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Golosaria a tutta grappa: visita a Mazzetti d’Altavilla

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CASALE MONFERRATO – Mentre tutto il mondo del vino (dai produttori ai winelover) si preparava per Vinitaly 2018, nel Monferrato andava in scena la dodicesima edizione di Golosaria.

Il fulcro della manifestazione è stato il castello della “capitale”, Casale Monferrato, che oltre ad essere la sede dell’Enoteca Regionale del Monferrato, ha visto nel weekend la presenza di eccellenti produttori di formaggi, salumi, dolci, e una sezione dedicata al cibo da strada.

Grande affluenza di pubblico, grazie anche a un clima finalmente favorevole, non solo al castello, ma anche nelle ville e nelle cantine che hanno spalancato le loro porte durante il weekend, contribuendo a valorizzare un territorio ancora tutto da scoprire.

LA NOSTRA SCELTA
Tra le numerose opportunità di assaggi e visite la scelta è caduta sulla distilleria Mazzetti d’Altavilla Monferrato, che sabato 7 e domenica 8 aprile ha organizzato visite guidate a rotazione e dato la possibilità di assaggiare i loro prodotti.

Arrivando da Casale, superato l’incrocio strategico dal quale si raggiungono Vignale a sinistra e Casorzo a destra, si scende verso valle fino ad Altavilla, per risalire nuovamente fino alla distilleria, dalla quale si gode di un panorama mozzafiato sulle colline.

La struttura è un bellissimo ex monastero, ristrutturato con sapienza per mantenere il fascino originale senza rinunciare alla modernità. Fin dal principio della visita quel che appare è una grande attenzione al pubblico, dinamismo e sguardo diretto al futuro nonostante quest’anno si festeggino ben 172 anni di attività.

Nel corridoio di ingresso ci sono cartelloni in tre lingue che raccontano la storia della distilleria, teche con vecchie bottiglie, coloratissimi tabelloni con le vecchie etichette e una vespa griffata.

I collaboratori che incontriamo sono tutti giovani e preparati, a conferma del desiderio di togliere dalla grappa quella patina di polvere che ancora purtroppo ne condiziona spesso il giudizio.

La cantina è ristrutturata in modo molto funzionale. Ampi spazi, volte alte, un angolo bar, un bel bancone per assaggi e memorabilia sparsi qui e là.

Guidati dal mastro distillatore Sanzio Evangelisti (uomo di grande competenza e disponibilità, dall’ottima proprietà di linguaggio) il tour parte dal piazzale nel quale, nel pieno della stagione (che va dal 15 ottobre fino a febbraio) sono stoccati fino a 30 mila quintali di vinacce provenienti da tutta la regione.

Il luogo nel quale passiamo la maggior parte del tempo è l’edificio che contiene gli alambicchi. Tre caldaie che distillano sottovuoto, avvolte da un muro di mattoni, ed una quarta in bella mostra con accanto le colonne di rettifica in rame.

La spiegazione è lunga e dettagliata. La passione per la materia traspare in modo evidente, e si trasforma in amarezza solo quando ci racconta che è sempre più difficile trovare giovani volenterosi che abbiano voglia di imparare un mestiere antico che richiede grande passione e dedizione ma che può dare enormi soddisfazioni.

Non è possibile resistere all’offerta di un assaggio della grappa a tutto grado prelevata direttamente dai contenitori in acciaio dove la riposa in attesa delle successive fasi di lavorazione.

I bicchieri, qui dove si distilla, sono pochi, e i pochi coraggiosi se lo passano come un calumet: “Qui non si ammala nessuno, i batteri muoiono tutti, state tranquilli!”.

Assaggiamo un Arneis a 82 gradi, già notevole per intensità e complessità, e un Brachetto a quasi 86 gradi, che invece necessita di un po’ di assestamento.

La sosta in barricaia, nella quale sono presenti migliaia di botti perlopiù francesi, è più breve. È già passata già più di un’ora dall’inizio della visita, c’è voglia di assaggiare qualcosa.

Lasciamo Sanzio per capire se tanto lavoro e tanta passione portano anche a buoni risultati. Non c’è stata una degustazione guidata (che avrebbe richiesto sicuramente troppo tempo) ma grande disponibilità per due chiacchiere al bancone assaggiando in libertà.

LA DEGUSTAZIONE
Monovitigno di Ruché non invecchiata, 43% vol. iniziamo da una bianca morbida che fa solo acciaio e troviamo un naso dolce, floreale di viola e fruttato di ciliegia. Il vitigno emerge con chiarezza. In bocca è piacevole, di media struttura, morbida ma equilibrata e con un bel finale vellutato.

Monovitigno di Arneis non invecchiata, 43% vol. Chiediamo qualcosa di più secco e ci viene proposta una grappa di Arneis (la stessa assaggiata a tutto grado in distilleria).

Naso affascinante con note erbacee che vanno dall’erba fresca al fieno, poi camomilla e miele. In bocca è aromatica, assolutamente poco aggressiva. Le note fresche le donano equilibrio e nel finale ritorna il fieno. Molto buona.

Incontro, 43%vol. Blend di vinacce da Barolo e Barbaresco invecchiata 18 mesi in botti di Fontainebleau. Paglierino intenso e luminoso, al naso emergono spezie dolci, fiori bianchi, erbe officinali e miele.

Sullo sfondo compaiono note di frutti rossi riconducibili al nebbiolo. La complessità donata dal legno è evidente. In bocca è morbidissima, molto piacevole, equilibrata, lunga. Scalda ma non brucia mai in gola. Fascino.

Segni, 43%vol. Probabilmente la più particolare delle grappe Mazzetti visto l’inusuale metodo di invecchiamento.

Il distillato (da barbera e dolcetto) viene infatti affinato per 5 anni in 6 diverse botti: rovere, castagno, frassino, ciliegio, gelso e ginepro.

Sebbene l’intensità non sia così elevata è sicuramente una grappa complessa, decisamente speziata, con forse il ginepro su tutti.

Le note fruttate e floreali, presenti, restano sullo sfondo. Equilibrio, pulizia e finezza non mancano. La lunghezza è quella che ci si aspetta. Lascia la bocca asciutta e profumata. Natalizia.

3.0 Altogrado, 51.4%vol: una menzione particolare la merita la linea punto zero, linea young, che strizza l’occhio ai frequentatori dei pub del sabato sera in genere più attratti da distillati “esotici”. Un grosso 3.0 campeggia in etichetta, e non manca un hashtag che fa molto social: #comepiaceate.

Di questa linea abbiamo assaggiato la Altogrado, l’unica a superare i 50 gradi. L’impressione è di una grappa più semplice e “dolce”, con note di frutta secca e spezie. I 50 gradi sono ben gestiti e non irritano la gola.

La percezione generale di quanto assaggiato è di prodotti realizzati con molta cura, sempre puliti, “facili” da bere e quasi dolci. La “grappa del nonno”, il torcibudella troppo alcolico e sgradevole è un lontano ricordo.

La distilleria Mazzetti guarda avanti, nella speranza che anche i giovani inizino a considerarla una valida alternativa a distillati dai nomi sicuramente più cool ma dalla qualità spesso (non sempre, per carità!) pessima. Come dice Sanzio (Il distillatore, non Raffaello): “Bere fa male, quindi bevete poco ma bevete bene”. Amen.

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Milano Rum Festival 2018: fascino, scoperte e conferme sul distillato dei Caraibi

MILANO – Basta uno sguardo social sul mondo del rum per capire che è in atto una sorta di rinascita di questo distillato.

Personaggi come Richard Seale (proprietario e master distiller di Foursquare) e Luca “Ruruki” Gargano (patron di Velier) hanno ingaggiato una lotta senza quartiere in difesa della qualità e della chiarezza nella comunicazione dello spirito dei Caraibi.

Troppa è la confusione, tra stili i cui confini si mescolano, colori improbabili e che poco raccontano, aggiunte più o meno mascherate, più o meno lecite, ed etichette che riportano numeri credibili quanto quelli dei sondaggi elettorali.

Il Milano Rum Festival, come già nell’edizione dello scorso anno, è una candela quando manca la corrente, per fare luce e smettere di andare a tentoni, vista anche la presenza di personaggi illustri e disponibili che lì si possono incontrare, ovviamente sempre con il bicchiere pieno.

L’organizzazione in loco è buona, il desk per la registrazione funziona bene a ritmi sostenuti, gli spazi sono sufficientemente accoglienti e nella hall dedicata alla manifestazione troviamo anche un banco che vende appetizer di buona qualità.

Purtroppo non possiamo dire altrettanto del sito, nel quale fino all’ultimo non siamo riusciti a trovare informazioni circa le masterclass organizzate. L’unica fonte di informazione era un cartello scritto frettolosamente posto accanto al desk. Peccato. Gli assaggi sono iniziati con tre bianchi molto diversi tra loro (si diceva del colore che da solo poco racconta).

LA DEGUSTAZIONE
Trois Rivieres Cuvèe de l’Ocean. Il color blu Tiffany che caratterizza tutta la produzione Trois Rivieres è stato un richiamo irresistibile. 42abv per questo rum AOC Martinique, prodotto da canna da zucchero coltivata vicino all’oceano, che dona freschezza e sapidità.

Grande equilibrio tra note dolci di canna da zucchero e frutti tropicali e più fresche e sapide di agrume, iodio ed erba fresca. Ritroviamo il tutto intatto anche in bocca, in perfetta corrispondenza. Lunghissimo.

Lo stile inconfondibile di una distilleria che non delude mai, tantomeno al Milano Rum Festival 2018.

Elements Eight Platinum. La melassa proviene dalla Guyana, la distillazione avviene in St. Lucia in colonna tradizionale. Blend di 8 rum invecchiati almeno 4 anni in botti ex bourbon viene poi filtrato fino a renderlo quasi bianco e completamente trasparente.

Al naso è fresco, con note agrumate e balsamiche, mentolate e di pino. In bocca è cremoso e piacevole anche se l’alcool spinge un po’ troppo per essere solo a 40abv. Buona la persistenza. La sua vocazione è nei cocktail.

Rum Fire Velvet. Siamo in Jamaica, dove il rum da 40 gradi finisce nei biberon. La distilleria è la storica Hampden, la materia prima la melassa e l’alambicco è discontinuo.

Terzo rum bianco, terzo stile, simile ai due precedenti nel bicchiere, totalmente diverso al naso, dove i suoi 63 gradi si percepiscono a distanza di un paio di spanne.

Le lunghe fermentazioni con presenza di dunder (residui di distillazioni precedenti) conferiscono una grande quantità di esteri, che si traducono in profumi e sapori complessi, pungenti e ricchi.

Frutta tropicale molto matura, spezie (anice), resina, salamoia, barbeque. In bocca stupisce per l’ingresso dolce e sorprendentemente morbido, ma bisogna essere veloci a coglierlo, perché poco dopo i 63 esplodono stordendo per un po’ le povere papille.

Niente paura però, come per il peperoncino occorre solo un po’ di pazienza. Serve che la tempesta si plachi quel tanto che basta per riuscire a riprendere in mano il timone della barca, per tornare a solcare i mari del Milano Rum Festival. Ed è un tripudio! Non è un rum per tutti, ma è un rum che tutti prima o poi dovrebbero assaggiare.

Foursquare 2004 cask strenght. Non poteva mancare una visita alLa (la L maiuscola è voluta, n.d.r.) distilleria di Barbados. La cosa che stupisce ad ogni incontro con la distillleria Foursquare è il perfetto equilibrio tra morbidezza e potenza, tra finezza e gusto.

Ci sono i pirati irsuti e senza paura, i nobili ammiccanti avvolti in sete preziose, e poi c’è Barbados. Per una volta la descrizione inizia dalla bottiglia. L’etichetta è il manuale di come dovrebbe essere. Si legge chiaramente l’anno di messa in botte (2004), l’anno di imbottigliamento (2011), il tipo di distillazione (blend di pot e column) e il legno in cui è stato invecchiato (ex bourbon).

Tutto chiaro e semplice, non serve scomodare Google al Milano Rum Festival per sapere tutto quello che c’è da sapere su questo rum. Ogni bottiglia dovrebbe avere un’etichetta così.

Al naso emerge chiaramente l’impronta di Barbados: frutta disidratata, spezie dolci, fumo e tabacco, vaniglia e caramello, finissimo. L’assaggio rappresenta il manifesto di Richard Seale: morbidezza senza dolcezza. I suoi rum sono sempre deliziosi e godibilissimi (fosse un vino si direbbe “di grande beva”) senza mai cadere nella ruffianeria. Dave Broom, descriveva un altro rum di Foursquare in due parole: “da meditazione”. Definizione azzeccatissima.

Abuelo Centuria. L’approccio ai rum latini, soprattutto dopo essere passati per la Jamaica o Martinica, può essere problematico. Occorre ricordare che il rum può anche essere leggero, esile e suadente.

È il caso del top di gamma della distilleria panamense, non presente nel listino della degustazione, ma che ci è stato comunque offerto in degustazione (grazie mille!).

Blend di rum invecchiati fino a 30 anni facenti parte della riserva di famiglia, è stato prodotto per la prima volta nel 2008 per festeggiare i 100 anni di Casa Varela, sede storica della distilleria.

Di un bel colore ambra con riflessi rossastri e di grande consistenza, alla prima olfazione mi ha stupito.

La tipica morbidezza latina, che spesso sfocia in dolcezza, qui si trasforma in eleganza assoluta. Albicocca, anice stellato, vernice, tabacco, macis, tutto sussurrato, tanto che vorrei ci fosse silenzio attorno.

Col passare dei minuti (a volte capita di voler assaporare ogni istante e di non decidersi a bere) le note eteree si attenuano ed emergono quelle più calde, burrose, e piccanti.

Anche in bocca risulta estremamente fine, coerente, in perfetto equilibrio tra morbidezza cremosa e dolce di miele, e sentori leggermente piccanti e speziati, persino balsamici. Una leggera nota tannica completa il quadro di un rum in abito da sera, che ti resta appiccicato in testa e non se ne va più, senza strafare, senza prepotenza e senza arroganza. Classe pura.

Oliver’s Exquisido Solera Vintage 1985. Ultimo nato in casa Oliver è un Solera di lungo invecchiamento che parte dall’alcool base ottenuto da 5 distillatori differenti ed affinato con un lungo, lunghissimo, processo Solera.

Ne risulta un Rum elegante e complesso. Austero al primo impatto, ce lo si aspetterebbe forse più morbido e “dolcione”, rivela grande armonia ed equilibrio.

Profondo al naso con note di spezie e di legni pregiati. In bocca rivela tutta la sua morbidezza ma anche la sua potenza. Lunga la persistenza. Fra i Single Cask presenti al Milano Rum Festival 2018 segnaliamo due Demerara.

Diamond 2003 e Port Mourant 2005. Il primo, intenso al naso, apre su sentori vegetali e fruttati di uvetta e frutta matura. In bocca è caldo e rotondo ed a fianco alla frutta si percepiscono note di cacao e spezie mentre la nota vegetale tende a ricordare la luppolatura da birra.

Il secondo ha profumi più legati alla frutta tropicale all’eucalipto ed al balsamico. Meno rotondo e più sapido al palato. Entrambi molto persistenti. Due prodotti diversi, ugualmente affascinanti.

Chiudiamo il nostro viaggio con un “fuori zona”. Rum Naga, dall’Indonesia. La canna da zucchero è coltivata sull’isola di Java, durante la lenta fermentazione la melassa viene arricchita dall’aggiunta di lievito di riso rosso giavanese, parte dell’invecchiamento avviene in botti di legno locale.

Un prodotto decisamente “locale”. Colore dorato che introduce un naso esotico. Note di mango, banana matura, spezie dolci e cacao accompagnate da una fondo vegetale di canna da zucchero che ricorda quella di molti agricole. In bocca è morbido e fresco grazie all’alcolicità che, seppur non elevata, si fa sentire.

Servizio a cura di Denis Mazzucato e Giacomo Merlotti

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Greco di Tufo Docg 2016, Cantine Di Marzo

(4,5 / 5) “Sei veramente gelida, Bice, se ieri sera nemmeno il vino Greco è riuscito a scaldarti”. Questa frase, rinvenuta negli scavi di Pompei, testimonia quanto antico sia questo vino campano e quanto già allora lo si ritenesse capace di scaldare (quasi sempre…) l’atmosfera.

LA DEGUSTAZIONE
Cristallino, giallo paglierino tenue, al naso questo Greco di Tufo è subito caldo, del sud, con frutta tropicale e fiori gialli, ma anche sapido di iodio e con salsedine e pietra focaia sullo sfondo. L’ingresso in bocca conferma il calore e la sensazione di dolcezza già percepita al naso, sebbene sia un vino chiaramente secco.

La tipica sapidità del vitigno è ben percepibile e, assieme ad una sensazione agrumata, compensa abbastanza bene le note più morbide. Probabilmente, il Greco di Tufo di Cantine Di Marzo ha bisogno di un po’ di tempo in bottiglia per essere apprezzato appieno.

Il finale è lungo e leggermente amarognolo, tra la mandorla e la scorza di agrumi. Un vino di cui farne la scorta in promozione. E da lasciare in cantina per la prossima primavera, quando probabilmente darà il meglio di sé.

Il Greco di Tufo Docg di Cantine Di Marzo, ottimo come aperitivo, si abbina bene con gli spaghetti aglio, olio e peperoncino, con piatti a base di pesce grasso e con le fritture. Da provare con il Salmorejo, la tipica zuppa fredda andalusa.

LA VINIFICAZIONE
La vendemmia per questo Greco di Tufo avviene a mano, verso la metà di ottobre. Dopo una lieve pressatura il mosto svolge la fermentazione alcolica e malolattica in acciaio. Prima dell’imbottigliamento viene decantato a freddo e infine filtrato.

Nel comune di Tufo in Irpinia, lungo la ferrovia che da Avellino porta a Rocchetta Sant’Antonio e che fu definita “la ferrovia del vino”, si trova questa cantina la cui storia inizia addirittura nel 1647, quando Scipione Di Marzo lasciò il suo paese natale, vicino Nola, per sfuggire alla peste, e portò con sé alcune viti di Greco del Vesuvio.

Si può quindi affermare che il capostipite della famiglia Di Marzo fu il creatore di quello che oggi è noto come Greco di Tufo. Nel 1648 Scipione prese possesso di una parte delle mura di cinta della città e vi installò le cantine, dove sono visibili ancora oggi.

Un vino storico, una cantina storica, una zona storica della viticultura italiana, il tutto racchiuso in una bottiglia, ad un prezzo più che conveniente, anche senza offerte. Se tutto ciò non basta a scaldarti, o Bice, ti ci vuole una tachipirina.

Prezzo: 6,89 euro
Acquistato presso: Esselunga

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Vini al supermercato

Vino dolce per le feste: i piemontesi di Esselunga

Abbiamo degustato tre vini dolci aromatici piemontesi reperibili nei supermercati Esselunga (ma non solo). Obiettivo: sapersi orientare quando l’occasione richieda un vino dolce. Natale, tutto sommato, non è poi così lontano.

E allora ecco le nostre impressioni sulla Malvasia di Castelnuovo Don Bosco Doc “Nevissano” di Terredavino, sul Brachetto d’Acqui 2016 di Braida e sul Moscato d’Asti 2016 “Su Reimond” di Bera. Prima, però, qualche breve accenno sui vitigni cosiddetti “aromatici”.

Brachetto, Moscato e Malvasia (solo alcune varietà) sono tre dei principali vitigni aromatici. Ci sono due strade per spiegare cosa siano. La prima prende in causa terpeni come nerolo e geraniolo (no, non sono nani di Biancaneve) e ne dà una spiegazione scientifica.

La seconda via è probabilmente più efficace: un vitigno è aromatico se un chicco d’uva appena raccolto e il vino che se ne ricava restituiscono le stesse sensazioni aromatiche. Per questo i vini aromatici sono in genere molto facili da individuare, anche per i meno esperti.


(2 / 5) Malvasia di Castelnuovo Don Bosco Doc Nevissano, Terredavino (6.5% vol)
Il colore fa subito festa, è rosa chiaretto intenso, molto vivo, brillante, con una leggera componente gialla. La spuma, subito corposa, scompare presto nel bicchiere.

Al naso il vino è intenso, di lampone, fragola e rosa. Sullo sfondo una leggerissima nota di lievito. In bocca è dolcissimo, al limite della stucchevolezza. Purtroppo la componente acida e nemmeno l’effervescenza riescono a compensare questo effetto “ghiacciolo all’amarena”. Questo nonostante sia stato degustato a circa 5 gradi e nonostante il produttore ne consigli una degustazione a 8-10 gradi.

Abbiamo fatto la prova anche a quella temperatura e sebbene emergano note leggermente più evolute, la sensazione di avere nel bicchiere qualcosa di davvero troppo dolce non scompare. Finisce leggermente ammandorlato, apprezzabile.

L’abbinamento più congeniale è con frutta secca e pasticceria secca non troppo dolce. Assieme ad una confettura potrebbe davvero dare un risultato eccessivamente stucchevole.

Prezzo: 6,79 euro (Esselunga)


(3 / 5) Brachetto d’Acqui 2016, Braida (5.5% vol)
Colore difficile da definire secondo i criteri usuali. Non è rosso e non è rosato. Ricorda certi calici di cristallo che si usavano parecchi anni fa, colorati di rosso, quando ad interessarsi del colore di quanto ci si versava erano davvero in pochi.

La luminosità anche in questo caso non manca, così come alcuni riflessi leggeri verso il giallo. Il naso è fine e molto interessante, di amarena, rosa e un ricordo di cioccolato.

La dolcezza anche in questo caso la fa da padrone anche se una nota fresca abbastanza decisa e una leggera frizzantezza ne limitano fortunatamente la percezione. Questo vino si abbina molto bene a dolci al cioccolato, per esempio ad un panettone farcito.

Prezzo: 9,90 euro (Esselunga)


(4 / 5) Moscato d’Asti 2016 “Su Reimond”, Bera (5% vol)
Nel calice si mostra di un bel giallo paglierino brillante con bollicina finissima e molto persistente. Il naso è finissimo e molto classico di pesca, salvia e con una affascinante nota citrina, anche in scorza.

Sebbene sia molto dolce, qui la freschezza davvero gioca un ruolo fondamentale riuscendo a bilanciarne le sensazioni gustative. Decisa sensazione agrumata, tanto da ricordare la cedrata, con un leggero pizzicore sulla lingua che non spiace affatto.

Anche sul finale è l’agrume a farla da padrone, sicuramente il più interessante dei tre. Biscotti, frutta secca, panettone e pandoro, ma anche crostate di frutta e piccola pasticceria troveranno un buon alleato in questo Moscato.

Prezzo: 8,20 euro (Esselunga)

LA TEMPERATURA DI SERVIZIO
Una nota importante: i vini dolci non sono affatto semplici da servire. La temperatura riveste per questi vini, molto più di quanto sembri, un ruolo fondamentale.

Tipicamente vengono serviti a fine pasto, quando l’attenzione alla tavola pian piano viene meno (anche a causa delle bottiglie aperte prima…). Si apre la bottiglia, la si mette in tavola, poi si taglia il panettone, si ascolta una barzelletta dello zio, e i minuti passano.

La temperatura in sala da pranzo raggiunge facilmente i 24 gradi, il vino in men che non si dica arriva a 10, 12, 15… temperature alle quali si degusta bene una buona Barbera evoluta. Immancabilmente il giudizio sul vino dolce è: “Troppo dolce”.

Non abbiate paura ad usare la glacette per un moscato da 8 euro, o a tenerlo fuori, sul davanzale della finestra, dove le temperature si avvicinano allo 0. Ne gioveranno tutti.

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vini#1

Terre siciliane Igp Maldafrica 2013, Cos

Il Cabernet Sauvignon e il Merlot sono due tra i principali vitigni rossi internazionali (assieme al Syrah) che hanno contribuito a plasmare il gusto internazionale del vino. Non a caso sono i protagonisti di due veri big mondiali: il Bordeaux e i cosiddetti Supertuscan.

LA DEGUSTAZIONE
Proprio da questi due vitigni nasce il Maldafrica di Cos, Terre siciliane Igp che con la vendemmia 2013 si presenta nel calice di un rosso rubino fitto, intenso e luminoso. Il naso alterna note di frutta fresca, lampone, ribes e ciliegia a floreali di rosa, fino a sentori mediterranei e speziati di rosmarino, cioccolato, liquirizia.

In bocca è di medio corpo, estremamente scorrevole, fresco e croccante di frutta fresca. A discapito del nome sembra un vino del nord. Il tannino è un poco verde (il Cabernet Sauvignon è presente più in bocca che al naso), ma la morbidezza del frutto compensa egregiamente rendendo questo Maldafrica dannatamente piacevole.
È piuttosto corto, scivola via veloce, ma altrettanto velocemente chiama un nuovo sorso.

Si consiglia di degustarlo a non più di 12-14 gradi per esaltarne le note più fresche. Probabilmente si tratta di uno di quei vini che sfidano le rigide temperature di servizio “da manuale” e potrebbe addirittura essere servito dopo una sosta in frigorifero.

LA VINIFICAZIONE
Il Maldafrica è un blend in parti uguali di Merlot e Cabernet Sauvignon, da agricoltura biologica come tutti i prodotti della cantina Cos. Fermenta a contatto con le bucce, in anfore di terracotta su lieviti indigeni. Prima della commercializzazione riceve un affinamento in botti di Slavonia e poi in bottiglia.

Cos nasce nel 1980 a Vittoria, in provincia di Ragusa, quasi sulla punta sud orientale della Sicilia, dove i profumi e i colori dell’Africa si mescolano con fascino alla nostra tradizione. Gianbattista Cilia, Giusto Occhipinti e Cirino Strano, i tre amici fondatori, ne danno il nome.

I due capisaldi della produzione di Cos sono l’agricoltura biodinamica, e la vinificazione in anfore di terracotta. Nel 2005 è la prima cantina a vendemmiare rispettando la neonata Docg Cerasuolo di Vittoria, di cui Cos rappresenta un punto di riferimento imprescindibile.

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Roero Arneis Docg 2015, Enrico Serafino

(4 / 5) Non tutti gli studiosi sono d’accordo sull’origine della parola Arneis. C’è chi la fa risalire a Renexij, antico nome della località Renesio di Canale. Chi alla parola dialettale piemontese arneis (“indumento”, “veste”).

In seguito arneis ha assunto anche il significato di arnese, attrezzo, e da arneis derivano anche espressioni come mal an arneis, “male in arnese”, ovvero “mal vestito”, “mal equipaggiato”.

LA DEGUSTAZIONE
L’Arneis di Enrico Serafino è di un bel giallo paglierino con riflessi verdolini, cristallino, vivo. Il naso è semplice, fruttato e floreale avvolto in una nota agrumata, delicato e fine. Se i profumi mancano di un po’ di intensità, la stessa cosa non si può dire del sapore. In bocca entra deciso, caldo, morbido, succoso e di buon corpo.

Si consiglia di berlo a una temperatura non superiore agli 8-10 gradi, per smorzare la nota alcolica leggermente sopra le righe. Nel complesso è un vino semplice ma assolutamente godibile, che potrebbe accompagnare molto bene dei ravioli di magro conditi con burro e salvia.

LA VINIFICAZIONE
Dopo la spremitura soffice delle uve (100% arneis), la fermentazione avviene in vasche d’acciaio inox a temperatura controllata. Anche l’affinamento avviene esclusivamente in vasche d’acciaio. I vini della cantina Enrico Serafino, nata nel lontano 1878, sono divisi tra “Cantina Maestra”, “Vini classici” e spumanti.

Caratteristica che accomuna tutti i vini classici, di cui fa parte questo Arneis, è la bottiglia dalla forma inusuale, via di mezzo tra la classica albesia delle Langhe, e l’anfora di Provenza. Un tocco in più di originalità sulla tavola.

Prezzo: 9,80 euro
Acquistato presso: Esselunga

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