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«Vini dealcolati? Dobbiamo migliorare la qualità». Parola di Massimo Romani di Argea


Vini dealcolati
al centro del XI Forum Wine Monitor, tra i più fulgidi segnali della
trasformazione in corso nel settore del vino. Ad affrontare il tema è stato Massimo Romani, amministratore delegato di Argea, gruppo vinicolo nato nel 2022 dall’unione di due storici marchi del vino italiano, Botter e Mondodelvino, con la partecipazione del fondo Clessidra. Parliamo dunque di uno dei principali attori nel settore vitivinicolo nazionale, con un giro d’affari di 450 milioni di euro nel 2024, in leggera crescita rispetto all’anno precedente (438 milioni), grazie alla vendita di 180 milioni di bottiglie in 85 Paesi e un team di 500 collaboratori. A stuzzicare Romani sull’argomento, un mai così pimpante Denis Pantini, responsabile Agroalimentare e Wine Monitor Nomisma, nelle vesti di moderatore.

«Sui vini dealcolati – ha dichiarato l’ad di Argea – abbiamo fatto molta strada rispetto a un anno fa. Il mercato ha accolto con interesse queste nuove proposte. Tuttavia, il vero banco di prova rimane la qualità del prodotto, ancora percepita come un fattore critico sia dai consumatori che dagli operatori del settore. I primi tentativi di dealcolazione hanno prodotto risultati poco soddisfacenti, con vini difficili da apprezzare. Ma negli ultimi due anni i progressi sono stati significativi e i prodotti oggi sul mercato sono decisamente migliori».

I (PRIMI) OTTO VINI DEALCOLATI DI ARGEA

La normativa italiana, che consente la dealcolazione solo da gennaio 2024, ha creato alcune difficoltà iniziali ai produttori. Molti, per ovviare a questo ostacolo, si sono rivolti all’estero, affrontando una serie di complicazioni legate a logistica e costi. Argea ha deciso di investire nel segmento dei vini dealcolati con il lancio di una gamma di otto referenze, coprendo tutte le tipologie principali, dai rossi ai bianchi fino agli sparkling. Prodotti che sono stati lanciati a Vinitaly 2024, frutto di otto terroir, da nord a sud d’Italia, i brand Asio Otus, Gran Passione, Zaccagnini Tralcetto (Abruzzo) e Barone Montalto (Sicilia). I primi riscontri commerciali? «Incoraggianti». Sspecialmente nei mercati internazionali.

«Negli Stati Uniti – ha evienziato Massimo Romani – siamo stati listati in tutti gli Stati, tranne il Texas. Questo dimostra che la domanda esiste ed è concreta. L’inserimento nei retailer e nei canali Horeca conferma la volontà dei consumatori di esplorare questa categoria, anche se l’approccio al prodotto varia. Molto spesso il vino dealcolato viene servito by the glass piuttosto che venduto in bottiglia intera. Stiamo già ricevendo richieste per formati più pratici come il 375 ml».

«CHI ACQUISTA VINO DEALCOLATO LO RICOMPRA»

Più difficile prevedere se si tratti di una moda passeggera o di una risposta a esigenze reali dei consumatori, che sempre più spesso optano per prodotti con minore contenuto alcolico per ragioni di salute, regolamentazione o semplice preferenza personale. «Ci sono persone a dieta, chi sceglie di ridurre il consumo di alcol, chi deve guidare e non vuole rinunciare a brindare con gli amici. La domanda c’è, e continuerà a crescere. Il nostro compito è rispondere con prodotti sempre più validi. Non sappiamo ancora quanto grande diventerà questo segmento. Ma un primo segnale incoraggiante è il riacquisto da parte dei consumatori. Se tornano a comprare, significa che stiamo andando nella direzione giusta. Il focus, dunque, deve rimanere sulla qualità. Migliorarla è fondamentale. Avere il controllo diretto della lavorazione ci consentirà di perfezionare il prodotto e renderlo più competitivo».

Oltre alla qualità, un altro tema chiave è il coinvolgimento delle nuove generazioni nel mondo del vino. «Non possiamo aspettare passivamente che i giovani crescano e diventino consumatori abituali di vino. Bisogna parlare la loro lingua e offrire prodotti adatti alle loro abitudini di consumo», ha sottolineato Romani. In questo senso, come evidenziato da Denis Pantini, il vino dealcolato potrebbe essere un’opzione interessante per avvicinare un pubblico più giovane, insieme agli sparkling e ai cocktail a base di vino, che stanno guadagnando popolarità. «Abbiamo un vantaggio competitivo importante: il brand Italia è ancora percepito come sinonimo di qualità e innovazione – ha sottolineato Romano -. Dobbiamo sfruttarlo al meglio».

IL RISCHIO DAZI USA AL XI FORUM WINE MONITOR

Un’attenzione particolare, sempre in occasione del XI Forum Wine Monitor tenutosi in mattinata, è stata dedicata al rischio dei dazi negli Stati Uniti. Un tema di grande preoccupazione per l’export italiano che, come svelato da Winemag, preoccupa non poco gli stessi distributori americani di vino importato, che si stanno mobilitando per fare pressione sul governo Trump. «Se verranno introdotti – ha commentato l’ad di Argea Massimo Romani – alcune fasce di prezzo saranno più colpite di altre. Tuttavia, un dazio del 10% potrebbe essere gestibile, se spalmato lungo tutta la filiera distributiva. L’attenzione resta alta, anche perché il mercato americano rappresenta una fetta significativa dell’export vinicolo italiano». https://argea.com/

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Sorpresa export: la Francia dipende dallo Champagne più che l’Italia dal Prosecco


E se l’export dei vini francesi fosse più dipendente dallo Champagne di quello dei vini italiani, rispetto al Prosecco? È quanto emerge da un’analisi compiuta dal responsabile Nomisma Wine Monitor, Denis Pantini, nel rispondere a una richiesta di Winemag. «
Il Prosecco spumante, escluso cioè quello “frizzante”, per il quale non si riesce ad avere un dato analogo di export – spiega – è passato dal 16% al 23% del valore totale dell’export di vino imbottigliato italiano (dal 2018 al 2023). Anche nei primi 9 mesi del 2024 l’incidenza è la stessa. In “soldoni” si tratta di 1,7 miliardi di euro (2023) e 1,3 miliardi per i nove mesi del 2024».

19 BOTTIGLIE DI VINO ITALIANO OGNI 100 SONO DI PROSECCO

A volume si può dire che 19 bottiglie ogni 100 di vino esportate dall’Italia nel 2024 sono di Prosecco. Interessante però il confronto con gli altri Paesi, come la Francia. «Se prendiamo lo Champagne – continua Denis Pantini – il peso è passato dal 32% al 36%, sempre sul valore dell’export francese di vino imbottigliato. Nel 2024, come risaputo, non sta andando bene e infatti l’incidenza è scesa al 33%. Tuttavia, salta agli occhi il fatto che la Francia, senza Champagne, esprime un valore dell’export totale che diventa lo stesso dell’Italia». Tradotto: «È innegabile il contributo del Prosecco all’export italiano, anche perché spesso ci fa da “ariete” per tutti i vini italiani nell’ingresso in nuovi mercati – conclude il responsabile di Nomisma Wine Monitor – ma è la Francia ad essere maggiormente “sparkling dipendente”, per il proprio export vinicolo».

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Vino italiano in “chiaro-scuro”: Wine Monitor fotografa il primo semestre


Tempo di vendemmia, ma anche di primi bilanci sul mercato del vino. Dall’ultimo Report Wine Monitor di Nomisma emergono situazioni in chiaro-scuro con trend differenti da mercato a mercato, soprattutto per quanto riguarda le vendite in Italia. L’
analisi dei primi sei mesi del 2024, realizzata da Nomisma con in collaborazione con NIQ-NielsenIQ, evidenzia per le vendite nel canale retail italiano un calo a volume di quasi il 3% rispetto allo stesso periodo 2023 a fronte di una crescita di poco meno dell’1% a valore. Nel complesso di evince una riduzione nelle quantità vendute comune a tutti i format distributivi, ma non alle diverse categorie.

VINO, WINE MONITOR: LA FOTOGRAFIA DEL PRIMO SEMESTRE

Nello specifico, per i vini fermi e frizzanti il calo nei volumi risulta maggiore nell’e-commerce mentre è meno accentuato nel segmento discount. Al contrario, per gli spumanti la variazione è di segno positivo in tutti i comparti (più elevata nel discount) salvo che nel segmento Cash&Carry. «Questi numeri – dichiara Denis Pantini, Responsabile Agrifood e Wine Monitor di Nomisma – evidenziano una volta di più come il fattore che sta influenzando maggiormente le vendite del vino in Italia sia rappresentato dal perdurare dell’incertezza economica che si riflette nella capacità di spesa dei consumatori. Un’incertezza che ha interessato anche i consumi fuori-casa, in particolare quelli al ristorante».

A tale proposito, basti pensare che dopo una crescita dei consumi alimentari (food&beverage) nel canale Horeca pari a +7% nel primo trimestre di quest’anno (rispetto allo stesso periodo del 2023), il secondo trimestre ha visto invece un rallentamento, portando la variazione a +4,5%. Su questa dinamica ha inciso indubbiamente anche il minor afflusso di turisti,   con la crescita degli arrivi dall’estero che non sono riusciti a compensare del tutto il calo dei turisti italiani.

L’EXPORT DEL VINO ITALIANO NEI PRIMI 6 MESI DEL 2024

Sui mercati esteri, invece, si scorge qualche segnale di ripresa. Se è vero che al giro di boa del primo semestre 2024 le importazioni cumulate di vino nei principali 12 mercati globali, rappresentativi di oltre il 60% degli acquisti mondiali di vino in valore, si mantengono ancora in territorio negativo (-4%),  va segnalato un miglioramento rispetto al cumulato del primo trimestre (quando il calo risultava pari al -9%). Per altro le importazioni di vino dall’Italia registrano performance migliori rispetto al trend generale. In particolare, rispetto allo stesso semestre del 2023 gli acquisti di vini italiani a valore risultano positivi negli Stati Uniti (+5,7%), nel Regno Unito (+4,7%), in Canada (+1,3%) e in Brasile mentre soffrono in Germania (-9%) e nei paesi asiatici (Giappone, Cina e Corea del Sud).

In merito alle singole categorie, per i vini fermi e frizzanti italiani si evince un “miglioramento” rispetto al primo trimestre di quest’anno. Il calo degli acquisti nei top mercati mondiali si riduce di intensità, arrivando ad un -2% a valore, con performance in controtendenza (e quindi positive) negli Stati Uniti, UK, Canada e Brasile. Rispetto al primo semestre 2023, le importazioni di spumanti italiani mostrano un +4,5% a valori, con performance in crescita negli Stati Uniti, UK, Francia, Canada, Australia e Brasile. Al contrario, continuano le riduzioni degli acquisti di spumanti italiani in Germania, Svizzera e Giappone. Tra i nostri principali vini a denominazione, continua la crescita dell’export di Prosecco (+12% a valore nel cumulato dei primi 5 mesi di quest’anno) e recuperano i rossi Dop della Toscana (+6%) dopo il calo dell’anno scorso, mentre soffrono ancora quelli piemontesi (-2%).

NOMISMA WINE MONITOR: L’ANDAMENTO DEI COMPETITOR DELL’ITALIA

Infine, il report di Nomisma sul primo semestre 2024 del vino propone anche uno sguardo ai competitor. Il grande malato, in questo momento storico, sembra essere il vino francese che più di altri soffre gli effetti di questa congiuntura economica negativa a livello mondiale: -10% il valore dell’export dalla Francia nel primo semestre 2024, con una flessione che tocca il -17% nel caso dello Champagne e il -16% i rossi di Bordeaux, ma non risparmia neppure quelli della Borgogna (-7%).

In negativo anche l’export della Nuova Zelanda (-3%), mentre viaggiano in territorio positivo Spagna, Cile e Stati Uniti. In forte crescita l’Australia (+28%), in recupero dopo il crollo nell’export di vino dell’anno scorso. «Il recupero messo a segno dai vini australiani – conclude Pantini – si spiega interamente con la fine dei super-dazi che il Governo di Pechino ha revocato da marzo di quest’anno: al netto del ritorno sul mercato cinese, l’export dell’Australia nel resto del mondo registra, infatti, un ulteriore calo cumulato dell’11% nel primo semestre 2024».

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Riaperture e revenge spending spingono le vendite di vino italiano

Riaperture e revenge spending determinano un nuovo record storico per le vendite di vino italiano. L’Italia figura tra i top 12 Paesi buyer esteri nel primo semestre 2021. Con le importazioni segnalate in crescita a valore del 7,1% sul pari periodo 2020. Cifra che sale al + 6,8% rispetto al 2019, in regime pre-Covid. Lo rileva l’Osservatorio Vinitaly-Nomisma Wine Monitor.

Si tratta degli ultimi dati doganali sulle importazioni dei 12 principali mercati mondiali della domanda di vino, che assieme valgono circa i 3/4 del totale export made in Italy. Per il vino del Belpaese, lo scatto di questo primo semestre rappresenta il trend di incremento più netto degli ultimi anni. Ma soprattutto controbilancia lo stop forzato del 2020. Con gli interessi.

Tra i 12 Paesi buyer di riferimento bene anche la domanda globale di vino, in crescita nell’ultimo anno dell’8,1%. La Francia vola a +26,2%. Ma, rispetto all’ultimo periodo pre-Covid (primo semestre 2019), è l’Italia che vince sulle principali piazze: +6,8%, a quasi 2,6 miliardi di euro, contro la Francia a +2% (oltre 3,3 miliardi di euro). Importazioni totali di vino, invece, ancora in terreno negativo: -1,7%, pari a quasi 10 miliardi di euro.

MANTOVANI (VERONAFIERE): «MERITO AGLI OPERATORI»

«Il settore è uscito, si spera definitivamente, da una crisi senza precedenti – evidenzia il direttore generale di Veronafiere, Giovanni Mantovani – grazie ai fondamentali dei suoi operatori, alla loro organizzazione commerciale e alla forza del brand tricolore».

Oggi, in particolare con i nostri vini simbolo, siamo al centro del fenomeno legato ai ‘consumi di rivalsa’ post-Covid: un effetto traino da intercettare e da cui ripartire consolidando ancora di più le quote di mercato».

PANTINI (NOMISMA WINE MONITOR):«REVENGE SPENDING SU FASCIA MEDIO-ALTA»

«Dall’analisi dei dati – ha detto il responsabile di Nomisma-Wine Monitor, Denis Pantini – emerge una sorta di ‘revenge spending’ che sta trainando il commercio mondiale di vino e che interessa i vini di fascia medio-alta, come desumibile anche dai prezzi medi all’import».

Una conferma a questa tesi arriva analizzando l’export dei Dop italiani e francesi, con i rossi Dop del Piemonte a +24% o i rossi Dop toscani a +20%. Tendenza ancora più evidente per i rossi a denominazione francesi, con il Bordeaux a +61% e il Borgogna a +59%, ma anche per gli sparkling d’Oltralpe, Champagne in primis, che volano a +56% nel mondo e a +70% negli Usa».

Quanto alle importazioni di vini tricolori nelle 12 principali piazze, sul 2020 l’Italia sovraperforma rispetto al mercato in Cina (+36,8%), in Germania (+9,3%) e in Russia (+29,4%), mentre è sotto la media negli Usa (+1%, ma sul 2019 l’incremento è di quasi il 6%), Uk (-0,4%) e Canada (+2,5%). Crescono le importazioni dei vini fermi (+6,9%, con il prezzo medio salito a +5,9%), mentre gli sparkling incrementano le vendite dell’11,1%, con una riduzione del prezzo medio del 4,8%.

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Covid-19, tiene l’Amarone ma calano Valpolicella e Ripasso

Tiene l’Amarone, calano Valpolicella e Ripasso. Va meglio l’export rispetto al mercato interno, sorridono le grandi aziende ma non le piccole, con il prezzo medio che cala un po’ per tutti. La Valpolicella va in altalena sui mercati nell’anno del Covid-19 e tutto sommato chiude l’anno tirando un sospiro di sollievo.

La principale denominazione rossa del Veneto regge infatti l’urto dell’emergenza e chiude le vendite di vino a valore nel 2020 con un -3,3%, frutto di un risultato stabile dell’export (-0,1%) e di un calo sulla domanda italiana del -9,6%.

È il quadro di sintesi presentato oggi dal responsabile di Nomisma-Wine Monitor, Denis Pantini in occasione della Valpolicella annual conference, la 2 giorni digitale organizzata dal Consorzio tutela vini Valpolicella in chiusura oggi.

L’indagine, condotta su un campione di aziende che rappresenta circa la metà della capacità produttiva dell’area e una media pro-capite di 1,1 milioni di bottiglie vendute, segnala per l’Amarone un mercato double face, con una crescita importante (+7%) nel valore dell’export a fronte di una contrazione del 13% sulla piazza nazionale.

Le destinazioni internazionali, che rimangono meta dei 2/3 delle vendite, accusano un calo nel prezzo del re della Valpolicella di circa il 5%.

«In generale – ha sottolineato il presidente del Consorzio tutela vini Valpolicella, Christian Marchesini – considerata la congiuntura la performance è da considerare positiva per il nostro vino di punta, che chiude l’anno meglio rispetto al trend nazionale».

Ma ciò che preoccupa sono le disparità all’interno del dato generale, con le piccole imprese di qualità che pagano pesantemente la chiusura dell’horeca, con perdite medie del 10% per l’export e del 28% sulla domanda interna. Dinamica questa che colpisce direttamente il dna del nostro tessuto produttivo e che si riflette anche nelle altre Doc osservate dall’indagine».

Sul fronte delle vendite per canale in Italia è evidente come la presenza in Gdo (principale canale di sbocco con un’incidenza del 44% sul totale) delle piccole aziende sia limitata al 10% del totale del loro business, a fronte di una quota elevatissima (47%) di vendite effettuate attraverso la figura del grossista, in gran parte destinata alla ristorazione.

In linea con la media nazionale, l’influenza delle vendite dirette (7%) e di quelle online (3%). Sul fronte export, gli Usa si confermano primo buyer per l’Amarone con una quota di mercato del 14%; a seguire Svizzera (12%), Regno Unito (11%), Canada e Germania (10%). Bene il trend della piazza statunitense a valore (+9%), positive anche le performance nelle altre top 5 piazze, con incrementi dal 4% al 7%.

Valpolicella alla Beaujolais accanto a Ripasso e Amarone sempre più di terroir

Ancora più alta (73%) la propensione all’export per il Ripasso, dove però si registra un calo del 5% a valore. In rosso anche le vendite in Italia che segnano un -6%. Cali pesanti, rispettivamente del 23% e del 25% per le piccole aziende.

Il Canada (+1% le vendite nel 2020) si conferma di gran lunga prima destinazione per il Ripasso con il 23% degli acquisti totali, seguito da Svezia (quota all’11%) e a pari merito da Svizzera, Germania e Regno Unito (9%). In Italia la Gdo è nettamente il primo canale, con il 62% delle vendite a valore.

Vira in negativo anche il Valpolicella, che paga a valore un -3% all’estero (67% l’incidenza export) e un -8% sul mercato nazionale, dove la Gdo rappresenta quasi 2 bottiglie vendute su 3 ma che vale solo il 9% del fatturato delle piccole imprese, in evidente difficoltà sia sulle piazze interne (-21%) che negli scambi internazionali (-21%). Anche qui il Canada si conferma sbocco principale con oltre 1/3 delle vendite totali, seguita dagli Usa (19% la quota) e Norvegia (9%).

Per il responsabile di Nomisma-Wine Monitor, Denis Pantini: «La pandemia ha generato uno scenario di mercato spaccato in due, dove la linea di demarcazione è data principalmente dalle dimensioni aziendali che a loro volta determinano il posizionamento dei propri vini nei diversi canali distributivi».

Quello che è accaduto per la Valpolicella trova analogie in tutti i vini del Belpaese e «sta portando i produttori – ha aggiunto Pantini – a rivedere le proprie strategie commerciali in un’ottica di maggior diversificazione sia di mercato che di canale, come anche emerso dalla stessa indagine svolta nell’ambito dell’Osservatorio sui vini della Valpolicella”.

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Al via la Valpolicella Annual Conference: il vino italiano ha retto alla pandemia

Al via alle 11 odierne la Valpolicella Annual Conference 2021, con la prima sessione dedicata ai trend internazionali del vino italiano nel 2020, con focus su Horeca, Grande distribuzione ed e-commerce. Il quadro multicanale è a tinte tutto sommato positive per i rinomati vini rossi veronesi. A confermarlo Christian Marchesini, presidente del Consorzio Tutela vini che organizza l’evento digitale.

«Il sistema Valpolicella – ha dichiarato – ha risposto bene al 2020. Possiamo dirci felici, anche se fino a un certo punto, dal momento che abbiamo assistito a uno spostamento delle vendite da determinate aziende ad altre. Gli imbottigliamenti sono in linea con il 2019 e confermano la Valpolicella tra i sistemi più importanti a livello nazionale e mondiale, dal momento che l’80% dei vini prodotti nella nostra zona viene esportato».

In particolare, il 2020 chiude con 18 milioni e 200 mila bottiglie di Valpolicella, 30.3 milioni di Ripasso e 15.3 milioni di bottiglie tra Amarone e Recioto. Numeri che regalano fiducia anche quelli snocciolati da Denis Pantini di Nomisma Wine Monitor.

«L’Italia – ha annunciato – chiuderà il 2020 con un calo dell’export in valore di circa 200 milioni di euro, passando dalla cifra record di 6,4 miliardi a 6,2. Quanto ai mercati principali l’Italia, anche grazie ai dazi applicati ad altri Paesi, ha risposto meglio alla Pandemia da Coronavirus».

Il Paese più colpito, di fatto, è la Francia, che lascia sul campo un 10,8%. L’Italia si ferma a un -2,5% (dato novembre 2020) e riduce così il proprio gap dell’export in valore proprio nei confronti del transalpini, con la cifra record del – 40%, il miglior risultato degli ultimi 10 anni.

Cresce a livello mondiale solo l’export della Nuova Zelanda: +4,5%. Un dato, come spiegato da Denis Pantini, dettato soprattutto dai volumi del vino sfuso esportati nel mercato inglese. Eppure, proprio gli Uk segnano un dato drammatico nei bilanci delle imprese del settore Horeca: -80% rispetto al 2019.

GDO E ONLINE, IL PUNTO
Più in generale, a crescere in Italia sono la Grande distribuzione e l’e-commerce. La prima con un +7%, tasso record da decenni, dovuto in gran parte all’exploit dei discount; l’online invece raddoppia nel 2020, con vendite stimate in 203 milioni di euro.

I pure player, ovvero i siti specializzati nella vendita di vino online, hanno registrato un +83%. Un 2020 col botto anche quello di Amazon, le cui vendite “enologiche” crescono del 141%.

E il futuro? Il vino, come attendibile, sarà sempre più “digital”. Secondo una ricerca compiuta ancora una volta da Nomisma Wine Monitor su un campione di mille consumatori, gli acquirenti aumenteranno i loro clic sul web, assicurandosi a domicilio i vini preferiti, scelti online.

«Sono 8 milioni le persone che hanno compiuto acquisti di vino online nel 2020 – ha precisato Denis Pantini – pari al 27% del totale dei consumatori. Forte predominanza dei Millennial, anche se l’età media si spinge fino ai 50 anni. Hanno tutti un buon reddito medio e hanno spostato online i mancanti acquisti fuori porta, dettati dai lockdown e dalle misure anti Covid-19».

Non sta a guardare la Grande distribuzione organizzata, che lo scorso anno ha superato la soglia del 64% delle vendite complessive totali di vino in Italia, proprio grazie alle chiusure dell’Horeca (ristoranti, wine bar, enoteche).

COOP: PORTE APERTE AI PICCOLI PRODUTTORI
A confermalo Francesco Scarcelli, category buyer di Coop Italia. «L’aumento del segmento vini si assesta sul 5,5%, dato da un +4,8 dei fermi e da un +10,5% degli spumanti. È aumentata anche la battuta media, di circa 1 punto e mezzo, ma non per un fenomeno di speculazione su materia prima, bensì per due ordini di ragioni: in primis, i consumatori hanno deciso di bere un po’ meglio; è poi diminuita la pressione promozionale, di circa il 3%».

I clienti della Gdo sono oggi sempre più consapevoli e chiedono alle insegne brand riconoscibili e riconosciuti per qualità e garanzie di bontà, come è il caso della Valpolicella. Per vini con queste caratteristiche, sono disposti a spendere di più rispetto al passato».

Proprio per questo, Coop sta riorganizzando per quanto possibile il proprio assortimento locale. Scarcelli ha infatti confermato quanto già dichiarato a vinialsupermercato.it nei mesi scorsi, ovvero l’intenzione di ragionare su un assortimento più “local” e attendo alle produzioni medio-piccole, diverso di regione in regione (o provincia).

Abbiamo già isolato i vini da tavola dai vini di qualità superiore, avvicinandoli sempre più al food in logica cross category. Ed ora procederemo all’integrazione di nuove realtà su scala locale, garantendo un polmone a tante aziende penalizzate dalle chiusure dell’Horeca e delle perdite di quote export.

Un percorso, avvisa Scarcelli, non certo semplice: «Le piccole cantine devono essere consce di entrare in un mercato complesso – ha concluso il buyer vini di Coop Italia – dal momento che negli ipermercati contiamo già tra gli 800 e le mille referenze. Non sarà facile per le new entry farsi riconoscere velocemente e sarà molto importante creare un rapporto di fiducia e chiarezza, che ci consentirà di qualificare ulteriormente il nostro assortimento».

Valpolicella alla Beaujolais accanto a Ripasso e Amarone sempre più di terroir

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Nomisma Wine Monitor, export 2020: Italia -4,6%, Francia -17,9%

L’analisi a cura dell‘Osservatorio Vinitaly- “Focus mercati – consumi e previsioni import 2020” presentata oggi al wine2wine di Veronafiere, nel corso dell’evento di confronto della filiera con i vertici delle associazioni di rappresentanza e l’Ice, mostra come la pandemia condiziona il commercio mondiale di vino.

Per l’Italia, che nel 2020 chiuderà il proprio export con un -4,6% a valore (6,1 miliardi di euro) sull’anno precedente, gli effetti saranno complessivamente più leggeri rispetto al trend globale (-10,5%) e ancora di più sul principale player del settore, la Francia, costretta a rinunciare al 17,9% delle proprie esportazioni.

Un quadro confortante se si considera l’aumento delle quote di mercato guadagnate dal vigneto Italia; allarmante se si considera l’asimmetria di un dato generale che cela forti ribassi in diverse fasce, a partire dalle piccole imprese ad alto tasso qualitativo.

Il dato generale – ha dichiarato il direttore generale di Veronafiere, Giovanni Mantovani – sulle stime previsionali dimostra come l’Italia sia stata in grado di opporre anticorpi efficaci alla crisi. Il rapporto qualità-prezzo, una più variegata diversificazione dei canali di vendita e lo scampato pericolo dei dazi aggiuntivi negli Stati Uniti hanno consentito di ridurre le perdite all’estero”.

“Il rovescio della medaglia è fatto di tante piccole e medie aziende del vino che, al contrario delle altre, hanno perso i propri riferimenti commerciali, in particolare dell’horeca, e stanno pagando uno scotto molto più rilevante della media. È questo segmento, decisivo per il nostro made in Italy, che occorrerà salvaguardare sin da subito”.

In termini assoluti, la contrazione del valore delle importazioni mondiali di vino stimata (su base doganale) sarà di oltre 3 miliardi di euro rispetto al 2019, soprattutto per effetto delle mancate vendite per oltre 1,7 miliardi di euro del suo market leader, la Francia. Il forecast sull’Italia si ferma invece a -300 milioni di euro, complice anche il boom (+15%) delle esportazioni nel primo bimestre dell’anno, che ha attenuato il passivo.

ITALIA, TIPOLOGIE A CONFRONTO: SPARKLING PEGGIO DEI FERMI DOPO 11 ANNI
Tengono, e talvolta incrementano, le aziende italiane maggiormente presenti sui canali di vendita della Gdo, spesso imprese di dimensioni medio grandi con numeri importanti. Calano invece, anche oltre il 50%, le medio-piccole orientate sui canali retail e nell’horeca. E gli sparkling, (-5,7%) simbolo del fuori casa e della festa, fanno peggio dei fermi (-4,5%) per la prima volta dopo 11 anni (2009). Giù il prezzo medio all’export dell’intera categoria di oltre il 9%, mentre i fermi perdono il 2%.

Uno dei principali rischi – sottolinea il responsabile dell’Osservatorio Vinitaly-Nomisma Wine Monitor, Denis Pantini – che derivano dalla riduzione delle importazioni nei top mercati di sbocco, unito alla diminuzione della domanda sul mercato nazionale, è quello di un decremento dei prezzi di vendita dei nostri vini che vanificherebbe tutti gli sforzi messi in campo in questi anni per un miglior posizionamento di prezzo delle nostre produzioni, con effetti a catena su tutte le imprese e denominazioni”.

“Un rischio concreto, se si pensa che quasi 2 aziende intervistate su 10 nell’indagine qualitativa hanno dichiarato che per contrastare la riduzione degli acquisti e delle forniture stanno pensando a sconti/promozioni per attirare la clientela”.

I TREND PER PAESE
Il -4,6% a valore per il vino italiano è frutto delle stime previsionali sui principali mercati del commercio mondiale del vino, oltre ai focus realizzati in alcuni tra i principali Paesi buyer analizzati (Usa, Germania, Uk, Cina, Giappone, Russia e Australia).

Il Belpaese riuscirà a contenere le perdite e a incrementare sensibilmente le quote di mercato nei suoi 2 principali mercati chiave, gli Stati Uniti (-2% a valore, a 1,7 miliardi di euro) e la Germania (-3%, a 918 miliardi di euro). Un risultato che rappresenta una mezza vittoria se si considera che il calo generale delle importazioni statunitensi (-10,1%, con la Francia a -23%) è di 5 volte superiore al dato italiano, mentre per la Germania la variazione media dell’import è del -7,7%.

Stop significativo invece nel Regno Unito, sempre più lontano dalle forniture europee, con i produttori di Italia e Francia che perderanno rispettivamente il 12,1% e il 16,7%, a fronte di una variazione positiva della domanda sul “Nuovo mondo” di quasi il 5%.

Prosegue la contrazione del mercato cinese (-32% sul prodotto Italia, -29% la variazione totale) e di quello giapponese, che vira in negativo (-15,1%) dopo l’exploit del 2019, così come il Canada (-7,7%). Giù anche la domanda australiana (-3,8%) e russa, che con un valore previsto di 279 milioni di euro segnerà un calo per il vino tricolore del 7,5%.

La performance italiana risulta infine generalmente meno deficitaria rispetto ai competitor grazie alla tenuta di alcune piazze di peso, come la Svizzera (+4,3%) e la Svezia (+2,2%) tra le pochissime a presentare luce verde.

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Wine2wine, indagine Vinitaly-Nomisma: cresce solo un’azienda su dieci nel 2020

Solo un’azienda vitivinicola italiana su 10 aumenterà il proprio business nel 2020, mentre per oltre 7 su 10 le vendite totali vireranno in negativo. È quanto emerge dall’indagine dell’Osservatorio Vinitaly-Nomisma Wine Monitor presentata nel corso del Summit internazionale “Il futuro del vino: visioni differenti, unica prospettiva“.

È difficile commentare dati le cui cause non riflettono il reale stato di salute del vino italiano – afferma il direttore generale di Veronafiere, Giovanni Mantovani – ma un’epidemia mondiale in cui tra l’altro il vino italiano sta pagando la metà delle perdite rispetto ai propri competitor. Il nostro settore avrà tutti i fondamentali per ripartire, a patto che le scelte siano corali e si attui una promozione di bandiera all’altezza della notorietà globale del brand tricolore. Una comunicazione istituzionale cui abbinare eventi italiani legati al trade del vino nel mondo”.

Secondo l’indagine, svolta su un panel di 165 aziende (4 miliardi di euro il fatturato cumulato, di cui 2,5 miliardi relativi all’export, circa il 40% del totale Italia), la generale difficoltà delle imprese è il combinato dei cali nei canali horeca – in rosso nel 91% dei casi -, nel dettaglio specializzato – per 3 produttori su 4 -, dell’export – per il 63% delle aziende – e della vendita diretta in cantina, il cui gap è generato anche dalla fortissima contrazione degli arrivi enoturistici stranieri, in diminuzione per l’87% degli intervistati.

A fare da parziale contraltare, le vendite nella Gdo italiana – in crescita per il 51% dei rispondenti – e il boom dell’online, riscontrato da 8 operatori su 10. Il quadro dell’export, nonostante l’Italia abbia sofferto meno dei propri competitor, è comunque a tinte fosche: il 63% vede rosso, mentre le aziende in crescita sono solo il 18%.

Tra i top 10 mercati maggiormente in difficoltà, Regno Unito e Stati Uniti sono le aree più critiche, in contrazione per il 60% del campione. A seguire, Giappone, Australia, Cina, Germania, Canada, Russia e Svizzera, in uno scenario globale che vede 9 piazze su 10 in negativo, con la sola Svezia a luce verde.

La pandemia ha ulteriormente messo in luce le problematiche strutturali e dimensionali di cui soffre il nostro sistema produttivo – dice il responsabile dell’sservatorio Vinitaly-Nomisma Wine Monitor, Denis Pantini – Con la chiusura dell’Horeca e la ridotta diversificazione dei mercati e dei canali di vendita, sono soprattutto le imprese vinicole più piccole a pagare il conto più salato di questo scenario di crisi dominato dall’incertezza”.

“Un conto che non è certo più leggero anche per le imprese più dimensionate, ma che tuttavia potendo contare su strutture commerciali, finanziarie e patrimoniali più robuste, dimostrano una resilienza indubbiamente più elevata”.

Stando all’analisi del campione, rappresentativo per fatturato ed export, sono infatti le piccole imprese (sotto il milione di euro) a scontare gli indicatori peggiori, con vendite in rosso nell’81% dei casi e con export (74% delle risposte), horeca (95%) e dettaglio specializzato (86%) in contrazione.

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Carta dei vini al ristorante, indagine Nomisma: brand primo criterio di scelta

In tempi di pandemia il brand – in particolare delle aziende “storiche” – è rimasto uno dei principali criteri di scelta da parte dei ristoratori nella formulazione della propria carte dei vini (lo pensa l’84% degli intervistati), prima ancora dei premi sulle guide (63%) o della denominazione nota/famosa (52%). È quanto emerge da una ricerca di Nomisma Wine Monitor per l’Istituto Grandi Marchi sul mercato nazionale e i cui risultati definitivi saranno presentati – Covid permettendo – tra fine anno e inizio 2021.

“Il brand – afferma il professor Piero Mastroberardino, presidente dell’Istituto Grandi Marchi – gioca un ruolo importante per diverse ragioni, in primo luogo perché è un indice di affidabilità, e in un momento di così grande incertezza il cliente probabilmente ritiene opportuno adottare un approccio più prudenziale al processo d’acquisto”.

Inoltre – prosegue – ai brand noti è spesso associato un più elevato tasso di rotazione, che in una fase come questa è importante sia per la sua capacità di restituire efficienza in linea generale alla gestione, sia perché riduce il rischio di ritrovarsi un invenduto in cantina di un ristorante nell’ipotesi malaugurata di improvvisi provvedimenti restrittivi dell’operatività”.

Lo studio, sulla scia degli approfondimenti realizzati negli anni passati nell’ambito della collaborazione tra l’Istituto Grandi Marchi e Nomisma Wine Monitor, quest’anno si è concentrato sulle evoluzioni del mercato italiano ai tempi della pandemia, in particolare sui consumi di vino fuori-casa attraverso una doppia indagine: sui ristoranti e sugli Italiani che acquistano/consumano prevalentemente vino al di fuori delle mura domestiche.

Una prima anticipazione della ricerca ha messo in luce come, prima dell’ultima stretta imposta dal Governo, per arginare la diffusione dei contagi, il coronavirus avesse “piegato ma non spezzato” la ristorazione italiana, con circa un terzo degli intervistati che addirittura prevedeva un forte recupero delle vendite di vino, superiore ai valori del 2019, contro un 50% che comunque stimava un analogo livello ed un 17% che vedeva “nero”.

Pandemia e lockdown hanno comunque lasciato il segno. Per rispondere alle restrizioni imposte di sicurezza sanitaria solamente il 23% dei ristoranti intervistati ha potuto riaprire prima dell’estate mantenendo la medesima capacità operativa del pre-lockdown. Il restante 77% ha dovuto rinunciare a coperti e posti a sedere con il 12% costretto a una riduzione del 50%. Modifiche sostanziali anche dal punto di vista organizzativo, dagli investimenti nella formazione sulle nuove norme igienico-sanitarie (55%) al minor impiego di personale (40%) fino a cambiamenti nei menu e nella wine list (20%).

In questo caso specifico a farne le spese sono stati soprattutto i vini stranieri proposti in carta (il 23% dei ristoranti ha ridotto o addirittura eliminato le etichette estere proposte). Al contrario, i vini locali e/o dello stesso territorio del ristorante sono quelli ad aver subito “tagli” meno drastici, con l’11% dei rispondenti che ha dichiarato di avere addirittura aumentato il numero di tali referenze in carta.

Nel complesso, e fino alla settimana scorsa, il saldo nelle vendite di vino dei ristoranti intervistati evidenziava segno negativo dovuto principalmente alla riduzione della clientela. Una variazione che ha inevitabilmente comportato impatti sui produttori di vino: il 28% dei ristoratori ha dichiarato di aver ridotto il numero dei fornitori abituali, contro un 61% di chi li ha mantenuti costanti.

Se nel 2019 il 68% dei ristoranti effettuava gli acquisti di vino mediamente ogni settimana/mese, con la pandemia tale frequenza è arrivata ad interessare un minor numero di titolari (il 55%). Infine, sui trend che si consolideranno nel settore nei prossimi anni, si riscontrano molte analogie con quanto sta accadendo nella società civile e nei principali settori economici.

Tra i principali cambiamenti indotti dal coronavirus – evidenzia Denis Pantini, Responsabile Nomisma Wine Monitor – e che si manterranno anche nei prossimi anni, figura la digitalizzazione, considerata soprattutto in ambito promozionale e gestionale, dalla presenza sui social network alle modalità di prenotazione on-line fino ai rapporti con i fornitori. Lo dichiara un ristoratore su quattro, accanto ad una gestione più efficiente degli spazi”.

Ma più di tutte, questa pandemia dovrebbe lasciare negli Italiani una maggior consapevolezza riguardo al valore che la ristorazione esprime, sia in termini di qualità dei cibi e dei vini offerti che dei risvolti socioeconomici che lo stesso settore produce sull’intera filiera agroalimentare. Questo almeno era il convincimento del 65% dei ristoratori intervistati, prima dell’ultimo Dpcm che ha introdotto ulteriori restrizioni nelle attività dei pubblici esercizi.

Evidentemente a questo punto resta da capire come evolverà, forse già nelle prossime ore, la situazione di un canale che, va ricordato, incideva fino all’anno scorso per circa un terzo sulle vendite a volume di vino nel nostro Paese.

L’indagine è stata realizzata nel periodo 22 settembre – 23 ottobre 2020 e ha coinvolto 124 ristoranti italiani, localizzati per il 31% nel Nord Est, per il 27% nel Nord Ovest, il 24% nel Centro e il 18% nel Sud del Paese. La media delle etichette presenti nella carta dei vini del campione è pari a 420, il 77% degli intervistati propone un menù degustazione e il prezzo medio di tale menù è di 65 euro. Il 94% dei ristoranti intervistati è segnalato almeno in una delle principali guide di settore.

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Vino: ‘semestre Covid-19’ il peggiore di sempre per l’export

Il ‘semestre Covid-19‘ (marzo-agosto) pesa anche sul commercio mondiale di vino, con una contrazione senza precedenti nella storia moderna del settore. Secondo le elaborazioni dell’Osservatorio Vinitaly-Nomisma Wine Monitor su base dogane nei Paesi extra-Ue gli scambi complessivi di vino nel semestre considerato hanno subito un calo a valore del 15,2%, con una perdita equivalente di circa 1,4 miliardi di euro rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

In tutto ciò il vino italiano, pur registrando il peggior risultato degli ultimi trent’anni, riesce a contenere le perdite e a chiudere il semestre di emergenza sanitaria a -8,6%, dopo un eccellente avvio di anno. Nel primo bimestre il trend segnava infatti +14,5%.

In un altro periodo – dichiara Giovanni Mantovani, direttore generale di Veronafiere – l’export in calo di quasi il 9% significava crisi, oggi è una mezza vittoria se si guardano i competitor, ma il bicchiere rimane comunque mezzo vuoto e la congiuntura non aiuta”.

“Il nostro osservatorio – prosegue – evidenzia uno scenario sempre più asimmetrico all’interno del comparto, e a pagare sono soprattutto le piccole e medie imprese di qualità, asse portante del made in Italy. A wine2wine exhibition & forum (22-24 novembre) faremo il punto sul settore e sulle alternative commerciali direttamente con gli attori internazionali del mercato”.

IMPORT DA ITALIA E FRANCIA: PARIGI PIANGE (-27,7%) MA ROMA NON RIDE (-8,6%)
Il semestre ha inciso notevolmente in termini di quote di mercato nell’extra-Ue tra i due market leader, con la Francia che perde 5 punti e scende al 29,3% mentre l’Italia sale al 23,5%.

Il semestre marzo-agosto – dichiara Denis Pantini responsabile dell’Osservatorio Vinitaly-Nomisma Wine Monitor – ci consegna una pesante diminuzione nelle importazioni di vino dei mercati terzi dove l’Italia sembra soffrire meno rispetto alla Francia alla luce di una distribuzione dei propri vini più equilibrata tra on e off trade”.

“I pessimi segnali che stanno giungendo sulla seconda ondata della diffusione del Covid-19 – prosegue – rischiano tuttavia di appesantire ulteriormente la perdita, considerando che solitamente l’ultimo trimestre arriva ad incidere per circa il 30% sull’export complessivo dell’anno”.

Stati Uniti e Svizzera, rispettivamente la prima e la terza destinazione per il prodotto tricolore, sono i Paesi che hanno contribuito a rendere meno amaro il calice italiano. Da una parte negli Usa (-8,1%) la performance è stata meno drammatica di quella francese (-40,1%) stroncata dai dazi aggiuntivi; dall’altra la Svizzera è addirittura andata in terreno positivo (+7,5%).

La differenza nel computo finale del semestre tra le 2 superpotenze produttive mondiali sta anche nella Cina, che segna un piano sempre più inclinato (-38%) per entrambe ma i cui pesi, e relative ripercussioni, sono ben differenti. Per l’Italia infatti il deficit si traduce in 26 milioni di euro; per la Francia in 122 milioni di euro.

In crisi anche il mercato del Regno Unito, su cui si addensano anche le nubi della Brexit: -9,5% per il Belpaese e -21,6% per i transalpini, con gli sparkling in netta controtendenza sugli ultimi anni, in particolare per Parigi (-41,9%, Roma a -17,4%). Ed è proprio questa tipologia a calare di più anche in termini assoluti, con un crollo del 38,5% delle bollicine francesi e del 12% per gli spumanti italiani.

IMPORT DA MONDO: I SEI MESI PIÙ DIFFICILI DELLA STORIA DEL VINO
È di 7,7 miliardi di euro il valore delle importazioni di vino nei Paesi terzi nel ‘semestre Covid-19’ a fronte di 9,1 miliardi di euro registrati nel pari periodo del 2019. A perdere, 8 tra i 10 top buyer considerati e tutti i primi 5 principali importatori extra-Ue: Usa (-20,7%), Uk (-6,8%), Cina (-35,5%), Canada (-7,9%) e Giappone (-17,5%).

A farne maggiormente le spese proprio la tipologia che è cresciuta di più negli ultimi anni: gli sparkling pagano infatti con un -28,8% e trend negativo in tutte le piazze della domanda, con quella statunitense che paga oltre 1/3 delle vendite in valore. Perdono la metà rispetto alle bollicine i fermi imbottigliati (-14,7%), a partire dalla Cina (-35,8%), con cali sopra la media anche da parte di Usa e Australia.

In generale, la vistosa contrazione del prezzo medio è da addurre a 2 fattori: le grandi difficoltà del canale horeca e di conseguenza dei vini a maggior valore e le condotte speculative lungo la filiera.

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Vino: mercato italiano 2020 in crescita per Gdo ed e-commerce

I consumi di vino in Italia scontano gli effetti della pandemia da Covid-19 con la chiusura dell’Horeca. Al primo semestre, il bilancio che se ne trae è quello di uno spostamento consistente verso gli acquisti in Gdo e online, cresciuti rispettivamente del 9% e 102% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.

Ovviamente, alla luce dei diversi e distanti volumi movimentati da questi due canali nel panorama nazionale dei consumi di vino, si tratta di crescite il cui peso relativo va giustamente contestualizzato: basti infatti pensare che, pur a fronte di questo raddoppio, il rapporto a valori nelle vendite di vino tra e-commerce e Gdo è ancora di 1 a 16.

L’accelerazione impressa dalla pandemia nello sviluppo dell’online per le vendite di vino è innegabile. Anche nei prossimi mesi si assisterà a un consolidamento di tale canale, obbligando così i produttori a una maggior attenzione verso le nuove modalità di vendita. È alla luce di tale evoluzione del mercato che abbiamo avviato la collaborazione con Nielsen, al fine di realizzare congiuntamente analisi dei trend di consumo a supporto della filiera vinicola italiana”, dichiara Denis Pantini, Responsabile Nomisma Wine Monitor.

Secondo una stima Nomisma Wine Monitor – Nielsen, nel primo semestre di quest’anno le vendite on line di vino degli operatori del largo consumo sono aumentate del 147% contro una crescita degli specializzati che si è fermata a un +95%, sebbene questi ultimi siano stati responsabili dell’83% delle vendite e-commerce di vino in Italia.

Sul fronte invece della Distribuzione a Libero Servizio, compresi discount, è interessante segnalare come le vendite di vino siano cresciute anche dopo il lockdown. In particolare le vendite intercorrenti le otto settimane tra il 9 marzo e il 3 maggio sono aumentate del 6,7% a valore e del 9,7% a volume, evidenziando un calo del prezzo medio di quasi il 3%. Nelle otto settimane successive, e quindi in periodo di post-lockdown, le vendite sono cresciute del 16,2% a valori e del 12,9% a volumi, mostrando all’opposto un aumento nei prezzi medi del 3%.

Ovviamente questo trend si è manifestato in maniera differente per le diverse categorie. In particolare, focalizzando l’attenzione alle otto settimane del lockdown, la preferenza degli italiani si è rivolta principalmente verso i vini fermi e frizzanti con un +12,5% a valori rispetto allo stesso periodo 2019 e, all’interno di questa tipologia, verso i rossi con +14,9%.

Al contrario, gli acquisti di spumanti, compreso lo Champagne, si sono ridotti del 19%, complice anche una Pasqua festeggiata all’interno della ristretta cerchia di conviventi tra le stesse mura domestiche. Nelle otto settimane successive, il trend delle vendite è risultato positivo per entrambe le categorie.

Gli spumanti si sono dimostrati in grande spolvero, mentre le vendite di vini fermi e frizzanti sono cresciute di un altro 13,9%, quelle di spumanti e Champagne hanno messo a segno un +27,5%, con in testa gli Charmat Secchi a guidare il recupero con +32,4%.

“L’eCommerce si sta affermando come uno dei canali più prospettici per molte categorie di prodotti del Largo Consumo. Il vino è senza dubbio una di queste. Le sue vendite online mostrano un trend di crescita esponenziale che si è consolidato ancora di più. Misurare la frammentazione delle vendite tra Gdo online e pure player online richiede nuove tecniche e metriche di misurazione. Nielsen è felice e orgogliosa di avviare questa collaborazione con Nomisma per offrire un monitoraggio estensivo sia a livello di vendite che abitudini di consumo, in logica omnicanale”, dichiara Stefano Cini, Consumer Intelligence and eCommerce Leader di Nielsen Connect Italia.

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Vino italiano, Germania e Regno Unito riducono le importazioni causa lockdown

Lockdown amaro per gli scambi di vino nelle due principali piazze europee per l’Italia, Germania e Regno Unito. Lo rivela l’analisi dell’Osservatorio Vinitaly-Nomisma Wine Monitor, su base dogane. Le importazioni a valore dei due top buyer sono calate nel primo quadrimestre rispetto al pari periodo 2019 dell’8,9% in Germania e del 13,3% nel Regno Unito, con un aprile ancora più nero: -19,7 per i primi, -17,5% per i secondi.

Un dato, quello relativo al mercato tedesco, confermato anche dallo studio Nielsen commissionato dal German Wine Institute (Dwi) per monitorare i consumi di vino in Germania. Nel primo trimestre del 2020, i tedeschi si sono sempre più affidati ai vini prodotti in Germania, facendo salire del 4% il volumi e del 2% il fatturato, rispetto al primo trimestre del 2019.

I tedeschi si bevono la Germania: vendite di vino locale in crescita nel 2020

Profondo rosso ad aprile, invece, per la Francia, che cede a valore circa il doppio della media: -40,2% in Germania e -38,6% nel Regno Unito. Un decremento confermato anche nel quadrimestre, con Parigi a -19,8% nell’import teutonico e -24,9% nella domanda Uk. Va meglio invece alla Spagna e alla Nuova Zelanda, quest’ultima in crescita nel Regno Unito dove raggiunge il terzo posto tra i Paesi produttori a scapito dell’Australia e nel quadrimestre segna luce verde in entrambi i Paesi.

Tornando invece al Bel paese, come nel report relativo ai Paesi terzi, anche in Europa l’Italia sconta perdite consistenti ma limita i danni, a dimostrazione di un assortimento dell’offerta più variegato, in particolare sul canale della gdo. Nei 4 mesi il Belpaese cede infatti a valore l’1,3% in Germania e il 15,6% in Gran Bretagna, mentre in aprile il calo è rispettivamente del 12,8% e del 6,5%.

Secondo l’Osservatorio, a una situazione innegabilmente difficile data non solo dal trend delle registrazioni doganali ma anche dal prezzo medio in discesa e dalle più che probabili scorte maturate nei magazzini di distributori e importatori, fa da contraltare una maggior capacità di tenuta rispetto al principale competitor, la Francia.

Ne consegue una crescita delle quote di mercato in Germania (dal 36,8% al 39,9%) e una sostanziale tenuta delle stesse in Uk. L’allarme, al di là dei volumi commercializzati, arriva però dal prezzo medio: -18% in Gran Bretagna e -7% in Germania ad aprile rispetto al trimestre precedente.

“La pressione sui prezzi è preoccupante – evidenzia il responsabile dell’Osservatorio Vinitaly-Nomisma Wine Monitor, Denis Pantini – a testimonianza del fatto che i retailer stanno facendo pressione sui produttori anche alla luce dei primi segnali di recessione che si stanno delineando in questi Paesi e che giocoforza andranno ad incidere pure sugli acquisti di vino”.

“È determinante non interrompere il dialogo con i nostri interlocutori di mercato – sottolinea Giovanni Mantovani, direttore generale di Veronafiere – e a questo serve wine2wine Exhibition&Forum, un evento dinamico e innovativo basato sull’interazione b2b digitale e fisica che comincia ora e termina in fiera a Verona il 22-24 novembre”.

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Vigneto Italia, aprile difficile per export vino extra Ue. Francia in caduta libera

Soffre ma resiste, per ora, il vigneto Italia all’attacco del Covid-19 sul fronte dei mercati extra Ue. Al contrario del suo principale competitor, la Francia, in caduta libera. Il quadro del mercato del vino nel primo quadrimestre 2020, rilevato oggi dall’Osservatorio Vinitaly-Nomisma Wine Monitor (a fonte dogane), è sempre più spezzato in 2 parti: il primo bimestre da record, il secondo da dimenticare. Con un aprile in pieno lockdown globale e tra i peggiori di sempre.

Nel complesso, andando a misurare le performance a valore del periodo nei top 10 Paesi importatori (che valgono il 50% dell’export del Belpaese), l’Italia segna a sorpresa +5,1% sullo stesso periodo dell’anno precedente, grazie all’ottima prestazione negli Stati Uniti (+10,8%, nei primi 2 mesi il dato era a +40%) e in Canada (+7,1%). Profondo rosso invece sul vino francese (-10,1%), in ritirata nelle sue piazze chiave sia in Oriente che in Occidente.

Il crinale, già sconnesso a marzo, si fa però quasi proibitivo ad aprile, dove per i fermi imbottigliati italiani si registrano pesanti cali in tutti i mercati considerati a eccezione di Canada, Russia e Corea del Sud. Si va dal -5,2% (a valori) del Giappone al -12,5% degli Usa (+6,8% gli sparkling), dal -26% della Svizzera al -48% della Cina, per un deficit complessivo sull’anno precedente del 7,2%, contro però il -22,2% francese.

Nei prossimi mesi, secondo l’Osservatorio, la crisi peserà ancora su un bene voluttuario come il vino, alle prese con un minor potere di acquisto della domanda, oltre allo smaltimento dell’invenduto nella ristorazione e nei magazzini degli importatori. Senza considerare il trend della domanda Ue ad aprile, che si preannuncia con un segno negativo più marcato.

Per il direttore generale di Veronafiere, Giovanni Mantovani: “È un momento decisivo per il futuro del vino italiano; la crisi globale impone di fare ora scelte importanti che influiranno anche sul lungo periodo. Perciò Vinitaly ha moltiplicato i propri punti di osservazione e in questi mesi che precedono il Wine2Wine Exhibition&Forum di novembre condurrà sempre di più le aziende e le istituzioni in un percorso di lettura condivisa e multicanale delle dinamiche di mercato del nostro vino nel mondo”.

Ma la perdita italiana potrebbe continuare a rivelarsi più contenuta rispetto ad altri Paesi produttori: “I dati di aprile – rileva il responsabile dell’Osservatorio Vinitaly-Nomisma Wine Monitor, Denis Pantini – parlano di un mercato made in Italy che ovviamente cala ma sembra rispondere alla crisi in maniera più efficace dei propri competitor”.

Il mancato crollo nel mercato statunitense, complici i dazi aggiuntivi sulla Francia, la maggior presenza del prodotto tricolore nella Gdo d’oltreoceano, un miglior rapporto qualità-prezzo, assieme all’ottimo risultato in Canada, rendono meno amaro il calice italiano in tempo di Covid-19, evidenzia Pantini.

Secondo l’analisi, il potenziale rimbalzo potrebbe arrivare nel medio periodo dagli Stati Uniti – già in fase di ripresa dell’occupazione – e forse anche dalla Cina, che pur uscendo per prima dalla pandemia nell’ultimo mese ha dimezzato le proprie importazioni probabilmente a causa di una forte flessione economica accentuata dal conflitto commerciale con gli Stati Uniti.

Nel frattempo, in piena crisi da Covid-19 l’Italia guadagna nelle quote di mercato in quasi tutti i Paesi importatori, con incrementi consistenti in Svizzera (dal 33,1% al 37,7%) e negli Usa (dal 31,4% al 34,2%). Da marzo ai primi di maggio, negli States, si sono impennate del 31% le vendite nell’off trade, in particolare nelle fasce medie di prezzo (11-20 dollari), segmento in cui l’Italia è molto presente e competitiva.

APRILE 2020 vs APRILE 2019 VALORI APRILE 2020 (Euro) TREND
IMPORT TOTALE VINO Italia Francia Italia Francia
Stati Uniti 135.726.139 114.342.387 -7,5% -38,4%
Canada 34.226.637 36.704.566 20,1% -6,1%
Svizzera 23.537.361 20.553.740 -23,1% -47,8%
Russia* *18.299.627     12.872.716 5,0% 15,0%
Giappone 14.589.206 84.130.702 -5,0% 18,2%
Norvegia 11.168.558 10.899.345 1,0% -17,4%
Cina 5.672.727 28.890.501 -51,7% -32,5%
Corea del Sud 3.421.688 5.095.982 3,8% -19,5%
Australia 3.245.210 14.914.842 -28,7% 22,6%
Brasile 2.076.331 1.517.274 -5,5% -50,7%
TOTALE TOP 10 MKT TERZI 233.663.857 329.922.055 -7,2% -22,2%
 * stime
Fonte: Osservatorio Vinitaly-Nomisma Wine Monitor su dati doganali

PROGRAMMA VERONAFIERE WINE&FOOD II SEMESTRE 2020

EVENTO CITTA’ DATA
Bellavita Expo Bangkok 9-12 settembre
Vinitaly China Road Show Shanghai, Xiamen, Chengdu 14-18 settembre
Wine South America Bento Gonçalves 23-25 settembre
Vinitaly International Russia Mosca 26 e 28 ottobre
Vinitaly International Hong Kong Hong Kong 5-7 novembre
Wine to Asia Shenzhen 9-11 novembre
Wine2Wine Forum&Exhibition Verona 22-24 novembre
B/Open Verona 23-24 novembre

(calendario suscettibile di variazioni)

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Coronavirus e rischio “no-deal Brexit”: le incognite del vino italiano in Gran Bretagna

Tre consumatori britannici su 10 hanno dichiarato di aver consumato meno vino italiano rispetto al periodo di pre-quarantena, contro un 53% che non ha modificato le proprie preferenze di acquisto. Tra i principali motivi di questa riduzione figura la chiusura dei ristoranti, in un paese dove il fuori-casa pesa per il 45% del valore totale dei consumi alimentari (in Italia l’incidenza è del 35%). In attesa della fine del lockdown, prevista solo per il 1 giugno a causa della continua crescita dei contagi, lo spettro del “no-deal” si aggira sempre più minaccioso sui negoziati della Brexit.

È quanto evidenzia lo studio compiuto da Nomisma Wine Monitor su un campione di mille consumatori di vino della Gran Bretagna. In particolare si tratta di persone residenti a Londra e nelle grandi città del Regno, con oltre 500 mila abitanti.

La posta in gioco è alta: con un valore superiore ai 3,4 miliardi di euro, il Regno Unito rappresenta il quarto mercato per export di prodotti agroalimentari, di cui 770 milioni di euro legati al vino.

Il prezzo è uno dei principali fattori di scelta nel consumo di vino – evidenzia Denis Pantini, responsabile Agroalimentare di Nomisma – e ha acquisito ancora più importanza per il consumatore britannico durante il lockdown, accanto alla reperibilità di informazioni sul web, così come emerso dalla nostra indagine. E in effetti, un consumatore inglese su due ha dichiarato di aver acquistato vino on-line durante il periodo di quarantena”.

Tutto il mondo è paese. Con la chiusura del canale Horeca, lo sviluppo dell’e-commerce di vino e prodotti alimentari ha conosciuto ritmi di crescita vertiginosi in tutti i mercati colpiti dall’epidemia da Covid-19. Resta da capire come questi trend di consolideranno. Per quanto riguarda invece l’ipotesi di un “revenge spending“, i britannici non sembrano propensi a festeggiare, quando ci sarà, la fine del lockdown.

Solamente – commenta Pantini – il 18% dei consumatori si dice pronto a spendere di più per il vino una volta che riapriranno pub e ristoranti contro un 17% che afferma il contrario e un altro 28% che addirittura berrà meno vino perché uscirà di casa con meno frequenza rispetto a quanto faceva prima dell’epidemia”.

La multicanalità diventerà quindi una strada obbligata nelle strategie commerciali dei produttori di made in Italy alimentare, vista l’eredità che sembra lasciarci il coronavirus in tema di comportamenti di acquisto di wine&food. E probabilmente, non sarà nemmeno l’unica sfida.

Non va infatti dimenticato come il Regno Unito, dal 1° febbraio scorso, sia diventato uno “Stato Terzo” rispetto all’Unione Europea con la previsione di un regime transitorio fino al 31 dicembre 2020 durante il quale vige ancora l’unione doganale.

Soprattutto si stanno trattando le condizioni per un futuro partenariato, a partire dal 2021. I primi segnali che arrivano dai tavoli di negoziazione non sembrano andare nella direzione di un raggiungimento dell’accordo.

“Quasi si percepisce la sensazione del governo britannico di voler ripartire da zero, sfruttando gli impatti derivanti dalla pandemia per riprogrammare l’intera politica economica e commerciale del paese, con tutti i rischi però connessi”, dichiara Paolo De Castro, Membro del Uk Monitoring group del Parlamento Europeo e componente del Comitato Scientifico di Nomisma.

Rischi che in primis riguardano lo stesso Regno Unito, dal momento che l’autosufficienza alimentare del Paese è appena pari al 50%. Ma che interessano anche le imprese alimentari italiane, alla luce della rilevanza che la Gran Bretagna detiene per l’export del Made in Italy.

Più in generale, nel panorama mondiale delle importazioni agroalimentari, il Regno Unito figura al sesto posto con oltre 58 miliardi di euro di prodotti importati nel 2019, nonché al secondo per quanto attiene agli acquisti di vino (poco meno di 4 miliardi di euro).

Rispetto a questi scambi, l’Italia rappresenta un importante partner. L’anno scorso, a fronte di 3,4 miliardi di prodotti agroalimentari esportati dall’Italia in Gran Bretagna, quasi un quarto ha riguardato vino, facendo dell’Italia il secondo fornitore dopo la Francia.

Gli inglesi adorano lo spumante tanto che, nel giro di appena cinque anni, hanno incrementato le importazioni di “bollicine” italiane (in primis Prosecco) da 59 a 96 milioni di litri: più o meno 128 milioni di bottiglie.

Ma il vino non è l’unico prodotto del Made in Italy a deliziare il palato degli inglesi. Il Regno Unito rappresenta infatti il secondo mercato di destinazione delle nostre conserve di pomodoro e il quarto per quanto concerne pasta e formaggi.

“Alla luce della rilevanza di tale mercato per il nostro food&beverage, tra epidemia di Coronavirus e rischio ‘no-deal’ in tema Brexit – concludono all’unisono i rappresentanti di Nomisma Wine Monitor – non possiamo certo dormire sonni tranquilli”.

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Vinitaly-Nomisma Wine Monitor: dazi e inizio covid-19 decisivi su export extra-ue nel trimestre

 

Marzo spartiacque per il commercio mondiale del vino, con l’Italia protagonista in positivo nei primi 2 mesi del 2020 ma in ritirata a marzo, dopo la fine delle scorte anti-dazi statunitensi e in corrispondenza con l’inizio del lockdown da Coronavirus. È quanto rileva l’Osservatorio Vinitaly-Nomisma Wine Monitor nel focus rilasciato oggi sulle vendite di vino nei Paesi extra-Ue nel primo trimestre 2020.

Nel complesso, le elaborazioni svolte su base doganale segnano un andamento globale a due facce tra i top buyer mondiali. Con gli Stati Uniti che, in previsione dell’aumento dei dazi aggiuntivi, fanno precauzionalmente incetta di prodotto e chiudono il trimestre con le importazioni dal resto del mondo a +10,9% a valore, mentre la Cina – in piena emergenza Covid-19 – segna un decremento delle importazioni che sfiora il 20% rispetto al pari periodo 2019.

Segue, stabile, la domanda mondiale di vino da Canada e Giappone e, in rosso, dalla Svizzera (-10,8%). In tutto ciò l’Italia perde di meno in Cina (-13,3%) e guadagna di più negli Usa (+16,8%), con le vendite in Canada e Giappone ancora in terreno positivo dopo gli exploit del 2019, e con la domanda svizzera stabile.

“Due fattori esogeni come i dazi e la pandemia hanno prima favorito e poi penalizzato la crescita delle nostre esportazioni di vino – ha detto il direttore generale di Veronafiere, Giovanni Mantovani – Basti pensare come negli Stati Uniti si sia passati da un incremento record a valore del 40% del primo bimestre a una contrazione del 17,4% a marzo”.

“Nei prossimi mesi – ha proseguito Mantovani – l’impatto della pandemia sui mercati internazionali sarà ancora più evidente, ma auspichiamo che questo autunno l’Italia possa essere la prima a ripartire proprio in Cina, laddove è iniziato con effetto domino il lockdown sull’on-trade del vino. In programma, la prima edizione del Wine to Asia di Shenzhen (9-11 novembre), oltre agli eventi di Vinitaly Hong Kong (5-7 novembre), e Chengd”.

Per il responsabile dell’Osservatorio Vinitaly-Nomisma Wine Monitor, Denis Pantini “Le vendite di vini fermi italiani nell’off-trade (gdo e liquor store) statunitense hanno raggiunto i 94 milioni di litri, che rappresentano solo il 40% delle importazioni totali della tipologia. Ora il quesito si pone su che fine farà l’altro 60% di vino fermo italiano e soprattutto se l’on-trade sarà in grado di ripartire con i ritmi precedenti. Da qui la necessità, specie per la fascia premium che è maggiormente penalizzata, di lavorare su un mix di canali che vedano protagonisti anche quelli dell’e-commerce, in forte crescita non solo negli Usa”.

E sono proprio i vini di qualità superiore che sembrano accusare maggiormente la variazione negativa di marzo: in Svizzera il lockdown della ristorazione ha infatti portato a una contrazione del prezzo medio all’import del 14,6% rispetto allo stesso mese dello scorso anno, negli Stati Uniti un calo del 10,5%, nella Cina del 9,5%, in Norvegia dell’11,5%. Una tendenza al ribasso, come riscontrato anche nella gdo italiana con la recente analisi voluta da Vinitaly, che vede in crescita i vini di fascia medio-bassa allo scaffale ma un progressivo ridimensionamento del valore medio alla bottiglia.

Quanto ai competitor, se l’off-trade è un terreno di agguerrita concorrenza con i vini australiani, cileni e statunitensi, la market leader Francia sembra accusare la congiuntura con maggiori difficoltà rispetto all’Italia, complice l’acuirsi delle difficoltà in Cina (-37,2% nel trimestre), la forte perdita in Svizzera (-24,6%) e la virata in negativo del Giappone. Bene invece, grazie agli sparkling, negli Usa, dove il timore dei dazi al 100% ha fatto lievitare le importazioni di Champagne a +93%.

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Gli Editoriali news news ed eventi

Il bipolarismo dei “bookmakers” del vino ai tempi del Covid-19

EDITORIALE – Neppure 24 ore. Non è passata neppure una giornata intera dalle parole apocalittiche del direttore generale dell’Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino (Oiv) che qualcuno, in Italia, lo ha smentito. In videoconferenza con la stampa internazionale, Pau Roca (nella foto) ha definito le conseguenze di Covid-19irreversibili per il comparto del vino mondiale“.

“Qualcosa di paragonabile – sempre a detta di Roca – alle conseguenze della Seconda Guerra Mondiale, per l’economia europea”. Dichiarazioni, tra parentesi, che mi hanno convinto ancor più che un “Patto sul vino di qualità” tra Gdo e Horeca, in altri tempi giudicabile come una boutade, sembri oggi un po’ meno utopistico.

Fatto sta che, meno di 24 ore ore dopo, è arrivato l’invito alla presentazione (in videoconferenza su Zoom, ieri alle ore 17) di una survey dal titolo emblematico: “Gli effetti del lockdown sui consumi di vino in Italia“.

A moderarla, il Ceo di Bertani Domains, Ettore Nicoletto. Relatori: il direttore generale di Veronafiere, Giovanni Mantovani e il responsabile di Nomisma Wine Monitor, Denis Pantini. Il bello è che “i consumatori italiani, ovvero l’85% della popolazione, si dichiara fedele alle proprie abitudini già a partire dalla fase 2, compatibilmente con la disponibilità finanziaria”.

L’indagine, commissionata da Vinitaly a Nomisma Wine Monitor, ha confermato quanto il lockdown abbia  “frenato i consumi degli italiani”, ma in maniera tutt’altro che “irreversibile”, almeno secondo la survey: “Nel post Covid tutto tornerà come prima, portafoglio permettendo”.

La ricerca, realizzata dal 17 al 22 aprile, ha coinvolto circa 1000 consumatori di vino italiani. Tre su 10 intervistati hanno ridotto il consumo di vino in quarantena. Il 14-15% dichiara di consumare più vino in questi giorni, come evidenziato dal questionario di WineMag.it e Vinialsuper.it, che ha coinvolto circa 300 lettori in 3 giorni.

Chi consuma meno? “Le persone abituate a consumare vino al ristorante – ha risposto Denis Pantini – ma la categoria che conferma di continuare a rinunciare al vino tra le mura domestiche è quella dei Millennials“.

“Dai dati – ha sottolineato Giovanni Mantovani – emerge una gran voglia di ritorno alla normalità. Abbiamo discusso lungamente se finiranno le fiere del vino così come concepite sin ora, in favore del digital. Le prime esperienze arrivate dal post lockdown cinese dicono che tutte le fiere si sono svolte tradizionalmente, a dimostrazione che le persone hanno voglia di vedersi e confrontarsi direttamente. La voglia di tornare alla normalità è forte”.

“Nelle risposte alla survey di Vinitaly e Nomisma Wine Monitor – ha evidenziato Ettore Nicoletto – è evidente il condizionamento del fattore emotivo. Del resto continua ad essere forte l’appeal della marca, del brand, che ha confermato il ruolo determinante nelle scelte d’acquisto, anche durante il lockdown”.

“Gli italiani – ha aggiunto Denis Pantini – si mostrano più prudenti rispetto ad altri intervistati. Una nostra survey negli Usa evidenzia come gli americani rientreranno nei ristoranti a prescindere dalle misure precauzionali che saranno prese, mentre in Italia la prudenza la farà da padrona”. La stessa che servirebbe per tornare a pensare positivamente al futuro, reversibile per definizione. A meno che non si creda nel fato.

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Analisi e Tendenze Vino

Indagine Vinitaly-Nomisma: lockdown frena i consumi, ma nel post covid tornerà come prima

“Nulla sarà come prima”, il refrain post-emergenza, non vale per il popolo del vino: i consumatori italiani (l’85% della popolazione) si dichiarano infatti in buona sostanza fedeli alle proprie abitudini già a partire dalla fase 2, compatibilmente con la loro disponibilità finanziaria.

Lo afferma l’indagine – la prima a focus emergenza a cui ne seguiranno altre nei prossimi mesi – a cura dell’Osservatorio Vinitaly-Nomisma Wine Monitor Gli effetti del lockdown sui consumi di vino in Italia“, realizzata su 1.000 consumatori di vino della popolazione italiana.

La presentazione della survey, moderata dal Ceo di Bertani Domains, Ettore Nicoletto, è in programma questa sera alle 17 nel corso della diretta streaming di “Italian wine in evolution” a cui parteciperanno il direttore generale di Veronafiere, Giovanni Mantovani e il responsabile di Nomisma Wine Monitor, Denis Pantini.

Per il dg di Veronafiere,Giovanni Mantovani: “Se poco sembra modificarsi nelle abitudini al consumo – e questa è una buona notizia – le imprese del vino sono invece chiamate a profondi cambiamenti, alle prese con la necessità di reagire alle tensioni finanziarie e allo stesso tempo di difendersi dalle speculazioni”.

“Il mercato e i suoi nuovi canali di riferimento saranno le principali cure per un settore che oggi necessita di un outlook straordinario sulla congiuntura e di un partner in grado di fornire nuovi orizzonti e soluzioni. Come Veronafiere – ha concluso Mantovani – da qui ai prossimi mesi vogliamo prenderci ancora di più questa responsabilità a supporto del settore”.

Nel frattempo, non è come prima la dinamica dei consumi in regime di lockdown: il bicchiere è più mezzo vuoto che mezzo pieno, e la crescita degli acquisti in Gdo non compensa comunque l’azzeramento dei consumi fuori casa. E se il 55% dei consumatori non ha modificato le proprie abitudini, tre su dieci affermano invece di aver bevuto meno vino (ma anche meno birra) in quarantena, a fronte di un 14% che indica un consumo superiore.

Il “dopo” sarà come “prima” per l’80% dei consumatori. O più di prima, con i millennials che prevedono un significativo aumento del consumo in particolare di vini mixati (il 25% prevede di aumentarne la domanda), a riprova della voglia di tornare a una nuova normalità con i consueti elementi aggreganti, a partire dal prodotto e dai suoi luoghi di consumo fuori casa (ristoranti, locali, wine bar), che valgono una fetta di 1/3 del campione in termini di volume (il 42% tra i millennials).

Il vino – evidenzia l’indagine – non può dunque prescindere dal suo aspetto socializzante, se è vero che la diminuzione riscontrata è da addurre in larga parte (58%) al regime di isolamento imposto dall’emergenza Covid-19 che ha cancellato le uscite nei ristoranti, le bevute in compagnia e gli aperitivi. Per contro, chi dichiara un aumento ha scelto il prodotto enologico quale elemento di relax (23%, in particolare donne del Sud), da abbinare alla buona cucina di casa (42%), specie tra gli smart worker del Nord.

In generale la quarantena sembra aver appiattito anche gli stimoli alla conoscenza, con la sperimentazione delle novità di prodotto in calo sul pre-lockdown (dal 73% al 59%), la preferenza verso i piccoli produttori (dal 65% al 58%), i vini sostenibili (dal 65% al 61%) e gli autoctoni (dall’81% al 76%). Tendenze queste che a detta degli intervistati torneranno identiche a prima nel post quarantena. Ciò che è cambiato, ma è da verificare se lo sarà anche in futuro, è la preferenza del canale di acquisto online, balzata dal 20% al 25%.

Per il responsabile di Nomisma Wine Monitor, Denis Pantini: “Per quanto il lockdown abbia cambiato modalità di acquisto e consumo di vino da parte degli italiani, il desiderio di ritornare ‘ai bei tempi che furono’ sembra prevalere sull’attuale momento di crisi e su comportamenti futuri che giocoforza saranno improntati ad una maggior precauzione e distanza sociale. Si tratta di un asset molto importante in termini di fiducia sulla ripresa e che va preservato soprattutto alla luce della imminente fase 2, anche perché il crollo stimato sul Pil italiano per i mesi a venire rischia di avere impatti sui consumi in considerazione di una domanda rispetto al reddito che nel caso del vino risulta elastica, e come tale, a rischio riduzione in virtù della recessione economica”.

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Carta del vino: Brunello di Montalcino e Barolo inseguono Bordeaux e Borgogna

Brunello di Montalcino e Barolo sono i vini italiani più presenti nelle wine-list dei ristoranti di New York, San Francisco e Londra con prezzi medi stellari – a 320 a più di 400 dollari a bottiglia -. Ma c’è ancora molto da fare rispetto al posizionamento dei competitor Bordeaux e Borgogna.

Lo dicono i numeri presentati oggi a Benvenuto Brunello dal responsabile di Nomisma-Wine Monitor, Denis Pantini. L’analisi, realizzata su 3 città chiave di 2 Paesi, Usa e Regno Unito, leader nell’import di vino (oltre 9 miliardi di euro) dove l’on trade supera a valore in media il 40% dei consumi, si è focalizzata sulle wine-list di 850 ristoranti, per un totale di quasi 216 mila referenze.

Diversi i punti di forza dimostrati dai vini italiani – in particolare da quelli piemontesi e toscani che si alternano in cima alle presenze regionali del Belpaese (Piemonte primo a New York e San Francisco, Toscana in testa a Londra) -, a partire dal numero complessivo delle etichette in carta (oltre 45 mila), fino a un’incidenza media che sale in maniera direttamente proporzionale alla fascia di prezzo del ristorante.

I punti di debolezza sono però evidenti e riguardano un posizionamento che solo in parte prescinde dalla cucina italiana (nei 2/3 dei casi i vini in carta a New York si trovano nei ristoranti made in Italy), un prezzo medio che seppur alto non è paragonabile ai campioni francesi, un en plein dei cugini d’Oltralpe sul fronte delle referenze, primi a New York, San Francisco e Londra.

NEW YORK ROCCAFORTE DEL BRUNELLO
“I dati estratti oggi dal rapporto completo – ha detto il presidente del Consorzio del vino Brunello di Montalcino, Fabrizio Bindocci – sono fondamentali per capire l’esatto posizionamento della nostra denominazione in 3 mercati strategici. Non ci possiamo lamentare se si guarda indietro, ma nemmeno cantare vittoria senza provare a competere con i pochi che ci stanno davanti, perché siamo convinti che il gap sia commerciale e non legato alla qualità del prodotto”.

Il Brunello esce comunque bene tra i top wine mondiali. In particolare a New York, dove è risultato 3° tra le grandi denominazioni rosse con un prezzo medio fissato a 382 dollari a bottiglia per quasi 2mila referenze e una presenza al 57% nei 350 locali selezionati, dato che sale considerevolmente se riferito alla ristorazione di alta fascia.

Minore, ma di tutto rispetto, il prezzo medio (319 dollari) e la presenza nei ristoranti a San Francisco (al 46%), piazza di riferimento per i prodotti della Napa Valley. A Londra la concorrenza francese al Brunello (al 10° posto) è feroce con 4 denominazioni rosse nella top 10, anche se rimane alto il prezzo medio: 339 sterline e circa 400 referenze.

Anche Oltremanica l’incidenza media del principe dei vini toscani nelle carte dei vini (36%) registra un fortissimo rialzo nei ristoranti di lusso: nel campione, infatti, questa tipologia vale solo l’8% dei menù considerati ma raggruppa il 36% delle referenze di Brunello.

ITALIA SUPERPOTENZA
Con oltre 45 mila referenze registrate, il 22% del totale, di cui 27 mila di vino rosso, l’Italia è al secondo posto tra i Paesi di origine presenti nelle wine-list. E una grande fetta arriva dai rossi italiani, in particolare da quelli toscani e piemontesi che a New York rappresentano i 3/4 delle etichette made in Italy della tipologia, mentre a San Francisco sommano il 68% e a Londra il 64%.

A distanza, seguono i rossi di Veneto, Sicilia, Campania e Puglia. Nel computo totale delle presenze bianchi e rossi per Paese d’origine, vince la Francia che domina a New York (46% la percentuale sul totale delle referenze, con l’Italia al 24%), a Londra (50% vs 19%) ed è prima anche a San Francisco (40%), davanti agli Stati Uniti.

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Vino (Vinitaly – Nomisma): mercato USA nel caos per i dazi

VERONA – I dazi aggiuntivi statunitensi mettono nel caos l’export del vino. E a farne le spese, a dicembre, non sono solo i Paesi penalizzati in dogana ma anche l’Italia. È quanto rilevato dall’Osservatorio Vinitaly-Nomisma Wine Monitor, che ha elaborato i nuovi dati delle dogane Usa sui 12 mesi del 2019.

Secondo l’Osservatorio, la guerra commerciale Usa-Ue ha creato negli ultimi mesi una serie di dinamiche negative, e a farne le spese è stata anche l’Italia che a dicembre ha perso il 7% a valore rispetto al pari periodo dello scorso anno, con un -12% per i suoi vini fermi.

In questo circuito vizioso i produttori Ue segnano il passo, con la Francia che negli ultimi 2 mesi vede i propri fermi cadere a -36% e la Spagna a -9%. Per contro, volano le forniture da parte del Nuovo Mondo produttivo, con la Nuova Zelanda che sale a +40% a valore e il Cile, a +53%.

“Assistiamo a un mercato confuso – ha detto il direttore generale di Veronafiere Giovanni Mantovani – contrassegnato prima da una corsa alle scorte e poi da grandi incertezze. Un clima che certo non giova agli scambi, fin qui molto positivi, e che speriamo possa cambiare il prima possibile”.

“Per questo confidiamo nell’odierna missione negli Usa del commissario al Commercio, Phil Hogan – prosegue Mantovani – e nell’ottimismo rappresentato in questi giorni dal commissario all’Economia, Paolo Gentiloni. La speranza è poter arrivare al prossimo Vinitaly in un rinnovato regime di pace commerciale con il nostro storico partner”.

Secondo il responsabile dell’Osservatorio Vinitaly Nomisma Wine Monitor, Denis Pantini “Ciò che emerge è uno scenario di forte incertezza sui principali mercati mondiali della domanda di vino, e questo è un fattore chiave da affrontare nell’anno in corso”.

“Gli Stati Uniti – conclude Pantini – ci consegnano un mercato che nel 2019 è aumentato nell’import globale, probabilmente anche più di quanto sia la reale crescita dei consumi, per effetto di aumento scorte a scopo precauzionale. Anche l’Italia chiude in crescita, sebbene continui a mantenere un prezzo medio nei fermi più basso della media, e con un traino forte degli spumanti”.

È di 5,55 miliardi di euro il valore complessivo del vino importato dagli Usa nel 2019, in crescita del 5,7% sull’anno precedente grazie alla corsa della domanda di spumanti (+11,1%). Tra i principali fornitori, è sempre testa a testa tra la Francia, a 1,92 miliardi di euro (+7,7%), e l’Italia (+4,2%) a 1,75 miliardi di euro, mentre è ottima la performance della Nuova Zelanda anche nei 12 mesi (+11,9).

Tra le tipologie, faticano ancora i fermi&frizzanti italiani, in positivo dell’1,7% mentre sono convincenti una volta di più gli sparkling tricolori, anche lo scorso anno in doppia cifra a +13,7%.

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Quali sono i vini del triennio 2020-2023? Risponde lo studio Nomisma Wine Monitor

Nel triennio 2020-2023, i vini con maggiori potenzialità di crescita sono quelli da vitigni autoctoni per i consumatori italiani, i domestic wines per gli statunitensi e i vini sostenibili per i tedeschi. È quanto emerge da una ricerca Wine Monitor.

I vini bio seguono a ruota in tutti e tre i mercati. Per gli italiani, i vini sostenibili sono ancora qualcosa di “indefinito” a differenza di tedeschi e americani, mentre gli spumanti non sembrano ancora aver esaurito la loro corsa.

“Più preoccupante – commenta Denis Pantini di Wine Monitor – la ‘riscoperta nazionalista’ dei propri vini di tedeschi e statunitensi, in un momento di dazi e rallentamento economico come quello attuale”. Il questionario di circa 20 domande è stato sottoposto ad un campione di oltre mille consumatori, stratificati per genere, età e reddito.

Negli Usa il campione di 1.500 consumatori ha interessato solo gli stati della California e New York, i due principali bacini di consumo dell’intera nazione, mentre per Italia e Germania il campione è rappresentativo dell’intera popolazione.

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Enoturismo

Agroalimentare. Dazi USA: a ciascuno il suo

BOLOGNA – Dopo il verdetto WTO che autorizza gli Stati Uniti ad applicare dazi su un ammontare di circa 7,5 miliardi di dollari sull’import Ue, si tratta di capire nel dettaglio quali paesi e prodotti rischiano maggiormente di essere colpiti.

Attraverso la ricostruzione dei valori di import al 2018 di tutti i singoli prodotti agroalimentari elencati (113) nella lista emanata dall’amministrazione americana (USTR) suddivisi tra Paesi interessati – l’applicazione dei dazi viene infatti determinata sia per tipo di prodotto che per paese importatore – Nomisma Agroalimentare ha individuato per i principali paesi Ue i settori che potrebbero (il condizionale è quantomeno auspicabile, nella speranza che la diplomazia intervenga prima del 18 ottobre) essere maggiormente colpiti da questa nuova imposizione tariffaria.

Innanzitutto va detto che su un totale di import agroalimentare negli USA di origine italiana che nel 2018 è stato di 5,48 miliardi di dollari, l’ammontare che viene interessato dai nuovi dazi è di circa 482 milioni di dollari, vale a dire il 9%.

Se questo può sembrare una buona notizia, il brutto è che la gran parte di tale montante (quasi il 50%) riguarda i formaggi in particolare Dop, come Parmigiano Reggiano, Grana Padano e Pecorino Romano.

Vino, olio d’oliva e pasta non sono stati inseriti nella “black list” mentre il secondo prodotto più colpito sono i liquori, per i quali il dazio del 25% andrebbe ad interessare un valore di quasi 167 milioni di dollari.

I dazi Usa sui nostri formaggi Dop potrebbero avere impatti molto significativi su tutta la filiera lattiero-casearia collegata, alla luce dei forti legami che queste produzioni certificate hanno con il sistema degli allevamenti, sia a livello nazionale che territoriale: basti pensare al Pecorino Romano, prodotto per oltre il 90% in Sardegna che sostanzialmente dipende dal mercato degli Stati Uniti dove esporta oltre il 60% della propria produzione o al Grana Padano e al Parmigiano Reggiano che congiuntamente valorizzano il 40% di tutto il latte vaccino prodotto in Italia” evidenzia Denis Pantini, Direttore dell’Area Agroalimentare di Nomisma.

Nel caso della Francia, il dazio andrebbe a colpire principalmente il settore dei vini fermi su un valore di 1,3 miliardi di dollari (vale a dire il 20% dell’import agroalimentare di origine francese).

In questo caso, Trump ha risparmiato sia lo Champagne che i formaggi transalpini mentre ha “bastonato”, al di fuori dell’agroalimentare, le esportazioni dei grandi aerei commerciali (10% di dazio su 3,5 miliardi di dollari di import), “casus belli” della disputa in corso tra le due sponde dell’Atlantico.

Per la Spagna, il valore dei propri prodotti inseriti nella lista incide per ben il 35% sul totale delle importazioni agroalimentari spagnole negli USA, con olio d’oliva e vino più penalizzati.

In merito al Regno Unito, la quasi totalità dei propri prodotti esportati negli Usa soggetti a nuovi dazi attiene agli spirit e, in particolare al whisky anche se nella lista viene specificato che l’import di questo prodotto sarà “tassato” solo in quota parte e non su tutto l’ammontare.

Va comunque segnalato che, nel 2018, l’import americano di Scotch Whisky è stato di ben 1,6 miliardi di dollari che, unito agli altri prodotti di origine britannica inseriti nella lista, conducono ad una potenziale incidenza delle esportazioni soggette a nuovi dazi di oltre il 60% sul totale degli scambi agroalimentari.

Infine la Germania. Per questo paese, il valore dell’import soggetto a dazio è il più basso dei cinque top exporter considerati, vale a dire 424 milioni di dollari, il 19% del totale degli scambi agroalimentari verso gli Usa. Anche in questo caso, gli spirit rappresentano i prodotti più colpiti.

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Vini premium italiani in Germania: cresce il valore, calano i consumi al ristorante

ROMA – Al ristorante, in Germania, si beve meno vino italiano di fascia alta ma si spende di più rispetto al passato. A dirlo è lo studio “Tendenze e prospettive per i fine wines italiani presso la ristorazione tedesca”, commissionato dall’Istituto del Vino Italiano di Qualità Grandi Marchi all’Osservatorio Wine Monitor di Nomisma e presentato oggi a Roma nella sede dell’Associazione stampa estera (scaricabile integralmente qui).

Sotto la lente, 200 ristoranti (di cui il 78% di fascia medio-alta) segnalati dalle principali guide di settore e un campione di 1000 consumatori che normalmente bevono vino fuori casa.

Due filoni d’indagine da cui emerge come principale tratto comune una vera e propria ‘svolta campanilista’ verso lo stile alimentare tradizionale tedesco a discapito di quello straniero. Di fronte alla scelta del vino da inserire in carta, infatti, il 34% dei ristoratori sceglie principalmente in base all’origine tedesca e poi alla popolarità del vitigno (33%) e alla notorietà del brand (23%).

Sul versante dei consumatori, l’acquisto dei vini premium al ristorante (prezzo a bottiglia superiore ai 30 € per i bianchi e ai 40€ per i rossi) segue il criterio della tipologia (23%) e quello del territorio di produzione (21%) con in testa, nell’ordine, Germania, Francia e Italia.

Senza alcuna sollecitazione da parte degli intervistatori, i clienti dei ristoranti tedeschi coinvolti dall’indagine sono stati in grado di indicare solo alcune tipologie di vino italiano: Chianti, Lambrusco, Barolo, Primitivo e Montepulciano, a riprova del buon lavoro compiuto dai Consorzi, dai produttori e al netto della notorietà già acquisita da queste denominazioni.

Più in generale, su 2,5 miliardi di euro di vino importato nel 2017 in Germania, terzo mercato più importante dopo Usa e UK, il 36% è made in Italy. Negli ultimi cinque anni, in linea con il trend globale, i vini fermi imbottigliati provenienti dall’Italia sono calati in volume del 10%.

Ma hanno comunque registrato una quasi equivalente crescita in valore (+9,8%), a riprova di un evidente riposizionamento qualitativo in un Paese come la Germania, che dal canto suo sta riscoprendo una predilezione verso i local wine, bianchi in testa.

IL COMMENTO
“Nell’ultimo quinquennio – spiega Denis Pantini, responsabile di Nomisma Wine Monitor – si sta assistendo ad un calo dei livelli di consumi (-1,5%) che rischia di diventare strutturale per diverse ragioni. Prima tra tutte, la mancata sostituzione generazionale tra i consumatori stessi”.

“Come per il mercato italiano, la popolazione tedesca che invecchia sta aumentando e, di conseguenza, beve meno, mentre i più giovani prediligono la birra, avvicinandosi al vino in età più matura. A ciò va aggiunta la riscoperta dei vini locali, che sta spingendo il consumatore a guardare sempre meno ai prodotti stranieri”.

“Non a caso, mentre l’import dei vini imbottigliati scende di oltre il 4% a volume, il consumo di vino tedesco tra il 2012 e il 2017 è cresciuto del 3%. Ma c’è poi una terza motivazione legata invece alla percezione del vino tricolore, che evoca tra i consumer essenzialmente un concetto di convivialità, mentre invece non sembra soddisfare a pieno il rapporto qualità-prezzo”, continua Denis Pantini.

“Emerge infatti che per molti degli intervistati i vini made in Italy proposti dalla ristorazione evidenziano prezzi in crescita non giustificata da incrementi qualitativi o legati all’innovazione. Va da sé quindi che il 53% dei ristoratori (63% tra quelli di fascia alta) dichiara di aver aumentato le vendite di vini tedeschi, malgrado gli italiani siano quelli maggiormente diffusi nelle wine list (li ha in carta l’88% degli esercizi intervistati)”.

Secondo l’indagine, sono dunque i teutonici, premium compresi, a primeggiare per il livello qualitativo percepito (35% delle preferenze), seguiti dai francesi (33%) e con distacco dagli italiani (14%). Una valutazione che trova corrispondenza anche nei rispettivi livelli di consumo.

Ma a detta dei ristoratori, la voglia dei clienti di bere sempre meno vini provenienti da altri Paesi, Italia inclusa, dipende principalmente dalla mancata conoscenza: basti pensare che alla domanda rivolta ai consumatori away from home su “quale vino italiano hanno bevuto nell’ultimo anno”, ben 6 su 10 non sono stati in grado di indicare né un brand né una denominazione.

In tal senso, sia per i ristoratori che per i consumatori interpellati, risulta quindi strategica l’organizzazione di eventi e degustazioni, anche se la proposta di inserire in carta brand che non si trovino contestualmente nei supermercati è in cima alle priorità espresse dal 35% dei ristoranti monitorati. Senza però dimenticare che in Germania, oltre l’80% dei vini viene venduto nei canali off-trade, discount in primis.

“Da tempo avvertiamo questo gap e anche un cambio di rotta sul mercato tedesco, ormai in continua evoluzione – dichiara Piero Mastroberardino, presidente dell’Istituto del Vino Italiano di Qualità Grandi Marchi, che riunisce diciannove tra le più importanti cantine del Belpaese – e l’indagine che abbiamo commissionato a Wine Monitor di Nomisma ci fornisce una conferma inequivocabile sul fatto che occorre lavorare sempre più sulla promozione, con azioni mirate sulla ristorazione, che di fatto rappresenta il principale canale di vendita dei fine wines in Germania.

“Negli ultimi anni – conclude Mastroberardino – abbiamo già organizzato diverse iniziative a Berlino, Amburgo, Colonia e Monaco alla presenza degli stessi produttori, proprio per raccontare in prima persona e far conoscere ulteriormente la tradizione, la cultura e l’altissima qualità del made in Italy enologico che la nostra compagine è in grado di rappresentare al meglio. Ma è evidente che occorre intensificare gli sforzi, perché il consumatore tedesco ha bisogno di conoscere la nostra grande varietà e i diversi territori di appartenenza”.

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Analisi e Tendenze Vino

Export agroalimentare: nei primi 5 mesi del 2018 l’Italia corre più dei competitor

In uno scenario di mercato poco favorevole agli scambi commerciali internazionali, l’agroalimentare italiano continua la sua corsa nelle esportazioni, mettendo a segno una crescita nei primi 5 mesi dell’anno pari al +3,5%, una tra le performance più alte se confrontate con i diretti competitor – solo la Francia cresce di più (+4%) – mentre la Germania non va oltre il +1%, la Spagna arretra dell’1%, Usa -8%.

Merito di dinamiche di crescita non solo nei mercati tradizionali (Ue e Nord America, dove i prodotti italiani “sovraperformano” la variazione media delle importazioni) ma anche in quelli “emergenti” dell’Est Europa. È il caso della Polonia, le cui importazioni di Food&Beverage dall’Italia sono aumentate negli ultimi cinque anni di oltre il 46%, un mercato che sarà oggetto di approfondimento – assieme agli impatti della Brexit – del Forum Agrifood Monitor 2018 che si terrà il prossimo 28 settembre a Bologna.

Tra inasprimento dei dazi, ritorno al protezionismo, accordi di libero scambio non ratificati e la Brexit alle porte, l’export agroalimentare dell’Italia in questo (quasi) primo giro di boa del 2018 continua a correre mettendo a segno un +3,5% rispetto all’anno precedente (gennaio-maggio 2018 su stesso periodo 2017 a valore).

“Non dobbiamo però farci ingannare, dato che al momento ci troviamo ancora in una fase di “minacce” e non di “ostacoli” nel senso che tutte le problematiche appena descritte prefigurano uno scenario futuro benché potenzialmente imminente.” ricorda Denis Pantini, Responsabile Area Agroalimentare di Nomisma. In effetti, andando ad analizzare la crescita dell’export italiano per singolo mercato di destinazione, si evince come in molti di quelli oggi sotto “osservazione” per i rischi sopra citati, le esportazioni agroalimentari del nostro paese stanno correndo più di quelle dei concorrenti.

Se negli Usa le importazioni totali di prodotti agroalimentari hanno fatto registrare (a valore) un calo del 4% nel periodo analizzato, quelle dal nostro paese sono invece cresciute del 4,5%. Trend analogo in Canada: a fronte di una riduzione dell’import agroalimentare complessivo del 6,8%, quello di prodotti italiani è aumentato del 4%.
Venendo in Europa si registra un incremento dell’import agroalimentare dall’Italia del 2,6% nel Regno Unito (rispetto ad un -2,4% a livello totale) mentre in Germania le importazioni dall’Italia sono cresciute del 5,8%.

Infine il Giappone, con il quale si è appena chiuso l’Accordo di Partenariato Economico (Jefta) dove anche in questo caso l’import agroalimentare dal nostro paese è cresciuto del +1,6% contro una riduzione complessiva del 5,3%.

In buona sostanza “un’Italia in netta controtendenza che “fa meglio del mercato”, per usare un termine tanto caro ai trader di Borsa, e che invita a valutare con attenzione i possibili impatti per il settore agroalimentare italiano che potrebbero derivare da una riduzione della spinta propulsiva che il commercio internazionale ha impresso alla crescita delle nostre imprese”, conclude Pantini.

Spinta propulsiva che, in una comparazione tra top exporter in questa prima parte dell’anno, sta ponendo l’Italia al di sopra di tutti, eccezion fatta per la Francia che ci supera per pochi decimali in termini di crescita nell’export. Merito anche dei buoni risultati registrati al di fuori dei mercati tradizionali dell’Europa Occidentale o del Nord America come nel caso del Messico (dove l’export agroalimentare italiano cresce del 23%), della Corea del Sud (+20%), della Romania (+13%) o della Polonia (+8%), dove negli ultimi cinque anni le importazioni di  food&beverage dal nostro paese sono aumentate del 46%, grazie anche ad un consumatore locale che ha potuto godere di un maggior livello di benessere e che in prospettiva dovrebbe veder crescere ancora i propri redditi (+18% le previsioni di aumento del pil pro-capite in Polonia nel prossimo quinquennio).

Ed è proprio in relazione a queste performance e al ruolo fondamentale dell’export per la sostenibilità economica delle nostre imprese agroalimentari che la valutazione delle opportunità esistenti nonché dei possibili impatti derivanti dalle diverse minacce che si prospettano all’orizzonte dello scenario di mercato saranno i due temi di approfondimento che il Forum Agrifood Monitor 2018 affronterà il prossimo 28 settembre. Il Forum sarà occasione per esaminare i possibili effetti derivanti dalla Brexit sul sistema agroalimentare italiano e per analizzare il posizionamento, reputazione e percezione che il food&beverage (in particolare i salumi “made in Italy”) detiene presso il consumatore polacco.

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Analisi e Tendenze Vino

VinoVip: buona la prima a Forte dei Marmi

Il 18 giugno si è svolta a Forte dei Marmi la prima edizione di VinoVip al Forte, versione balneare dello storico summit di Cortina d’Ampezzo organizzato da Civiltà del bere.

La sfida non era delle più facili e le attese davvero alte, ma i numeri e l’eco di commenti positivi parlano di un grande successo.

Oltre duecento persone hanno partecipato al convegno “Wine and Money, prospettiva globale“, di scena a Villa Bertelli; mentre la sera, a partire dalle 18, più di 600 ospiti hanno calcato il salone e il primo piano della celeberrima Capannina di Franceschi, dove si è tenuto il Grand tasting.

WINE&MONEY, PROSPETTIVA GLOBALE
Dopo l’inaugurazione, la mattinata si è aperta con il convegno “Wine & Money, prospettiva globale”, nel giardino d’inverno della Fondazione Villa Bertelli. I lavori sono stati introdotti dall’economista americano Mike Veseth, autore della newsletter settimanale The Wine Economist, che ha parlato del delicato rapporto tra vino e denaro.

In un mondo che, volenti o nolenti (che si esporti o meno), vede il viticoltore contemporaneo immerso nel business globale, Veseth individua 4 tendenze in atto da seguire:

#1 Follow the money, cioè individuare i mercati in crescita come Usa e Cina, e mettere a punto azioni di penetrazione veloci e incisive.

#2 Premiumization, la propensione tra i consumatori (sopratutto statunitensi, nda) all’acquisto di prodotti di livello di prezzo superiore.

#3 Return to the brand, la predisposizione a voler produrre un marchio forte.

#4 The rise of identity wine brands, anche se la nascita di brand identitari non sempre porta alla creazione di prodotti di qualità.

GLI INTERVENTI
A seguire gli interventi “di casa nostra” suddivisi in 4 tematiche. Su “Le sfide dell’Italia enoica” si è espresso Angelo Gaja, portando anche la sua esperienza personale negli Usa.

Gaja ha parlato della difficoltà di far crescere il valore del prezzo medio al litro del vino italiano all’estero. Ancora oggi la chiave di volta risiede nel marketing, che vede investimenti insufficienti.

Per concludere con l’auspicio della creazione di un nuovo evento a Milano (e poi itinerante) per trasmettere lo stile di vita e la cultura italiani a livello internazionale.

Una frase sottolineata anche ieri, in occasione della presentazione della prima “Settimana del vino” a Milano, la Milano Wine Week.

Il prof. Attilio Scienza dell’Università di Milano ha poi esortato a capire il valore dell’innovazione, per poter affrontare le sfide più importanti per il mondo vitivinicolo: il cambiamento climatico e la sostenibilità. Per Giuseppe Tasca “non bisogna demonizzare il denaro, e nella propria attività bisogna mettere anche la propria faccia, la cultura e un animo personale”.

L’accurata analisi di Denis Pantini di Nomisma sull’export italiano negli ultimi 5 anni, sul tema de “Le rotte del vino globale”, ha evidenziato la crescita dei vini spumanti, rispetto alle altre tipologie.

Focus sulle dinamiche di 4 piazze interessanti per l’Italia: Usa, Cina, Germania e Svezia. Marina Cvetic di Masciarelli ha parlato della sua esperienza positiva nei mercati dell’Est Europa e del timore di approcciarsi a Paesi come la Cina, dove c’è poca tutela del Made in Italy. Nadia Zenato ha citato Usa e Russia, come piazze già conquistate, e la Cina tra le sue nuove frontiere.

Alcuni produttori hanno in seguito raccontato diversi modelli di gestione della propria azienda. Allegra Antinori ha illustrato il Trust, a cui l’azienda di famiglia si è affidata per tutelare la propria esistenza nel lungo periodo (fino a 90 anni). Elvira Bortolomiol ha portato l’esperienza di una realtà tutta al femminile (costituita da 4 sorelle), che investe sulla qualità del proprio prodotto all’insegna della sostenibilità. Massimo Ruggero di Siddùra è un ex costruttore che si è convertito alla vitivinicoltura in Gallura, dedicandosi a valorizzare la propria identità territoriale.

Dei “Punti di forza, di debolezza, opportunità e rischi del Sistema Italia”, ha parlato Piero Mastroberardino (Federvini), affrontando anche il tema delle difficoltà del Sistema Italia, che “sono strutturali”.

La dimensione è un fattore facilitatore dei conti in azienda. Ma più si è piccoli, più si soffre. Il fatto che la maggior parte delle aziende italiane siano medio-piccole rende difficile, per esempio, ottenere finanziamenti, dotarsi di un management di alto livello o andare all’estero.

Ernesto Abbona (Unione italiana vini) avverte un’esigenza di semplificazione, pur essendo consapevole che la realtà imprenditoriale italiana è anche legata al territorio e, quindi, diversificata. Le imprese private creano valore, così come le forme associative che le comprendono, come i Consorzi.

IL PREMIO KHAIL 2018 A CESARE PILLON
VinoVip al Forte è stata occasione per  ricordare il fondatore di Civiltà del bere: Pino Khail. Dal 2011, anno della sua scomparsa, è stato istituito un Premio alla sua memoria. “Per aver raccontato il vino, nelle sue svariate sfaccettature, con competenza e scrittura raffinata, con ironia e precisione”, il giornalista Cesare Pillon, storica firma del vino italiano, ha ricevuto il Premio Khail 2018.

“Collaboratore assiduo della rivista fondata da Pino Khail, con lui ha condiviso l’idea che l’impegno degli imprenditori vinicoli andasse massimamente valorizzato, considerata l’importanza del loro prodotto per la cultura e l’economia della nostra civiltà”, ha spiegato Alessandro Torcoli, direttore di Civiltà del bere, consegnando la targa commemorativa a uno stupito e commosso Cesare Pillon, omaggiato dalla standing ovation dei 200 ospiti a Villa Bertelli.

IL MANUALE DI CONVERSAZIONE VINICOLA
Il Giardino d’Inverno di Villa Bertelli ha quindi ospitato la presentazione del libro “Manuale di Conversazione Vinicola”, l’ultima opera del giornalista Cesare Pillon. Come ha spiegato il direttore Alessandro Torcoli: “Abbiamo deciso di riunire i vocaboli dell’omonima rubrica, uscita su Civiltà del bere tra il 2007 e il 2013. In tutto 175 lemmi, elencati in ordine alfabetico, che raccontano il mondo del vino con precisione, ma anche fine ironia, che da sempre contraddistingue la scrittura del maestro Pillon”.

Il dizionario, dalla A di “Abbigliamento”, ovvero “packaging delle bottiglie” alla Z di “zuccheraggio”, ossia il dosaggio per le bollicine, spiega i termini chiave dell’enologia, rivelando i paradossi e le mode che hanno attraversato il settore.

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Analisi e Tendenze Vino

VinoVip al Forte: summit di grandi nomi alla Capannina

FORTE DEI MARMI – Dalle Alpi dolomitiche alle Apuane, ovvero da Cortina al litorale di Forte dei Marmi. La storica rivista enologica italiana Civiltà del bere si prepara al lancio di un nuovo evento originale e raffinato. La ventennale manifestazione VinoVip, che riunisce a Cortina d’Ampezzo negli anni “dispari” i grandi nomi dell’enologia e produttori emergenti, nell’estate 2018 approda sul lido del Forte.

VinoVip ospita in Versilia il Gotha della produzione enologica italiana, con aziende vitivinicole top, tra grandi firme (i Protagonisti alla Capannina di Franceschi) e una selezione di “Challenger”, le nuove Sfide italiane.

VinoVip non è solo una degustazione, ma una giornata di confronto durante la quale si danno appuntamento nomi di fama internazionale, in una delle mete turistiche più amate.

L’evento culminerà con un wine tasting alla Capannina di Franceschi, luogo di culto profano e simbolo dell’estate italiana, che per la prima volta ospiterà una degustazione di vini pregiati. Il Comune di Forte dei Marmi ha accolto con entusiasmo l’idea di un’edizione di VinoVip al Forte.

“Forte dei Marmi – ha dichiarato il sindaco Bruno Murzi – è una realtà unica a livello nazionale: in un territorio di appena 9 km quadrati troviamo ben quattro ristoranti stellati che sono un vanto per la città e per l’amministrazione comunale, che li ha recentemente insigniti con un premio. Anche in virtù di questo, sono particolarmente felice di poter ospitare VinoVip, un prestigioso evento a completamento della tradizione di eccellenza dell’arte culinaria di Forte dei Marmi”.

IL PROGRAMMA
La giornata del 18 giugno si aprirà con il convegno, di estremo interesse per i professionisti e i cultori del grande vino: “Wine&Money, prospettiva globale”, introdotto dall’economista divulgatore americano Mike Veseth, fondatore della fortunata newsletter The Wine Economist. Il convegno sarà diviso in quattro tempi, ciascuno dei quali prevede un apripista che inquadrerà l’argomento, seguito poi dagli interventi degli imprenditori protagonisti di VinoVip. I temi (e gli apripista) sono:
1. “Le sfide dell’Italia enoica”. Introduce Angelo Gaja
2. “Le rotte del vino globale”. Introduce Denis Pantini di Nomisma
3. “Imprese da gestire”. Introduce Ettore Nicoletto, amministratore delegato di Santa Margherita Gruppo Vinicolo
4. “Punti di forza, di debolezza, opportunità e rischi del Sistema Italia”. Introduce Piero Mastroberardino.

Al termine del convegno sarà annunciato il vincitore della quinta edizione del Premio Pino Khail “per la valorizzazione del vino italiano”, in precedenza conferito a Lucio Caputo, Lucio Tasca, Piero Antinori e Pio Boffa (Pio Cesare).

Seguirà la presentazione del libro “Manuale di conversazione vinicola” scritto dal decano dei giornalisti del vino, Cesare Pillon, entrambi presso la storica Fondazione Villa Bertelli.

Chiude l’evento il Grand Tasting della Capannina (dalle 18 alle 22) con i 52 Protagonisti di VinoVip al Forte 2018: sarà l’occasione per assaggiare i vini delle aziende che hanno scritto la storia di uno dei prodotti simbolo del made in Italy.

E alla Capannina non può mancare la migliore musica, con una “play list” ideata dal sound sommelier Paolo Scarpellini, collaboratore di Civiltà del bere, che abbinerà brani musicali alle etichette presentate, uno per ciascun produttore vinicolo protagonista.

“Da tempo desideravamo trovare un’alternativa ‘marittima’ al nostro fortunatissimo VinoVip Cortina – ha dichiarato Alessandro Torcoli, editore e direttore della rivista – evento di punta di Civiltà del bere da 20 anni. Abbiamo finalmente trovato in Forte dei Marmi il luogo ideale. Le affinità tra le due località di villeggiatura sono molte: eleganza, esclusività, qualità, fama internazionale”.

VinoVip al Forte si avvale del servizio dei sommelier di Ais Toscana. “Siamo da sempre con entusiasmo e professionalità al fianco dei principali eventi di promozione e diffusione della cultura del bere”, afferma il presidente Ais Toscana Osvaldo Baroncelli.

“Una manifestazione così importante come VinoVip – continua – che dalle Dolomiti approda in Versilia, nella nostra regione che ha nel Dna la cultura enologica, è un grande appuntamento di confronto per gli addetti ai lavori e di degustazione per i wine lovers”.

“È un contesto unico – conclude Baroncelli – e siamo onorati di collaborare a questo evento di Civiltà dal bere, la più longeva rivista di settore, nonché oggi importante network di comunicazione sul vino”. A VinoVip al Forte saranno presenti alcune tra le aziende più blasonate d’Italia.

LE CANTINE PRESENTI A VINOVIP AL FORTE
Marchesi Antinori, Tenuta Artimino, Guido Berlucchi, Bertani Domains, Bisol, Bortolomiol, Bottega, Castello di Querceto, Conte Vistarino, Famiglia Cotarella, Cleto Chiarli, Cuvage, Dievole, Domini Castellare di Castellina, Cantine Due Palme, Livio Felluga, Cantine Ferrari, Feudi di San Gregorio, Ambrogio e Giovanni Folonari, La Vis.

E ancora: Librandi, Marchesi di Barolo, Masciarelli, Masi Agricola, Mastroberardino, Mezzacorona, Pasqua, Petra, Pio Cesare, Planeta, Rocca delle Macìe, Ruggeri, Tenuta San Guido, Tenuta Santa Caterina, Santa Margherita Gruppo Vinicolo, Cantine Settesoli, Tasca d’Almerita.

Infine: Tenuta di Trinoro/Passopisciaro, Tommasi Family Estates, Torre Rosazza, Umani Ronchi, Velenosi, Villa Matilde, Vite Colte, Zenato. I challenger: Eleva, La Viarte, Monteverro, Poggio Cagnano, PuntoZero, Siddura, Tenuta di Fiorano.

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news ed eventi

Export agroalimentare a 40 miliardi: i dati, regione per regione

Secondo stime Nomisma Agrifood Monitor, quest’anno l’export agroalimentare italiano oltrepasserà i 40 miliardi di euro, grazie ad una crescita superiore al 6% rispetto all’anno precedente.

A spingere il settore verso un nuovo record nelle vendite oltre frontiera sono soprattutto le esportazioni dei prodotti simbolo del “Made in Italy” alimentare, vale a dire vino, salumi e formaggi che dovrebbero chiudere l’anno con un aumento nell’export
compreso tra il 7 e il 9%.

Guardando invece ai mercati di destinazione sono soprattutto i paesi extra-Ue (seppure rappresentino ancora meno del 35% dell’export totale) ad evidenziare i tassi di crescita più elevati. Tra questi Russia e Cina, con variazioni negli acquisti di prodotti agroalimentari italiani a doppia cifra (oltre il 20%), benché il loro “peso” continui ad essere marginale sul totale dell’export (meno del 2%). In linea invece con la media di settore le esportazioni verso Nord America e paesi Ue (dati gennaio-luglio 2017).

“L’aumento dell’export unito ad un consolidamento della ripresa dei consumi alimentari sul mercato nazionale (+1,1% le vendite alimentari nei primi 9 mesi di quest’anno rispetto allo stesso periodo del 2016) prefigurano un 2017 all’insegna della crescita economica per le imprese della filiera agroalimentare” dichiara Denis Pantini, Responsabile dell’Area Agroalimentare di Nomisma.

Una filiera che dalla produzione agricola alla distribuzione al dettaglio e ristorazione vale oltre 130 miliardi di euro di valore aggiunto (pari al 9% del Pil italiano), genera lavoro per oltre 3,2 milioni di occupati (il 13% del totale) e coinvolge 1,3 milioni di imprese (il 25% delle aziende attive iscritte nel Registro Imprese delle Camere di Commercio).

Ma la rilevanza strategica della filiera agroalimentare va oltre i valori assoluti e si esprime nella sua capacità di tenuta e salvaguardia socioeconomica anche in tempo di crisi.

“Dallo scoppio della recessione globale (2008) ad oggi” continua Pantini “il valore aggiunto della filiera agroalimentare italiana è cresciuto del 16%, contro un calo di oltre l’1% registrato dal settore manifatturiero e un recupero del 2% del totale economia, avvenuto in maniera significativa solamente a partire dal 2015″.

Non male per un settore fortemente frammentato dove le imprese alimentari con più di 50 addetti (quelle medio-grandi) rappresentano appena il 2% del totale, quando in altri paesi competitor – come la Germania – questa incidenza arriva al 10%. E questo spiega anche perché la propensione all’export della nostra industria alimentare sia pari al 23% contro il 33% della Germania, o visto da un’altra angolatura, perché le nostre esportazioni per quanto in crescita siano ancora molto inferiori a quelle francesi (59 miliardi di euro) o tedesche (73 miliardi).

La presenza di imprese più dimensionate unita a reti infrastrutturali più sviluppate nonché a produzioni alimentari maggiormente “market oriented” spiegano anche perché oltre il 60% dell’export italiano faccia riferimento ad appena 4 regioni: Veneto, Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte, mentre al contrario tutto il Sud del Paese incida per meno del 20%.

Un differenziale che rischia di allargarsi ulteriormente anche in quest’anno di trend favorevole ai nostri prodotti, dato che nel primo semestre 2017 mentre le regioni del Nord Italia hanno messo a segno una crescita di oltre il 7% nelle vendite oltre frontiera, quelle del Mezzogiorno non sono riuscite a raggiungere il +2%.

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Analisi e Tendenze Vino

Vino online: a comprarlo sono i 50enni

L’identikit è chiaro: il “consumatore tipo” di vino acquistato online è una persona di genere maschile, di 48 anni di età, residente nelle regioni del Centro-Nord Italia. E con una predilezione verso i vini rossi fermi e gli spumanti. E’ quanto emerge dal Report sul profilo dell’acquirente italiano di vino on-line realizzato da Wine Monitor attraverso la partnership con VINO75.COM, l’enoteca specializzata per la vendita online nata a Firenze nel 2014 all’interno dell’acceleratore di startup Nana Bianca.

Sebbene l’e-commerce pesi ancora per meno del 2% sulle vendite off-trade di vino in Italia, i tassi di crescita a doppia cifra percentuale che stanno interessando, anno dopo anno, gli acquisti in questo canale non possono passare certo inosservati, soprattutto da parte dei produttori.

“Sebbene in Italia l’e-commerce del vino pesi in maniera ancora marginale sulle vendite totali – dichiara Denis Pantini, Responsabile Wine Monitor di Nomisma – è indubbio che il trend sia in crescita; basti guardare cosa sta accadendo al di fuori dei confini nazionali dove in mercati come Francia o Regno Unito l’incidenza delle vendite di vino on-line supera il 10% o addirittura il 20% nel caso della Cina”.

Sul fatto che si tratti di un fenomeno in crescita non ci sono dubbi e gli stessi produttori di vino ne sono consapevoli, così come hanno dichiarato le circa 200 imprese vinicole intervistate da Wine Monitor in occasione dell’approfondimento. “Già oggi circa il 50% delle imprese intervistate vendono on-line i propri vini – direttamente o tramite siti specializzati – mentre un altro 17% ha intenzione di ricorrere a questo canale nei prossimi anni” continua Pantini.

LA “SPESA” ONLINE
Ma quanto si spende mediamente nell’acquisto di vino on-line? Il prezzo medio di una bottiglia acquistata (da 0,75 ml, iva inclusa) si aggira attorno ai 13 euro, ma arriva a superare i 14 nel caso dei rossi fermi e degli spumanti. Facendo poi un confronto per fascia di età degli acquirenti, si scopre che i Millennials italiani, per quanto pesino meno (per ora) negli acquisti rispetto alla generazione X (36-55 anni) e ai baby boomers (56-65 anni), comprano però bottiglie più costose: nel caso dei rossi fermi il prezzo medio a bottiglia arriva vicino ai 16 euro mentre negli spumanti supera addirittura questo livello.

“Dalla nostra esperienza come piattaforma tecnologica di riferimento per le piccole e medie imprese vitivinicole di eccellenza, l’e-commercerappresenta sempre di più un canaledi vendita fondamentale per la strategia commerciale delle cantine” dichiara Andrea Nardi Dei (nella foto), Fondatore e Ceo di VINO75.COM.

“Il motivo risiede nel fatto che l’e-commerce valorizza il prodotto grazie a contenuti divulgativi facilmente fruibili, oltre a poter far raggiungere mercati lontani e complessi come quello cinese, dove la distribuzione tradizionale del vino italiano fatica ad entrare” conclude Nardi Dei.

“In effetti – conclude il Ceo – pur a fronte di una crescita di oltre il 30% nelle importazioni cinesi di vino dall’Italia registrata nel 2016 rispetto all’anno precedente, la quota dei nostri prodotti sul totale degli acquisti di questo paese resta ancora marginale, non arrivando al 6%. Qualche motivo ci sarà”.

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Analisi e Tendenze Vino

Millennials e consumo di vino: ricerca Nomisma-Verallia

Verallia, terzo produttore globale di contenitori in vetro per l’industria alimentare e Nomisma Wine Monitor hanno presentato ieri a Pollenzo lo studio “Il ruolo del packaging nelle scelte di consumo di vino: un confronto tra i Millennials statunitensi ed italiani”.

La ricerca, realizzata da Wine Monitor, si è posta l’obiettivo di valutare comportamenti e stili di consumo di vino da parte dei Millennials nei due mercati più importanti per le imprese vinicole del Belpaese: oggi 5 bottiglie di vino italiano su 10 vengono ancora consumate nel mercato nazionale, mentre delle 5 rimanenti che vengono esportate, una finisce direttamene negli Stati Uniti.

Gli Usa rappresentano infatti il primo mercato di export per le nostre produzioni; un mercato che nel 2016 ha importato complessivamente oltre 5 miliardi di euro di vino, di cui il 32,4% di origine italiana, facendo del nostro paese il leader di settore. La crescita a valore delle importazioni totali di vino negli Stati Uniti è stata del 52% nel corso dell’ultimo decennio (3,3% nell’ultimo anno, 2016 vs 2015).

L’universo di riferimento dello studio sono stati i Millennials (popolazione di età compresa tra 18-35 anni in Italia e 21-35 in USA – per legal drinking age). Si tratta della generazione su cui stanno puntando tutti i produttori e che in futuro sostituirà – in particolare in Italia – quei consumatori di vino che per anni ne hanno sostenuto il consumo in virtù di un approccio più tradizionale, per il quale questa bevanda ha spesso ricoperto un ruolo funzionale (di alimento) più che voluttuario. Nel caso degli Stati Uniti, dove questo approccio non è mai esistito, i Millennials rappresentano già oggi la generazione che in quantità consuma più vino di qualsiasi altra: 42% di tutti i consumi.

La ricerca ha messo a confronto l’approccio al vino dei Millennials statunitensi e italiani, fotografandone le percezioni e i principali driver di scelta nell’acquisto e consumo di vino, tra i quali il packaging dimostra di avere un ruolo di primaria importanza. Le differenze di atteggiamento tra le due sponde dell’Atlantico sono ragguardevoli. I giovani adulti USA, ad esempio, scelgono il vino per la notorietà del brand (32%) e molto meno per il tipo di vino (21%).

All’opposto, il primo criterio di scelta dei Millennials italiani è la tipologia del vino (51%), mentre la notorietà del brand è del tutto marginale (10%). Le percezioni divergono anche sull’importanza del prezzo basso o promozionale, alta negli USA (20%) e bassa in Italia (11%), nonché sulla rilevanza del paese/territorio di origine, più alta in Italia (21%) che negli USA (15%). Nella scelta del vino entrano anche fattori puramente estetici e di design come il packaging e le etichette, indicati dal 10% del campione USA e dal 5% di quello italiano.

Quando il campo si restringe sulle bottiglie di vino, emerge che i Millennials italiani sono più sensibili agli aspetti “etici” di sicurezza e sostenibilità del vetro (55%) dei loro omologhi USA (44%), mentre il rapporto si ribalta nell’apprezzamento degli aspetti “sensoriali” (trasparenza, freschezza al tatto) con un 53% a 40% a favore degli USA. La distanza tra italiani più aderenti alla sostanza e americani più inclini a essere attratti dall’estetica è messa in rilievo anche dalla diversa importanza assegnata alla forma e colore dell’etichetta (82% USA – 55% Italia), forma della bottiglia (74% USA – 47% Italia) e presenza di loghi/grafiche in rilievo sul vetro (71% USA – 40% Italia). Non stupisce, perciò, che il 76% dei Millennials USA ritenga che le bottiglie personalizzate contengano vini di qualità superiore contro il 53% degli italiani, né che dinanzi a una bottiglia di vino sconosciuto, ma dal design molto innovativo o particolare, il 92% dei consumatori USA tra i 26 e i 31 anni sarebbe interessato all’acquisto, contro il 70% dei loro coetanei italiani.

“I Millennials rappresentano la generazione cui stanno puntando tutti i produttori – afferma Denis Pantini Responsabile Wine Monitor di Nomisma – però questa generazione ha un approccio all’acquisto di vino nettamente differente da quella che tradizionalmente ne ha sostenuto i consumi (i baby-boomers): maggiore attenzione all’innovazione, alla sostenibilità, alla creatività, tutti fattori spesso legati al packaging e per i quali ancora molte imprese italiane non ne hanno colto la strategicità a fini di mercato. L’obiettivo di questa ricerca è stato proprio quello di fornire ai produttori italiani uno strumento in più per cogliere le opportunità nei due principali mercati di vendita del nostro vino: Italia e Stati Uniti”.

“La scelta se raccogliere le indicazioni emerse dalla ricerca spetta esclusivamente alle singole imprese italiane, però ritengo sia già un inizio promettente che se ne discuta serenamente, senza preconcetti in un senso o nell’altro – ha dichiarato Roberto Pedrazzi, Direttore Commerciale e Marketing di Verallia Italia. “Noi di Verallia, come sempre, siamo pronti ad affiancare il made in Italy mettendo a disposizione il know-how, le risorse industriali e la ricerca avanzata su materiali e design di un gruppo internazionale interamente dedicato al packaging in vetro per il food and beverage”.

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Analisi e Tendenze Vino

Brasile, Russia, India e Cina: import di vino a due velocità

In uno scenario di mercato globale dove si alternano luci ed ombre sul fronte delle importazioni di vino, anche i BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) seguono direzioni differenti.

Se infatti la Cina ha messo a segno nel 2016 una crescita nei valori di import superiore al 16% rispetto all’anno precedente, la Russia appare ancora sofferente viaggiando sul filo dell'”invarianza” (o poco sotto) mentre il Brasile ha chiuso l’anno appena terminato con un leggero segno negativo a valore (-3%) ma in crescita sul fronte dei volumi (+12%), alla luce di un calo nelle importazioni di vini di fascia premium (in particolare lo Champagne, il cui import è diminuito di oltre il 40% in quantità solo nell’ultimo anno, ma quasi del 70% rispetto a cinque anni fa).

Completa il quadro l’India che continua a rimanere un mercato ‘marginale’, con meno di 20 milioni di euro di vino importato (a cui corrispondono poco più di 41 mila ettolitri).

“Alla base di queste diversità nel trend delle importazioni di vino risiedono soprattutto fattori macroeconomici”, dichiara Denis Pantini, responsabile Wine Monitor di Nomisma. “Russia e Brasile hanno chiuso il 2016 con un Pil in calo per il secondo anno consecutivo e valute locali – Rublo e Real – che, seppur in recupero dai minimi toccati rispetto all’euro (e alle altre monete “forti” come il dollaro statunitense) a fine 2015, risultano ancora sensibilmente svalutate rispetto a qualche anno fa. Senza tralasciare poi il fardello dei dazi all’entrata che, nel caso dell’India, mediamente si attestano sul 150% del prezzo all’import “ aggiunge Pantini.

Complice il calo del prezzo del petrolio– che rappresenta la principale voce dell’export del paese – iniziato nel 2014, la Russia da allora ha ridotto gli acquisti di vino dall’estero arrivando ad importare quasi il 20% dei volumi in meno.

Nel caso del Brasile, l’ultimo quinquennio non evidenzia variazioni così rilevanti ma piuttosto sottende un mercato che tra alti e bassi si posiziona ormai da cinque anni in un range compreso tra gli 800 e 900 mila ettolitri di vino importato.

La stessa cosa riguarda l’India. In questo caso i volumi di import si attestano su intervalli molto più bassi (tra i 30 e i 40 mila ettolitri), alternando variazioni di segno opposto da un anno all’altro, soprattutto sul lato dei valori, un effetto ricorrente nei mercati con ridotti volumi di import dove la chiusura di un importatore o un ordine aggiuntivo di acquisto può far cambiare di segno il trend dell’intero anno commerciale.

IL VINO ITALIANO
E in questo scenario, che ruolo gioca il vino italiano? Nel 2016, l’Italia ha messo a segno in Cina la crescita a valore più elevata di tutti i principali competitor, arrivando ad un +39% nel segmento dei vini fermi imbottigliati che, nel mercato in questione rappresentano quasi il 93% delle importazioni totali.

Una performance di tutto rispetto considerando la media del totale di categoria (+17%) e quelle dei diretti concorrenti come Spagna (+27%), Australia e Cile (24%) o del leader di mercato (Francia, +12%).

Al contrario, in Russia è stata la Spagna a registrare la crescita più rilevante (oltre 15%), così come in Brasile sono stati i cileni – forti anche degli accordi di libero scambio che riguardano gli Stati aderenti al Mercosur – a consolidare la propria leadership nelle importazioni di vini in questo mercato attraverso un aumento del 14%.

Complessivamente parlando, le prospettive per i BRIC per l’anno appena iniziato dovrebbero essere positive. Il recupero (o l’ulteriore crescita) nell’import di vino potrebbero trovare supporto in un quadro macroeconomico più favorevole a sua volta legato ad una ripresa nei prezzi delle commodity (petrolio ma anche minerali e derrate agricole) e ad un rafforzamento delle valute nazionali.

Come per il resto del pianeta però, anche sui BRIC aleggia l’imprevedibilità delle politiche che Trump avvierà nei prossimi mesi e dalle quali discende necessariamente un potenziale rafforzamento del dollaro e un “rischio protezionismo”, eventi che giocherebbero a sfavore di questo possibile recupero.

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Vino italiano: Usa e Uk i mercati da “cavalcare”

Nove miliardi di euro. Valgono tanto USA e UK per import di vino, i due principali mercati al mondo. Pesando rispettivamente per il 18% e 15% sul totale del vino commercializzato a livello globale. Gli Stati Uniti figurano, allo stesso tempo, come il primo paese al mondo per consumi di vino: oltre 31 milioni di ettolitri nel 2015, il 38% in più di quanto si bevono gli italiani.

Questo doppio primato deriva dal fatto che gli USA rappresentano anche il quarto produttore mondiale (22 milioni di ettolitri nel 2015) e buona parte del proprio vino viene consumato entro i confini nazionali (ne esportano poco più di 4 milioni). Al contrario, il Regno Unito che per ragioni pedo-climatiche (forse ancora per pochi anni, visti i cambiamenti climatici in corso) produce quantità marginali di vino, è “costretto” a consumare principalmente prodotto di importazione e in questo caso i consumi totali coincidono con gli acquisti dall’estero, facendo del Regno Unito il sesto paese al mondo per consumi (13,5 milioni di ettolitri).

Ancora più interessante è il “peso” che il vino detiene sul totale delle bevande alcoliche consumate: 10% negli USA, 18% in UK dove in entrambi i paesi la parte del leone viene fatta dalla birra. Da questi pochi numeri si capisce però dove insistono le maggiori prospettive di crescita per i vini italiani. Mentre nel Regno Unito è difficile pensare ad ulteriori effetti “sostituzione” rilevanti (tra vino e birra), nel caso degli Stati Uniti gli spazi di crescita sono duplici: da un lato, i tassi di penetrazione del vino ancora bassi tra i consumatori di bevande alcoliche dovrebbero crescere a scapito della birra (il consumo pro-capite di vino negli USA è inferiore ai 10 litri, in Italia – seppur in calo – viaggiamo sui 37 litri); dall’altro, tra vini concorrenti, quelli esteri possono aumentare le proprie quote di mercato a danno di quelli nazionali, in virtù di una crescita dei redditi pro-capite che ha tra i propri effetti quello di spostare l’acquisto da vini locali a vini stranieri. Ovviamente, in linea teorica. Poi da quel punto in avanti interviene la concorrenza tra prodotti esteri (Francia, Australia, Nuova Zelanda, Cile) a fare la differenza.

Stante questo scenario, nel corso degli ultimi 5 anni le importazioni negli Stati Uniti di vini dall’Italia sono aumentate del 61% a valore e del 26% a volume, uno scostamento determinato sia da un riposizionamento qualitativo dei nostri vini oltre che da un effetto rivalutazione prodotto dal rafforzamento del dollaro rispetto all’euro. Le nostre performance sono state superiori alla media del mercato, intesa come trend dell’import totale (+52% a valore) ma inferiori a quelle dei vini neozelandesi (+119%) e francesi (+83%). I dati relativi ai primi 10 mesi del 2016 mostrano ancora una tendenza positiva ma determinata da una spinta più debole: l’import di vino cresce a livello totale dell’1,8% in valore e di appena lo 0,1% in volume, con l’Italia che mette a segno un +3,9% a valore e un +1,9% a volume.

Siamo cioè distanti da quel 10% di tasso medio annuo (CAGR) di crescita che ha connotato l’import dal nostro paese nel quinquennio 2010/2015. Anche in questo caso, Nuova Zelanda e Francia registrano variazioni positive più ampie, rispettivamente pari a +9,2% e +4,2% in valore. Se guardiamo alle diverse tipologie, è solo grazie agli spumanti – e in particolare al Prosecco – che l’Italia registra questi valori positivi nel 2016: mentre i vini fermi imbottigliati calano del 2,6% in volume, gli sparkling crescono del 25,5%.

IL VINO ITALIANO NEL REGNO UNITO
Anche il mercato inglese presenta analogie simili nelle tendenze che si sono manifestate su quello americano. Nel medesimo quinquennio di tempo considerato, l’import di vino è cresciuto del 21% a valore ma meno del 5% a volume. Rispetto a questa media, l’import di vini italiani è aumentato rispettivamente del 64% e 35%, surclassando a valore praticamente tutti i diretti competitor, mentre a volumi rimanendo appena dietro la Spagna (+37%).

Le importazioni dal paese iberico hanno visto crescere soprattutto la categoria dei vini fermi imbottigliati (+50%), mentre è nuovamente merito degli spumanti (e anche in questo caso del Prosecco) se gli acquisti dall’Italia sono cresciuti così tanto: basti pensare che, a volume, l’import di sparkling italiano in UK è cresciuto del 572% tra il 2010 e il 2015.

Si tratta di un trend che trova conferma anche nell’anno in corso. I primi dieci mesi del 2016 mostrano una crescita dell’import dall’Italia che, nel totale a volume evidenzia un +3,2% sostanzialmente frutto della categoria spumanti che, presa a sé stante, mette a segno un +38% (si pensi infatti che i vini fermi imbottigliati italiani registrano un calo del 12% a valore e dell’8% a volume, in analogia a quanto sta accadendo all’import dell’intera categoria: -12% a valore e -5% a volume totale mondo).

LO STUDIO WINE MONITOR
“Secondo le nostre stime – dichiara Denis Pantini, responsabile Wine Monitor di Nomisma – nel 2016 le importazioni a valore di vino negli Stati Uniti chiuderanno con una crescita inferiore al 2%, mentre nel Regno Unito ipotizziamo un calo di quasi il 10%”. D’altronde, si tratta di quei mercati che nel 2016 hanno vissuto due tra gli eventi più destabilizzanti e meno prevedibili che si ricordino: Brexit e l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti.

“L’indecisione che gira attorno alla Brexit e che ha portato la sterlina a perdere oltre il 10% nei confronti dell’euro e delle principali valute internazionali dal referendum ad oggi, non ha fatto altro che tenere gli importatori inglesi alla finestra, riducendo gli acquisti di lungo periodo”, continua Pantini.

Nel caso invece degli Stati Uniti, l’elezione di Trump ha avuto, sulla valuta locale, l’effetto contrario. Il rafforzamento del dollaro che potrebbe continuare anche nel 2017 a seguito degli interventi di politica economica e fiscale promessi in campagna elettorale, potrebbe ridare vigore alle importazioni dall’Italia, a condizione che contestualmente non vengano attivate misure protezionistiche volte a tutelare i vini californiani. Il che, ad oggi, sembra però lontano dall’essere attuabile (così almeno si spera).

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