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Slow Wine, Molise meglio del Veneto: il degustatore lavora per una cantina


CAMPOBASSO –
Italia, Paese di poeti, navigatori. E santi degustatori. Pare infatti che il “conflitto d’interessi” sia l’ultimo dei problemi di chi giudica il vino nel Bel Paese. Almeno è l’impressione che dà Slow Wine, la costola enologica di Slow Food, movimento fondato da Carlo Petrini. Quello che succede in Molise fa il solletico al caso del Veneto portato alla ribalta da WineMag, lo scorso lunedì.

Pierluigi Cocchini, attuale responsabile regionale Slow Wine Abruzzo e Molise, è anche uno dei due fondatori della cantina Vinica di Contrada Costa Bianca 4, a Ripalimosani (CB).

Una realtà vicina al mondo della produzione “sostenibile e naturale”, che per accreditarsi sul mercato sottopone alle Guide il giudizio dei propri vini.

Risultato? La Guida Slow Wine 2017 assegna la menzione di “vino quotidiano” alla Tintilia del Molise “Lame del Sorbo” 2013.

Secondo quanto risulta dal sito web della cantina, si tratta dell’unico riconoscimento nazionale ottenuto. Un vino che Pierluigi Cocchini, da agronomo e wine maker di Vinica, avrà visto nascere, crescere. E premiare con la “Chiocciola” del “vino quotidiano”.

Peraltro, il referente Slow Wine Abruzzo e Molise risulta anche dipendente ARSIA Molise, ex Ente Regionale di Sviluppo Agricolo per il Molise, nella sezione di Termoli (CB), dove attualmente rivestirebbe la qualifica di “Funzionario (area quadri) e specializzato nei settori vitivinicolo, frutticolo, marketing delle produzioni agroalimentari e microfiliere produttive”. Di nuovo in alto le Chiocciole: cin, cin!

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Gli Editoriali news

Degustatore Slow Wine stipendiato da una distribuzione di vino naturale

EDITORIALE – Momento Marzullo, ma neanche troppo. Seduti comodi, per favore. Domanda: se foste vignaioli, affidereste il giudizio dei vostri vini a una Guida che annovera, tra i degustatori, gente stipendiata da una distribuzione di vino?

Ecco, lo dicevo. Più che una domanda “marzulliana”, questa è a tutti gli effetti una domanda retorica. Eppure, così accade. In Veneto.

La distribuzione di “vini naturali” Arké, fondata dalla famiglia Maule e gestita da Francesco – figlio dell’Angiolino patron di VinNatur – e dalla moglie Erica Portinari, ha annunciato in pompa magna l’ingresso “in pianta stabile” di Gianpaolo Giacobbo. Un “amico”.

Peccato si tratti di uno dei referenti del Veneto di Slow Wine, piattaforma enologica di Slow Food, il movimento nazionale fondato da Carlo Petrini. Al di là della correttezza e della professionalità di Giacobbo, che forse solo il Padre Eterno potrà e dovrà giudicare, pare evidente il conflitto d’interessi tra i due ruoli. Un po’ come se il commercialista, in pausa pranzo, facesse il finanziere.

Una vicenda su cui qualcuno, in Veneto, chiacchiera ormai da anni. Il rapporto di collaborazione tra il degustatore di Slow Wine e la distribuzione Arké non è infatti nato ieri. Eppure tutti tacciono e hanno taciuto, almeno ufficialmente. Produttori, stampa, amici, colleghi.

E’ quella che mi piace definire omertà del pezzo di terra.

In Italia (e circoscrivo geograficamente perché vivo qui, mangio e bevo qui) parlano e denunciano solo due categorie: quelli che non hanno niente da perdere (ma proprio niente) e quelli che, più semplicemente, hanno una Coscienza (questi ultimi sono tutto tranne che eroi: fanno solo il giusto, sempre).

Chi ha un “pezzo di terra” da difendere, seppur piccolo e ormai quasi sterile, non apre bocca in Italia per paura di perdere quel poco che si è guadagnato.

Non importa come, l’importante è conservarlo. Anche col silenzio.

Chi ha una Coscienza (e una Coscienza dovrebbero averla tutti quelli che scrivono, giudicano, editano, organizzano eventi e influenzano in maniera varia i consumi dei lettori, anche potenziali) invece parla (e scrive) senza temere conseguenze: ovviamente se ha qualcosa di sensato da dire, o da scrivere.

E allora perché la stampa, in Italia, raramente denuncia? La risposta è semplice. E voglio restare nel campo della dell’enogastronomia, per non allargare troppo il cerchio. In Italia, di giornalismo e di vino, non si campa.

LA STAMPA ENOGASTRONOMICA IN ITALIA
Molti giornalisti enogastronomici vengono pagati (quando vengono pagati) pochi euro ad articolo. Pagamenti che tardano ad arrivare, contratti a tempo determinato che saltano (“Sotto al prossimo, chi è il numero 744? Prego, questa è la sua scrivania da stagista”), giornali che chiudono, portali offline, sono all’ordine del giorno.

La penna di chi scrive di vino e di cibo, in italia, rischia di rimanere spesso senza inchiostro, in un vorticoso e beffardo gioco del destino che porta il writer di turno a scrivere di beni che non può neppure lontanamente permettersi.

La vita stessa della testata che state leggendo è a rischio e fa i conti ogni fine mese con la cinica matematica dettata dall’illogicità del sistema dell’informazione. Non a caso abbiamo aperto un form per le donazioni dei lettori: gli unici che potrebbero premiare la nostra quotidiana guerra per un’informazione libera e indipendente (sapete quanti ci vorrebbero “chiusi” domani mattina? Da oggi qualcuno in più!).

PER CHI NON LO SAPESSE
Giornalisti e winewriter
(nella categoria rientrano ormai anche le graziose donzelle che necessitano di due sedute dall’estetista prima dello scatto alla bottiglia, o della partenza della #wineporn diretta su Instagram) vengono invitati a dei tour dai Consorzi e dalle cantine.

Vitto e alloggio pagato, per scrivere di questa o quella Denominazione. Di questo o di quel produttore. Mettetevi nei panni degli invitati: dareste mai problemi ai padroni di casa? E a chi vi invita? Ecco, appunto: fareste di testa vostra, in caso di necessità, solo se foste molto dotati (della Coscienza di cui sopra, s’intende). E vi assicuriamo che non finisce sempre così.

Eppure è vero anche il contrario: dall’altra parte della barricata, nel Paese del Bengodi della critica enogastronomica italiana, esistono tuttora personaggi alla moda che girano per cantine col Suv e il rimborso spese, pure per la moglie (cosa che avviene pure le compagne di certi fighissimi wine & food influencer).

Beati quelli con lo specchio del bagno di casa sporco
sin dalla mattina, quando se la lavano. La faccia.

Tutta questa spataffiata sull’omertà e sul “pezzo di terra” mica per fare caciara. Piuttosto per dire che, in fondo, pure il buon degustatore di Slow Wine Veneto deve arrivare a fine mese. E per questo non lo biasimiamo. Siamo tutti sulla stessa barca. Ma l’etica, beh. Quella è un’altra cosa. E non siamo noi a insegnarla. In alto le Chiocciole. Cin, cin.

 

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Analisi e Tendenze Vino news

Maurizio Galimberti: come porto il vino italiano in Sud America

Baffo bianco all’insù, alla Salvador Dalí. Camicia slacciata sul petto che, a 61 anni, puoi permetterti solo se hai girato mezzo pianeta. Un bulldog inglese di 10 anni, Matok, come inseparabile compagno. Maurizio Galimberti, di Saronno (Varese) come il famoso “Amaretto”, è un ambasciatore del vino e della buona cucina italiana in Sud America.

Madre svizzera, padre di Monza. Un cittadino del mondo, già in fasce. Oggi, con la sua società, porta Oltreoceano alcune tra le eccellenze del vino Made in Italy. Duecentomila bottiglie in Centro e Sud America, in Paesi come Colombia, Ecuador, El Salvador, Panama e Nicaragua. Nazioni dove il vino italiano è molto apprezzato, anche se non alla portata di tutti.

Un business reso possibile da un’attenta selezione di Franciacorta, Supertuscan e Prosecchi di fascia medio-alta. Nel portafoglio di Maurizio Galimberti, sommelier Ais prima e degustatore Onav poi, alcune tra le etichette icona del Made in Italy del vino. Una rete di distributori locali le piazza poi in grandi hotel e catene alberghiere di lusso, come le Trump Tower.

A favorire il business, una fiscalità che invoglia le imprese a operare in Sud America. Basti pensare che, in alcuni Paesi, la pressione fiscale si ferma al 27% dell’utile. Una soglia nettamente inferiore al 64,8% dell’Italia. Ma non è tutto oro quello che luccica.

“Le spedizioni sono molto costose – evidenzia Galimberti – perché occorre attrezzarsi con container refrigerati. Occorrono 4-5 mila euro per la spedizione di un singolo container da 6 pallet, per un totale di 2.700 bottiglie. Il container grande conviene: costa 6-7 mila dollari, ma ci stanno il doppio dei bancali. Le consegne, tra navigazione, soste in dogana e rallentamenti di una burocrazia asfissiante, avvengono in 30 giorni circa dalla data di spedizione. E sul posto vanno poi calcolate le tasse, che si pagano in base al grado alcolico, con balzelli da mezzo grado”.

LO SFUSO DAL CILE
Ecco che una bottiglia pagata in Italia 10 euro può costare oltre 40 dollari in Centro Sud America. “Ovviamente – evidenzia Galimberti – si tratta di Paesi dove c’è un grande divario tra le classi sociali. In pochi possono permettersi le eccellenze del vino italiano. Il ceto medio e soprattutto quello basso, in America del Sud, ha l’abitudine di bere per ubriacarsi. E ci riesce pure bene con i prodotti locali: vini a basso o bassissimo costo provenienti dal continente”.

A farla da padrona, in questo mercato del “primo prezzo”, sono nazioni come Cile. Vero e proprio serbatoio dell’intera area per il vino sfuso e di bassa qualità. Se ne sono resi conto già da un pezzo in Argentina, nazione invasa dalla cifra record di 526 mila ettolitri di vino sfuso cileno, nei primi 6 mesi dell’anno corrente.

Quello del saronnese Maurizio Galimberti è invece (anche) un progetto culturale. “Chi esporta vini del proprio Paese non può perdere l’opportunità di fare cultura del buon bere e della buona cucina nei luoghi di destinazione”.

“Anche per me è stata una sorpresa scoprire che bevono molto vino rosso – sottolinea l’imprenditore – con gradazioni abbastanza sostenute, ma freddo. Impazziscono per il Cabernet e il Pinot Noir. Amano anche i nostri Brunello e i nostri Amarone, sempre dunque vini con una certa concentrazione e presenza d’alcol non indifferente”.

LA CUCINA COME CHIAVE
“Importo anche Chianti e Morellino leggeri – precisa il 61enne Saronno – che sono riuscito a far conoscere e apprezzare grazie al lavoro fatto con la comunicazione dell’abbinamento corretto del vino in cucina. Spesso i piatti locali sono poveri e dunque necessitano di vini semplici, giovani. Con ancora più fatica cerco di comunicare che il vino bianco, come Prosecco e bollicine più strutturate come quelle franciacortine, possono dare grandi soddisfazioni in abbinamento alla tradizione gastronomica Centro-Sud Americana”.

E non parla a caso Galimberti, che ha iniziato il suo percorso professionale proprio come chef. In questa veste lo si può incontrare a Rescaldina (MI), nel secondo dei tre punti vendita del retailer Zodio.

“Purtroppo – aggiunge Galimberti – non riesco a evitare che da quelle parti annacquino tutto col ghiaccio. Colpa delle campagne pubblicitarie di mostri sacri come Moet & Chandon, per i quali tutti nutrono vera e propria venerazione. Gli spot in cui si invita a mettere il ghiaccio nello Champagne non aiutano certo chi tenta di offrire upgrade qualitativi e professionali”.

A quattro anni dall’avvio dell’import, Galimberti ha le idee chiare sulle dinamiche d’acquisto di vino da parte dei sudamericani. “Dimmi dove fai la spesa e ti dirò tutto sul tuo portafogli”. A Panama sembra funzioni così. Con la popolazione che si suddivide per status sociale nella scelta delle insegne di supermercati in cui fare la spesa.

Riba Smith è la catena dei ricchi – spiega Galimberti – dotata di store bellissimi, moderni, dalla chiara impronta internazionale. C’è poi Super99, la catena dell’ex presidente Ricardo Alberto Martinelli Berrocal, fino a qualche mese fa in esilio a Miami. Un concept che, come Rey, punta su prezzi alla portata di tutti, senza disdegnare la qualità”.

I negozi “bene” si trovano nel centro della capitale Panama, dove un singolo ceppo di lattuga può costare 6 dollari. Allontanandosi dal cuore della città, i prezzi si sgonfiano. I quartieri diventano sempre più popolari. E l’insalata si compra a cassette. Nei mercati rionali.

“Il costo della vita scende a meno di un terzo”, spiega l’imprenditore. Anche perché a Panama c’è chi ringrazia il cielo con uno stipendio di appena 400 euro.

“La manodopera è un altro problema – evidenzia Galimberti – perché trovare personale qualificato in Paesi dove la ricchezza è così mal distribuita è cosa davvero rara. Se dai la mancia al cameriere di un ristorante di medio-basso livello, questo non si presenterà per un po’ sul posto di lavoro. Con 10 dollari ci vive tre giorni. Chi glielo fa fare di andare pure a lavorare?”.

E allora meglio pensare alla Trump Tower, dove il vino italiano scorre a fiumi e i soldi non mancano mai. Clienti facoltosi, auto di lusso a specchiarsi nelle ampie vetrate di quella che sembra una zanna, conficcata nel golfo del Pacifico Settentrionale. Qui il vino si paga alla consegna. Un paradiso del lusso dove i Franciacorta italiani sono molto apprezzati e tra le etichette più in voga.

Per gli amanti dei dettagli, qualche altra cifra. Quattrocentomila euro l’investimento necessario per avviare un business come quello di Galimberti, in Centro Sud America. Qualcuno ci vuole provare?

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