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Carta del vino calabrese oltre Cirò: i tesori della regione, da Palizzi a Cosenza

Le ruote della Fiat Panda sbattono violentemente sui grossi massi della strada sterrata. Seconda marcia ingranata, in salita. Il motore urla, tra una botta e l’altra. Si arriva in cima tra lo stralunato e il divertito. Come dopo un giro in giostra. Tra una buca e l’altra, schivate d’un soffio, tocchi terra e ti senti Cristoforo Colombo. Dietro, solo la polvere.

“Eccolo. Lì c’è il più grosso, lo vede?”. Scende serafico dalla sua auto-carro armato il professor Orlando Sculli, abituato com’è ad arrampicarsi tra le mulattiere del Reggino. Col dito indica qualcosa costruito con la pietra scura, nascosto dalla sterpaglia ingiallita dal sole.

Uno straordinario palmento, sotterrato dalle erbacce secche. Qualcosa che, dopo due settimane di peregrinazioni tra vigneti e viticoltori calabresi, pare sintetizzare al meglio lo stato di fatto della Calabria del vino.

L’immagine più fulgida di una terra dagli immensi tesori nascosti, coperti dalla noncuranza, dall’incapacità di fare sistema. Dalla timidezza imprenditoriale “suggerita” dalla presenza della ‘ndrangheta.

Tesori a disposizione di tutti, che è possibile scoprire solo “per caso”, dopo aver percorso strade impervie e costellate da segnali inquietanti. Come le cancellate improvvisate dai pastori, lungo le strade pubbliche, nelle campagne del circondario di Ferruzzano (RC).

Proprio lì si “nascondono” oltre 700 palmenti abbandonati. Un calcolo a cui è giunto proprio il temerario professor Sculli, dopo anni di studi autofinanziati e chilometri percorsi a rincorrere il proprio amore per la verità e la storia.

Fil di ferro e barriere sulle strade di tutti (in realtà di nessuno). Là in mezzo ai campi, le numerose testimonianze di quanto la Calabria sia stata “culla della viticoltura” italiana, sin dai tempi antichi.

Lo sa bene il vignaiolo Santino Lucà, che venti chilometri più a nord di Ferruzzano sta combattendo un’eroica battaglia, pressoché solitaria. “Prima qui c’erano tutte vigne – dice col finestrino abbassato, indicando le aspre colline del Comune di Bianco – ora invece tutti si danno al bergamotto, molto più redditizio”.

Un’onda verde, quella dell’agrume utilizzato in profumeria per il suo pregiato olio essenziale, che si solleva da Villa San Giovanni, 13 chilometri a nord di Reggio Calabria, e raggiunge Monasterace, interessando tutta la costa meridionale della Calabria. Per oltre 150 chilometri.

“C’è troppo lavoro da fare in vigna rispetto ai campi di bergamotto – evidenzia Lucà – e poi qui i vini vengono forti. Il trend mondiale, ai giorni nostri, è quello di vini a bassa gradazione. Per questo tutti stanno abbandonando il vigneto. Un vuoto che diventa terra fertile per l’industria del bergamotto”.

Attorno a Santino Lucà lavorano incessantemente ruspe, escavatori e rulli, utili a preparare il terreno per i nuovi impianti di Citrus bergamia. Ma Lucà resiste, nel labirinto di Cnosso della sua Bianco. Anzi, rilancia: ha in programma nuove acquisizioni e la realizzazione di una sala degustazione e accoglienza, tra i vigneti.

“La tradizionale produzione di Greco di Bianco o Mantonico passito – spiega – è messa a dura prova. Il futuro della viticoltura in quest’area si deciderà nell’arco dei prossimi 20 anni, un po’ come in tutta la Calabria”.

Eppure, di vini e di esempi di viticoltura eroica è piena questa terra baciata dal sole, in cui convivono il più aspro e asciutto e il più montano e rigoglioso dei paesaggi. Dalle vigne a picco di Palizzi (RC), sulla punta meridionale della regione e del continente Europa, si vede il mare all’orizzonte.

Bisogna essere un po’ geni e un po’ “folli”, come Nino Altomonte, per pensare di mettere le radici tra le “timpe”, i pericolosi costoni su cui affondano le radici i vigneti. “Sono il re delle timpe“, scherza Altomonte, mentre mostra le piante di Nerello Mascalese, Nerello Calabrese, Inzolia, Malvasia e Moscato Bianco. È qui che si produce uno dei vini di maggiore qualità dell’intera Calabria: il Palizzi Igt.

Vitigni resi celebri dal fenomeno Etna, come il Nerello, si trovano anche in provincia di Catanzaro. Lo sa bene Vittorio Corasaniti, collaboratore di Santino Lucà che tra le montagne di Davoli, in località Ziia, ha individuato un vigneto storico, con piante ad alberello di 70 anni, a piede franco.

“Si tratta dell’eredità di un vignaiolo di 92 anni, scomparso di recente”, spiega Corasaniti. Evidente il filo invisibile che segna una continuità morfologica e ampelografica tra il vulcano siciliano e il sud della Calabria. “In 25 minuti di elicottero saremmo sull’isola”, sottolinea Corasaniti.

L’origine del terreno è differente, così come il microclima. Ma pare davvero di essere sulla “Muntagna”, mentre si cammina tra le piante antiche di Nerello, Greco Bianco, Guardavalle, Greco nero (Magliocco) e “Castiglione”, noto anche come Tsirò (Gaglioppo). Veri e propri monumenti naturali, salvati dalla scomparsa.

COSTA TIRRENICA E COSENTINO IN FERMENTO

Ma non è solo la Costa Ionica calabrese a riservare sorprese. C’è gran fermento nella zona tirrenica, in provincia di Vibo Valentia. Si chiamerà Costa degli Dei la nuova Doc pronta a nascere per iniziativa di Cantine Artese, Casa Comerci, Marchisa, Cantine Benvenuto e Cantina Masicei.

Poco meno di 400 gli ettari complessivi. Il cuore della nuova Denominazione sarà il Comune di Nicotera, con 167 ettari (63,67 rivendicabili). Segue Drapia, con 105 ettari, di cui 61,65 rivendicabili. Terzo gradino del podio per Limbadi, con 52,46 rivendicabili sui 105 complessivi.

Sono ben 38, tuttavia, i Comuni vibonesi potenzialmente interessati dalla nuova Doc del vino calabrese. Si punterà tutto sul Magliocco Canino per i rossi e sullo Zibibbo per le varietà a bacca bianca. “Quello che speriamo di ottenere – spiega Cosmo Rombolà di Cantina Masicei – è uscire da questa sorta di anonimato che contraddistingue la parte tirrenica della regione, nota più che altro per la bellezza delle sue spiagge”.

E a crescere, con un numero sempre maggiore di aziende capaci di imporsi sui mercati (non solo nazionali) con etichette di qualità, è anche la provincia di Cosenza. Merito di vignaioli come Dino Briglio, che con L’Acino Vini sta portando San Marco Argentano in tutto il mondo.

“In particolare – spiega Briglio – è il Giappone che sta dando grandissime soddisfazioni non solo per il Magliocco, vitigno principe di questa zona, ma anche per le altre varietà”. Stesso imprinting per Masseria Perugini, il regno di Giampiero Ventura, che conduce l’azienda assieme alla compagna Daniela De Marco e al socio Pasquale Perugini.

“L’idea – spiega Ventura – è portare avanti un’idea di Calabria costruita sui capisaldi delle origini. Non vorremmo andare avanti, ma tornare indietro, per raccontare in maniera autentica la nostra terra, nel calice”. Ecco spiegata la scommessa Guarnaccino, vitigno autoctono su cui sta puntando moltissimo Masseria Perugini, reimpiantandolo.

Sempre nel Cosentino, per l’esattezza a Malvito (CS), Tenute Pacelli pare invece un’isola a metà tra la Toscana e la Calabria, con qualche contaminazione campana. Agli originari Sangiovese, Canaiolo e Malvasia vengono affiancati Barbera, Trebbiano toscano e Vermentino.

Poi Calabrese, Syrah, Fiano, Magliocco, Cabernet Sauvignon e Greco di Bianco. Eppure, uno dei simboli di questa cantina calabrese “al femminile” è il Riesling. Un vitigno in cui credono molto Carla e Laura, figlie di Clara (di origine istriane) e dell’ex avvocato Francesco.

Ottimi i risultati ottenuti con il Metodo classico, da un vigneto dedicato. Ad accogliere i visitatori, lungo la stradina che conduce alla cantina, è infatti il cru di Riesling che prende il nome dall’erede della famiglia, Zoe.

Una realtà, Tenute Pacelli, in fase di profondo ammodernamento e ampliamento, che toccherà il suo apice al termine dei lavori di realizzazione delle nuove “ali” dell’elegante casa coloniale, immersa tra i vigneti, a due passi dalla cantina.

Punta tutto su Magliocco e Greco bianco un’altra cantina al passo coi tempi, nel Cosentino: Tenuta Celimarro, non lontana da Castrovillari (CS). Un’azienda che ha beneficiato dell’impulso del giovane enologo Valerio Cipolla, che nel 2013 ha cambiato le sorti dell’azienda, dando vita a un brand fondato su “Arte, Amor, Vino e Bellezza”.

CIRÒ, EMBLEMA DEL VINO CALABRESE

Gli investimenti sui vitigni internazionali, accostati alla valorizzazione degli autoctoni e alle continue sperimentazioni in vigna, trovano pieno compimento in una realtà divenuta sinonimo di Calabria, che proprio a Cirò Marina ha sede, dagli anni Cinquanta. Si tratta di Cantina Librandi.

La cittadina della costa ionica, nonché la pittoresca Cirò, situata in posizione più elevata rispetto alla “sorella” baciata dal mare,  può essere il punto di arrivo o quello di partenza di un tour del vino calabrese.

Tra le tappe da non perdere, proprio la vinicola dei Librandi, la cui storia ha inizio alla metà dello scorso secolo e continua oggi, con Nicodemo Librandi al timone assieme ai figli Raffaele e Paolo e ai cugini Francesco e Teresa, figli dello scomparso Antonio Librandi, fratello di Nicodemo.

Sono ormai diventate 6 le tenute di proprietà della famiglia, per un totale di circa 350 ettari: 232 vitati, 80 a uliveto e i restanti boschivi. Dal primo imbottigliamento dei vini a base Gaglioppo e Greco Bianco, nel 1953, la piccola cantina di via Tirone si è allargata a macchia d’olio. Con essa la popolarità del vino calabro.

L’acquisto nel 1955 dell’azienda Duca Sanfelice, in località Ponta, all’interno della Doc Cirò, anticipa l’inaugurazione del nuovo stabilimento produttivo in Contrada San Gennaro, nel 1975.

Il Duca Sanfelice Cirò Rosso Riserva fa il suo debutto sul mercato nel 1983, anno in cui si comincia a parlare davvero di vino calabrese nel mondo, grazie proprio a questa etichetta.

Nel 1985 i Librandi inglobano l’azienda Critone, a Strongoli. E nel 1988 escono le prime annate di “Gravello“, “Critone” e “Terre Lontane“: altri tre vini che hanno fatto la storia dell’azienda e della Calabria vitivinicola.

Nel 1997 il portafogli si allarga all’azienda Rosaneti, dove si concretizza la svolta sui vitigni autoctoni, idea da subito condivisa da Donato Lanati, al quale l’anno successivo viene affidata la conduzione tecnica della cantina.

Ma se oggi Cirò è presente sulle carte dei vini dei migliori ristoranti del mondo, lo si deve anche ai vignaioli della Cirò Revolution, autori di una sferzata decisiva alla Doc costituita nel 1969. Il profondo rispetto per il Gaglioppo lega i produttori aderenti a un movimento compatto e tenace, ormai internazionalmente riconosciuto.

In ogni calice della Cirò Revolution – cui ha contribuito in maniera determinante ‘A Vita di Francesco Maria De Franco – c’è l’essenza del vignaiolo che la produce. Si va dai vini coraggiosi e scalpitanti di Mariangela Parrilla (Tenuta del Conte), alle interpretazioni millimetriche di Cataldo Calabretta. Due modi diversi di rappresentare l’anima più vera del Gaglioppo.

Espressioni condensate nei vini di Sergio Arcuri, autore di uno dei rosati migliori d’Italia, “Il Marinetto“. Non a caso c’è tanta Calabria (e tanta Cirò) nella “Top 100” 2019 stilata da WineMag.it.

La Calabria ha tutte le carte in regola per guadagnare ulteriore spazio nella geografia enologica italiana e internazionale, proprio per la capacità di accostare il savoir-faire di grandi e piccoli produttori.

Tra i migliori assaggi nella regione anche quelli di Ippolito 1845, cantina che – come Librandi – ha saputo rimanere al passo coi tempi e interpretare bene, nell’ottica della qualità, i differenti canali di vendita (Gdo e Horeca).

Regina della Grande distribuzione, nell’areale di Cirò, è Caparra & Siciliani, capace di firmare bianchi e rossi dall’invidiabile rapporto qualità prezzo, nel rispetto del vitigno e nel segno della responsabilità sociale. La stessa filosofia che contraddistingue Cantine Zito, a Cirò Marina.

Accanto ai “big”, ecco le nuove leve. Come Francesco Esposito (Esposito Vini) che si districa bene tra vitigni internazionali ed autoctoni e ha dato un’impronta moderna all’azienda di famiglia. Un vero e proprio vulcano di idee, Francesco, che con competenza porterà la cantina a crescere e a posizionarsi meglio sul mercato, nei prossimi anni.

Così come è destinata a imporsi anche un’altra realtà di Cirò Marina: Cantina Enotria, che da 3 anni ha iniziato un nuovo corso della propria storia, con importanti investimenti e l’ingresso nel team dell’enologo Tonino Guzzo.

Interessante la gestione delle linee Igt e Doc. La prima, nel segno della tradizione e dei vitigni autoctoni, esprime appieno il territorio. La seconda guarda all’estero, ma senza snaturare la tipicità del Gaglioppo e del Greco.

IL VINO CALABRESE IN QVEVRI GEORGIANE

Ma la vera e propria ventata di novità nel vino calabrese soffia poco lontano da Cirò, a San Nicola dell’Alto (KR). Qui, Michele, Gianni e Nicola realizzano vino in qvevri della Georgia, ovvero in anfore interrate. Il nome scelto per questo curioso progetto, non a caso, è Menat: “Domani” nella lingua della comunità locale arbëreshë.

Quella del 2019 è stata la seconda vendemmia per il trio di giovani. Solo Gaglioppo e Greco Bianco da vigneti dell’areale di San Nicola dell’Alto, Comune di 800 anime arroccato sopra Cirò e Melissa.

Spettacolare l’ettaro e mezzo in contrada Fragalà, località nota per l’eccidio del 1949. “Qui i contadini si sono guadagnati la terra col sangue”, ricordano i promotori di Menat.

Tanti progetti per il futuro e la convinzione che il vino debba essere “naturale, senza la minima aggiunta di chimica, ma senza difetti e di gran bevibilità”. La prova del calice convince su tutta la linea di questa nuova cantina (tre etichette), che registra una produzione complessiva inferiore alle 2.500 bottiglie.

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***DISCLAIMER*** Si ringraziano le aziende per l’ospitalità assicurata in Calabria a WineMag.it, utile a coprire solo in parte la realizzazione del reportage. I commenti espressi su cantine e vini sono comunque frutto della completa autonomia di giudizio della nostra testata, nel rispetto assoluto dei nostri lettori

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Approfondimenti

Valoritalia festeggia i 50 anni della Doc Cirò


La Doc Cirò, ha compiuto 50 anni. Un traguardo importante per la denominazione riconosciuta nel 1969 per volere dei capostipiti delle famiglie viticultrici della zona, che decisero di ottenere il giusto riconoscimento per il vino simbolo di Enotria, nome con il quale i greci ribattezzarono la Calabria.

Considerata dai massimi esperti a livello internazionale la promessa del vino italiano, la Doc Cirò  pare destinata ad esplodere sul panorama internazionale.

Valoritalia, ha scelto di celebrare insieme al Consorzio di Tutela dei Vini DOC Cirò e Melissa e ai rappresentanti del mondo politico e imprenditoriale della regione Calabria questa data importante, intervenendo durante il grande evento – Cirò, 50 anni di denominazione di origine controllata: scenari opportunità in un mercato globale tra storia, cultura e tradizione –svoltosi gli scorsi 27 e 28 giugno 2019 a Cirò Marina.

Due giornate celebrative ricche di appuntamenti, degustazioni di annate storiche e conferenze sull’evoluzione dei gusti dei consumatori, su nuove sfide e sugli strumenti adatti per accoglierle.

LA MISSION DI VALORITALIA
Gli interventi del Presidente di Valoritalia, Francesco Liantonio e del suo Direttore Generale, Giuseppe Liberatore, hanno entrambi sottolineato il ruolo e l’importanza che un accurato processo di certificazione svolge nell’assicurare una crescita equilibrata e duratura di una denominazione, perché fornisce al consumatore le necessarie garanzie di qualità e tracciabilità per ogni bottiglia immessa sul mercato.

Negli ultimi anni, il mondo del vino, e dei prodotti agroalimentari in generale, ha subito un profondo cambiamento. E’ chiaro a tutti, a consumatori e produttori, che per produrre, vendere, acquistare e consumare un prodotto d’eccellenza, sia imprescindibile identificarne territorio d’origine, filiera e metodologie produttive.

In Italia, Valoritalia è leader indiscusso degli organismi di controllo che operano nel settore vitivinicolo, certificando 220 denominazioni di origine che rappresentano il 49% dei volumi di tutta la produzione DOC, DOCG e IGT. La metà della viticultura italiana di qualità.

10 anni fa Federdoc e CSQA hanno costituito Valoritalia, contribuendo in tal modo a dar vita ad un sistema di supporto al comparto vitivinicolo italiano basato sul concetto di “rete”.

UNA GARANZIA DI ECCELLENZA
“Abbiamo costruito un meccanismo rigoroso – ha affermato Liantonio – che garantisce l’eccellenza dei vini DOC, DOCG, BIO e da agricoltura integrata, prodotti e commercializzati da aziende che contano sulla serietà e sulla competenza delle nostre verifiche, che hanno deciso di fare sistema, di essere una squadra; aziende che rappresentano l’eccellenza italiana”.

“La qualità rappresenta la nostra tradizione e cultura. Dobbiamo tutelarle attraverso la rigorosa verifica dell’applicazione dei disciplinari di produzione, facendo del vino il principale ambasciatore della nostra credibilità”, ha concluso il presidente di Valoritalia.

D’altronde a Cirò, nel 1967, come ha raccontato il Presidente del Consorzio di Tutela Vini DOC Cirò e Melissa, Raffele Librandi “fu proprio Veronelli che fece grande la storia di questa denominazione, caldeggiando la creazione della DOC Cirò appunto, ponendo le fondamenta per il successo di un territorio, di una regione e soprattutto del nettare tanto amato dai greci”.

Le nostre Denominazioni di Origine – ha aggiunto Riccardo Ricci Curbastro, Presidente di Federdoc, intervenuto durante il convegno a Borgo Saverona – sono apprezzate in tutto il mondo e riconosciute come segni distintivi del nostro Paese, della nostra cultura enologica e del nostro territorio”.

“Il loro valore aggiunto ha permesso una graduale acquisizione di posizioni vincenti sul mercato: dal 2009 al 2018 l’export vitivinicolo è cresciuto del 76%, raggiungendo i 6,2 miliardi di euro in valore e i 19, 8 milioni di ettolitri in volume nel 2018, e facendo conquistare all’Italia il ruolo di secondo paese esportatore mondiale”.

Ricci Curbastro ha poi ricordato che “il settore vino rappresenta quindi un volano fondamentale per la nostra economia, generando un fatturato complessivo di 13 miliardi, grazie all’operato di circa 310.000 imprese vitivinicole e di 46.000 aziende vinificatrici, esportatrici del nostro made in Italy nel mondo”.

“Siamo orgogliosi di certificare una denominazione con una storia come quella del Cirò DOC – ha concluso Giuseppe Liberatore, Direttore Generale di Valoritalia. – e con una prospettiva di crescita così promettente. La nostra mission è garantire l’eccellenza e certificare la qualità. La crescita e il radicamento delle denominazioni virtuose è la nostra crescita”.

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Milano chiama, Cirò risponde: il Gaglioppo di ‘A Vita in degustazione con Fisar

Di vino non si parla mai abbastanza a Milano, capitale del “bere bene” e, soprattutto, del “bere internazionale”. Ma di “vino calabrese” non si parla quasi mai, né a Milano né altrove.

Eppure la Calabria ha tantissimo da offrire al panorama enologico italiano. Avete letto bene: la Calabria.

A Milano, un calice di Cirò sulla tavola imbandita di un residente, lo trovi – con buona probabilità – solo dalle parti di Buccinasco. Dove di “autoctoni trapiantati” ce n’è a bizzeffe.

A fare da portabandiera del “bere calabrese” nel capoluogo lombardo ci pensa allora Fisar, la Federazione italiana sommelier, albergatori e ristoratori.

Una delegazione di provincia, quella di Bareggio, è riuscita nella grande impresa di portare “al Nord” Francesco Maria De Franco (nella foto). Con la sua cantina ‘A Vita – 8 ettari nei pressi del Km 279,8 della Statale 106 di Cirò Marina, in provincia di Crotone – De Franco è grandioso interprete del Gaglioppo, l’uva dalla quale si ottiene lo straordinario vino denominato Cirò. Un volto noto, tra l’altro, ai lettori più attenti di vinialsuper (qui il nostro articolo in occasione del Mercato dei Vini Fivi 2016).

Appuntamento il 2 novembre, alle ore 21, all’Hotel Diamante di via S. da Corbetta, 162, a Corbetta (MI). In degustazione Cirò Rosso Riserva 2010, Cirò Rosso Classico 2012, Cirò Rosso Riserva 2013 e Cirò Rosso Superiore 2014 (20 euro per i soci Fisar, 25 per i non soci; iscrizione obbligatoria versando la quota mediante bonifico bancario all’Iban IT87O0503432470000000000044 entro il 25/10/17 e inviando copia alla mail bareggio@fisar.com; posti limitati).

IL CIRO’ DI ‘A VITA
“Francesco Maria De Franco di ‘A Vita – evidenzia Raffaele Novello (nella foto), segretario della delegazione Fisar Bareggio – è uno di quei produttori che ho avuto la fortuna di conoscere quand’era ancora sconosciuto. Alla grande platea è tuttora poco conosciuto, ma chi si intende di vino lo conosce benissimo. Infatti sta iniziando ad accumulare soddisfazioni e riconoscimenti”.

“Portare il Cirò a Bareggio e, dunque, a Milano e in Lombardia – continua Novello – è una proposta che fortemente caldeggio da oltre un anno. Ho una gran voglia di far conoscere a tanti veri appassionati di vino un vitigno, il Gaglioppo, che non ha nulla da invidiare ad altri più conosciuti e blasonati. Parlo dei vari Sangiovese o Nebbiolo. Un vino, il Cirò, che se fatto bene può essere longevo. Lo racconterà sicuramente il nostro gradito ospite: può arrivare tranquillamente a 15-20 anni, mantenendo tannino e acidità di rilievo”.

“Un vignaiolo, Francesco de Franco – aggiunge il segretario Fisar Bareggio – che fa bio in Calabria da quando gli altri non sapevano nemmeno cosa fosse il biologico. Un vignaiolo che vuole cambiare il modo di comunicare il vino e che dice basta alla storia del Cirò offerto alle Olimpiadi, in Grecia. Iniziamo piuttosto a comunicare il vino come Dio comanda”.

“Un vignaiolo – conclude Raffaele Novello – che dichiara sui social d’aver fatto solo tre trattamenti in occasione dell’ultima vendemmia. Uno che sostiene la valenza di terroir, vento, terra, contro oidio e peronospora. Voglio far conoscere, soprattutto ai nuovi bevitori di vino, passatemi il termine, un vino e una zona che non possono e non devono più essere trascurati: se non conosci il Cirò non puoi dire che conosci il vino”. Appuntamento (e occasione) imperdibile per i milanesi all’ascolto.

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L’anima del Gaglioppo nei vini di ‘A Vita: Cirò Marina in un calice

Difficili. Aristocratici. Semplici. Contadini. Cinque calici. Numero dispari. Dentro, solo Gaglioppo. E’ una “verticale obliqua”. Black out. Come d’improvviso, il Mercato dei Vini Fivi sembra assumere le forme di una delle opere di Escher. Un labirinto. Prima mentale, visivo. Poi, gusto olfattivo. Tutto sembra studiato per confondere, a quel festival dell’ossimoro che è stata la degustazione con il produttore Francesco De Franco di ‘A Vita – Vignaioli a Cirò.

Specie se quei vini li hai appena degustati – fuori temperatura – al banchetto dell’azienda produttrice. E non t’hanno fatto una buona impressione, lontano dall’ambiente ovattato della Sala degustazioni dei padiglioni fieristici di Piacenza.

L’ultimo dei quattro “appuntamenti con il vignaiolo” sul calendario degli organizzatori, tra sabato 26 e domenica 27 novembre. Qui, il vino viene servito a gradazione perfetta. E fa il suo: sconvolge. In positivo. Per armonica contrapposizione di note stonate. Per quella capacità di mettere d’accordo tutti. Mostrando con semplicità mille sfaccettature diverse. Ma nello stesso quadro.

LA DEGUSTAZIONE
Calabria Igp Rosato 2015, Cirò Doc Rosso Classico 2012, Cirò Doc Rosso Classico Superiore 2013, Cirò Doc Riserva 2008 (Magnum), Cirò DOC Riserva 2010 (Magnum). Questa la batteria, raccontata da Francesco De Franco assieme all’amico e collega campano Bruno De Conciliis. Il vignaiolo di Prignano Cilento, Salerno, ricorre alla musica per descrivere il Gaglioppo di De Franco. E fa benissimo. Perché quelle di ‘A Vita non sono “etichette”. Sono spartiti. Riproduzioni fedeli dell’incoscienza. Dell’autore. E di Madre Natura.

Due elementi, uomo e terra, sembrano incontrarsi nei calici che assumono le fatture d’un girone dantesco. Al primo sguardo. Alla prima olfazione. Al primo sorso. Si finisce sempre più risucchiati verso l’ignoto. “Cerco di raccontare un territorio sconosciuto e le potenzialità del Gaglioppo”, dice al tavolo dei relatori un timido Francesco De Franco, quasi nascondendosi dietro all’asta bassa e stretta del microfono. Annuisce, facendosi ancora più piccolo, mentre il collega De Conciliis ne decanta l’opera. Non è un animale da palco, De Franco. Ma da campagna, sì.

IL RITRATTO
Basta sentirlo mentre parla della sua terra. La Calabria. Mentre racconta di quelle “vigne fronte mare”, a 300 metri dalla riva, sembra di sentire lo scrosciare delle onde dello Ionio sui muri freddi dei padiglioni Expo Piacenza. Chiudi gli occhi, mentre parla di quella “stretta pianura con i mari sui due lati, di terra d’argilla e calcare”. Anche perché, mentre De Franco illumina del sole calabrese la Sala degustazioni, in bocca ci sono i suoi vini. Iodio allo stato puro. Vini tesi, tra l’asprezza dei paesaggi disegnati a parole. E la viscosità marina, simile a quella dell’olio d’oliva. Tannini e frutta a bacca rossa si giocano le parti in grassetto sullo spartito, in ognuno dei cinque vini di ‘A Vita in batteria. E così, il Rosato 2015 pare “un piccolo, giovane guerriero” dai muscoli d’acciaio. Destinato a conquistare il mondo.

Nel 2013 le note di china e rabarbaro sono evidenti. Drogano l’olfatto. T’incollano il naso al calice. Il 2012 è pura follia. “Un vino che non vederò mai”, ammette d’aver pensato il viticoltore mentre lo imbottigliava. Poi, un’evoluzione inattesa in bottiglia. Che, oggi, porta le note grevi a farsi (relativamente) più morbide. Come la china, che si tramuta in zenzero. E’ la storia, in sintesi, di tutta una produzione. Il primo anno (vedi Rosato 2015) il tannino sembra costituire un elemento a sé nei vini di ‘A Vita. “Io li chiamo ‘vini del sorriso'”, ammette. Vini disturbanti, che al posto di dissetare, asciugano. Tolgono linfa vitale al succo. Ma dal secondo anno in poi, mineralità e acidità tornano a prevalere, a conti fatti. Bagnando e rinfrescando un tannino da elisir di lunga vita.

Un continuo rimando a leggerezza e pesantezza. Vini musicali, appunto. Da sincope. Come il 2008. Quello che assume le tinte più profonde. Grevi, al naso: rabarbaro (ancora lui), ma anche liquirizia e cuoio. Macerazione sulle bucce lunga 20 giorni e successivo affinamento in legno nuovo non tradiscono. Alcol attenuato da un’annata non caldissima, tannini pure. E’ il vino di più “facile” beva di ‘A Vita. Quello che esprime note quasi “dolci” al palato. Un Cirò Riserva aperto a note minerali, fresche. Deliziose. Così come appagante è la freschezza vegetale del Cirò Riserva 2010. Tutto giocato su frutta rossa, timo e mirto.

Il bello è che De Franco fa sembrare tutto semplice. Come lui. Come l’incedere di un quattro quarti su un metronomo appena tarato. “Non cerco nessun tecnicismo – spiega – piuttosto il mio obiettivo è quello di raccontare il Gaglioppo e Cirò, con le caratteristiche che assume di annata in annata, a fronte delle condizioni climatiche”. I vini di ‘A Vita sono vini fatti in casa. “Non ho rifermenti in zona o modelli da seguire – continua il vignaiolo Fivi – perché a Cirò ci sono grandi cantine o contadini che producono per sé e per le loro famiglie. Per questo sono libero di esprimere, semplicemente, quello che offre la terra”. “Mi piacerebbe che i miei vini fossero ricordati nel tempo perché raccontano la vera Cirò”. Grazie per il viaggio, Francesco De Franco.

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