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Valdobbiadene, rivoluzione del Prosecco con lo Chardonnay? Meglio Verdiso, Bianchetta e Perera


EDITORIALE –
Articolo 2, comma 1 e 2. Articolo 5, comma 3. Tocca scomodare il Decreto del 12 luglio 2019, inerente le “Modifiche al disciplinare di produzione della Denominazione di origine controllata dei vini ‘Conegliano Valdobbiadene – Prosecco” per capire quanto, realmente, i produttori di Valdobbiadene abbiano perso un’occasione d’oro per “distinguersi” – al di là dell’etichetta – dal Prosecco Doc prodotto in pianura (anche in Friuli Venezia Giulia) e non solo sulle colline patrimonio Unesco.

L’8 agosto è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il provvedimento con cui il Ministero delle Politiche agricole alimentari, forestali e del turismo ratifica le richieste presentate il 29 marzo dal Consorzio di Tutela della Docg veneta.

Positiva la valorizzare della tipologia “Rive”, per la “qualità superiore delle uve provenienti da vigneti in forte pendenza, che richiedono un lavoro manuale più lungo e faticoso da parte dei viticoltori” e utile a “distinguere i diversi territori all’interno della Denominazione”. Una sorta di zonazione.

Commovente la “salvaguardia del legame con la tradizione, rendendo ufficiale la tipologia spumante ‘Sui Lieviti’ di Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore, che sta a cuore da generazioni ai produttori del territorio”.

Costruttivo “rispondere, con l’introduzione della tipologia ‘Extra Brut’, al gusto contemporaneo dei consumatori che hanno dimostrato un apprezzamento speciale per il Conegliano Valdobbiadene Prosecco Docg”.

Manca solo un dettaglio. Quello definito, appunto, dagli articoli 2 e 5, e relativi commi. La base ampelografica dei vini “Conegliano Valdobbiadene Prosecco” è sì costituita dalle uve provenienti dai vigneti del vitigno Glera.

Possono concorrere, in ambito aziendale, fino ad un massimo del 15%, le uve Verdiso, Bianchetta trevigiana, Perera e Glera lunga. Ma anche quelle dei vitigni Pinot bianco, Pinot nero, Pinot grigio e Chardonnay, “usate da sole o congiuntamente”.

Una “tradizionale pratica correttiva di aggiunta di vini” ottenuti da varietà internazionali, il cui utilizzo è consentito anche nel disciplinare del Prosecco Doc. Ma non ci si poteva (doveva) distinguere?

Se da un lato è sacrosanto che i vini (specie quelli buoni) non si fanno coi disciplinari, dall’altro, da parte dei produttori e del Consorzio, poteva arrivare un segnale importante, sul fronte della base ampelografica.

Gli esempi di Denominazioni che stanno puntando tutto sull’autoctono, in Italia si sprecano. Basti pensare alla Franciacorta, con il Consorzio concentrato nella valorizzazione e diffusione dell’autoctono bresciano Erbamat.

La necessaria corsa ai ripari dei produttori franciacortini, alle prese con il surriscaldamento globale e i conseguenti cali di freschezza delle basi di Pinot Nero, Chardonnay e Pinot Bianco, si è trasformata in un motivo di promozione del territorio, che porterà presto alla nascita della tipologia Franciacorta “Mordace” e al conseguente aumento delle percentuali di Erbamat ammesse nella cuvée del Metodo classico (ora ferme al 10%).

Hanno storia e storicità anche gli autoctoni divenuti ormai una rarità sulle colline di Conegliano e Valdobbiadene. Le prime testimonianze sul Verdiso risalgono al 1788 e sono legate ai coloni dell’Abbazia di Follina (TV). Il vitigno ha una buona vigoria e si adatta a molti tipi di terreno.

Anche le prime notizie della Bianchetta trevigiana risalgono al Settecento. Si suggeriva l’appassimento, per produrre vini dolci. In epoca più recente ha dimostrato il perfetto carattere alla spumantizzazione, tanto da risultare per decenni il vitigno più coltivato in una quarantina di comuni della Provincia di Treviso.

Varietà storica della zona di Conegliano e Valdobbiadene anche la Perera, nota anche come “Pevarise”. Santo Stefano e San Pietro di Barbozza (TV) le due zone in cui era più presente e riconoscibile, per la sua forma a “pera rovesciata”.

Apprezzata per le sue caratteristiche fruttate, fu decimata dalla fillossera ed ora è rara da reperire. Tre vitigni, insomma, non uno. Già in disciplinare. Chi ci crede, in Consorzio e tra i produttori, alzi la mano. Cin, cin.

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Nas, Operazione Bacco: Chianti, Brunello e Sassicaia contraffatti. Tre arresti

Un’attività di contraffazione “di proporzioni devastanti”. Con queste parole il gip definisce l’attività illecita messa in atto da tre soggetti arrestati ieri nel corso dell’Operazione Bacco. Il blitz è stato coordinato dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Firenze nel capoluogo toscano e a Salerno. L’accusa nei loro confronti è quella di aver messo in piedi un’associazione per delinquere finalizzata alla produzione ed alla immissione nel circuito commerciale di vino adulterato e contraffatto. Un sistema di truffe ben articolato, che prevedeva – tra l’altro – l’acquisizione di società del settore in stato di crisi.

Le indagini, dirette dal sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Firenze Giulio Monferini, hanno permesso di segnalare un totale di dieci soggetti. L’organizzazione, nella quale – come precisa il gip- “ognuno ricopriva un ruolo ben specifico”, aveva il fine di produrre e commercializzare in Italia e all’estero “vino adulterato con aggiunta di alcol, per aumentarne la gradazione rispetto al prodotto base”. Vino che, poi, “veniva contraffatto facendolo apparire quale vino di alta qualità, mediante apposizione sulle bottiglie di false etichette di vini pregiati”, le cosiddette “fascette” recanti il sigillo di Stato a Denominazione di Origine Controllata (Doc) e a Denominazione di Origine Controllata e Garantita (Docg). Copie molto simili all’originale, tanto da “indurre in errore il consumatore e l’operatore commerciale di vendita al dettaglio”. Chianti Doc, Brunello di Montalcino Docg o Sassicaia (Bolgheri Sassicaia Doc) i vini finiti nel mirino dei contraffattori.

I tre arrestati sono il titolare di un’azienda agricola di Empoli, che prestava i propri impianti per l’imbottigliamento e il confezionamento del vino adulterato e contraffatto, nonché due soggetti residenti nella provincia di Salerno, che si occupavano – sempre secondo l’accusa – di reperire il materiale necessario alla contraffazione. Una volta confezionato, il vino veniva stoccato in depositi di ditte riconducibili agli indagati, sia nel Lazio sia in Emilia Romagna. Il vino veniva poi caricato su bilici e trasportato nel mondo. In particolare, una partita di vino di 18 mila bottiglie è stata spedita in Costa Rica, Paese in cui trovava asilo uno uno degli indagati.

Le indagini sono iniziate circa un anno e mezzo fa. In seguito alla segnalazione di un ristoratore finito nella trappola dei truffatori nella zona dell’Osmannoro di Firenze. L’imprenditore, insospettito dal sapore di alcuni vini, ha deciso di segnalare l’anomalia alle forze dell’ordine. Le indagini, complesse e articolate, hanno consentito ai carabinieri del Nas di Firenze di sequestrare l’azienda agricola operante nella provincia di Empoli. Al momento del controllo, 9 mila litri di vino rosso erano pronti per essere imbottigliati.

LE REAZIONI
“Serve tolleranza zero sulle frodi che mettono a rischio lo sviluppo di un settore che è cresciuto puntando su un grande percorso di valorizzazione qualitativa che ha portato il vino italiano a raggiungere il record storico nelle esportazioni per un valore stimato in 5,2 miliardi grazie all’incremento del 3% nel 2016”. E’ quanto afferma la Coldiretti nell’esprimere “apprezzamento per l’operazione Bacco del Nas di Firenze” che hanno scoperto la frode di vino di bassa qualità, adulterato con l’aggiunta di alcol che veniva commercializzato in Italia e all’estero come Chianti doc, Brunello di Montalcino o Sassicaia. “Non può essere messo a rischio – conclude la Coldiretti – il patrimonio di credibilità costruito nel tempo dal vino Made in Italy che oggi è diventato la principale voce dell’export agroalimentare nazionale”.

“Vogliamo ringraziare il Nas e la Direzione distrettuale Antimafia di Firenze –  commenta il direttore del Consorzio di Tutela del Vino Chiati, Giovanni Busi – per aver impedito l’ennesimo tentativo di danneggiare il nostro mercato falsificando e alterando i nostri prodotti. “Un plauso in particolare anche al ristoratore che ha fatto la segnalazione da cui è stato possibile avviare le indagini. Un segnale importante che indica come la ristorazione abbia tutto l’interesse nel proporre vini veri e buoni che rendono il nostro territorio un luogo di eccellenza che tutti abbiamo il dovere di tutelare. Come dobbiamo tutelare – conclude Busi – le migliaia di aziende che su questo territorio ogni giorno operano onestamente nel rispetto delle norme producendo con sacrificio un prodotto che viene esportato e apprezzato in tutto il mondo”.

“Il vino adulterato spacciato per pregiato Doc e Docg – commenta Francesco Colpizzi, presidente della federazione vitivinicola di Confagricoltura Toscana – poteva provocare un danno incalcolabile alle tantissime aziende del territorio che con professionalità lavorano ogni giorno per offrire sui mercati nazionali e internazionali prodotti di qualità. Solo grazie all’azione congiunta della magistratura, delle forze dell’ordine e dei produttori onesti si è riusciti a smantellare questa associazione a delinquere”. “Il vino – conclude Colpizzi – è uno dei prodotti più importanti per la nostra economia e per tale motivo va tutelato e valorizzato, così come va protetto quel tessuto produttivo che contribuisce a rendere unica la nostra regione. Non dobbiamo mai abbassare la guardia, ne va dell’immagine stessa della Toscana nel mondo”.

UN ANNO DI FRODI
Si chiude così un anno positivo per le forze dell’ordine impegnate nel contrasto delle frodi alimentari. Risale a pochi giorni fa un ingente sequestro di Amarone della Valpolicella contraffatto all’interno della catena di supermercati francesi del gruppo Adeo Auchan. Le indagini, in questo caso, procedono contro ignoti. Anche se il cerchio sembra stringersi sempre più attorno ai responsabili della truffa. Un blitz, quello sull’Amarone contraffatto, scattato proprio nel giorno del Black Friday, la giornata di “sconti pazzi” che ha interessato trasversalmente le diverse anime del commercio e della grande distribuzione italiana.

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Tutte le “piazze” del Buttafuoco storico: da Canneto pavese alla conquista di Esselunga

Il figliol prodigo dell’Oltrepò pavese. Il Davide oltrepadano. Da sempre contrapposto, per stile e filosofia, al gigante Golia, che dalle parti di Pavia prende il nome di Bonarda. E’ il Buttafuoco storico, vino rosso da invecchiamento dell’Oltrepò Pavese. Una produzione limitata che, secondo gli ultimi dati, si assesta sulle 65 mila bottiglie. Numero che sale a 360 mila considerando l’intera Doc, che comprende un 25% di vino frizzante. Nulla a che vedere, insomma, con i 20 milioni di bottiglie di Bonarda che ogni anno escono dalle cantine pavesi. Ma per il Buttafuoco, e in particolare per il Buttafuoco storico, il 2016 potrebbe essere l’anno della riscossa. L’intitolazione di una piazza a Canneto Pavese (PV), avvenuta sabato 22 ottobre per volere dall’Amministrazione comunale guidata dal sindaco Francesca Panizzari, è solo uno degli indicatori della crescente attenzione verso questo nobile blend, ottenuto con sapienza dai vitigni Croatina, Barbera, Ughetta e Uva Rara. La vera rivoluzione parte dalla vigna. E arriva sino ai supermercati Esselunga, l’insegna del compianto Bernardo Caprotti. Da qualche settimana, infatti, è possibile trovare il Buttafuoco Storico Doc “Vigna Sacca del Prete” dell’azienda agricola Giulio Fiamberti in tutti e 90 i punti vendita Esselunga dotati di enoteca con servizio sommelier, dislocati sul suolo nazionale. Fa eccezione la sola regione Toscana, dove la catena milanese sta puntando sulla valorizzazione di altri nobili vini locali. Ad annunciarlo è proprio Giulio Fiamberti, non a caso presidente del Club del Buttafuoco storico.

“Negli ultimi anni – dichiara il viticoltore – siamo riusciti a imprimere una decisiva accelerata alle attività del Club, dando forma a una serie di progetti commerciali e di valorizzazione che erano in cantiere da un po’ di tempo. Un interesse sempre maggiore da parte delle istituzioni, complice probabilmente la scarsa forza dell’Oltrepò pavese in generale, che ha permesso di valorizzare ulteriormente alcune eccellenze che sono ormai da anni in controcorrente, oltre a una certa voglia e necessità di avere un prodotto bandiera che indichi una linea di qualità per tutta l’area oltrepadana, sono gli ingredienti del successo del Buttafuoco storico”. Risultati sotto gli occhi di tutti. Che gli attenti buyer di Esselunga non si fanno sfuggire.

“Quello con la catena di Caprotti – commenta ancora Fiamberti – è un rapporto che affonda le radici nei primi anni del 2000, quando è stato inaugurato il punto vendita di Broni, qui in Oltrepò pavese. La mia azienda è stata selezionata in quanto in grado di assicurare tutta la gamma di vini locali e, in più, anche il Buttafuoco storico e il Sangue di Giuda. In particolare, il Buttafuoco fu introdotto in 20 punti vendita. Poi il numero fu ridotto a 10, limitandosi alle province di Milano e Pavia. Arriviamo così sino ad oggi, con il cru ‘Sacca del Prete’ acquistabile in tutti e 90 i punti vendita Esselunga che possono vantare il servizio dei sommelier Ais all’interno delle loro enoteche”. Fiamberti, di fatto, è il maggiore produttore di Buttafuoco storico dell’Oltrepò pavese, con le sue 3.873 bottiglie. Il posizionamento del prodotto in Gdo è – per ora – lievemente sotto standard. “Si parla di 17,50 euro – ammette Fiamberti – ma il prezzo è destinato ad assestarsi, nei prossimi mesi, sui 18,50 euro circa”. In generale, il Buttafuoco storico si aggira tra i 16 e i 20 euro al pubblico, in enoteca. Mentre le cifre salgono a un minimo di 30 euro, grazie ai (grassi) ricarichi applicati dalla ristorazione locale. Mentre a livello nazionale, le carte dei vini sembrano quasi disconoscere il Buttafuoco.

“La produzione, complice la crescente richiesta non solo in Lombardia e in Italia ma anche e soprattutto all’estero, dal Canada alla Cina, è volata dalle 30-35 mila bottiglie del 2010 alle 65 mila potenziali del 2016”, aggiunge Armando Colombi, direttore del Club del Buttafuoco storico. “La superficie vitata è di circa 10 ettari – spiega – ma anche questo numero è destinato a salire. Uno dei progetti più importanti del Club è infatti quello di mappare nuove superfici, recuperando vigne abbandonate e valorizzando i terreni più vocati. I Vignaioli del Buttafuoco storico, che contribuiscono alla produzione del ‘cru dei cru’ consortile, vedono inoltre riconosciuto un valore commerciale di 3 volte superiore alle loro uve: questo perché il Buttafuoco necessita dell’apporto e dell’esperienza di tutti per diventare qualcosa di importante ed affermarsi, non solo come prodotto di nicchia, a livello nazionale e internazionale”.

Grande anche il lavoro sulla comunicazione del marchio. “Chi produce Buttafuoco storico – evidenzia Armando Colombi – non si pone più di tanto il problema di comunicare il prodotto, in quanto la produzione è talmente limitata da risultare sold-out in pochi mesi. Per questo il Club si sta concentrando sulla promozione del Buttafuoco storico nei confronti di chi si occupa di realizzare guide del vino e, in generale, nei confronti di tutti i comunicatori del settore”. Gomiti alti in area di rigore, insomma, per uno dei prodotti della viticoltura italiana più sottovalutati. Almeno nel Belpaese.

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