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Appius 2015: la sesta “firma” di Hans Terzer sul gioiello di Cantina San Michele Appiano


MILANO –
Pablo Picasso diceva che “l’arte spazza la nostra anima dalla polvere della quotidianità”. Citazione più che mai azzeccata per Appius 2015, sesta annata di uno dei vini simbolo di Cantina San Michele Appiano, che porta la firma del winemaker Hans Terzer. La quotidianità “spezzata” è innanzitutto quella altoatesina. Dopo aver presentato sin dagli esordi le nuove annate del suo gioiello nell’altrettanto sua Appiano (BZ), Cantina St. Michael-Eppan ha scelto in questo 2019 Milano.

Una decisione – quella concretizzatasi ieri sera a Palazzo Bovara – dettata dai lavori in corso per l’ammodernamento del sito produttivo da 2,5 milioni di bottiglie complessive annue, rese possibili da una rete di 330 soci viticoltori, che lavorano “come preziose formichine” – parola di Hans Terzer – ben 385 ettari di vigneto.

Secondo elemento di discontinuità? La scelta dell’accompagnamento culinario, affidato sino allo scorso anno allo chef stellato Herbert Hintner, “vicino di casa” di Cantina San Michele Appiano.

Giocando in trasferta, il presidente Anton Zublasing ha pescato dal cestello l’opzione esotica (l’unica in grado di non scontentare nessuno degli chef tradizionalmente ‘resident’ di Milano): quella di Wicky Priyan del Wicky’s, che ha letteralmente deliziato gli ospiti di Palazzo Bovara con i profumi e i sapori della sua deliziosa Innovative Japanese Cuisine.

Del resto, se di vino si parla, l’opera d’arte deve concretizzarsi nel calice. Non prima, però, di aver affascinato alla vista, ancora chiusa. La bottiglia di Appius 2015 si presenta di fatto con un elegantissimo mantello nero, con scritte e “spolverate” d’oro.

“Non tentate di fotografarla perché è impossibile”, scherza Hans Terzer dopo aver svelato la bottiglia, nascosta per tutta la sera sotto un telo scuro. Riflessi che hanno del metafisico, nel loro prendersi gioco dell’obiettivo delle fotocamere, prima di trovare la giusta inquadratura e angolatura.

Tempo che scorre mentre ci si rende che sì, la bottiglia è bella. Ma ciò che conta è fotografarne (e apprezzarne, poi) l’anima: il contenuto. Roba comunque per pochi “eletti”: solo 6 mila bottiglie, più “qualche grande formato”. Né tante né poche, per un’opera d’arte in “limited edition“.

LA DEGUSTAZIONE

E allora eccolo Appius 2015 finalmente nel calice, a concretizzare le aspettative di un Terzer “sempre più convinto che la via maestra sia quella di una cuvée di vini bianchi concentrata sullo Chardonnay, cui altre varietà bianche fanno da completamento”.

Dunque Chardonnay (55%), Pinot Grigio (20%), Pinot Bianco (15%) e Sauvignon (10%). L’anima nera della bottiglia si fa dorata e densa, d’un giallo paglierino luminoso, con riflessi verdolini lievissimi.

Intenso il naso, quasi esplosivo: racconta più che altro di un Sauvignon di immensa finezza, dalle note erbacee tenere come pochi riescono a coglierle, persino in Alto Adige. Gli fa da spalla il Pinot Bianco, coi suoi preziosi tintinnii agrumati.

A sentori più che altro “duri”, non possono che rispondere – per il principio dell’equilibrio – Pinot Grigio e Chardonnay, con la dosata grassezza che disegna la cifra stilistica di Terzer. Al palato una perfetta corrispondenza. È tutto un rincorrersi di note tropicali d’ananas, banana e mango, ma anche di albicocca e pesca.

Il sorso è al contempo morbido e verticale, vista la freschezza balsamica della mentuccia e della resina di pino, che giocano con la frutta e il sale. Il tutto prima di un finale lungo e asciutto, su ritorni intensi d’agrume e soluzione iodica. Punteggio: 96/100.

IL PROGETTO

La vinificazione di Appius 2015 avviene in botti di legno, così come la prima parte dell’affinamento, svolta in barrique e tonneaux per circa un anno. Segue poi un ulteriore affinamento di tre anni sui lieviti, in tini d’acciaio inox.

Il nome di fantasia “Appius” deriva dalla radice storica e romana di “Appiano”. Prima annata sei anni fa, con la vendemmia 2010, seguita da 2011, 2012, 2013 e 2014. Una cuvée che, anno dopo anno, vuol essere capace di rappresentare fedelmente il millesimo ed esprimere la creatività e la sensibilità del suo autore, Hans Terzer.

Anche il design della bottiglia e la sua etichetta sono reinterpretati di vendemmia in vendemmia. Lo scopo è di concepire una “wine collection” in grado di entusiasmare gli appassionati di vino di tutto il mondo.

Quest’anno la raffigurazione creativa di Appius, ideata e realizzata dai “Brand Performers” di Life Circus di Bolzano, esprime “un concetto d’insieme e il legame tra Natura e Persone, la coesione tra il Terroir, i viticoltori e la Cantina di San Michele Appiano”.

“Una primordiale nube di particelle – spiega un rappresentante dell’azienda – che racchiude l’incessante movimento e l’addensarsi di elementi come terra, acqua, luce, stagioni, e rappresenta la visione appassionata di ricerca verso l’eccellenza”.

Ma soprattutto, l’etichetta di Appius 2015 “permette una libera interpretazione, affinché ogni wine lovers possa averne un’intima ispirazione”. Prima di stappare la bottiglia, s’intende. Cin, cin.

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a tutto volume

“TalkS. Talking about…”: al The Spirit di Milano incontri per parlare di Beverage

MILANO – Ha esordito lo scorso 27 febbraio, al The Spirit Milano, “TalkS. Talking about…“. Una serie di incontri per parlare di buon bere con esperti del settore.

Occasione per confrontarsi su svariati temi legati al mondo del Beverage, il primo incontro ha avuto come focus “Il Design è in grado di alterare la nostra percezione del gusto?“.

Ospiti della serata Simona Cardinetti, product & interior designer e Juan Carlos Viso, l’interior designer che ha progettato e realizzato gli interni di The Spirit. Moderatrice del dibattito Sophie Wannenes, interior designer e personalità dell’antiquariato.

Fulcro della discussione un sottile gioco realizzato dallo staff di The Spirit: un cocktail alla cieca (Not a Club Soda, da noi già assaggiato in occasione delle presentazione della nuova drink list) servito in due contenitori anonimi.

Una bottiglietta trasparente ed un bicchiere highball con stecca di ghiaccio e scorza di limone. La scelta, se fruire della preparazione da un contenitore o dall’altro, è stata da noi fatta anche per attrattiva estetica? Può davvero l’estetica essere veicolo del gusto? I sommelier risponderebbero di no.

Direbbero che il design del contenitore (rigorosamente un calice) ha senso solo per raccogliere e portare correttamente al naso tutti i profumi del vino, spirit, cocktail che stiamo degustando. Ma forse c’è di più.

Se è vero che dalla bottiglietta è praticamente impossibile sentire profumi prima dell’assaggio l’esperimento del The Spirit ci porta a riflettere anche su un altro punto: la gestualità.

Ogni contenitore ci porta per sua natura ad un gestualità diversa del bere. Bere dalla bottiglia è molto diverso che bere da un highball , che è diverso che bere da un baloon, che è diverso che bere da un calice.

Bere dalla bottiglietta ci rimanda mentalmente al bersi una “birretta” alla grigliata con gli amici. Il calice ci rimanda alle degustazioni tecniche e via dicendo. Interviene quindi anche un terzo aspetto, quello della convenzione sociale.

È quindi inevitabile che la nostra scelta, il nostro giudizio di fronte al beverage, sia una somma di aspetti tecnico-degustativi, bellezza estetica ed idea sociale (perché no? Anche preconcetto).

Prendono quindi senso le parole di Juan Carlos quando parla di “vestire l’eccellenza”; di raccontare un prodotto di qualità anche attraverso il design per poter comunicare in modo diretto ed immediato il suo valore. Design che deve essere veicolo contemporaneamente di funzionalità e bellezza per poter trasmettere il messaggio che il prodotto sottintende.

Attenzione, ovviamente, all’effetto opposto: vestire fin troppo bene un prodotto non così eccellente per migliorarne l’appeal. Lo sanno fin troppo bene pubblicitari e communication manager. Ma fintanto che il prodotto resta un’eccellenza allora il design può essere un valido aiuto. Perché, che ci piaccia o no, tutti noi scegliamo anche con gli occhi.

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Food Lifestyle & Travel

Cake Design: Manuela Taddeo campionessa d’Italia

CARRARA – E’ l’architetto milanese Manuela Taddeo la campionessa d’Italia di Cake Design. Il campionato della Fipgc, Federazione Internazionale Pasticceria Gelateria Cioccolateria, si è svolto in occasione di Tirreno CT, la fiera dell’ospitalità food and beverage in corso a Carrara Fiere.

A decretare il successo, un’opera alta 1,75 al Don Chisciotte. Taddeo rappresenterà l’Italia ai campionati mondiali del 2019. Tutto femminile anche il resto del podio, con al secondo posto Valentina Lomaistro e al terzo Maria Principessa.

LE TRE OPERE VINCENTI
L’opera di Manuela Taddeo è stata la più imponente di tutto il Campionato Fipgc e ha richiesto l’utilizzo di diverse tecniche, quali il modelling di zucchero e cioccolato, la creazione di pastigliaggio e l’aerografia, il painting, la ghiaccia reale o ancora i fiori realistici di zucchero, tecniche che hanno richiesto un duro allenamento da parte della cake disegner.

Al secondo posto Valentina Lomaistro di Bari, con l’opera “La Clown Terapia”, dedicata al grande e rivoluzionario medico Patch Adams, terzo posto per Maria Principessa, di Rieti, con “Tutti i migliori sono matti”, che riproduce i personaggi stralunati, poetici e surreali di Johnny Depp, da “Edward Mani di forbici” a Jack Sparrow de “I Pirati dei Caraibi”. 

LA PASTICCERIA IN ITALIA
Secondo recenti dati alla Camera di Commercio di Milano, in Italia ci sono 19.317 attività di pasticceria e gelateria, comprese quelle ambulanti, e quasi 69 mila addetti con dati tendenzialmente stabili.

A guidare la classifica delle gelaterie è Roma con 1.399 attività e 4.195 addetti. Seguono Napoli per imprese (933) e Milano per addetti (2.690). Tra le prime 10 per imprese anche Torino, Salerno, Bari, Brescia, Palermo, Venezia e Catania, mentre Milano (+4,5%) e Palermo (+3,6%) sono le città con la maggior crescita di attività.

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