – ha commentato Giovanni Busi – La fiducia che i soci ripongono in noi ci motiva a proseguire un percorso di crescita e di progettualità condivisa, necessario ad affrontare le continue sfide che il mercato ci lancia, sia dal lato della domanda che dell’offerta. Siamo chiamati nei prossimi tre anni a gestire situazioni in continua evoluzione, a prevedere e a programmare con strategico anticipo le nostre attività di promozione e valorizzazione sia a livello di mercato interno che internazionale. Abbiamo avviato una fase di cambiamento e continueremo su questa strada, guardando sempre al medio e lungo periodo”
GLI OBIETTIVI DEL PROSSIMO TRIENNIO Tra le priorità di mandato c’è sicuramente la modifica del disciplinare. “Una modifica strutturale, non più solo interventi di adeguamento alle contingenze – ha precisato Busi – Sarà moderno, in linea con le nuove esigenze di mercato e flessibile, un punto di riferimento per i nostri soci”.
Altra sfida il completo rifacimento dei vigneti, sfruttando al massimo i fondi OCM ristrutturazioni. “Un passaggio fondamentale per il miglioramento dei livelli di qualità della Denominazione”, ha proseguito Busi. Ad oggi il 75% degli impianti è stato rinnovato, con un investimento complessivo di 600 milioni di euro”.
Urgente anche la risoluzione, in maniera seria e continuativa, del problema causato dalla massiccia presenza di ungulati nelle campagne. Non da meno la questione delle giacenze, problema in parte tamponato dalla proposta di gestione dell’offerta avanzata dal Consorzio e recepita dalla Giunta regionale toscana che con una delibera ha ridotto le rese massime di uva a ettaro e a ceppo per la vendemmia del 10 per cento.
Sul fronte della promozione, si procederà con i piani promozionali avviati, al rilancio della Denominazione sul mercato nazionale e all’implementazione di nuovi percorsi promozionali verso mercati strategici, anche attraverso la registrazione del marchio consortile nei paesi emergenti.
Sul piano della vigilanza sui mercati, il Consorzio proseguirà l’attività con l’intento di bloccare la diffusione ingannevole e impropria di falsi vini Chianti fatti con kit di polverine, false etichette o uso improprio della Denominazione.
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SCANSANO – Il Morellino di Scansano Docg 2018 sarà sul mercato da gennaio e non da marzo 2019. La richiesta di modifica temporanea dell’articolo 7 comma 4 del disciplinare è giustificata dalle “difficili condizioni climatiche e dalle numerose avversità meteorologiche del 2017, che hanno portato a una rilevante riduzione del raccolto e, di conseguenza, alla disponibilità di un minor numero di bottiglie in cantina”, come spiega il Consorzio di Tutela.
C’è dunque fermento in Maremma per l’importante novità, che permetterà in via straordinaria ad una delle Denominazioni storiche del territorio di arrivare sul mercato in anticipo rispetto a quanto previsto tradizionalmente dal disciplinare.
Il Morellino di Scansano, Doc dal 1978 e Docg dalla vendemmia 2007, sarà acquistabile dall’1 gennaio anziché dall’1 marzo. Un’anticipazione promossa dal Consorzio di Tutela del vino toscano, interpretando le esigenze del territorio.
Entusiasta Alessio Durazzi, direttore del Consorzio Tutela Morellino di Scansano: “Siamo molto felici che Ministero e Regione abbiano recepito quanto richiesto dal Consiglio di Amministrazione a supporto dei produttori locali”.
“Una scelta a carattere volontario – precisa Durazzi – a patto che il prodotto sia conforme ai requisiti analitici ed organolettici dettati dal disciplinare. In questo modo potremo scongiurare la carenza di vini Annata della nostra Denominazione nei primi mesi dell’anno e soddisfare senza interruzioni le richieste di operatori e appassionati, nel rispetto degli standard di qualità che caratterizzano la Docg”.
LE CARATTERISTICHE
Le anomalie meteorologiche del 2017, tra gelate e picchi nelle temperature, hanno infatti portato un calo di produzione pari circa al 27% rispetto all’anno precedente, che già manifestava una flessione del 3% sul 2015.
Il Morellino di Scansano Annata, con il suo colore rosso rubino, le sue note di fruttato, la sua freschezza e sapidità, è un vino schietto ed immediato che, accanto alla più longeva Riserva, rappresenta l’espressione del Sangiovese nella Maremma toscana.
L’Annata 2018, in virtù dell’andamento della campagna e della vendemmia, presenterà vini di grande equilibrio e perfettamente bilanciati, particolarmente vivaci e di buona intensità, che sapranno già esprimersi al meglio nei primi mesi del 2019.
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Cinque enti certificatori affiancheranno VinNatur nel tortuoso processo verso un disciplinare condiviso con circa 200 produttori di “vino naturale”. Questa la novità comunicata in esclusiva a vinialsuper durante Villa Favorita 2018, andata in scena a Sarego (VI) lo scorso weekend (qui i migliori assaggi).
Angiolino Maule (nella foto), fondatore di VinNatur, spiega i dettagli: “Nell’ottica di non essere ricordato come un giustiziere, bensì come un formatore, ho deciso di farmi affiancare da CCPB, Valoritalia, Suolo e Salute, QCertificazioni e Icea nella verifica dei criteri di ammissione e permanenza in VinNatur dei nostri associati”.
“Se dal punto di vista burocratico sono gli ispettori che stanno formando me – continua Maule – in un’ottica pratica sono io che formo loro. Quello che voglio fare capire ai produttori è che non vogliamo ‘far fuori’ nessuno attraverso controlli che riguardano soprattutto i livelli di pesticidi nel vino, bensì avere un quadro generale di come si sta evolvendo l’associazione. E decidere se è il caso di allargare o stringere la cinghia”.
A detta di Maule, le cose stanno andando per il verso giusto. Un esempio? “Viste le numerose richieste di deroghe ricevute lo scorso anno – risponde il fondatore VinNatur – ho proposto all’assemblea generale di venerdì 13 aprile un piccolo aumento della quantità di solforosa ammessa per i vini a lungo affinamento in botte e la possibilità di effettuare filtrazioni”.
“Con mia grande soddisfazione le due deroghe sono state bocciate al termine di una discussione accesa ma molto proficua: la solforosa resta a 30 mg e le filtrazioni vietate. Ciò significa che stiamo lavorando bene sulle teste e sulla mentalità dei produttori VinNatur, che da un anno all’altro stanno capendo sempre più il senso di questa associazione”.
La decisione di allargare a cinque il numero di enti certificatori (erano due lo scorso anno) è dovuta proprio ai risultati dei primi test, che hanno interessato un campione di 10 aziende aderenti al circuito vinnaturista.
“Ebbene – ammette Maule – abbiamo generato il caos! Ma ce lo aspettavamo, perché con questo tipo di controlli abbiamo avvicinato due mondi che non si erano mai parlati prima: il produttore con un’ideologia diversa da quella dell’industria e l’ispettore che non sa di cosa stia parlando l’altro. La formazione degli ispettori è necessaria proprio per ridurre ulteriormente questo gap”.
SCIENZA O FILOSOFIA? La scienza torna dunque utile ai produttori di vino naturale. “Puoi fare filosofia quanto vuoi – chiosa Angiolino Maule commentando il nostro articolo sulle dichiarazioni di Josko Gravner – ma poi devi studiare enologia! Non ci si può improvvisare produttori soltanto con la filosofia. Il gusto di un alimento è dato dal rapporto tra suolo, sole, insetti e uomo. Non possiamo imbrigliare tutta questa complessità dietro a un’ideologia. Il filosofo non fa il vino: è una cosa troppo complessa, che va conosciuta per essere rispettata a fondo”.
Uno dei segreti del successo crescente di VinNatur è proprio il coinvolgimento delle Università. “Aver coinvolto il mondo scientifico, mettendolo a disposizione dei contadini – spiega Maule – ci ha concesso un bel salto avanti. Il mondo dei personaggi anni Ottanta con la barba lunga, i capelli unti e il maglione a uncinetto è finito. Il nuovo interprete del naturale è colui che si è rimboccato le maniche e ha fatto il salto in avanti nella conoscenza scientifica: l’unica che ti consente di lavorare con consapevolezza”.
Maule non la manda a dire a chi critica il disciplinare VinNatur: “Siete fifoni. Possiamo dare assistenza sia in vigna sia in cantina. E dare lo spazio di crescere moltissimo, con vini equilibrati e una viticoltura molto più degna di chiamarsi naturale”.
Un esempio? “Dico solo che in Finlandia è uscito un bando per un vino che, tra le sue caratteristiche, deve avere ‘il bollino VinNatur’. Dare una garanzia maggiore agli ispettori e ai buyer è uno dei nostri obiettivi. Facendo le cose per bene rischiamo, come succede, di sentirci dire che siamo dei tosti, dei duri. Ma questa è la strada per crescere nel rispetto dei nostri principi”.
IL GIUSTO COSTO DI UN VINO NATURALE I controlli sui vini promossi dall’associazione VinNatur, assieme al crescente successo del vino bio e naturale (specie tra i Millennials) comporterà un aumento del costo delle bottiglie di vino naturale? Maule assicura di no. E non usa giri di parole.
“Il prezzo corretto di una bottiglia di vino – dichiara – è di massimo 5 euro. Tutto quello che si fa pagare di più è il prestigio e la ricerca. E’ la richiesta che fa salire il prezzo, indipendentemente dalla zona d’origine: Barolo o Montalcino non fa differenza”.
Un costo, 5 euro a bottiglia, che Maule calcola così. “Facciamo finta che sono imprenditore. Compro 3 ettari e non voglio sporcarmi le mani. Li faccio lavorare da un operaio, che 3 ettari, anche da solo, sapendo lavorare, se li mangia! Mettiamo che si producano 10 mila bottiglie per ettaro, come molti Champagne”.
“Il nostro campo di 3 ettari produrrà 30 mila bottiglie in totale. Il guadagno, supponendo che il costo della bottiglia sia di 5 euro, si assesterà sui 150 mila euro. Con 30 mila euro pago l’operaio. Con altri 20 mila, per sparare alto, pago l’ammortamento dei trattori e dei macchinari. Poi aggiungo qualsiasi altro costo. Altri 20 mila per l’imbottigliamento? Perfetto. Non arriverò mai a 150 mila euro con le spese, portando comunque a casa un gran bel guadagno!”.
“Si può anche fare il calcolo per 10 euro. Con 5 mila bottiglie prodotte per ettaro, perché voglio fare qualità. Noi a Biancara facciamo per esempio 35-40 hl a ettaro, sicché il prezzo del nostro vino è di 6-7 euro. Il ‘Pico’, molto richiesto, lo vendiamo a 11 euro, perché ne produciamo solo solo 10 mila bottiglie. Come fa uno ad arrivare a prezzi superiori? E’ la richiesta che lo spiega. Ma il prezzo di partenza è sempre 5 euro”.
Per Maule, “produrre vino naturale non costa più del convenzionale”: “Il produttore che fa trattamenti sistemici indebolisce la pianta di anno in anno. L’anno dopo aumentano i costi. Ma sto parlando di costi che ha il convenzionale e noi no. Prima della vendemmia si porta in cantina i lieviti, gli enzimi: spende, credo, una fortuna su questo. Noi spendiamo la stessa cifra, ma in manodopera”.
AMICI NEMICI
Frasi, quelle di Maule, che lasciano il segno in un dibattuto sempre aperto e acceso. Anche all’interno dello stesso mondo dei vini naturali, che si è letteralmente spartito il weekend pre Vinitaly, spremendo energie in una costellazione di eventi collaterali, antagonisti tra loro.
Anche su questo argomento, il fondatore di VinNatur non le manda a dire. “Io ho fondato ViniVeri. E nel loro statuto c’è scritto ‘Associazione che produce cultura e la regala’. Non è certo facendo un convegno che fai cultura (quello con ospite Josko Gravner, ndr). La cultura la fai lavorando sul campo, lavorando in modo scientifico. Osservando i problemi e cercando di risolverli, lavorando in prevenzione”.
“VinNatur – aggiunge Maule – fa questo. Fa da 11 anni l’analisi dei pesticidi. Martedì sono stato invitato a Vinitaly a parlare davanti a 40 giornalisti stranieri: mi hanno obbligato a ospitare alcuni produttori del ViVit. Ho risposto ci sto, ma li seguo io i produttori, perché non voglio sedermi al tavolo di uno che è stato cacciato da qua ed è entrato in altre associazioni”.
“La prima scrematura in atto – conclude Maule – è quella che deriva dal disciplinare. Salire sulle scale di un palazzo costa fatica, ma il panorama che vedi, più vai in alto, più diventa bello. Ovviamente quelli che stanno al piano terra ti invidiano… Ma io ho faticato per arrivare qui. Ecco cosa sta succedendo al nostro mondo. Altro che negatività!”.
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Due disciplinari distinti, per distinguere la Ribolla Gialla “di pianura” da quella “di collina”. Dibattito aperto in Friuli per il vitigno che sta facendo la fortuna di molti produttori, sulla scorta del “Fenomeno Prosecco”.
Si è parlato di questo ieri sera su Telefriuli, in occasione del secondo appuntamento di Friuleconomy, trasmissione condotta da Massimo De Liva, affiancato dall’enologo Paolo Valdesolo.
Il talk ha visto protagonisti, oltre ai direttori e presidenti delle diverse cantine sociali del Friuli Venezia Giulia, produttori come Valerio Civa dell’azienda Tenimenti Civa di Bellazoia di Povoletto, giornalisti e una rappresentanza delle Donne del vino.
“Il confronto – spiega Civa, titolare di una modernissima azienda incentrata sulla Grande distribuzione organizzata – si è aperto su quale potrebbe essere la corretta piramide legislativa atta a rappresentare la Ribolla gialla in collina e in pianura, da un punto di vista qualitativo”.
“Unanime l’opinione di accelerare la realizzazione di un disciplinare che tuteli la Ribolla gialla – continua Valerio Civa – evitando così che possa essere piantata, prodotta e gestita anche al di fuori del Friuli Venezia Giulia. Due denominazioni distinte: una Doc per la Ribolla gialla di pianura e una Denominazione di origine controllata e Garantita per quella di collina”.
La Ribolla è un vitigno molto generoso, condizionato dall’ambiente di coltivazione. “Se la collina è atta a dare vini di qualità elevata – sottolinea Civa (nella foto) – anche in pianura la Ribolla ha potenzialità da esprimere, se si riescono a decodificare correttamente le necessità agronomiche e se si stabiliscono precisi obiettivi enologici”.
Durante la trasmissione è stata sottolineata l’importanza della valorizzazione della Ribolla gialla e del suo territorio. Ma si è parlato anche della sua promozione. Secondo una recente indagine di Nomisma, su un campione di mille intervistati solo il 36% colloca la Ribolla gialla in Friuli Venezia Giulia, come territorio di produzione.
“C’è ancora molto lavoro da compiere – ammonisce Civa – per far conoscere il vitigno a livello nazionale e internazionale. Una promozione e comunicazione che si auspica venga attuata a livello regionale, attraverso una progettazione strategica”.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 16 anni, tra carta stampata e online, dirigo oggi winemag.it, testata unica in Italia per taglio editoriale e reputazione, anche all’estero. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Segno Vergine allergico alle ingiustizie e innamorato del blind tasting, vivo il mestiere di giornalista come una missione per conto (esclusivo) del lettore, assumendomi in prima persona, convintamente, i rischi intrinsechi della professione negli anni Duemila. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
BRONI – Abbassamento delle rese, restringimento della zona Igt, vinificazione e imbottigliamento in loco per Sangue di Giuda e Pinot Nero. E parola fine all’era del vino Doc in damigiana. L’Oltrepò pavese guarda così al futuro, riformando i disciplinari.
Mosse storiche, che forse ridaranno slancio a un territorio che merita molto più di quello che è riuscito a raccogliere. Le riforme dei disciplinari sono state presentate giovedì dal Consiglio di amministrazione del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese, in occasione dell’assemblea dei soci all’Enoteca Regionale di Broni.
“Ringrazio chi ha lavorato con noi per arrivare a questi risultati – commenta il presidente Michele Rossetti – che sono solo il primo passo. Un passo che però è storico e lascerà il segno soprattutto perché sul territorio, davvero, qualcosa è successo”.
“Questo Consiglio, insieme ai nuovi disciplinari e a una tracciabilità vera per ridare smalto alla Doc – aggiunge Rossetti – lascerà in eredità un nuovo modo di fare Consorzio. E’ un messaggio anche a chi ha scelto di star fuori, di non partecipare e di lasciar fare agli altri”.
Parole scaturite dal confronto positivo tra grandi e piccoli produttori oltrepadani. “Ho visto una Terre d’Oltrepò profondamente cambiata – evidenzia Rossetti – che si è messa in gioco per gli altri. Una Torrevilla disposta a fare sacrifici. Tanti titolari d’imprese di qualità pronti a scommettere sul futuro. Si può ricominciare”.
LE NOVITA’ “Uno spirito collaborativo – precisa Emanele Bottiroli, direttore del Consorzio di Tutela Vini Oltrepò – che ha portato a migliorare i vecchi disciplinari, abbassare le rese all’insegna della qualità, cancellare tipologie e versioni non identitarie da una Doc fino ad oggi barocca, restringere la zona di produzione Igt eliminando comuni di pianura, limitare in zona la vinificazione e l’imbottigliamento di Sangue di Giuda e Pinot nero”.
Ma non solo. “Le modifiche dicono addio all’era del vino Doc in damigiana – continua Bottiroli – contribuendo a ridare slancio al disciplinare del Casteggio e a ottimizzare tutti gli altri disciplinari di produzione, compreso quello del Bonarda, il vino territoriale più venduto e amato, che sarà solo il lato frizzante o ‘vivace’ dell’Oltrepò Pavese”.
“Ognuno ha fatto uno sforzo – chiosa Bottiroli – in particolare le cantine cooperative Terre d’Oltrepò, socio di maggioranza mai così vicino nella storia al comune sentire territoriale pur a costo di sacrifici, e Torrevilla. Non si sono tirati indietro nemmeno gli altri produttori presenti in assemblea, che hanno capito in che direzione andava una riforma che voleva dare segnali concreti di cambiamento”.
Ai vini Doc sarà inoltre apposto il contrassegno di Stato. La cosiddetta “fascetta”, “utile – sottolinea ancora Bottiroli – a garantirne autenticità e valore, facilitando gli organismi di controllo e dando ai consumatori consapevolezze nuove sul valore aggiunto che i grandi vini meritano”.
IL FUTURO
Il futuro dell’Oltrepò, come di altre Denominazioni, passa tuttavia anche dall’estero. Anche su questo fronte le premesse sembrano buone. “Il nostro Piano per l’internazionalizzazione 2018 – annuncia il direttore Bottiroli – è stato valutato al primo posto in graduatoria regionale davanti, per punteggio, a realtà importanti come Franciacorta e Ca’ del Bosco. Si tratta di un progetto di rete, di cui siamo capofila, mirato in particolare a Stati Uniti, Giappone, Cina e Svizzera”.
Sul fronte fieristico è già iniziato il conto alla rovescia anche in chiave europea: “Ci prepariamo – annuncia Bottiroli – al Prowein di Dusseldorf, la fiera del vino più importante in area Ue riservata agli operatori professionali”.
Occhi puntati anche su Verona: “Ci prepariamo a un Vinitaly 2018 all’insegna di molte novità e di una comunicazione nuova – preannuncia Bottiroli -. Saremo al salone del vino più importante d’Italia con il libro bianco sull’Oltrepò del vino, uno studio dettagliato e scientifico condotto dall’Osservatorio di Wine Marketing che un anno fa abbiamo costituito con l’Università di Pavia”.
Il Consorzio di Tutela presenterà così “uno strumento, frutto di analisi dati, uscite sul campo e interviste, che ci consentirà di progettare con metodo, avendo una rappresentazione plastica del complesso universo della vite e del vino in Oltrepò”. Dalla diagnosi nascerà “una terapia, ovvero una strategia a breve, medio e lungo termine”.
Per Bottiroli, il limite da superare resta sempre lo stesso: quello delle divisioni. “Il Consorzio è la casa di tutti. Solo con l’unione e il superamento delle barricate i risultati saranno tangibili. Auspico che il 2018 sia l’anno della svolta, anche sul tema dell’enoturismo e del marchio Oltrepò Pavese che puntiamo a creare con la Strada del Vino”.
“Voler bene al territorio – conclude Bottiroli – significa remare, insieme, nella stessa direzione, considerare i successi di uno un vantaggio per tutti. Bisogna dare numeri al top di gamma per poterlo promuovere facendolo reperire più facilmente sul mercato ai consumatori in Italia e nel mondo. Sei quel che si trova e quel che si vede di tuo, non quel che dici di te”.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 16 anni, tra carta stampata e online, dirigo oggi winemag.it, testata unica in Italia per taglio editoriale e reputazione, anche all’estero. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Segno Vergine allergico alle ingiustizie e innamorato del blind tasting, vivo il mestiere di giornalista come una missione per conto (esclusivo) del lettore, assumendomi in prima persona, convintamente, i rischi intrinsechi della professione negli anni Duemila. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
VICENZA – Scalda i calici la quindicesima edizione di Villa Favorita. L’appuntamento, per gli amanti dei vini naturali, è da sabato 14 a lunedì 16 aprile a Villa Da Porto detta “La Favorita” a Monticello di Fara di Sarego, in provincia di Vicenza.
Saranno presenti 160 aziende aderenti a Vinnatur, associazione di viticoltori naturali, provenienti non solo dall’Italia ma anche da Francia, Spagna, Portogallo, Austria, Germania e Slovenia. Per l’esattezza, dieci adesioni in meno rispetto all’edizione 2017.
Si tratta, comunque, di una delle più importanti manifestazioni di vini naturali in Italia per numero di aziende partecipanti, un evento unico nel suo genere perché permette di approfondire la conoscenza dei vini naturali, incontrando e conoscendo i produttori stessi, dai quali sarà possibile anche acquistare i vini in degustazione.
“Dopo l’ultima bella esperienza a Genova in gennaio – dichiara Angiolino Maule, presidente di Vinnatur, qui intervistato in esclusiva da vinialsuper – dove c’è stata un’ottima risposta di pubblico, sia di professionisti sia di amanti del vino, ci prepariamo ora all’evento per noi più significativo, per numero di edizioni e per aziende partecipanti”.
“In questi anni – continua Maule – Villa Favorita è stata testimone della crescita della nostra associazione, segnata da importanti traguardi come l’approvazione del Disciplinare nel luglio 2016, ma anche della presa di coscienza di molti consumatori che si sono avvicinati a noi magari solo per curiosità, ma che hanno imparato in questi anni a conoscere e ad apprezzare il nostro lavoro”.
COS’E’ VINNATUR? L’associazione VinNatur riunisce viticoltori europei che hanno il comune obiettivo di condividere le tecniche e le esperienze per produrre vino in maniera naturale, sia in vigna che in cantina, e di divulgare la cultura del terroir.
“Nel 2017 – prosegue Maule – siamo arrivati ad avere 190 aziende iscritte all’associazione, per un totale di 1500 ettari di vigna coltivati in modo naturale che producono 6 milioni e 500 mila bottiglie di vino naturale, di cui circa 5 milioni in Italia. Se pensiamo che alla nascita le aziende aderenti erano solo 65 possiamo solo essere fieri del lavoro svolto finora”.
Durante la manifestazione all’interno della villa e nell’area attrezzata nel parco circostante si potranno gustare diverse specialità gastronomiche provenienti da varie parti d’Italia con un’offerta ampliata rispetto all’anno scorso.
Info in breve | VILLA FAVORITA 2018
Data: dal 14 al 16 aprile 2018
Orari di apertura: dalle 10 alle 18
Luogo: Villa da Porto detta “La Favorita”, via Della Favorita – Monticello di Fara, Sarego (Vicenza)
Ingresso: € 25 al giorno (acquistabile solamente all’ingresso dell’evento) comprensivi di guida della manifestazione e calice da degustazione.
I minorenni non pagano l’ingresso e non possono effettuare degustazioni.
Parcheggio: riservato ai visitatori del salone
Per chi arriva in treno: è prevista una navetta dalla stazione di Montebello Vicentino
Area sosta Camper: Camping Park La Fracanzana, Via Fracanzana 3, 36054 Montebello Vic.no (2,1km da Villa Favorita)
Cani: sono ammessi cani di piccola taglia
Info: www.vinnatur.org
L’ELENCO DEI PRODUTTORI A VINNATUR VILLA FAVORITA 2018
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Millenovecentottantotto, duemiladiciotto. Trent’anni di sacrifici e battaglie. Trent’anni di strade in salita, costellate da pozzanghere e buche grosse come crateri. Di quelle capaci di trasformarti da solista a capo del coro. Oppure da sognatore a fallito.
Chi dice che i vini naturali non esistono, forse, semplicemente, non hai mai incontrato in vita sua Angiolino Maule. Uno capace di metamorfosi kafkiane. Pazzo scatenato e ignorante (per molti) negli anni Novanta. Oggi, definitivamente, un pioniere.
Un “estremista”, fino a ieri. Poi diventato un “equilibrato del naturale” (parole sue). Eppure Maule non è cambiato mai. Qualche capello bianco in più, certo. Qualche ruga sul volto, dovuta ai troppi vaffanculi sottaciuti da un carattere pacato e meditativo, più che agli anni sul groppone. Roba rara da trovare tra i veneti.
Mentre l’Italia lo prendeva per scemo, Angiolino Maule e la moglie Rosamaria, sul finire degli anni Novanta, cominciavano a raccogliere i primi successi della loro azienda agricola: La Biancara di Montebello Vicentino.
Oggi Maule è presidente di VinNatur, l’Associazione Vini Naturali da lui fondata nel 2006, che dal luglio 2016 ha stilato un vero e proprio disciplinare per i propri associati (scaricabile integralmente qui).
Non sono troll le migliaia di visitatori che ogni anno, tra Genova e Vicenza, affollano gli stand degli oltre 170 produttori di vini naturali (italiani ma non solo, alcuni dei quali mappati da Decanter) che si riconoscono nei principi dell’associazione. E non è un troll neppure Angiolino Maule, che concede a vinialsuper questa intervista in esclusiva.
Che cos’è il vino naturale? E’ il vino prodotto senza utilizzo di prodotti di sintesi, né in vigna né in cantina. E con il minor impatto possibile sull’ecosistema
Quali sono gli strumenti a garanzia del consumatore, circa l’effettiva “naturalità” del vino? Quali strumenti ha messo in campo, in questo senso, VinNatur?
VinNatur da 10 anni effettua analisi a tutti gli associati su residui di pesticidi e solforosa totale all’interno dei vini. I produttori che hanno vini con residui e con livelli di anidride solforosa superiori ai 50 mg/l vengono allontanati dall’associazione in un percorso di due anni al massimo.
Ora abbiamo sviluppato anche un disciplinare interno e ci stiamo attrezzando per farlo rispettare in ogni sua parte, tramite controlli alle aziende associate che saranno eseguiti da enti certificatori esterni. Per quanto riguarda altri vini naturali non sono a conoscenza delle eventuali garanzie.
Quante bottiglie produce all’anno il “vigneto naturale” italiano? Su quanti ettari? Proprio per il fatto che non esiste una normativa è difficile stabilirlo. VinNatur in Italia “produce” nel suo insieme circa 5 milioni di bottiglie suddivise su 150 produttori, che in media posseggono 10 ettari vitati.
In Italia, lei è un precursore dei vini naturali: come ha visto evolversi il mercato, in Italia e all’estero?
Per quanto riguarda la mia azienda, fino al 2010 lavoravo prevalentemente all’estero, dove tutt’ora ci sono ottime prospettive anche per aziende piccole o sconosciute. Oggi vedo anche in Italia una bella evoluzione.
Si è passati dal parlarne tanto con pochi consumi, al parlarne e fare economia. Vedo sempre più ristoranti di alto livello proporre vini naturali anche non blasonati e questo mi rende felice.
Esistono vini naturali del tutto privi di quelli che, in una degustazione professionale, sarebbero considerati difetti? Direi proprio di si!
In percentuale, quanti vini naturali “difettati” riscontra ogni 10 assaggi? E in passato? Potrei dire 1 su 10, mentre in passato erano sicuramente di più.
Spesso la critica che viene mossa ai produttori di vini naturali è che facciano passare per “pregi” i difetti del vino: cosa risponde? Purtroppo ci sono ancora colleghi che la pensano così e quindi la critica è più che giusta. I difetti nascondono il vero terroir e la vera espressività del vino, non dobbiamo mai dimenticarlo. Io e molti altri che hanno l’umiltà delle proprie azioni abbiamo sempre ammesso i nostri errori.
Per primi ce ne scusiamo e ci impegniamo ad affrontarli e capire come non ripeterli. Quando presento i miei vini sono il primo a dire “buono, però ora che lo assaggio, lo avrei fatto diversamente e forse migliore!”.
I vini naturali attirano sempre più l’interesse del pubblico, ma sembrano destinati a restare comunque un fenomeno di nicchia, per pochi eletti: perché? Pensa che qualcuno sbagli a comunicarli? Qual è, secondo lei, il modo migliore per avvicinare al mondo dei naturali chi non li conosce? Non credo rimarranno fenomeni di nicchia. Già il Bio sta arrivando alle grandi cooperative vinicole più intraprendenti. Il “naturale” si sta allargando lentamente ma ritengo sia meglio così! Dobbiamo presentarci con umiltà, dicendo quello che facciamo, senza denigrare l’altro.
Sottolineare le differenze tra naturali e convenzionali come ha fatto di recente Live Wine è positivo, oppure ostacola il graduale avvicinamento dei due “mondi”? L’idea del confronto tra diversi approcci non è nuova, è un’idea già utilizzata in passato da altri. Ad una prima vista è fuorviante e per questo non mi è mai piaciuta particolarmente.
Lei beve vini “convenzionali” / “biologici”? Raramente bevo convenzionali e non mi voglio esprimere. Troppi “biologici / tradizionali” che mi capita di bere hanno un gusto per me simile al convenzionale, quindi senza personalità. Credo sia un vero peccato.
Gli additivi presenti nel “vino convenzionale/biologico/biodinamico” possono essere considerati pericolosi per la salute? Ad eccezione di solforosa in eccesso e pesticidi (soprattutto se ci sono più principi attivi) gli altri non sono pericolosi.
Qual è il prezzo di un vino naturale? Dipende dalla qualità. Ci sono vini naturali entry level da 10 euro, ma anche top di gamma da 100 euro in enoteca.
Cosa risponde a chi, provocatoriamente, sostiene che i vini naturali “non esistono”? Siamo costantemente “sotto l’attacco” di esperti ed enologi che sostengono l’inesistenza del vino naturale e l’inadeguatezza di questa definizione. Siamo anche circondati da altri enologi e studiosi che ci danno una mano o che ci osservano con curiosità e voglia di confronto. Per questo vado avanti per la mia strada senza guardare ad inutili polemiche. Ormai è una parola di uso comune, se ne faranno una ragione spero.
Qualche anticipazione sulla prossima edizione di VinNatur a Villa Favorita Verrà dato più spazio agli importatori e ai giornalisti dall’estero che vogliono scoprire le nuove aziende associate. Sarà inoltre strutturata un’area food più efficiente e con produttori di alto livello.
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
MILANO – Dev’essere colpa della politica o del calcio. Per osmosi, anche il mondo del vino registra derive degne di una tribuna d’ultras o di un’aula parlamentare. Da una parte i puri. Gli eno vergini. Quelli che il vino si fa da solo (e l’aceto, di conseguenza, non esiste). Dall’altra, chi riesce ad apprezzare anche i vini cosiddetti “convenzionali”.
Battaglie tra intolleranze mentali più che alimentari, combattute sulla linea Maginot dei social. Eno allergie scatenate dall’utilizzo di “additivi” dipinti come armi chimiche di distruzione di massa. Roba che manco Bram Stoker.
https://youtu.be/3xivuKINhoU
L’ultima pagina di questo wine horror l’hanno scritta gli organizzatori di Live Wine. E dove, se non sui social? La pagina ufficiale dell’evento in programma il 3, 4 e 5 marzo al palazzo del Ghiaccio di Milano, ha diffuso un’immagine che sintetizza bene il contenuto di altre mille cronache di eno guerre tra “puristi” e amanti dei vini convenzionali.
“Quanti additivi ci possono essere in un vino a parte i solfiti? Troppi, ed è per questo che a Live Wine invitiamo solo produttori che scelgono di non utilizzarli”. Segue l’infografica, nemmeno troppo leggibile nelle parti testuali (ma questo non conta ai fini dello sputtanamento) con l’elenco di una sfilza di additivi utilizzati per la produzione dei vini convenzionali, biologici, biodinamici.
Solo “anidride solforosa” per quelli che saranno presenti a Live Wine. Chapeau. Perché io so’ io. E voi non siete un cazzo. Chi garantisce? Il più delle volte non si sa. In fondo, è anche una questione di Fede: basta crederci. Un po’ come non si smette mai di credere nella squadra del cuore.
“Parlare e scrivere di additivi e coadiuvanti nell’enomondo 3.0, dove dopo 4 post su Instagram e 100 like su Facebook prendi la patente da degustatore, è un’impresa coraggiosa”, commenta a vinialsuper l’enologa romagnola Claudia Donegaglia.
“Sull’onda dell’estremismo, del tutto e del contrario di tutto, si è persa la visione d’insieme del vino – continua – demonizzando, invece di cercare di conoscere la materia vino in tutte le sue sfaccettature. Come mi capita di dire spesso, con tutte questa ansia comunicativa si è persa la visione d’insieme del bicchiere”.
UN PO’ DI STORIA: COSA SONO GLI ADDITIVI DEL VINO
Come siamo arrivati a tanto? Perché si insiste a creare muri al posto di costruire ponti tra le due fazioni? Ma soprattutto: perché non partire dal “buono” racchiuso in entrambi gli schieramenti?
Questo è proprio il modello editoriale di noi di vinialsuper, in un eno mondo della stampa e dei wineblogger sempre più avvelenato dalla violenza di certi commentatori frustrati.
“Il mondo del vino è estremamente normato – spiega l’enologa Claudia Donegaglia – ma non da tempi recenti e con l’avvento del vino industriale. Leggete con attenzione: nel 1487 un decreto reale autorizzò in Germania l’aggiunta dello zolfo al vino. Se ne parlava anche in precedenza, ma fino ad allora non era stata stabilita la quantità da utilizzare”.
Calcolando quanto indicato nel decreto, si arriva a 18,8 mg/l. “L’aggiunta – precisa Donegaglia (nella foto) – avveniva impregnando dei trucioli di legno con una miscela di zolfo, erbe aromatiche ed incenso, bruciati nella botte vuota prima di riempirla di vino. Alla luce di tutto questo, vogliamo smettere di bere Riesling?”.
L’uso dei contenitori di legno, secondo l’enologa piemontese, è da far risalire ai tempi degli antichi Greci. “Per avere le prime botti con le doghe dobbiamo ringraziare i Celti e la barrique come contenitore da trasporto era pratica comune ai commerciati di Bordeaux. Cosa facciamo, basta bere vino francese?”.
“Del vino delle sue malattie e de i suoi rimedi è un libro di Giovanni Pozzi del 1816. Di due metodi per levare al vino l’odore di acido solforicodi Giuseppe Gatti risale al 1868. In questi trattati trovate l’indicazione dell’utilizzo del tartrato di potassio per stabilizzare il vino d’inverno, nonché quella di utilizzare la gelatina per limitare la durezza dei vini. Si parla anche dell’uso dell’olio di oliva per eliminare il gusto di fusto, dell’acqua di calce per limitare l’acescenza. Quindi, di additivi e coadiuvanti, mi sembra che si parli da tempo”.
Ai giorni nostri la normativa di riferimento sono: DPR 162/85; Legge UE 817/70; Regolamento UE 822/87; Codice enologico internazionale regolamenta le varie pratiche enologiche.
“Additivo”, come ricorda Donegaglia, “è qualunque sostanza che non è consumata di per sé come alimento, né utilizzata come ingrediente tipico di un alimento, la cui aggiunta intenzionale durante ogni qualsiasi fase della produzione, comporti la sua incorporazione e che influenza le caratteristiche di tale alimento”.
IL VADEMECUM DEGLI ADDITIVI
“L’enologia della demonizzazione e della contrapposizione – continua l’enologa Donegaglia – dovrebbe lasciare il posto alla conoscenza, alla visione d’insieme ed al buonsenso. Gli additivi esistono, così come si sono evoluti la tecnica enologica, la conoscenza, il gusto e le esigenze del consumo finale”. Ecco dunque le spiegazioni dell’esperta sull’utilizzo degli additivi demonizzati da Live Wine.
Acido tartatico, acido malico, acido lattico, acido citrico Acidi organici naturalmente presenti del mosto e nel vino, che possono esse aggiunti per rendere più equilibrato un vino dal punto di vista organolettico ed agevolarne la longevità. Perché, ammettetelo, è l’equilibrio una delle caratteristiche che ricercate.
L’acidificazione ha la funzione di aumentare l’acidità totale e diminuire il pH. L’aggiunta di acido citrico non deve portare il contenuto totale superiore a 1 gr/l. Questo acido ha anche la funzione di chelante (perdita di tossicità) dei metalli.
Colla di pesce Chiarificante ottenuto dalla vescica natatoria dei pesci, viene utilizzato sia in regime biologico che convenzionale, trova il suo uso più diffuso nella chiarifica dei vini bianchi. Rispetto alla gelatina, non dà surcollaggio e fa meno deposito, flocculando in maniera più compatta.
Acido ascorbico Grazie alle proprietà antiossidanti del prodotto, protegge il vino dall’influenza dell’ossigeno e generalmente viene utilizzato a ridosso dell’imbottigliamento. E’ un valido aiuto per le vinificazioni in riduzione e viene utilizzato in regime convenzionale e biologico. La dose aggiunta non deve oltrepassare i 100 mg/l.
Alginato di potassio
Con funzione chiarificante, usato come rifinitore a ridosso dell’imbottigliamento, viene estratto dalle alghe brune e viene utilizzato sia in regime convenzionale che biologico.
GILY: “LIVE WINE? COMUNICAZIONE SBAGLIATA” Sul tema interviene a vinialsuper anche Maurizio Gily dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo.
“Per me – sottolinea Gily – il concetto è che questo modo di comunicare allontana il consumatore dal vino, da tutto il vino. Si cerca un vantaggio competitivo attraverso una forma subdola di diffamazione dei concorrenti”.
“Subdola – continua – perché si suggerisce che un vino convenzionale contenga tutti quegli additivi che poi in gran parte nemmeno sono tali. Inoltre i produttori che ‘scelgono di non utilizzarli’ non hanno modo di dimostrare che è vero, non essendo sottoposti ad alcun controllo. Ci si basa su una dichiarazione, del tutto priva di rischi se si dichiara il falso”.
“Come ho già avuto modo di sottolineare in passato – precisa ancora Maurizio Gily – quella di Live Wine è una una sparacchiata che non giova, in ultima analisi, nemmeno ai produttori di vini ‘naturali'”.
“Infatti – spiega Maurizio Gily – è noto anche a chi, come me, abbia solo minime nozioni di marketing e comunicazione, che pensare di valorizzare il proprio prodotto suggerendo (sia pure senza dichiararlo esplicitamente) che quello degli altri è ‘sporco’ e pericoloso non è soltanto una mancanza di etica della concorrenza. Soprattutto è una strategia da perdenti, che attira su di sé il sospetto di millanteria e quindi non fa vendere di più. Forse il contrario”.
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