Zero tolleranza per il silenzio. Questo il nome scelto da Cà du Ferrà per il primo Ruzzese secco, dopo gli esordi sul mercato – nel 2023 – con il passito Diciassettemaggio, vendemmia 2020. Il vitigno autoctono ligure, frutto di una rinascita commerciale dovuta proprio all’intraprendenza e alla tenacia dei due titolari di Cà du Ferrà, Davide Zoppi e il marito Giuseppe Aieta, mostra così il volto più puro e contemporaneo della Liguria di Levante. Un vino a Indicazione geografica protetta (Igp), vendemmia 2023, prodotto in sole 635 bottiglie, in parte già assegnate dal distributore esclusivo Proposta Vini (il costo è di 35 euro, più Iva).
Una chicca – firmata dall’enologa Graziana Grassini – con un messaggio forte dentro (e fuori) dalla bottiglia. L’etichetta è solo apparentemente monocromo, bianca. In realtà va strappata, da sinistra verso destra. Tirando una linguetta. Ecco così apparire la scritta “Zero tolleranza per il silenzio”, voluta da una cantina – Cà du Ferrà, per l’appunto – che non smette di sorprendere non solo attraverso i propri vini, ma anche lanciando messaggi chiari e assumendo prese di posizione nette. A sfondo socio-culturale. Perché il vino può essere anche manifesto.https://caduferra.wine/it/
IL RUZZESE: VITIGNO, VINO E ORA ANCHE “MANIFESTO”
«Tolleranza zero per il silenzio. Questa è la filosofia del vino. Un vino che non accetta omertà, non accetta silenzi. Che vuole parlare da solo. Un vino che invita a vivere la vita con grande impegno, con grande responsabilità. Impegno verso gli altri, verso la natura. Verso il territorio in cui viviamo. Il nostro Ruzzese secco è un invito: tolleranza zero per il silenzio, in tutte le sue accezioni negative». Le parole di Davide Zoppi fanno eco a quelle del marito Giuseppe Aieta.
«L’etichetta da strappare – spiega – vuol rappresentare una linea ben marcata nel nostro percorso di riscoperta del vitigno ed essere un modo per far riflettere sul mondo in cui viviamo. Non a caso abbiamo scelto il candore del bianco. Occorre iniziare, tutti insieme, a strappare vie le paure dalla nostra vita. Spingersi oltre i pregiudizi, per raggiungere i nostri obiettivi. Dobbiamo tornare ad avere il coraggio di esprimere il nostro pensiero e la nostra essenza. Senza timori».
IL RUZZESE TRA RISCOPERTA E CONFERME ALLA BIBLIOTECA LA VIGNA DI VICENZA
Teatro d’eccezione della presentazione del Ruzzese Liguria di Levante Bianco 2023 di Cà du Ferrà è stata la Biblioteca Internazionale “La Vigna” di Vicenza, luogo simbolo della ricerca e della tradizione vitivinicola italiana. Un luogo che custodisce 62 mila volumi tematici, dal quindicesimo secolo ai giorni nostri. Insieme ai produttori il prof Franco Mannini, ex ricercatore del Cnr di Torino che ha accompagnato – insieme al team guidato dalla professoressa Anna Schneider e a un finanziamento del Parco delle Cinque Terre – le prime ricerche sul vitigno Ruzzese. Studi che hanno portato alla sua iscrizione nel registro nazionale, nel 2009.https://www.lavigna.it/it/lavigna
«Eppure – ha spiegato Mannini – nessuno ha colto questa opportunità come invece ha fatto Cà du Ferrà, che è arrivata ad impiantare il suo primo vigneto di Ruzzese nel 2015». Poche barbatelle, a cui si affiancherà presto un ulteriore impianto per incrementare la produzione. «Una varietà incredibile – ha sottolineato l’agronomo Gabriele Cesolini, del team di Graziana Grassini – che all’inizio, essendo a me totalmente sconosciuta, avevo scambiato per Cabernet Franc. Si tratta di un vitigno resistente alle malattie, che germoglia prima e matura tardi, che produce uve dalla buccia spessa, col sole dentro».
LA PRIMA CITAZIONE DEL RUZZESE IN UN LIBRO DEL 1596: PIACEVA AL PAPA
Tutte condizioni che dipendono dal perfetto acclimatamento in Liguria del Ruzzese. Ed è proprio alla Biblioteca Internazionale “La Vigna” di Vicenza, oggi presieduta dall’imprenditore Remo Pedon, che il legame ha trovato senso compiuto. Di Ruzzese e di Liguria di Levante parla infatti lo scrittore Andrea Bacci, in un manoscritto del 1596 conservato proprio sugli scaffali del “museo” di Contrà Porta San Felice 3, nel cuore della Città del Palladio. Lo descrive, in latino, come un vino apprezzatissimo a Roma, tanto da essere gradito anche da Papa Paolo III Farnese, in carica dal 1534 al 1549. Il suo “bottigliere” Sante Lancerio, sommelier ante litteram, glielo aveva proposto come uno dei migliori vini bianchi che l’Italia enoica potesse offrire a quel tempo, grazie anche ad un finale tendente al dolce e non all’acido o all’amaro.
ZERO TOLLERANZA PER IL SILENZIO: L’ASSAGGIO DEL RUZZESE SECCO DI CÀ DU FERRÀ
Così, la decisione di Cà du Ferrà di vinificare “in secco” il Ruzzese non è solo riscoperta, ma anche evoluzione. Il vino matura e si arricchisce – grazie a ripetuti bâtonnage – in tonneau da 500 litri, nella piccola sala della cantina ligure, a Bonassola, in provincia della Spezia. Ma non “sa” di legno. Ricorda piuttosto il sole, il mare, la macchia mediterranea e la generosità della polpa dei frutti. Sa di mare e di montagna, di brezza marina e di frutta a polpa gialla matura, come l’albicocca.
Entra sornione in bocca, generoso. Poi si assottiglia sulla freschezza e sulla sapidità, che accompagnano sino al lungo finale. Alla cieca, il Ruzzese potrebbe ricordare vagamente il Fiano campano, di Avellino. Ma ha anche tratti da Chardonnay che affonda le radici su suoli vulcanici, basaltici. Suggestioni, anzi distrazioni giocose. Perché è uguale solo a se stesso. E lo grida a tutti. Forte e chiaro. Onorando il suo nome. Zero tolleranza per il silenzio.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Si rinnova sabato 26 aprile 2025 l’appuntamento con Ossola in Cantina, giunto alla terza edizione. Un affascinante percorso enologico tra i vigneti eroici delle Alpi piemontesi, in provincia di Verbano-Cusio-Ossola. Otto cantine, tutte aderenti ad APAO – Associazione Produttori Agricoli Ossolani apriranno le loro porte dalle 11 alle 18, offrendo degustazioni di vini Doc locali accompagnate da assaggi gastronomici tipici, rigorosamente serviti con materiali compostabili per un’impronta green voluta dagli organizzatori.
Attraverso un unico voucher (acquistabile dal 15 marzo sul sito APAO, al costo di 30 euro), i partecipanti potranno scegliere quali cantine visitare. Percorrendo in autonomia un itinerario tra strade, mulattiere e sentieri di montagna, ideali per riscoprire il patrimonio vitivinicolo locale. Protagonista assoluto il Nebbiolo tradizionale, il Prünent, citato sin dal 1309 per il suo particolare sentore di prugna.
Le cantine coinvolte da Ossola in Cantina 2025 sono distribuite lungo tutta la valle, da Pieve Vergonte a Crodo, passando per Domodossola e Trontano. Si tratta di Ca’ da l’Era Azienda Agricola, La Cantina di Tappia, Edoardo Patrone, Agriturismo La Tensa, Villa Mercante, Cantine Garrone, DEA – Agricoltura Eroica in Val d’Ossola e Istituto Agrario Fobelli di Crodo. I vini saranno presentati in ogni cantina e raccontati dai sommelier Ais Verbania. Per un’esperienza ancora più completa, APAO offre la possibilità di escursioni guidate a piedi o in e-bike, a pagamento.https://www.facebook.com/apao.associazione.produttori.agricoli.ossolani
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Crisi dei vini rossi? Fermi tutti e Rewind, per dirla con Vasco. Ad uscire dal seminato è la Valle d’Aosta, per bocca di uno dei suoi principali produttori. «Qui da noi si può parlare di un trend di bilanciamento tra vini rossi e vini bianchi, non certo di crisi dei vini rossi», riavvolge il nastro Stefano Celi di La Source, passeggiando nella sua vigna di Syrah. Tra i 700 e i 950 metri di altitudine c’è anche il Petit Rouge che dà vita al Vallée d’Aoste Doc Torrette: un altro rosso valdostano che non vede crisi, al pari di Cornalin, Fumin e dei meno noti Vien de Nus e Mayolet. «La nostra regione viene erroneamente considerata “bianchista” da molti – continua Celi – ma in realtà è il Petit Rouge, vitigno principe del Torrette Doc, a dominare con oltre 50 ettari, su un totale regionale di circa 450 ettari».
Microclima e suoli consentono di produrre vini molto freschi, sapidi e senza eccessi di alcol. Proprio quelli che cercano oggi i consumatori. «Contrariamente a quanto sta avvenendo in molte altre regioni – evidenzia Celi, past president del Cervim, l’istituto aostano che promuove la viticoltura eroica – i vini rossi valdostani continuano ad essere apprezzati senza che i produttori siano dovuti intervenire sullo stile dei vini, alleggerendone il profilo come in altre denominazioni». Insomma, in Valle d’Aosta non solo i rossi tengono strette le briglie del mercato, ma sono rimasti fedeli al loro profilo originario. E i bianchi? Crescono nell’apprezzamento al pari della loro qualità, migliorata a livelli esponenziali negli ultimi decenni, soprattutto grazie a varietà simbolo come il Petite Arvine.
TORRETTE, LA SOTTOZONA DEI VINI ROSSI VALDOSTANI CHE SFIDANO IL MERCATO
Basta addentrarsi tra i calici di La Source per comprendere le ragioni di questo “contro-trend”, nella terra della fonduta, del caffè nella grolla, del Lardo d’Arnad o delle mele a caccia di una promozione a Igp. La cantina fondata da Stefano Celi a Saint-Pierre nel 2003, dopo l’iniziale avventura di Domaine Champagnole con altri due soci, produce circa 40 mila bottiglie annue ed è parte della Federazione italiana vignaioli indipendenti – Fivi.
Non solo cantina, ma anche ristorante-agriturismo con stanze disponibili per gli appassionati di sci che scelgono gli impianti di risalita di Courmayeur, Pila e La Thuile, o per i tanti turisti a caccia di relax alle QC Terme di Pré-Saint-Didier, convenzionate con La Source Wine Farm. Il cuore dell’attività vinicola è la sottozona Torrette, che dà vita ai vini rossi più interessanti prodotti da Stefano Celi. Non solo un Syrah di gran freschezza e sapidità, ma anche un Vallée d’Aoste Doc Torrette che, nella versione “base”, si rivela essere il classico “vino da merenda”. Perfetto per accompagnare salumi e antipasti.
NON SOLO SYRAH E TORRETTE: IL CORNALIN DA FAVOLA DI LA SOURCE
Si sale in complessità con il Torrette Superieur, come dimostra la verticale 2006-2018 sfoderata da Stefano Celi. A colpire, oltre alla perfetta evoluzione del 2006 – esempio di quanto la denominazione possa sfidare il tempo – è la grande freschezza e precisione del frutto della 2013. Benissimo anche l’annata in commercio, la 2020: la densità delle note di frutta rossa matura bilancia l’estrema sapidità e freschezza (di nuovo loro, sì), che sfocia in ricordi di arancia sanguinella.
Più sulla confettura la 2016, tanto da portare alla memoria, in maniera netta, la confettura di fragole. Al di là del Torrette, tra le annate più recenti dei vini rossi di La Source spicca uno straordinario Cornalin 2018 (polpa succosa, balsamicità da vendere e nota fumé sul finale). L’ennesima «espressione di godimento» dei vini rossi valdostani, che non vedono crisi. Roba alla Vasco. Da Rewind.https://www.vinivalledaosta.com/
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Angelo Gaja Erbaluce Oltre alle Langhe c’è di più. Angelo Gaja pianta Erbaluce e sperimenta sul vitigno tipico del Canavese, che sta vivendo un momento di riscoperta e rinascita. Secondo le informazioni in possesso di Winemag, il produttore piemontese ha fatto impiantare un vigneto sperimentale in uno dei Comuni in cui è autorizzata la produzione di Alta Langa Docg. A confermalo è lo stesso Angelo Gaja. «È una piccola prova che facciamo», ammette prima di riagganciare la cornetta. Sonia Franco della Segreteria di Angelo Gaja fornisce ulteriori dettagli.https://gaja.com/
«Il minuscolo vigneto di Erbaluce è stato piantato nel 2024. Per avere le uve idonee a fare delle prove – scrive a Winemag – ci vorrà qualche anno. In viticoltura occorre sapere attendere». Ma cosa c’entra l’Alta Langa Docg con l’Erbaluce? A prima vista nulla, dal momento che il disciplinare di produzione del nobile spumanti piemontese non autorizza l’utilizzo del vitigno originario della zona di Caluso, nel Canavese (sperimentazioni sono state invece avviate sul Pinot Meunier dalla cantina Enrico Serafino). Il link tra Angelo Gaja, l’Erbaluce e l’Alta Langa può essere spiegato da una delle versioni di maggiore successo del vitigno: quella “Spumante”.
ANGELO GAJA SULLE ORME DI REMO FALCONIERI DI CIECK?
Chiedere per credere a Remo Falconieri, l’uomo che è riuscito a trasformare una passione in una rivoluzione: portare l’Erbaluce nel mondo degli spumanti Metodo classico. Tecnico Olivetti e figlio di contadini, Falconieri si formò in Francia – fra i vigneti di Champagne – per affinare la tecnica spumantistica. Nel 1985, con appena 2.500 bottiglie, fondò Cieck, oggi punto di riferimento per le bollicine piemontesi. Situata nel cuore del Canavese, la cantina – che celebra nel 2025 i 40 anni dalla fondazione – ha valorizzato l’Erbaluce. Un vitigno antico e versatile, coltivato con la tradizionale pergola e con un sistema brevettato ad hoc, il “Metodo Cieck”, che protegge l’uva dalle gelate, dalle malattie fungine e dallo stress idrico. Vinificandolo in chiave moderna, grazie al duo di enologi Gianpiero Gerbi e Tommaso Scapino. https://www.cieck.it/it/vini-erbaluce-cieck/
Oggi la cantina di San Giorgio Canavese (Torino), guidata da Lia Falconieri e Domenico Caretto, continua l’eredità di Remo con un Metodo classico che esprime al meglio il terroir morenico di Ivrea, tra sapidità e longevità. Una storia di visione, radici e innovazione che ha cambiato il destino delle bollicine piemontesi. Qualcosa che non può passare inosservato. Anche in Langa, o giù di lì. Il clamoroso investimento di Angelo Gaja sull’Erbaluce, di fatto, è un’altra spilletta sul petto di Remo Falconieri. Un sigillo sulla carriera di un vignaiolo che a 92 anni, ancora tra i filari di Cieck, sta scrivendo la storia del vino italiano, nel suo Piemonte.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Un accordo strategico, accompagnato da un investimento di oltre un milione di euro, sancisce «l’inizio di una nuova era» per Tenuta Valdipiatta. Il nuovo proprietario è Michael L. Cioffi, fondatore del boutique hotel diffuso Monteverdi Tuscany. Ad annunciare l’accordo, insieme all’imprenditore americano, è Miriam Caporali, ormai ex titolare della storica Tenuta Valdipiatta di via della Ciarliana 25/A, a Montepulciano, in provincia di Siena. L’obiettivo dell’accordo trovato tra i due imprenditori è rafforzare l’eccellenza enologica e il legame con la terra del Vino Nobile di Montepulciano.
UN’ALLEANZA PER IL FUTURO DI TENUTA VALDIPIATTA
Con il nuovo accordo, Tenuta Valdipiatta beneficerà di significative risorse finanziarie destinate all’ampliamento dei vigneti e all’acquisto di attrezzature all’avanguardia. Miriam Caporali continuerà a guidare l’azienda come Chief Operating Officer, affiancata dal marito Giuliano, portando avanti l’eredità familiare. «La nostra missione – spiega Caporali – è rispettare e valorizzare il territorio, unendo tradizione e innovazione». La collaborazione con Monteverdi Tuscany rappresenta un’opportunità unica per consolidare l’identità della cantina e promuovere la sua eccellenza a livello internazionale».
LA STORIA DI TENUTA VALDIPIATTA
Fondata negli anni ’60, Valdipiatta è stata acquistata negli anni ’80 da Giulio Caporali, padre di Miriam, che ha trasformato l’azienda in un riferimento per il Vino Nobile di Montepulciano. La cantina, oggi certificata biologica, si estende su 30 ettari, tra vigneti, uliveti e boschi, ed è un esempio di sostenibilità e biodiversità. Dal 2002, Miriam Caporali ha portato avanti il lavoro iniziato dal padre, ottenendo riconoscimenti internazionali. Non ultimo, negli ultimi 25 anni, la cantina ha instaurato collaborazioni significative con alcuni dei più rinomati enologi di Bordeaux.
MONTEVERDI TUSCANY E MICHAEL L. CIOFFI
Monteverdi Tuscany, raffinato albergo diffuso fondato da Michael L. Cioffi nel cuore della Val d’Orcia, è un luogo dedicato al benessere e alla creatività. Con i suoi ristoranti, la spa e un centro culturale, Monteverdi rappresenta un’eccellenza nell’ospitalità toscana, «in perfetta sintonia con la filosofia di Valdipiatta». «Giulio Caporali era un uomo straordinario, un grande studioso e vignaiolo – ricorda il nuovo proprietario – e questa collaborazione è il modo migliore per onorare la sua memoria e proseguire il suo lavoro». Michael L. Cioffi, avvocato, imprenditore e filantropo statunitense con una passione per l’arte, la cultura e la tradizione italiana, in particolare toscana, rende così ancora più profondo il suo rapporto con la Val d’Orcia.Tenuta Valdipiatta a Monteverdi Tuscany
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«Il brand di una cantina e i suoi vini premium si costruiscono giorno per giorno»: così Piero Mastroberardino, numero uno della cantina campana divenuta un simbolo del Made in Italy enologico, con 300 anni di storia e 260 ettari di proprietà. L’attuale vicepresidente di Federvini, intervenendo nel primo pomeriggio a “ProWein Business Talk: Shaping the Future of Wine“, ha sottolineato l’importanza del branding nel settore vitivinicolo, focalizzandosi sul valore percepito dai consumatori e sulle soluzioni per costruire un’identità aziendale forte.
Secondo Mastroberardino, il valore percepito è l’elemento centrale per costruire un brand di successo. «È necessario proporre valori distintivi che rafforzino costantemente il marchio – ha spiegato il produttore campano durante il talk, moderato da Simone Loose dell’Università di Geisenheim – spostando l’attenzione da un marketing operativo a un marketing strategico, ancora poco diffuso nel mondo del vino. Il settore vitivinicolo, infatti, rispetto a molti altri, si trova ancora a uno stadio iniziale sul fronte del marketing, spesso limitato a comunicazioni generiche e poco mirate. Tutti raccontano le stesse cose, senza emergere. Distinguersi è fondamentale e una delle chiavi è valorizzare l’eredità storica dell’azienda».
HERITAGE AZIENDALE ALLA BASE DELLA COSTRUZIONE DEL BRAND
L’heritage aziendale, sempre secondo Pietro Mastroberardino, non è solo una risorsa distintiva, ma «un pilastro per costruire credibilità e autorevolezza». «Esperienze come le degustazioni verticali, che mettono in luce la continuità e l’evoluzione dei vini – ha sottolineato – sono strumenti efficaci per consolidare la fiducia dei consumatori. Raccontare la propria storia diventa quindi una strategia cruciale, non solo per il presente ma anche per tramandare il valore del brand alle future generazioni.». Mastroberardino ha sottolineato come questo processo virtuoso finisca per includere, in maniera naturale e non artefatta, anche temi «come la sostenibilità sociale e ambientale dell’azienda, garantendo così un futuro solido per l’investimento iniziale».
«La costruzione di un brand forte richiede tempo, almeno dieci anni in molti casi, e un impegno costante. Non è sufficiente – ha ammonito Piero Mastroberardino – concentrarsi sulle vendita immediata e gioire per le cantine vuote. Bisogna piantare radici profonde nel settore. Questo richiede un cambiamento di mentalità: non si può adottare un approccio speculativo, entrando e uscendo dal mercato senza una visione chiara. Il successo del brand e dei vini premium si costruisce giorno per giorno, con scelte ponderate e coerenti».
PREMIUM WINES? «MENO ASPETTI TECNICI, PIÙ COINVOLGIMENTO DIRETTO»
Nonostante il periodo di crisi generalizzata dei consumi, Mastroberardino vede un futuro promettente nel segmento dei vini premium, caratterizzati da un costo medio di 50 euro o superiore. «Tuttavia – ha precisato – è fondamentale spostare l’attenzione negativa che oggi esiste attorno al tema dell’alcol verso l’educazione e l’offerta di esperienze ai consumatori. Coinvolgere il pubblico attraverso il contatto diretto con l’ambiente vinicolo, condividere la storia e le emozioni legate alla produzione, piuttosto che ormai inutili aspetti tecnici come il valore del ph e dell’acidità, permette di rafforzare il legame con il brand e far comprendere che il vero valore non risiede solo nel prodotto, ma in un’esperienza immersiva».
PIERO MASTROBERARDINO: «VINI PREMIUM? ALLE NUOVE CANTINE DICO CHE…»
Del resto, le aspettative dei consumatori sono cambiate. «Oggi le persone cercano esperienze più profonde, emozionali – ha concluso Piero Mastroberardino sempre in occasione del “ProWein Business Talk: Shaping the Future of Wine” – che vadano oltre i dettagli tecnici. È qui che entra in gioco la capacità di raccontare la propria storia e la propria eredità, per costruire un dialogo autentico con i consumatori. Cosa suggerirei alle nuove cantine che vogliono produrre premium wines?
La costruzione di una storia e di un’identità di brand richiede tempo e dedizione. È fondamentale iniziare fin da subito con una visione di lungo termine. Investendo in attività che rafforzino il valore percepito, come “librerie di vini”, ovvero lo storico della produzione che consenta di organizzare degustazioni verticali. Ed evitando di pensare solo alla vendita immediata». Il segreto del successo, in sintesi, risiede secondo Piero Mastroberardino nella capacità di unire passato, presente e futuro in un percorso che sia sostenibile. E autentico.Piero Mastroberardino vini premium. VCR421 Antonio Mastroberardino.
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Dalla Guida Top 100 Migliori Vini italiani 2025 di Winemag: Trento Doc Riserva Extra Brut 2016 Altinum, Cantina Aldeno (12,5%).
Perlage: 10 Fiore: 9 Frutto: 9 357 Freschezza: 9 Sapidità: 6.5 Percezione alcolica: 5 Armonia complessiva: 9 Facilità di beva: 8 A tavola: 9.5 Quando lo bevo: subito / oltre 3 anni
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Mladen Dragojlovic, l’enologo che firma i vini di Novak Djokovic, è una vera e propria star del settore in Serbia. Un successo che è tutto tranne che riflesso. Grazie alle decine di riconoscimenti internazionali, ottenuti realizzando vini per diverse cantine dei Balcani, il winemaker classe 1983 non poteva passare inosservato agli occhi del campione del tennis, che nel 2020 ha fondato la sua cantina vicino Topola, nella regione vinicola serba di Šumadija. Una collaborazione che ha dato ulteriore spolvero a un giovane capace di trasformare l’uva in oro. Ma il sogno nel cassetto di Mladen Dragojlovic è anche quello di tornare a lavorare in Italia, dopo l’esperienza maturata in Abruzzo con Marina Cvetić (Masciarelli), durante gli studi. Se il Belpaese chiamasse, difficilmente Mladen Dragojlovic direbbe di no. cantina vini Djokovic.
Mladen Dragojlovic, qual è il percorso che ti porta sino ad oggi?
Ho conseguito un master in Biotecnologie alimentari presso l’Università di Novi Sad, in Serbia. Durante i miei studi, ho sviluppato un profondo interesse per la viticoltura. All’epoca, le cantine non erano molto sviluppate in Serbia, così ho deciso di andare all’estero per acquisire conoscenze ed esperienze. Questo viaggio mi ha portato in Italia, dove ho lavorato con Marina Cvetić presso la cantina Masciarelli in Abruzzo, e in Cile, dove ho collaborato con RR Wine e Viña Carmen. Tutte le visite mi hanno fornito una chiara visione di ciò che volevo realizzare in Serbia e, alla fine, sono riuscita a trasformare questa visione in realtà.
Dopo aver completato gli studi, ho deciso di fondare la mia società di consulenza enologica. Ora collaboro con sette aziende vinicole della Serbia e della Croazia. Insieme, abbiamo ottenuto un notevole successo, vincendo numerosi premi prestigiosi e punteggi elevati, tra cui le medaglie di Decanter e il riconoscimento per i migliori vini dei Balcani. Per mia soddisfazione personale, ho avuto l’onore di essere nominato Enologo dell’anno 2023. Questo riconoscimento significa molto per me e mi ha dato la forza e la motivazione per intraprendere un progetto personale e familiare: lanciare il mio marchio, Dragojlovic Winery.
Tra le cantine di cui sei enologo, quella che più salta all’occhio per la popolarità del nome è Djokovic Winery. Come è avvenuto l’incontro e come è nata l’idea di Novak Djokovic di produrre vino?
Persone del settore vinicolo mi hanno raccomandato alla famiglia Djokovic per una potenziale collaborazione. Dopo un paio di incontri, abbiamo scoperto di condividere la stessa energia e la stessa visione, che si allineavano perfettamente. Di conseguenza, abbiamo deciso di lavorare insieme, con reciproca soddisfazione. La cantina Djokovic è guidata dallo zio di Novak, Goran Djokovic, che ha voluto utilizzare il terroir nel modo più unico e prezioso per produrre vini degni del nome Djokovic.
Come descriveresti Novak nel privato, lontano dai riflettori?
Personalmente, devo dire che mi sento molto privilegiato per aver conosciuto Novak. Tutti noi gli siamo profondamente grati per tutto ciò che ha fatto per la Serbia. In privato, lontano dai riflettori, Novak è straordinariamente concreto e genuino. Nonostante la sua fama mondiale, rimane umile e disponibile, mostrando sempre un sincero interesse per le persone che lo circondano.
Novak Djokovic interviene nelle scelte di cantina? Si intende di vino?
Novak è il più grande tennista della storia e ha un’agenda molto fitta. Ma ogni volta che l’ho incontrato, si è sempre dimostrato molto interessato al processo di vinificazione, alla manutenzione dei vigneti e a tutti i dettagli coinvolti nella produzione di grandi vini. È concentrato al 100% sul tennis e non è coinvolto nelle scelte di cantina, ma è sempre interessato a conoscere l’intero processo. Suo zio Goran e io siamo profondamente coinvolti nel processo di vinificazione della cantina Djokovic.Non viene spesso, ma ogni volta che ha tempo si sforza di visitare e offrire il suo sostegno.
Sei anche l’enologo di altre cantine della Serbia che producono grandi vini: Matalj, Matijasevic Vinogradi, Ŝapat Wine Atelier e Kast Vjestina vina in Croazia. Quali sono i punti di forza di ognuna delle cantine, nella regione vinicola in cui operano?
La forza di queste cantine risiede nel loro terroir. È importante sottolineare che il terroir di ogni cantina e i suoi vigneti sono unici e l’approccio produttivo varia di conseguenza. Il mio compito, insieme ai miei colleghi, è quello di massimizzare il potenziale del terroir e di mettere in risalto l’unicità delle uve provenienti da zone specifiche. Spesso dico ai proprietari delle cantine che è impossibile utilizzare la stessa tecnologia in due cantine diverse, perché le condizioni non sono mai le stesse. Ogni regione richiede un approccio personalizzato. Per essere più precisi, Matalj è un’ottima cantina per i vini rossi, Matijasevic produce uno dei migliori Sauvignon Blanc di questa parte del mondo. Sapat si trova su un altopiano di loess e questo tipo di terreno è ottimo per i grandi rossi e gli Chardonnay. Kast, in Croazia, è un’azienda vinicola di pregio della città di Ilok, ben nota per eccellere nella produzione di vini da varietà Grasevina e Gewurtztraminer.
Presso la cantina Matalj state riscoprendo una varietà di uva autoctona che mi ha letteralmente folgorato, ovviamente in positivo: la Bagrina. Credi possa essere l’ennesimo elemento di successo per una cantina che già si è fatta notare con l’etichetta “Kremen Kamen”, grandissimo Cabernet Sauvignon in purezza?
Non sono del tutto sicuro che la reputazione di Kremen Kamen possa essere ripetuta, dato che è diventato un marchio che ha superato quello della stessa cantina Matalj. Tuttavia, credo davvero che la Bagrina possa contribuire in modo significativo al successo complessivo dell’azienda. La tendenza globale si sta spostando verso un ritorno alle varietà locali e autentiche. E la Bagrina si inserisce perfettamente in questo “movimento”. Le reazioni positive di persone come te ci danno la motivazione e la forza per lavorare ancora di più sulla promozione di questo vitigno autoctono. Sono molto felice della Bagrina in questo momento.
Vorrei “scavare” un po’ nella tua quotidianità di enologo. Cosa ti viene richiesto più spesso, a livello tecnico, dai titolari delle cantine?
È una domanda difficile, dato che ci troviamo sempre più spesso ad affrontare le sfide portate dai cambiamenti climatici e dalle condizioni meteorologiche estreme. Di solito, la domanda più frequente è: «Riusciamo a migliorare ulteriormente il livello rispetto alla vendemmia precedente?». Ogni vendemmia presenta nuove domande, ma l’obiettivo rimane lo stesso: ottenere una qualità del vino costante o addirittura migliorarla. Questo può essere molto impegnativo e spesso richiede maggiori sforzi e capacità di adattamento. Ma finora siamo riusciti a tenere tutto sotto controllo.
Ci siamo conosciuti grazie a Wine Vision by Open Balkan, che mi piace ribattezzare “Il Vinitaly dei Balcani”. Come vedi il vino dei Balcani (e, in particolare, quello della Serbia) nei prossimi anni?
Come persona proveniente dai Balcani, zona che spesso guarda all’Italia come a un Paese con un’industria vinicola ben sviluppata, sono molto orgoglioso che tu abbia paragonato Wine Vision by Open Balkan a Vinitaly. Da un punto di vista commerciale, WVbOB è un punto d’incontro cruciale in cui le persone possono entrare in contatto e concludere affari. Per il consumatore medio di vino, questa fiera offre al mondo l’opportunità di scoprire i vini balcanici e di riconoscere la nostra regione come produttore di vino tradizionale. Inoltre, aiuta a sfidare e forse a rompere i pregiudizi sui vini balcanici e sulla loro qualità. Pertanto, sono fermamente convinto che i vini balcanici prenderanno presto il posto che meritano sulla scena vinicola mondiale.
Quali sono i vitigni su cui la Serbia può (e deve) puntare per farsi sempre più riconoscere nel mondo? Gli internazionali oppure le varietà locali, come il Prokupac? Più vini bianchi o vini rossi?
La Serbia dovrebbe concentrarsi sui suoi vitigni locali. Purtroppo, al momento ci troviamo di fronte a problemi legati ai materiali di piantagione. Tuttavia, con il sostegno del governo e degli istituti scientifici, spero che riusciremo a colmare questo divario e a concentrarci maggiormente sulle nostre varietà locali. Questo approccio consentirebbe alla Serbia di presentarsi come veramente autentica sulla scena vinicola mondiale. Abbiamo grandi varietà autoctone come il Prokupac, il Grašac (ovvero il Riesling italico, ndr), la Bagrina, la Smederevka, il Probus e lo Začinak, ma è assolutamente necessario educare i consumatori. Queste varietà sono diverse da quelle internazionali e non ci si può aspettare che un Prokupac assomigli a un Cabernet o a un Merlot. La Serbia è fortunata per quanto riguarda il clima, anche se la situazione varia a seconda della regione. Per esempio, la Serbia settentrionale e centrale è un po’ più fresca, ideale per i vini bianchi e alcuni rossi più freschi. Le regioni meridionali e orientali sono più adatte per i vini rossi più audaci e alcuni bianchi specifici.
Il governo della Serbia sta puntando moltissimo sulla promozione del vino. Basti pensare all’organizzazione maestosa di Wine Vision by Open Balkan. Quanto è fondamentale questo appoggio per il settore del vino serbo e come vengono impiegate principalmente le risorse da parte delle cantine?
Il sostegno dello Stato è molto importante, soprattutto per un settore in così rapida crescita in Serbia. I produttori di vino utilizzano questa fiera, ovviamente, per presentare i loro vini. Ma Wine Vision by Open Balkan serve anche per educare i produttori stessi. Una serie di regole per la vendita del vino si applica al mercato nazionale, mentre altre completamente diverse si applicano ai mercati esteri. In questa fiera, i produttori imparano queste regole. Imparano a presentarsi e imparano a vendere i loro vini in modo più efficace.
Cosa pensi della crisi dei consumi che sembra attanagliare il settore del vino internazionale, soprattutto sul fronte dei vini rossi?
Questo è ovviamente un problema importante, soprattutto lo squilibrio tra il consumo di vini bianchi e rossi. Non conosco la ragione esatta di questo squilibrio. Tuttavia, la crisi generale del consumo di vino è causata dagli sconvolgimenti geopolitici, dalle guerre, dalla diminuzione del potere d’acquisto dei consumatori. E, allo stesso tempo, dall’aumento dei prezzi del vino dovuto ai maggiori costi di produzione. Quando l’economia globale si stabilizzerà, tutto diventerà più certo, chiaro e prevedibile.
Qual è la tua opinione sui vini senz’alcol? Pensi di produrne uno, un giorno?
Il vino è una sinergia di numerosi componenti, ognuno dei quali svolge un ruolo importante e significativo in questo sistema. L’alcol è uno di questi elementi essenziali. A mio parere, se dovessimo eliminare l’alcol, si interromperebbe questa delicata sinergia. Sarebbe dunque difficile definire e giudicare il vino con i canoni a cui siamo abituati. Tuttavia, sono molto aperto a nuove sfide e possibilità. E chissà che non cambi idea.
Spostiamoci fuori dai Balcani. Qual è il tuo vino italiano preferito?
Questa è di gran lunga la domanda più difficile! Amo l’Italia in generale. Per i suoi vini, la cucina, il caffè, la moda, la passione per lo sport, lo stile sartoriale dello “spezzato”, eccetera. È molto più facile per me rispondere quale sia il mio vino francese, spagnolo o austriaco preferito. Ogni regione italiana ha vini autentici di alta qualità. Per me i migliori bianchi sono quelli dell’Alto Adige, mentre i migliori bianchi e rossi da bere tutti i giorni sono quelli del Veneto. I più grandi esempi di Barolo sono imbattibili. Al Brunello di Montalcino non posso dire di no, lo adoro. Amo la Toscana per molte ragioni. L’Amarone della Valpolicella dei migliori produttori è così ricco e stratificato. E ce ne sono molti, molti altri!
Se potessi lavorare in Italia come enologo, quale regione e denominazione sceglieresti?
Ho lavorato in Abruzzo ed è stata una grande esperienza. Ma credo di essere più orientato verso le zone settentrionali, come il Trentino-Alto Adige o il Friuli-Venezia Giulia. Sarebbe bello anche lavorare in Toscana. Penso che mi troverei benissimo in quelle regioni.
Quali sono i tuoi progetti per il 2025 e gli anni a venire?
Amo quello che faccio e voglio continuare il più a lungo possibile. Voglio continuare a dare il mio contributo all’industria vinicola della regione, cercando di ottenere qualche altro riconoscimento internazionale. Continuare a lavorare come consulente enologico, che è la mia attività principale. E lavorare all’ulteriore sviluppo del progetto della mia cantina di famiglia (cantina Dragojlovic). Essere in salute e felice con la mia famiglia.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Circola da alcune settimane, in Valpolicella, la voce che il colosso Bertani sia di nuovo in vendita. Sullo sfondo c’è la presunta trattativa in corso tra la proprietà, ovvero il Gruppo Angelini, e Recordati Spa, che potrebbe portare alla creazione di un grande polo italiano del farmaco. Un’operazione che, sempre secondo gli insistenti rumors, potrebbe determinare il futuro di Bertani e delle altre cantine controllate da Angelini. I nuovi partner non vedrebbero con favore il ramo vitivinicolo, suggerendo all’attuale proprietà di vendere per finalizzare l’accordo.
«La famiglia – fa sapere a Winemag il direttore generale di Angelini Wines & Estates, Alberto Lusini – ha approvato 8 milioni di investimenti in Hospitality e vigneti, nei prossimi tre anni. Nelle ultime settimane si è parlato anche di un possibile accordo con un altro gruppo farmaceutico. Sono rumors, ovviamente, trattandosi di trattative confidenziali e dall’esito non confermato». Bertani si è aggiunta nel 2011 alle realtà agricole e vitivinicole di Tenimenti Angelini, che già contavano le toscane Val di Suga, Tenuta Trerose, San Leonino, la friulana Cantina Puiatti.
L’ultimo investimento nel vino del noto gruppo farmaceutico è del 2015, con l’ingresso della marchigiana Fazi Battaglia, regina del Verdicchio dei Castelli di Jesi. Molto più recente il passaggio da Bertani Domains ad Angelini Wines & Estates, che risale solo al 2022. «Un nuovo capitolo della storia – commentava il gruppo – nel segno del rinnovato impegno della famiglia, che prende forza grazie ai valori che ispirano da sempre Angelini Industries, legati al concetto di prendersi cura». In definitiva? Bertani in vendita in Valpolicella o nelle altre zone è solo un rumors della zona. https://www.angeliniwinesandestates.com/. Il territorio è un elemento fondamentale e distintivo per le tenute. I nostri vini sono l’espressione più autentica delle diverse aree produttive, coerenti sia per stile sia per vitigni coltivati alla personalità che il genius loci esprime.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Cantina Bolzano(Kellerei Bozen) ha presentato a Milano la seconda annata di Tal 1930 e Tal 1908. Vini che – per prezzo, ma ancor più per qualità – si posizionano all’apice della gamma della cooperativa dell’Alto Adige, accanto a un’icona come il Lagrein Riserva “Taber”. Due “Cuvée Superior”, Südtirol-Alto Adige Doc, vendemmia 2021, che restituiscono al calice la fotografia dei vigneti da cui provengono le uve. Chardonnay (80%), Sauvignon (10%) e Pinot Grigio (10%) per il bianco Tal 1930, da piante di età media superiore ai 30 anni allevate tra i 400 e i 700 metri d’altezza, in località Leitach e Renon. Lagrein (83%), Cabernet sauvignon (12%) e Merlot (5%) per Tal 1908, da viti fino a 50 anni di età selezionate nei “cru” di Gries e San Maurizio. Dopo l’ottimo esordio dei due vini nel novembre 2023, l’enologo di Cantina Bolzano, Stephan Filippi, è riuscito a superarsi, ricorrendo a una modifica delle percentuali delle due cuvée.
«Tutto dipende dalla qualità dell’annata – ha spiegato il winemaker di Kellerei Bozen, ormai un veterano della cooperativa altoatesina – ma anche dalla qualità espressa dalle singole uve che andranno a comporre il puzzle finale». Rispetto alla 2020, le condizioni della vendemmia 2021 hanno consentito a Filippi di incrementare dell’11% la percentuale di Chardonnay nella cuvée Tal 1930 (dal 69% all’80%), a discapito del Sauvignon (passato dal 21% al 10%), lasciando invariata la quota del Pinot Grigio (10% in entrambe le annate). Stesso copione per la cuvée rossa Tal 1908, resa ancora più “territoriale” con un 3% in più di Lagrein (83%; era all’80% nel 2020) e un 2% in più di Merlot (passato dal 3 al 5%), a discapito del Cabernet Sauvignon (sceso dal 17% della 2020 al 12% del 2021).
TAL 1930 (95/100 WINEMAG) E LA SCELTA (AZZECCATA) DI UN GRANDE PINOT GRIGIO
Salta all’occhio – sarebbe meglio dire “al palato” – il carattere tipicamente altoatesino della quota di Pinot Grigio presente in Tal 1930. Non sorprende, dunque, che l’unica percentuale a non variare nell’arco delle due vendemmie dei “Tal” sia proprio la sua. «Per i limiti comunicativi di questa varietà – afferma Stephan Filippi – in Alto Adige si preferisce spesso puntare sul Pinot Bianco. Ma a Cantina Bolzano abbiamo tutto Pinot Grigio di collina, tra i 650 e i 700 metri di altitudine. Dunque abbiamo basse rese. E zone selezionate, dove non dobbiamo neppure intervenire per diradamenti».
«Anzi – continua – abbiamo il problema inverso, ovvero che il Pinot Grigio produce troppo poco. Si tratta della selezione effettuata da un vivaista della zona, che è riuscito a fare un lavoro straordinario sul vitigno. L’uva per Tal 1930 arriva in cantina in cassette. Da lontano, gli acini sono di un ramato tanto intenso da poter essere scambiati per Pinot Nero. Per non parlare della gran bella acidità di queste uve. Un altro motivo che mi convince a ricorrere al Pinot Grigio, in una cuvée che deve essere il nostro optimum». Altrettanto efficace lo switch deciso da Filippi dal Sauvignon allo Chardonnay, a cavallo delle due annate. Oggi, Tal 1930 Cuvée 2020 risulta infatti molto condizionato dal primo vitigno. Mentre in Tal 1930 Cuvée 2021, l’equilibrio tra le varietà è già perfetto.
TAL 1908 (94/100 WINEMAG): PIÙ LAGREIN E MERLOT, MENO CABERNET
Ancora più pratica – nonché altrettanto azzeccata – risulta la scelta di ridurre la quantità del Cabernet Sauvignon in Tal 1908, vendemmia 2021. Il 5% complessivo in più tra Lagrein e Merlot, in un’annata (genericamente) dalle acidità più spiccate e dalle alcolicità più moderate rispetto alla 2020, regala un sorso subito più rotondo e goloso rispetto a quello della cuvée rossa d’esordio, dal tannino tuttora “caberneggiante” e giovanile. Il tenore alcolico delle due annate della cuvée rossa di Cantina Bolzano è il medesimo (14%). Ma il salto di qualità in termini di prontezza di beva è netto con l’annata 2021, garantendo al contempo una buona prospettiva di affinamento.
E le vendite? «Produciamo per l’esattezza 1.897 bottiglie di Tal 1930 e 2.989 di Tal 1908 – spiega a Winemag il responsabile vendite Horeca Italia di Kellerei Bozen, Daniele Galler -. A quest cifra vanno aggiunti, rispettivamente, 59 e 99 magnum. I numeri della vendemmia 2021 non si discostano di molto da quelli della 2020, che è stata distribuita solo nell’alta ristorazione e nelle enoteche. È durata sul mercato un paio di mesi». Un successo immediato, dettato anche dalla strategia commerciale della cooperativa altoatesina. «Non abbiamo scelto di procedere con una vera e propria assegnazione – precisa Galler – bensì cerchiamo di distribuire le Cuvée Tal 1930 e Tal 1908 tra i nostri clienti top, in Italia e all’estero, proporzionalmente alle quantità sviluppate anche sulle altre referenze». Selezione, insomma. Dal vigneto alla rete vendita, prescelta per due vini degni dell’Olimpo dei cosiddetti “Super Alto Adige”.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
La cantina Tua Rita di Suvereto (Livorno) ha ottenuto complessivamente 23 mila dollari per i grandi formati di Giusto di Notri 2021 e Redigaffi 2021 all’asta di beneficienza organizzata dalla Fondazione Ataxia Charlevoix-Saguenay. Le bottiglie sono state battute il 28 novembre a Montreal, in Canada. All’asta hanno partecipato anche diverse maison di Champagne. L’Ataxia Charlevoix-Saguenay Foundation punta a sviluppare un trattamento per l’atassia spastica autosomica recessiva di Charlevoix-Saguenay (Arsacs). Si tratta di una patologia genetica neurodegenerativa rara. La Fondazione, nata nel 2006, è un ente di beneficenza registrato a livello federale. Non ha dipendenti ed è sostenuta interamente da donazioni private e volontari per finanziare la ricerca scientifica sull’Arsacs.
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Si chiama Lunaria il primo Pinot Nero Metodo classico di Bosco del Sasso, la cantina dell’Oltrepò pavese guidata da Manuela Elsa Centinaio, sorella del vicepresidente del Senato, Gian Marco Centinaio. Uno spumante di qualità (Vsq) – non un Docg Oltrepò – dosaggio Brut, 30 mesi sui lieviti, che mostra la struttura corpulenta del Pinot Nero dei vigneti situati tra la Valle Versa e la Valle Scuropasso. Senza tuttavia perdere di vista l’obiettivo primario: la beva. Quattro gli ettari a disposizione di Bosco del Sasso in frazione Roncole 8, a Canneto Pavese. La cantina, tuttora in allestimento sul fronte dell’accoglienza del pubblico, ha aperto i battenti nel 2022, con Manuela Elsa Centinaio nel ruolo di amministratore unico della società. Un ritorno alle origini pavesi nelle vesti di imprenditrice vinicola, dopo i trascorsi nel settore Food & Beverage come responsabile della qualità.
ECCO LUNARIA, IL METODO CLASSICO DI BOSCO DEL SASSO
«Con Lunaria – ha spiegato Centinaio lunedì 2 dicembre, in occasione del lancio ufficiale del nuovo spumante, all’Enoteca Regionale della Lombardia di Broni – completiamo la nostra gamma di vini che raccontano l’Oltrepò pavese, nostra casa e territorio che abbiamo scelto e in cui crediamo molto. Dopo Buttafuoco Doc, Buttafuoco Storico Doc e uno spumante Extra Dry Metodo Martinotti “19.09“, chiudiamo il cerchio con un Metodo classico ottenuto da sole uve Pinot Nero». Lunaria richiama il nome di una pianta, conosciuta in Italia anche come “Moneta del Papa” – in Olanda come “Judaspenning”, ovvero “Monete di Giuda”, allusione ai trenta denari d’argento, paga di Giuda Iscariota – ma soprattutto il colore e la luminosità della Luna.
L’etichetta nera esalta la scritta dorata del logo di Bosco del Sasso, il cui simbolo è un cipresso. «Un filare di cipressi conduce all’ingresso della nostra cantina – ha sottolineato la titolare – aprendo la porta al nostro mondo. Lo stesso fa il packaging studiato da Alberto Cei, design director della branding agency Robilant, offrendo un’esperienza tattile, oltre che visiva, grazie ai rami del Pinot Nero stilizzati sullo sfondo, in rilievo. Un modo per comunicare che si può iniziare a degustare Lunaria sin dall’etichetta, a bottiglia chiusa».
L’OLTREPÒ PAVESE DI BOSCO DEL SASSO
L’enologo di Bosco del Sasso è Michele Zanardo. «Avevamo già tre vini – ha commentato – ma uno sgabello sta in piedi con quattro gambe. Dopo i primi due vini rossi è arrivato un Martinotti. Ma l’Oltrepò pavese è terra di Metodo classico e di Pinot Nero. Così è nato Lunaria, uno spumante che vuole essere fine, elegante e di gran bevibilità, in assoluta coerenza con il percorso dei vini di Bosco del Sasso, tutti orientati sul piacere della beva e sul desiderio che un sorso chiami l’altro, senza appesantire. Del resto sono convinto che il lavoro dell’enologo può dirsi compiuto solo quando la bottiglia finisce facilmente sul tavolo».
«Con Lunaria – ha aggiunto il sommelier della cantina, Roberto Galli – abbracciamo finalmente tutte le sfumature dello spumante da uve Pinot Nero dell’Oltrepò. Un vino perfetto come aperitivo con salumi, formaggi freschi o di media stagionatura, o in abbinamento con antipasti di pesce, crostacei o cucina di mare gourmet». Soddisfazione anche per il presidente dell’Enoteca regionale della Lombardia. «Eventi come questo – ha evidenziato Roberto Allegrini, sempre in occasione del lancio del primo metodo classico di Bosco del Sasso – consentono all’Enoteca regionale della Lombardia di raggiungere uno dei suoi obiettivi. Questo spazio non è di Regione Lombardia, ma è dell’Oltrepò pavese e dei produttori. Mi auguro che in molti prendano esempio, rendendo l’Enoteca regionale un riferimento per questo territorio e non solo».
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
EDITORIALE – Collio Bianco vino da uve autoctone? Il modello è «Barolo, non Sassicaia». Così Andrea Drius della cantina Terre del Faét sintetizza il progetto portato avanti con Edi Keber, Fabijan Muzic, Cantina Produttori di Cormons, Maurizio Buzzinelli, Fabijan Korsic, La Rajade e Marcuzzi Viticola. L’idea di un Collio Bianco ottenuto con i soli tre vitigni autoctoni Friulano (ex Tocai), Ribolla gialla e Malvasia Istriana si avvicina più alla tipicità territoriale espressa dalle menzioni geografiche del Nebbiolo da Barolo, che all’uvaggio bordolese dell’etichetta simbolo di Tenuta San Guido. «L’obiettivo – spiega Drius – è tornare alla tradizione e all’uvaggio storico del territorio, senza sostenere che il nostro vino sia migliore degli altri. E senza chiedere che venga preclusa la possibilità di produrre Collio Bianco anche con i vitigni internazionali».
COLLIO BIANCO VINO DA UVE AUTOCTONE: CHE CONFUSIONE
Chi decida cos’è «tipico» e cosa non lo sia, in una terra come il Collio in cui i vitigni internazionali sono presenti – e molto ben acclimatati – sin dall’Ottocento, è il vero nodo della questione. Fatto sta che, personalmente, anche dopo l’intervista rilasciatami da Andrea Drius – giovane e appassionato vignaiolo, chiaramente innamorato della propria terra – resto dell’idea che il progetto di un “Collio Bianco – vino da uve autoctone” faccia, come già detto in passato, acqua da tutte le parti. Almeno così presentato e proposto al pubblico, ormai da qualche annetto. Non è un caso che giornali generalisti con cui il gruppo di produttori si è confrontato nelle ultime settimane, abbiano combinato un pasticcio gigante nell’interpretare (malissimo) le parole del gruppo di produttori del Collio.
IL PASTICCIO DEL CORRIERE: «VERO COLLIO» SOLO CON UVE AUTOCTONE?
«I moschettieri del vero Collio», ha (colpevolmente) titolato il Corriere, nel suo inserto Extra di lunedì 2 dicembre. Instillando così nei lettori il dubbio che, sul mercato, esista anche un “finto Collio“: ovvero quello prodotto da decine di altri produttori locali che (legittimamente) scelgono di utilizzare nel blend le uve internazionali ammesse dal disciplinare in vigore dal 1991 (33, gli anni di Cristo). Un insulto, bello e buono, alla schiera di produttori che, negli ultimi decenni, hanno dato una dignità locale assoluta, “colliana” volendo coniare un eufemismo, a varietà internazionali come Sauvignon Blanc, Pinot Grigio, Riesling, Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc e, non ultimo, il Pinot Nero.
IL COLLIO BIANCO È GIÀ UN BRAND
Sono nate così etichette iconiche come Col Disôre di Russiz Superiore, Vintage Tunina di Jermann (pur Igt) o Studio di Bianco di Borgo del Tiglio – per citarne alcuni – che hanno reso le 6 letterine della splendida parolina “Collio” (così semplice da pronunciare, anche per gli stranieri – chiedere per credere ai siciliani che hanno dovuto cambiare nome al Cattarratto) un sinonimo internazionale di “grandi vini bianchi”, annoverabili tra i fine wines italiani di dignità galattica. Il progetto “Collio Bianco vino da uve autoctone” complica il concetto esistente, semplicissimo, di “uvaggio” del Collio Bianco.
Ed è per certi versi “arrogante”: non certo nelle intenzioni dei produttori, che continuano a sostenere di non voler alcuno scontro col resto dei colleghi o con il Consorzio, ma “nell’effetto che fa” la narrazione di un Collio Bianco intrinsecamente elitario, in quanto proposto come “storico” e “tradizionale” in un’epoca in cui lo storytelling della storicità e della tradizione, sin troppo spesso, si beve, da solo, tre quarti di bottiglia.
I NUMERI DEL COLLIO E DEL COLLIO BIANCO DA UVE AUTOCTONE
Prima di passare alle domande (e soprattutto alle risposte) rivolte ad Andrea Drius di Terre del Faét, ecco qualche cifra. Nel Collio sono presenti circa 1.240 ettari di vigneti. Nel 2023, la produzione complessiva è stata di 7,3 milioni di bottiglie. Di queste, sono 295.780 le bottiglie di Collio Bianco Doc (circa il 4% della produzione totale). Nel 2023, le aziende che aderiscono al gruppo “Collio Bianco vino da uve autoctone” hanno prodotto il 27,7% della tipologia, per una cifra che supera le 82 mila bottiglie.
Numeri che risultano oggi più sostanziosi – «oltre la metà della produzione totale», secondo le stime di Drius – grazie all’adesione di altre aziende avvenuta nel corso del 2024. A pesare sul totale in maniera decisiva è il sostengo al progetto della cooperativa Cantina Produttori di Cormons, l’azienda con più ettari vitati in tutta la zona del Collio Goriziano (120 soci e circa 330 ettari vitati fra le Doc Collio, Isonzo e Aquileia, per un totale di 2 milioni di bottiglie complessive prodotte nel 2024).
COLLIO BIANCO VINO DA UVE AUTOCTONE: INTERVISTA AD ANDREA DRIUS
Iniziamo con un inquadramento della vostra realtà. Siete un’associazione formale o un “semplice” gruppo di produttori che condivide una visione sul Collio Bianco da sole uve autoctone (Friulano, Ribolla, Malvasia istriana)?
Abbiamo pensato di costituire un’associazione, ma per il momento abbiamo deciso di non formalizzare in nessun modo la cosa. La nostra idea è quella di un gruppo aperto a chiunque apprezzi il progetto e ne condivida l’obiettivo, ovvero valorizzare il Collio. Siamo un “gruppo spontaneo” e aperto, chiunque voglia farne parte è ben accetto.
Tutte le aziende del gruppo fanno parte del Consorzio Tutela Vini Collio?
Sì, tutte le aziende sono iscritte al Consorzio.
Quando e da chi è nata, per l’esattezza, l’idea di promuovere il Collio Bianco da sole uve autoctone? Come è avvenuto il coinvolgimento degli altri produttori?
L’idea iniziale è nata da una mia chiacchierata con Kristian Keber della cantina Edi Keber. Utilizzava una scritta, sul suo Collio Bianco, che mi piaceva molto: “Vino del territorio”. Tra un bicchiere e l’altro, in maniera del tutto spontanea, gli ho chiesto di poter utilizzare la stessa scritta sulle etichette dei miei vini (Terre del Faét, ndr). La sua risposta è stata: “Sei matto? Magari tutti scrivessero una cosa del genere!”. Così, insieme, abbiamo deciso di contattare altre realtà che potevano essere d’accordo con questa idea. Ecco quindi che il gruppo si è delineato con l’adesione di Fabijan Muzic e Produttori di Cormons. Dalla piccola scritta, presente sulla retro etichetta, siamo passati a qualcosa di maggiore impatto. È nata così l’idea dell’etichetta frontale con la scritta Collio in primo piano, a livello visivo, seguita dalla formula “Vino da uve autoctone”. Un modo per consentire alla bottiglia di raccontarsi “da sola”.
I vitigni internazionali sono stati introdotti nel Collio principalmente tra la seconda metà dell’Ottocento e del Novecento. Si trattava, per lo più, di varietà a bacca rossa del taglio bordolese (Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot) oltre che del Pinot Nero. Poi, all’inizio del Novecento e con rinnovato interesse nel Dopoguerra, fu la volta degli internazionali a bacca bianca, come Chardonnay, Pinot Bianco, Sauvignon e Pinot Grigio, che in molte aree italiane vengono considerati (e spesso descritti dagli stessi produttori) se non “autoctoni”, ormai come “locali”, per il perfetto acclimatamento e la tradizione consolidata nella loro vinificazione, da soli o in uvaggio. Il disciplinare del Collio Bianco include i vitigni internazionali dal 1991. Perché cambiare oggi?
Personalmente non ho una storicità così importante, ma posso raccontare i miei 10 anni di esperienza della mia cantina. La nostra intenzione non è togliere nulla a nessuno, o svilire il vino di altri. Tantomeno vogliamo dire che non si debba fare nessun altro uvaggio o tipo di blend al di fuori del “Collio Bianco vino da uve autoctone”. Un uvaggio autoctono, legato alla storia del Collio, non è in contrapposizione con l’idea di produrre un grandissimo “bianco aziendale”. Le due cose sono complementari: da una parte la massima espressione aziendale, con la massima libertà di scegliere le uve migliori a livello aziendale; dall’altra l’idea di creare qualcosa che possa essere più identitario e confrontabile e, a nostro avviso, anche più facile da comunicare.
L’unica cosa “democratica”, in grado di spiegare il territorio in maniera più uniforme, è il ricorso alla storicità della zona, andando a riproporre il vino della tradizione. Il Collio è molto frammentato a livello di numero di aziende e ognuna punta su cose diverse. Per questo, il Collio Bianco vino da uve autoctone è una piccola àncora per un racconto comune da proporre al pubblico, in modo molto facile e diretto, perché non si basa su un’idea aziendale ma sul territorio. La nostra speranza è che tra 20, 30 40 anni ci si interessi poco delle varietà con cui è prodotto il Collio Bianco. Ma si sappia cosa aspettarsi. Dall’altro lato continuerebbero ad esistere i grandi blend aziendali, con i loro nomi di fantasia.
Non credete di correre il rischio che la vostra “battaglia” rispecchi più interessi particolari – del vostro gruppo di aziende – che di territorio? Mi spiego meglio: salta all’occhio il fatto che il vostro gruppo punti tutto sui vitigni, ovvero sulla base ampelografica di una tipologia, il Collio Bianco per l’appunto. In altri territori, invece, ci sono gruppi di produttori che fanno “pressione” sui Consorzi per potare avanti tematiche come produzione biologica, sostenibilità, riduzione dell’impronta carbonica delle aziende. Oppure, sempre sul fronte produttivo, molti vignaioli e cantine avvedute chiedono il riconoscimento di sottozone, cru, parcelle. I vitigni internazionali nel Collio Bianco sono davvero un problema? Per chi?
La scritta “vino da uve autoctone” è una piccola spiegazione, ma il nostro obiettivo è creare un bianco che abbia forte identità, per parlare sempre meno delle uve. Quello che per noi è importante è slegarci dalle tante varietà utilizzate, con un “Collio vino della tradizione”. Il focus non è sul “vino da uve autoctone”. Il nostro gruppo parla sempre e solo di Collio, di territorio. Con altri tipi di vini ci si sofferma invece sulle tecniche di vinificazione o su altri aspetti che noi raramente affrontiamo, nel presentare il nostro progetto. Non vogliamo togliere né, paradossalmente, aggiungere nulla. Il Collio fatto in questo modo, volendo, è già tranquillamente all’interno del disciplinare. La nostra idea è che sarebbe bello riuscire a creare qualcosa di più confrontabile, parlando sempre meno delle uve. Non credo che questo porti confusione, anzi. Porta curiosità. Non abbiamo inventato nulla.
Per fare un esempio stupidissimo, ma di impatto, la nostra speranza è di “fare il Barolo” e non il Sassicaia. Cru, sottozone eccetera sono tutte cose affascinanti. Penso che a noi manchi lo step precedente. Giustissimo parlare di sottozone a Barolo, territorio con un’identità molto forte che consente il racconto delle piccole differenze che esistono tra una sottozona e l’altra. La gente, soprattutto del settore, ha molto ben in testa cos’è Barolo. Noi siamo al passaggio precedente. Sarebbe molto più importante creare una grande identità di territorio. Per farlo, basta un prodotto che lo racconti e che ne diventi l’immagine. In questo momento, a mio avviso, solo la Ribolla Gialla fa pensare al Collio: Friulano e Malvasia molto meno. Dobbiamo trovare qualcosa che faccia da filo conduttore, da collante, per poi, nel passaggio successivo, raccontare le differenze tra Cormons, Oslavia e San Floriano… Va costruito qualcosa che ci unisca.
Il vostro fine ultimo è modificare il disciplinare attuale, per fare in modo che il “Collio Bianco” sia solo da uve autoctone, oppure propendete per l’introduzione di una nuova tipologia con queste caratteristiche?
Da parte nostra non c’è alcuna volontà che il Collio Bianco diventi “solo da uve autoctone”. La storia dei grandi uvaggi va rispettata e quindi crediamo nel valore dei binari complementari ma separati, anche nella stessa azienda. Sul primo binario un vino da uve autoctone. E su un altro un blend che rispecchi lo stile e il meglio dell’azienda. Come gruppo non abbiamo mai proposto l’inserimento di una nuova tipologia. Ovviamente, se questa idea di vino fosse un giorno formalmente inserita nel disciplinare, si tratterebbe della chiusura del cerchio. Del coronamento. In questo momento, la cosa più importante è coinvolgere più aziende possibili, per far crescere il progetto. Se ne sta discutendo anche all’interno del Consorzio. Vedremo come andrà avanti, ma non c’è l’idea di modificare il Collio Bianco esistente.
Il dialogo con il cda del Consorzio Vini Collio è aperto?
Siamo in una situazione di fine mandato. Molti sono d’accordo con noi. Qualcuno, come sempre accade, è meno convinto. Ma siamo agli inizi. A livello consortile, sarà importante il prossimo mandato. Dalla prossima primavera capiremo se c’è la volontà di ragionare a livello formale sul progetto, insieme al prossimo cda del Consorzio. Credo sia impossibile mettere d’accordo tutti. L’importante sarà non impantanarsi cercando l’approvazione totale. Questo causerebbe immobilismo, col rischio che la questione venga accantonata. Formalmente, la dicitura “vino da uve autoctone” potrebbe rivelarsi sbagliata, perché anche un Ribolla 100% potrebbe avere quella dicitura. Ma è secondario che porti questa o quella scritta. Nel 2017, per un vino simile a quello da noi proposto era stata avanzata l’ipotesi di chiamarlo “Gran Selezione”, ma la cosa è finita nel dimenticatoio. Di fatto sarebbe questa la nostra idea: Friulano dal 50 al 70%, e un 15-30% di Ribolla-Malvasia, con uscita sul mercato a 24 mesi. Il nome verrà trovato. L’importante è che sia ben visibile la scritta “Collio”.
Estremizzando il concetto: siete pronti a scelte drastiche, come uscire dal Consorzio, qualora la vostra proposta non fosse presa seriamente in considerazione?
Siamo aziende singole con un’idea comune e ognuno, a seconda dei propri rapporti con i membri del Consorzio, deciderà cosa fare. Tutto sommato, quello che proponiamo è già previsto dall’attuale disciplinare. Bisogna cercare di essere costruttivi e non vedo per quale motivo dovremmo arrivare ad uno scontro. Qualcuno forse storce il naso perché il nostro progetto viene percepito bene. Ma dobbiamo uscire dall’ottica che se si parla bene dei vicini, questo tolga qualcosa a me. Il focus è il Collio: chiunque lo faccia emergere come eccellenza, lo fa per tutti.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Se c’è un imprenditore vinicolo che sta dimostrando di credere nelle frontiere inesplorate del Cabernet Franc in Italia, quello è Gianni Moscardini. Non sorprende che la cantina, nata nel 2008 nella storica proprietà della famiglia – da oltre cent’anni dedita alla coltivazione di cereali e olive – si trovi a Pisa, per l’esattezza nella frazione Santa Luce di Pomaia. L’areale è quello della Doc Montescudaio, che si estende per circa 250 ettari. Di fatto, sono i piccoli centri vinicoli della Toscana – lontani dalla ribalta delle più note denominazioni regionali – quelli più attivi nella “rivoluzione del Cabernet Franc italiano“. Basti pensare al lavoro che Tenuta Lenzini sta compiendo a Capannori, in provincia di Lucca. Territori poco considerati dalle carte dei vini nazionali e internazionali, che stanno guadagnando una certa fama grazie a un’interpretazione “alternativa” – in Loira la definirebbero “leggera” – del grande vitigno di origine francese.
OBIETTIVO 100 MILA BOTTIGLIE: CABERNET FRANC AL CENTRO DEL PROGETTO
Nei prossimi cinque anni, gli appezzamenti più vocati di Gianni Moscardini saranno ampliati, con la messa a dimora di tre differenti cloni di Cabernet franc, su altrettante composizioni di terreno. Il progetto, che consentirà all’azienda di raggiungere quota 100 mila bottiglie rispetto alle attuali 70 mila, interessa l’intero rapporto tra vitigno, portinnesto e suolo. Nello specifico è prevista l’espansione del vigneto Altana, con 9 mila nuovi metri quadrati. Ancora in fase di valutazione la migliore forma di allevamento, anche se la scelta potrebbe propendere per l’alberello. Ulteriori tre ettari saranno impiantati nella zona del vigneto Cantina, definito da una perfetta esposizione Nord e da terreni di argille pure.
A questi si affianca la produzione sul terreno vulcanico del vigneto Campo Al Pino. Spiega Gianni Moscardini: «Mi sono nuovamente focalizzato sullo studio approfondito del suolo. Per la prima volta ho piantato il Cabernet Franc in una zona con argille pure, quindi con una grande capacità di resistere alle estati siccitose. Ho poi vagliato una seconda area dotata di una pendenza importante e ricca di sassi. Sono convinto che le peculiarità dei diversi terroir siano l’elemento chiave per operare un’attività agronomica lungimirante, arricchire in complessità i nostri vini e definire ancor di più l’identità delle linee produttive».
PENTEO, MONOVARIETALI E TERROIR: LE TRE LINEE DI GIANNI MOSCARDINI
Nel concreto, i nuovi vigneti consentiranno a Gianni Moscardini di modificare il blend di Operaundici, oggi composto da un 50% di Sangiovese, un 25% di Ciliegiolo e un 25% di Teroldego. Profilando meglio le tre linee aziendali “Penteo” (Penteo bianco, Penteo Rosso, Penteo Rosato), “Monovarietali” (Verdicchio, Sileno Cabernet Franc e Ciliegiolo, versioni beverine, più immediate) e “Terroir” (Artume, Atteone Riserva e, per l’appunto, Operaundici, che diventerà un Ciliegiolo Riserva).
«Si andrà quindi a definire “il carattere” di ciascuna linea, step by step – precisa Gianni Moscardini – partendo da una linea di ingresso dotata di freschezza, con vini atti ad accompagnare tantissimi piatti. Una linea centrale, con un’ottima personalità ma ancora facilmente comprensibile dal pubblico. E i vini della linea di fascia premium, sicuramente apprezzata dagli addetti ai lavori e da chi vuole che un vino sappia raccontare qualcosa e non solo farsi bere».
I TRE SUOLI DI GIANNI MOSCARDINI
La proprietà aziendale si distingue per la presenza di tre diverse composizioni di terreno: calcareo di natura sedimentaria e origine marina, pietroso e arido di origine magmatico-vulcanica e zone con argille di natura sedimentaria di mare profondo. Suoli che non si intersecano mai, susseguendosi secondo fasce parallele distinte, sia in superficie che in profondità, permettendo una parcellizzazione precisa ed efficace dei vigneti al fine di esplorare diversi rapporti tra vitigno e terreno. Le vinificazioni separate danno vita a diverse e nitide espressioni di Cabernet Franc, oggetto di combinazioni ponderate sull’andamento dell’annata.
«Un approccio stilistico – conferma Gianni Moscardini – che adotto per l’intera produzione e che sarà confermata anche a fronte della riorganizzazione dell’offerta, voluta allo scopo di differenziare con maggior incisività ciascuna linea. I vini della Selezione continueranno a prediligere bevibilità, immediatezza e freschezza, frutto di blend di uve tipiche di areali diversi da quello dell’Alta Maremma, che a Pomaia hanno trovato un luogo vocato. La linea Monovarietali si conferma la porta d’accesso ai cru dell’azienda. Un concetto esplorato approfonditamente nelle etichette della gamma Terroir: piccole quantità dalle migliori uve, spesso vinificate a grappolo intero, con particolare attenzione lungo l’intero processo».
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Il Miglior vino biologico italiano è Pa’Ro orange della cantina Buccia Nera, Toscana Igt non filtrato. Lo hanno stabilito le degustazioni alla cieca della Guida Winemag 2025, Top 100 Migliori vini italiani. Un “premio speciale” che viene assegnato alla cantina di Arezzo che si pone come baluardo della biodiversità, ormai da cinque generazioni. Di seguito il profilo del Miglior vino biologico italiano, ottenuto da uve Trebbiano (50%) e Grechetto (50%), a cui è stato assegnato un punteggio di 95/100.
TOSCANA IGT NON FILTRATO 2022 PA’ROORANGE, BUCCIA NERA
Fiore: 8
Frutto: 8.5
Spezie, erbe: 8.5
Freschezza: 8
Tannino: 7.5
Sapidità: 7.5
Percezione alcolica: 6
Armonia complessiva: 8
Facilità di beva: 7
A tavola: 8.5
Quando lo bevo: subito / oltre 3 anni
Punteggio Winemag: 95/100 (Miglior vino biologico italiano per la Guida Winemag 2025)
CANTINA BUCCIA NERA AREZZO: SUO IL MIGLIOR VINO BIOLOGICO ITALIANO
È della cantina Buccia Nera di Arezzo il miglior vino biologico italiano della Guida Winemag 2025. «La nostra azienda agricola porta il nome del bisnonno Amadio, detto il Buccia Nera per il colore della sua pelle, così scura perché bruciata dal sole. Da più di cinque generazioni, ci identifichiamo con la passione e la fatica che il lavoro della terra richiede. Ancora oggi siamo i custodi di queste colline, degli uliveti e delle vigne, che per noi rappresentano un patrimonio collettivo da preservare. Oggi custodiamo una terra preziosa, mantenendo l’alternanza di boschi, oliveti e frutteti, che ci garantiscono una corretta biodiversità e un ambiente salubre che stanno alla base delle nostre produzioni biologiche, nel pieno rispetto della natura. Autentica sensibilità per la conservazione della biodiversità».
PA’RO ORANGE TOSCANA IGT 2022 MIGLIOR VINO BIOLOGICO ITALIANO
UVE: Trebbiano 50%, Grechetto 50%. VIGNETI: 15-50 anni. ALTITUDINE: 350 – 450 mt. slm. TERRENO: Medio impasto con prevalenza di argilla e ghiaia. ESPOSIZIONE: Sud-Ovest. SISTEMA DI ALLEVAMENTO: Guyot e cordone speronato. EPOCA DI VENDEMMIA: Metà Ottobre. VINIFICAZIONE: Le uve diraspate rimangono in macerazione sulle bucce durante tutta la fermentazione alcolica circa 40 giorni. La fermentazione alcolica avviene interamente in botti di acciaio inox a temperatura controllata di 18°C. AFFINAMENTO: In acciaio inox per 8 mesi e in bottiglia per minimo 2 mesi. GRADAZIONE ALCOLICA: 13% vol.
PRODUZIONE: 4.000 bottiglie. TEMPERATURA DI SERVIZIO: 13°C. COLORE: Oro intenso con riflessi dorati tendenti all’arancio. OLFATTO: Al naso è un vino affascinante che non finisce mai di regalare aromi mano amano che rimane nel bicchiere. Tra le note dominanti troviamo pesca gialla, albicocca candita, foglie di tè, radice di zenzero. GUSTO: In bocca morbido dona una gradevole sensazione di calore data dal buon tenore alcolico bilanciato dall’acidità e dalla mineralità. La leggera presenza del tannino lascia la bocca gradevolmente asciutta. E’ un vino mediamente persistente. ABBINAMENTI: Formaggi stagionati, erborinati, carni bianche elaborate e funghi, spezie.
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Villareggia. Mai sentito il nome di questo paesello di poco più di mille abitanti, situato a una quarantina di chilometri da Torino? Se un giorno il nome di questa località sarà noto ai più, il merito sarà di un giovane viticoltore, classe 1990, che da qualche anno sta impiegando anima e corpo per dimostrare che lì, a Villareggia e dintorni, si possono produrre grandi vini bianchi col vitigno Erbaluce di Caluso e grandi vini rossi da uve Nebbiolo, localmente chiamate Picotener o Picotendro). Quel giovane viticoltore si chiama Luca Leggero, patron dell’omonima cantina che ha l’ambizioso progetto di mettere Villareggia sulla mappa del vino italiano che conta. Le premesse ci sono tutte: Luca Leggero è la Cantina Rivelazione per la Guida Top 100 Migliori vini italiani 2025 di winemag.
Ricordate il “claim” che abbiamo scelto per questa edizione? È “La forza dei sogni“. Luca è un vignaiolo che sta sognando in grande, a cui vogliamo dare sostegno e fiducia, attraverso uno dei massimi riconoscimenti della Guida. A parlare, del resto, è una gamma di vini capace già di chiarire, senza ombra di dubbio, quale sia l’obiettivo della cantina, ovvero l’eccellenza. Ma ancora una volta, flashback. Dopo gli studi in Giurisprudenza, il richiamo della campagna in cui era cresciuto insieme al nonno – viticoltore per autoconsumo – è stato irresistibile per Luca Leggero.
Radici agricole a Villareggia per l’intera famiglia, indietro un secolo tra le generazioni. È così che, nel 2019, iniziano i primi, veri esperimenti di vinificazione delle uve del vigneto del bisnonno – risalente al 1920 e poi trasformato in un campo sperimentale per il recupero e la selezione massale di tre varietà un tempo molto diffuse del Canavese: Picotener, Bonarda e Neretto di Bairo – a cui si combinano alcune acquisizioni di terreni nella zona, sino ad arrivare a un totale di 8,5 ettari, raggruppati grazie a un centinaio di atti notarili.
ERBALUCE E NEBBIOLO: A CASA DI LUCA LEGGERO, CANTINA RIVELAZIONE WINEMAG 2025
La realizzazione dell’attuale, moderna cantina, molto ben integrata nel verde dei campi di Villareggia e costruita secondo rigidi dettami di sostenibilità ambientale, risale al 2021. Un periodo molto complicato per avviare un’impresa, tanto è vero che i lavori sono tuttora in corso per l’ultimazione delle parti esterne dell’edificio. A pensarci bene, il “work in progress” è un altro elemento che rivela la grande determinazione di questo vignaiolo piemontese, che sta realizzando il suo sogno come un puzzle, pezzo per pezzo, dopo aver dato priorità assoluta alle sale per la vinificazione e alle relative attrezzature.
La produzione attuale si aggira attorno alle 35 mila bottiglie, con la consulenza enologica di Gianluca Colombo, che si avvale per tutti i vini di vinificazioni in anfora (Tava) e tonneau, con lieviti interamente indigeni. «Ho sempre avuto la convinzione – spiega Luca Leggero – che a Villareggia si potesse fare qualcosa di grande. È sempre stato questo il mio sogno, il mio pallino, suffragato dai risultati ottenuti per oltre un decennio dalla vinificazione di grandi uve insieme al nonno, in una cantina che somigliava più a un garage, con pochissime attrezzature professionali».
LIEVITI INDIGENI, ANFORA E TONNEAU: I VINI DI LUCA LEGGERO
«Produrre vino in una zona sconosciuta al mondo, in cui la ricerca agronomica ed enologica è pari a zero – continua – è una grande sfida da intraprendere in solitaria. Tutti mi chiedevano cosa stessi facendo, ma ho tirato dritto. A suffragare questo mio sogno sono evidenze storiche che ho raccolto in diversi anni di ricerca, che dimostrano come il territorio di Villareggia, dal X secolo dopo Cristo fino a 200 anni fa, fosse ampiamente vitato, dalla collina alla pianura. In un libro del 1868, la produzione di Villareggia figurava tra i “vini di lusso” reperibili sin dalla prima Esposizione agraria realizzata a Torino».
Un ruolo determinante nella scommessa e nel sogno di Luca Leggero lo giocano i suoli. Le vigne, comprese quelle impiantate nel 2015 in seguito alle ultime acquisizioni di terreni nudi, sono ricche di sabbia e scheletro morenico lasciato dalle glaciazioni del Canavese, il cosiddetto “Anfiteatro morenico di Ivrea”. In particolare, le vigne si trovano nella parte di sversamento centrale, dove si è accumulata la maggior parte dei detriti. Completa il quadro un approccio alla viticoltura di tipo biologico-biodinamico, con certificazione bio che riguarda la vigna e i vini rossi, ma non i vini bianchi, prodotti anche con vigne di proprietà di due giovani del posto.
IN ARRIVO IL METODO CLASSICO PAS DOSÉ LUCA LEGGERO
Ciliegina sulla torta è la produzione di spumante, rigorosamente Metodo classico, Pas Dosé – in tiratura limitata a 1.800 bottiglie per la vendemmia 2022 (quella d’esordio, non ancora sul mercato) e 3 mila per la vendemmia 2023 – oltre a un rosso Riserva, da uve Nebbiolo, al momento in affinamento in bottiglia il passaggio in anfora e 10 mesi di tonneau. Ma dove vuole arrivare Luca Leggero, Cantina Rivelazione della Guida Winemag 2025?«Non so se riuscirò mai a realizzare il mio vero obiettivo – ammette – che è quello di arrivare alle grandi vette del mondo sul fronte della qualità del vino. Abbiamo costruito questa cantina alla luce della voglia di mostrare ciò che Villareggia può produrre, ovvero grandi vini».
«La mia ispirazione – continua – è arrivare là: ci proviamo tutti gli anni e abbiamo tutta la strada davanti per centrare gli obiettivi, poco per volta”. Interessanti, in quest’ottica, i nomi di fantasia scelti per i vini della gamma. Già, perché se il sogno (e l’obiettivo) è il vertice della produzione mondiale, il terreno su cui poggia la rampa di lancio di Luca Leggero è quello della rivincita. “Maura nen” e “Rend nen“, ovvero “Non matura” e “Non rende“, scelti sfidando con ironia le dicerie sui vitigni Nebbiolo ed Erbaluce nella zona, mostrano il carattere di questo giovane vignaiolo piemontese. Determinato a mostrare coi fatti, oltre che con le parole, la grandezza di Villareggia.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Tre vini dagli ottimi punteggi – Vittoria Doc Frappato Vigna Biddine Sottana 2023 vino di contrada: 95/100; Grillo Doc Sicilia 2023 Zagra: 90/100 e Vittoria Doc Frappato 2023 Il Frappato: 92/100 – e un approccio alla viticoltura sostenibile per vocazione, non per questioni di marketing, valgono a Valle dell’Acate il riconoscimento di “Cantina Bio dell’anno” 2025 per la Guida Top 100 Migliori vini italiani.
Condotta oggi da Gaetana Jacono, sesta generazione della famiglia fondatrice, Valle dell’Acate sorge a Feudo Bidini, in provincia di Ragusa. Si tratta di uno dei tanti siti di rilevanza archeologica della Sicilia, puntellato da 70 ettari di vigneti dislocati sui colli disegnati dal fiume Dirillo, a cui si deve il nome della valle (in epoca romana era chiamato Achates, “Acate”). A posare la prima “prima pietra” del progetto vitivinicolo che conta oggi su una produzione di 400 mila bottiglie annue, fu Giuseppe Jacono alla fine dell’Ottocento.
All’epoca, Vittoria era il centro siciliano più attivo nell’esportazione del vino destinato al mercato francese e vino simbolo del ragusano, il Frappato, era già all’epoca esportato dal porto di Scoglitti a Marsiglia, in botticelle di castagno. Lo spirito imprenditoriale della famiglia porta, sin dagli inizi del Novecento, ad introdurre un innovativo sistema di pigiatura dell’uva, con moderni torchi accanto allo storico Palmento. L’azienda agricola assume nel 1981 il nome di Valle dell’Acate, per iniziativa di Giuseppe Jacono Jr, padre di Gaetana Jacono, entrata in azienda nel 1996 con un impatto decisivo sul brand e sul fronte dell’internazionalizzazione del Frappato Docg.
Obiettivi che vengono perseguiti senza perdere di vista la sostenibilità ambientale. Valle dell’Acate è infatti impegnata nella viticoltura biologica e sostenibile e, proprio sotto la guida dell’illuminata imprenditrice Gaetana Jacono, l’azienda ha intrapreso un percorso volto alla sostenibilità ambientale, con l’obiettivo di produrre vini che rispettino il territorio e le tradizioni locali. La conversione verso l’agricoltura biologica è stata «una scelta consapevole, per garantire il minimo impatto ambientale, preservando al contempo la qualità delle uve e dei vini».
VALLE DELL’ACATE E LA SOSTENIBILITÀ, DA SEMPRE
L’attenzione della cantina alla biodiversità, al rispetto dei cicli naturali e all’uso di tecniche ecocompatibili riflette il profondo legame con il territorio della Sicilia sud-orientale, ben oltre la semplice certificazione biologica. Valle dell’Acate adotta infatti numerose pratiche che mirano a ridurre l’impatto ambientale in tutte le fasi della produzione. Sul fronte del risparmio idrico, la “Cantina Bio dell’anno” per la Guida Top 100 winemag 2025 persegue una gestione oculata delle risorse idriche, fondamentale in una regione come la Sicilia, caratterizzata da estati calde e siccitose. La cantina utilizza sistemi di irrigazione efficienti e tecniche che riducono al minimo l’uso di acqua.
Valle dell’Acate investe inoltre nell’energia solare per alimentare le proprie strutture, riducendo la dipendenza da fonti energetiche non rinnovabili e l’impatto sul clima. Il mantenimento della biodiversità è centrale. Accanto ai vigneti, la cantina promuove la coltivazione di altre specie vegetali e preserva gli ecosistemi naturali, contribuendo alla ricchezza della flora e della fauna locali. Altro caposaldo dell’azienda condotta da Gaetana Jacono è l’economia circolare: l’azienda riduce al minimo gli sprechi, riciclando i materiali di scarto della produzione. Come le vinacce, che vengono riutilizzate per produrre compost organico da impiegare nei vigneti.
VITIGNI AUTOCTONI SICILIANE: IL FOCUS DELLA CANTINA BIO 2025 GUIDA WINEMAG
Il tutto, senza dimenticare che il percorso biologico è strettamente legato alla valorizzazione delle varietà autoctone siciliane. Valle dell’Acate coltiva principalmente vitigni come Nero d’Avola, Frappato, Grillo, Moscato di Noto e Insolia, vero cuore della tradizione enologica della regione. L’approccio biologico diventa così un modo per esaltare le caratteristiche uniche di queste uve, consentendo loro di esprimere al massimo il potenziale aromatico e gustativo e di rispecchiare le peculiarità del territorio. Un vero e proprio approccio olistico, che si riflette qualità enologica e tecnica dei vini di Valle dell’Acate.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Livon festeggia i propri 60 anni in perfetta continuità col passato e guardando al futuro con fiducia. Entro la prima metà del 2025 sarà inaugurata a San Giovanni al Natisone (Udine) la nuova cantina delle Aziende agricole Livon. Uno spazio di 1.500 metri quadrati – alle spalle dell’attuale edificio, in frazione Dolegnano – che ospiterà, oltre agli uffici amministrativi, anche le sale per la produzione del vino. Si tratta dell’ennesimoinvestimento della famiglia Livon, diventata dal 1964 sinonimo e brand internazionale dei vini del Friuli Venezia Giulia. La nuova cantina Livon sarà un luogo che privilegerà la praticità e l’ospitalità, con una nuova sala degustazione. Senza dimenticare il design.
Il progetto è stato infatti affidato all’architetto Enrico Franzolini, noto per le sue collaborazioni con icone del settore del mobile come Alias, Cappellini, Foscarini, Knoll International e Moroso. Un’operazione di riqualificazione di alcuni edifici abbandonati – demoliti e ricostruiti all’insegna della sostenibilità, con 80 kilowatt di impianto fotovoltaico – per una spesa che si aggira attorno a 1,5 milioni di euro, escluso il costo delle nuove attrezzature. In arrivo diverse botti di legno grande da 25 ettolitri, di svariate tostature, prodotte dal noto brand Garbellotto. Nonché dieci “uova” di cemento da 100 litri.
LIVON, NUOVA CANTINA E CAMBIO DI PASSO STILISTICO
La scelta di nuovi legni grandi – e non di barrique – sottolinea il cambio di passo della cantina friulana, anche sul fronte enologico-stilistico. In occasione dei festeggiamenti dei 60 anni andati in scena a metà settimana, la verticale 1997/2021 di Braide Alte – vino bianco icona della Linea Gran Cru Livon – ha evidenziato un certo desiderio di venire incontro ai nuovi trend di consumo, con una nuova annata (la 2021, per l’appunto) meno opulenta e “grassa” rispetto alle precedenti, ancor più incentrata sulla freschezza e sulle note tipiche di una delle varietà più diffuse e apprezzate al mondo, il Sauvignon Blanc (la varietà principale del “cru misto” Braide Alte, che comprende anche Chardonnay, Moscato Giallo e Picolit).
Un vino che si conferma portabandiera del Collio – pur non essendo etichettato come Doc, bensì come Igt Venezia Giulia – capace di affrontare il tempo con la disinvoltura dei grandi vini bianchi internazionali. Su tutte, strepitosa la performance di annate come la 2000 e la 2007 di Braide Alte. Segnali di grande attenzione a vini dai profili stilistici più “moderni” arrivano anche dalla Toscana e dall’Umbria, regioni in cui le Aziende agricole Livon sono presenti con due cantine, Borgo Salcetino e Fattoria Colsanto.
COME SARÀ LA NUOVA CANTINA LIVON
Fatturato complessivo di 6 milioni di euro per il gruppo, capace di tenere sui mercati anche a fronte della sofferenza (generalizzata) dei vini rossi di Montefalco, non a caso quelli più “alleggeriti” nel corso delle ultime annate, come è parso evidente all’ultima anteprima Sagrantino. Valneo Livon è fiducioso e ricorda i passi compiuti dalla famiglia: «Siamo partiti dal Collio e anche se oggi i nostri vini sono distribuiti e conosciuti in più di 50 Paesi del mondo. Ci piace mantenere sempre vivo il legame con questa terra e il ricordo del primo vigneto e della prima cantina Vencò a Dolegna, da cui tutto è partito».
«L’idea di realizzare una nuova cantina – spiega a winemag l’amministratore delegato Matteo Livon – è nata prima del periodo del Covid. Volevamo ingrandirci, ma non a livello di produzione e di numeri, ma di possibilità offerte ai nostri ospiti, ai nostri clienti, ai nostri collaboratori, di poterci venire a visitare in un ambiente più tecnologico, più moderno». La famiglia ha così deciso l’abbattimento dei vecchi casolari agricoli abbandonati e inutilizzati, al centro della frazione di Dolegnano di San Giovanni al Natisone, già all’interno della proprietà, per costruire ex novo un edificio multifunzionale.
«Il progetto curato dall’architetto Enrico Franzolini – continua il giovane amministratore dell’azienda – prevede una zona a soppalco, dedicata agli uffici commerciali e amministrativi e alla nuova sala degustazione. Gli altri spazi ospiteranno al produzione, con i nuovi legni grandi e le cosiddette “uova” di cemento per l’affinamento. È anche prevista la realizzazione di una bellissima cucina con vista, per enfatizzare ed esaltare il concetto di abbinamento dei nostri vini con il food. Un’altra zona importante sarà quella del wine shop».
LIVON E IL FUTURO, TRA FRIULI, TOSCANA E UMBRIA
L’attuale cantina, che ospita il marchio Livon e l’altro marchio di vini friulani Villa Chiopris, sarà convertita quasi interamente a magazzino e zona di stoccaggio. Sarà conservata un’area per la vinificazione delle uve, oltre al laboratorio per le analisi e agli uffici tecnici. Le due aziende friulane della famiglia Livon producono rispettivamente 350 e 300 mila bottiglie, con due gamme ben distinte tra collina (Doc Collio, che include i cru, e Friuli Colli Orientali), e zone più pianeggianti (con vinificazione in solo acciaio).
In Toscana, Borgo Salcetino sfiora una produzione complessiva di 100 mila bottiglie. Infine, a Montefalco, la cantina Fattoria Colsanto della famiglia Livon si assesta sulle 50 mila bottiglie. Duecento gli ettari vitati complessivi di proprietà delle quattro Aziende agricole. Oltre 170 si trovano Friuli, la regione in cui l’azienda continua a investire con la passione di sempre, a distanza di 60 anni dalla fondazione e in memoria del capostipite, Dorino Livon.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Enologi, «piccoli chimici» o alchimisti? Che sui vini dealcolati serva chiarezza è ormai evidente. A maggior ragione sul ruolo (in cantina) di chi, a quei vini senza alcol, dà vita. Non a caso Assoenologi, l’associazione italiana che raggruppa enologi ed enotecnici italiani, ha pubblicato sull’ultimo numero della sua rivista un interessante intervento di Gianmaria Zanella, Lab Manager di Enologica Vason, azienda con sede a San Pietro in Cariano (Verona), nel cuore della Valpolicella, con più di 50 anni di attività nell’offerta di know-how ai consulenti vitivinicoli, attraverso opportunità e servizi per il mondo enologico. Ripubblichiamo di seguito l’intervento di Zanella su l’Enologo.
VINI DEALCOLATI, LOW-NO ALCOHOL: IL RUOLO DELL’ENOLOGO
«Il ruolo dell’enologo nella produzione dei vini dealcolizzati – scrive Zanella – è importantissimo. Solo questo professionista può far capire a tutti gli attori della filiera cosa sono questi vini e come possono andare incontro alle esigenze del mercato. La dealcolizzazione è un processo molto complesso che nasce come risposta al global warming, come modulazione per ridurre le elevate gradazioni alcoliche.
Per determinare il giusto livello di alcol occorre attuare lo “sweet spot tasting” ossia il giusto bilanciamento per ottenere lo stile desiderato. Si simula la dealcolizzazione su un campione e si esegue una degustazione del prodotto con gradazioni alcoliche crescenti (0,2% per volta). In base al risultato della degustazione si definirà quale grado alcolico meglio valorizza il vino.
Tre sono le tecniche di separazione recepite dal Reg. Ue 2021/2117 che possono essere utilizzate singolarmente o in modo combinato: la distillazione; le tecniche di membrana e l’evaporazione sottovuoto. La distillazione sottovuoto è adatta anche per la dealcolazione totale ha però una temperatura di processo intorno ai 40 gradi e in alcuni casi potrebbe esserci la possibilità di aggiungere acqua, cosa non consentita, quindi non è performante. Oppure abbiamo lo “spinning core column” (colonna a cono rotante), adatto anche a dealcolizzazione spinta, che consta di due processi: un recupero degli aromi a 20-25 gradi a cui segue la dealcolizazione vera e propria. La forza centrifuga in questo caso aiuta il processo».
VINI DEALCOLATI: TECNICA E MERCATO
«Come tecnica a membrana – continua l’intervento di Gianmaria Zanella – un esempio può essere la “membrana contattore”, un processo svolto a temperatura ambiente dove la driving force è l’acqua. Si adatta bene alla dealcolizzazione parziale. Il ruolo dell’enologo è dominare questi processi e riuscire a lavorare d’anticipo con la propria conoscenza. Parlando di questi tre filoni di tecniche dobbiamo renderci conto che sono diverse per concentrazioni aromatiche e di altri macrocomponenti del vino.
Il mercato ce lo chiede e noi enologi dobbiamo capire come gestire questi processi. È’ necessaria una progettualità in cui l’enologo sia al centro. La maturazione e lo stato sanitario delle uve devono essere eccelsi. Non si può pensare di partire da una raccolta anticipata perché ci sarebbe uno squilibri nel contenuto di maturità fenolica che in assenza di alcol peserebbe tantissimo. L’obiettivo enologico deve essere ben definito e condiviso con tutti gli attori della filiera.
Low alcol, parziale, totale, stile del vino, packaging e chiusure: tutto va definito nel dettaglio, soprattutto perché questi prodotti hanno un’ossidabilità completamente diversa dai normali vini e un’alta pericolosità dal punto di vista microbiologico. Con questi prodotti occorre essere maniacali con i controlli microbiolgici continui, piani di igiene, filtrazioni sterili, ecc. L’obiettivo del processo – conclude il suo intervento Gianmaria Zanella – è una bevanda che sia simile al vino anche se l’assenza di alcol dal punto di vista sensoriale pesa tantissimo, influenza l’acidità, la percezione olfattiva, la struttura, l’amaro. Bisogna quindi lavorare in anticipo con correttivi e pratiche enologiche».
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Mario Falcetti Eretiq lascia Quadra Franciacorta Pronto a nuove sfide
Mario Falcetti lascia Quadra Franciacorta e la notizia è di quelle che fanno rumore. Grazie a un lavoro scrupoloso avviato sin dal suo ingresso in azienda, nel 2008, il direttore generale ed enologo della cantina di Cologne (Brescia) è riuscito a diventare in pochi anni il simbolo, anzi il sinonimo stesso, di Quadra Franciacorta. In un’intervista esclusiva rilasciata a winemag.it, Mario Falcetti chiarisce di aver rassegnato le proprie dimissioni dal consiglio di amministrazione all’inizio del mese di aprile. I primi dissidi con la dirigenza della cantina, fondata nel 2003 dall’imprenditore del settore dell’energia rinnovabile Ugo Ghezzi, risalirebbero tuttavia a oltre un anno fa. Nulla, sino ad oggi, lasciava presagire un tale epilogo.
«Ci sono cose a cui mi sono riavvicinato molto nell’ultimo periodo, come la ricerca e la sperimentazione nel territorio franciacortino – commenta Mario Falcetti a winemag.it – che rimarranno primari nel mio futuro. La mia strada si divide definitivamente da quella di Quadra per differenti vedute sul futuro, ma non voglio e non posso perdere di vista il fatto che sono un agronomo ed un enologo ed è questo che continuerò a fare in futuro, molto probabilmente nel ruolo di consulente».
MARIO FALCETTI: «CHIUDO CON QUADRA, NON CON LA FRANCIACORTA»
La rottura di Falcetti con Quadra non significa infatti una rottura con la Franciacorta. «Tutt’altro – continua Mario Falcetti – anche perché sono in una fase della mia vita professionale in cui la qualità di quello che faccio sarà privilegiata rispetto alla quantità. Per esempio continua ad affascinarmi il lavoro avviato con il Consorzio Franciacorta sull’Erbamat, nel ruolo di coordinatore del Gruppo Sperimentazione e Ricerca». Ma non è escluso un ruolo di Falcetti anche all’estero, per esempio in Champagne o in Provenza, territori con i quali è sempre rimasto in contatto, nell’arco di tutta la carriera. «In ogni caso voglio tenere la Franciacorta baricentrica», annuncia l’ormai ex direttore generale di Quadra, sempre in esclusiva a winemag.it.
La decisione di troncare dopo 15 anni con l’azienda della famiglia Ghezzi, per divergenze di vedute sul futuro “piano industriale” della cantina, è stata annunciata da Mario Falcetti attraverso una «nota» diramata da un ufficio stampa specializzato nel settore del vino, poco prima delle ore 16 odierne. Tra le righe del comunicato, l’ex dirigente si dichiara «pronto a un nuovo capitolo della vita professionale, dopo aver contribuito al consolidamento dei primi dieci anni di Contadi Castaldi e dopo altri quindici di direzione aziendale e tecnica in Quadra: un lungo tempo, questo, che ha dato all’azienda un’identità riconosciuta sul panorama nazionale».
MARIO FALCETTI “L’ERETIQ”: «IO, DA SEMPRE CONTROCORRENTE»
«Da sempre una visione controcorrente – si legge ancora nella nota diramata alla stampa – immaginando prima e creando poi, vini del tutto innovativi, il Satèn, l’Eretiq e il Vegan, solo per citarne alcuni, diventati un paradigma stilistico autorevole e un riferimento per il comparto». Mario Falcetti ha alle spalle una più che trentennale esperienza agronomica ed enologica in aree vinicole italiane e straniere, partendo dal Trentino-Alto Adige (il suo primo incarico presso l’istituto Tecnico di San Michele all’Adige), passando per Toscana, Sicilia e Puglia per approdare, infine, in provincia di Brescia. Da un biennio nel CdA del Consorzio Franciacorta, ha assunto la delega alla Ricerca & Sviluppo, coordinando quindi l’operatività del comparto tecnico.
Falcetti definisce il suo approccio «scientifico di matrice “francese”», tanto da averlo portato «a stimolare la nascita del Rapporto di Attività (sempre con il supporto dell’Ufficio R&D e del Comitato Tecnico stesso), l’annuario che raccoglie e sintetizza i lavori di monitoraggio e di ricerca svolti in ambito consortile, con il contributo di diversi atenei». Altre importanti innovazioni alle quali l’ex direttore generale ed enologo di Quadra ha prestato il suo contributo, sempre in seno al Consorzio Franciacorta, «vedranno presso la luce».
«ESSERE PRODUTTORI SOLO IN CHIAVE BUSINESS NON BASTA PIÙ»
Negli ultimi anni, Mario Falcetti ha intensificato le relazioni con diverse realtà transalpine, in primis la Champagne, apportando a più riprese il proprio contributo come relatore. In questo contesto, ha contribuito a portare in Franciacorta, o meglio a Brescia, la seconda edizione dello Sparkling Wine Forum, un partecipato e dinamico incontro di carattere tecnico-scientifico per il settore spumantistico.
«Il nostro settore sta cambiando rapidamente – conclude Mario Falcetti – e sta ridefinendo i propri paradigmi valoriali. Essere produttori solo in chiave business non credo possa più bastare. Occorre una visione strategica di lungo periodo, implementare ricerca, innovazione, valori di sostenibilità etica ed ambientale. La mia mente, per come si muove, non può certo accontentarsi di “gestire” una navigazione di conserva. Meglio sempre il mare aperto, le onde alte, inseguendo un nuovo, bellissimo approdo».
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Sardegna Signorvino acquisisce la cantina Podere Guardia Grande ad Alghero e1718974260931
È in Sardegna l’ultimo investimento del patron di Signorvino, Federico Veronesi, che da qualche giorno ha assunto il ruolo di amministratore delegato di Podere Guardia Grande, tramite la società Oniverse-Calzedonia (che controlla Signorvino). Una cantina interrata visitabile dal pubblico, con wine shop e vigneto a Guardia Grande, borgata del Comune di Alghero incastonata tra la baia di Porto Conte e Capo Caccia. Tre le etichette – Saldenya, Nascimento e L’Alghè, base Vermentino, Cannonau e Cagnulari -prodotte in una zona rimasta incontaminata e selvaggia, colorata da una terra argillosa di colore rosso mattone.
«Lavoreremo i nostri vigneti rispettando questo territorio generoso e unico – commenta l’ad della cantina Guardia Grande, Federico Veronesi – senza l’utilizzo di diserbanti chimici, come conseguenza di quello che dovrebbe essere ormai un “normale” approccio all’agricoltura. La priorità è farlo secondo i principi di sostenibilità, rispetto per il territorio, dedizione alla vigna: vorremmo offrire la possibilità di scoprire la bellezza e l’unicità della Sardegna, della splendida vista su Capo Caccia».
LA CANTINA GUARDIA GRANDE
Come spiega in una nota il gruppo Signorvino, il progetto della struttura Podere Guardia Grande, firmato dallo studio sardo Casciu – Rango architetti, contempla la fusione tra scenografici aspetti naturalistici e di produzione: il podere, infatti, si trova su uno dei rari promontori da cui è possibile godere della vista di Capo Caccia, di Porto Conte e della costa ad ovest. In questo territorio, cantina, vigneti e casa agricola godono di una componente scenografica unica: 25 ettari esposti alla luce e alla brezza di maestrale e salsedine su tutti i lati.
La struttura della cantina è articolata su tre piani collegati da una scala circolare e non sviluppati in altezza, ad eleggere il suolo come custode affidabile delle attività produttive. Una scelta che rinnova la promessa di rispetto per il territorio, che definisce una presenza che sa essere discreta, nascosta: un percorso in cantina che diventa così un viaggio al centro di Guardia Grande, nel suo stesso sottosuolo.
I SUOLI CHE CIRCONDANO GUARDIA GRANDE AD ALGHERO
Molto caratteristico è il colore rosso rubino presente nel calcestruzzo e negli intonaci materici. Una continuità col terreno circostante ma anche un richiamo al vino stesso. La volontà è stata quella di utilizzare materiali non lineari, a tratti quasi imperfetti, per dare un senso di movimento e vita che muta, matura col passare del tempo. «L’edificio – spiega Mario Casciu di Casciu-Rango architetti – si rifà alle forme razionali tipiche di questi luoghi, inserendosi nel paesaggio garantendo una continuità tra suolo e superfici verticali costruita nel rispetto delle cromie della terra: il persistente colore rosso violaceo delle argille siltose rimanda alla tradizione architettonica della bonifica e ai poderi e le case coloniche della vicina Fertilia».
L’unico piano fuori terra è la grande sala di accoglienza: una stanza vetrata circondata da un ampio portico affacciato sulla baia di Porto Conte, Capo Caccia, Porticciolo e il monte Doglia. Da questo spazio si accede al piano ammezzato, dal quale è possibile vedere i locali di lavorazione del piano sottostante. Al piano -2 c’è la macchina produttiva della cantina, con i locali di fermentazione e di affinamento delle uve, e le salette per degustazioni private a ridosso della barricaia. All’interno della cantina, al piano -1, c’è anche una sala multimediale completamente immersiva dove verranno trasmessi video e testimonianze sul territorio di Alghero.
Gli arredi interni portano la firma e il colore dello stilista e designer algherese Antonio Marras, con il quale si è scelto di collaborare al fine di creare una ancora più stretta sinergia col territorio. «Tutto intorno – evidenzia il gruppo Signorvino – è vegetazione in dialogo costante col mare, ripopolata laddove ve ne era mancanza come promessa ad un terreno che ha tanto da offrire e a cui si deve molto: vigne, piante aromatiche autoctone, vento e nuraghi sardi di calcare, pietra arenaria, trachite».
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jacopo bonanini figlio d arte primo vino 11 anni beneficenza gaslini genova 1
Milleduecento euro. Una “paghetta” più che mai ragguardevole per un ragazzino di 11 anni, guidato passo dopo passo dal padre vignaiolo nella realizzazione del suo primo vino. Con quei soldi, Jacopo Bonanini avrebbe potuto finalmente comprarsi il tanto desiderato paio di “Jordan”, celebre brand di scarpe Nike intitolate al campione di basket Michael Jordan, del costo di 400 euro, già indossate da qualche compagno di scuola. E regalarsi pure l’agognato volante nuovo, per sfrecciare ancora più veloce con la PlayStation. Ma una volta terminato il lavoro, ha deciso di donare l’intero ricavato delle vendite delle sue prime bottiglie di vino delle Cinque Terre al reparto di oncologia dell’ospedale Gaslini di Genova, vera eccellenza italiana nella cura delle patologie dei bambini.
Non è un caso se questa bella storia arrivi dall’angolo più fragile e al contempo più suggestivo della Liguria. E non è un caso che il protagonista sia proprio Jacopo, 11 anni, figlio di Samuele Heydi Bonanini, titolare dell’Azienda agricola Possa, a Riomaggiore. Siamo a casa di uno dei grandi interpreti dei vini eroici delle Cinque Terre, in una cantina che è molto più di una fucina artigianale dedita alla produzione dello Sciacchetrà e degli altri nettari tipici della zona. Possa, già “Cantina dell’Anno Nord Italia 2023” per la Guida Top 100 Migliori Vini italiani di winemag.it, è teatro di numerose iniziative benefiche sul proprio territorio, che coinvolgono bambini delle scuole locali e migranti. Un guardiano del territorio, Samuele Heydi Bonanini, che rifiuta di essere definito «eroe», preferendo i fatti e il cuore alle facili lusinghe.
JACOPO E IL SUO PRIMO VINO: RICAVATO IN BENEFICENZA AL GASLINI
«Mi aspettavo che il passaggio dalle scuole elementari alle scuole medie fosse cruciale per mio figlio – spiega a winemag.it il vignaiolo custode delle Cinque Terre – così come per tutti gli adolescenti. Un periodo che è coinciso con l’inizio di alcune richieste particolari, che non aveva mai fatto prima. A fronte di quella di un paio di scarpe Jordan da 400 euro, a quanto pare indossate da alcuni compagni di scuola, ho cercato di farlo ragionare sulla somma, ma anche sul fatto che, nell’ultimo anno, aveva cambiato già tre taglie! Dopo un po’ si è presentato con un’altra richiesta: un volante nuovo per la PlayStation».
«Eravamo sotto vendemmia – continua Bonanini – e ho colto la palla al balzo per un patto: gli ho detto che avrebbe potuto realizzare il suo primo vino e comprarsi quello che voleva con il ricavato. Ha accettato subito e ha lavorato sodo, seguendo passo dopo passo le mie indicazioni in cantina. A vendite quasi ultimate delle 60 bottiglie prodotte, se ne è uscito con l’idea di devolvere tutto il ricavato al Gaslini, al posto di comprarsi le scarpe Nike e l’accessorio per la Play: una bella lezione data da un bambino di 11 anni». Jacopo conosce i corridoi del noto ospedale di Genova, dove è già stato operato due volte. La prima a 23 giorni dalla nascita e la seconda un anno fa.
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IL VINO BIANCO “U PAPU” DI AZIENDA AGRICOLA POSSA
«È molto curioso – evidenzia il patron di Possa – e, come sempre, ha riempito di domande i suoi interlocutori, in quel caso i medici del Gaslini. Ha scoperto così il sistema delle donazioni, che consentono alla struttura di dotarsi di nuovi macchinari all’avanguardia, oltre che di nuove sale e stanze dove vengono poi accolti e curati altri bambini come lui. Una storia che deve averlo impressionato, tanto da convincerlo a donare il ricavato del suo primo vino proprio in favore dell’ospedale dove lui stesso ha ricevuto delle cure. Ora ci stiamo organizzando con il primario per la consegna della somma: una sorta di breve cerimonia, alla quale mio figlio non vede l’ora di partecipare».
Il primo vino di Jacopo Bonanini, dalla caratteristica etichetta che contraddistingue i vini dell’Azienda agricola Possa, è ottenuto dalla vinificazione di 80 chilogrammi di uve di varietà locali a bacca bianca, diraspate chicco per chicco dal giovane winemaker. Si chiama “U papu“, contrazione dialettale del nome “Jacopo” col quale il neo vignaiolo provetto viene chiamato dagli anziani di Riomaggiore. Per le strade del paese delle Cinque Terre lo conoscono in tanti. Ma da qualche giorno Jacopo ha un tratto distintivo in più: delle Jordan nuove fiammanti, che gli ha regalato papà. «Modello da 100 euro!», tiene a precisare Samuel Bonanini. Suole antishock d’ordinanza, per reggere i battiti di un cuore “grande così”. Quello ereditato da mamma e papà.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Zyme non e in vendita signorvino. E su Quintarelli e Dal Forno dico che
«Non ho venduto niente a nessuno, Zýmē non è in vendita». È quanto dichiara Celestino Gaspari, patron della prestigiosa cantina di San Pietro in Cariano, in Valpolicella. Smentite così, dal diretto interessato, le voci (molto insistenti) che circolano da qualche settimana in merito a un possibile acquisto da parte del Gruppo Signorvino, già agli onori delle cronache per l’operazione La Giuva della famiglia Malesani (andata ufficialmente in porto nel febbraio 2023).
Nell’affidare la smentita ufficiale in esclusiva a winemag.it, Celestino Gaspari va oltre. «Ho diversi pretendenti, anche nomi prestigiosi – dichiara – ma ad oggi non ho venduto Zýmē e non ho intenzione di vendere. Le voci che circolano in Valpolicella dimostrano che è il mio giro. Un po’ di anni fa è stato il turno di Quintarelli, poi quello di Dal Forno e adesso è il mio… Cosa devo farci? Non ho venduto e non sono in trattativa per farlo». Quel che è certo, è invece che la cantina di via Cà del Pipa 1 stia affrontando un periodo di profonda «ristrutturazione».
«Quello che sto facendo – chiarisce Gaspari – è avere le idee più chiare, aspettando che mio figlio diventi grande. Compirà 4 anni a gennaio 2024, quindi ho altri vent’anni davanti. Il mio compito adesso è ristrutturare bene l’azienda, a fronte di una serie di cambi avvenuti nell’ultimo periodo. Il mio obiettivo è avere per ogni comparto una persona referente di cui veramente mi fido, con capacità certe. Il tutto per ritagliarmi più spazio per muovermi e più spazio per me stesso. Questa è l’idea: fare in modo che mio figlio trovi un’azienda strutturata, per andare avanti e fare ancora meglio. Se invece vorrà fare altro, persino il calciatore, sarà libero di vendere al giusto valore».
DALLA SMENTITA AL FUTURO, «MA NON COME QUINTARELLI E DAL FORNO»
Gaspari commenta poi le sorti di altri due marchi storici della Valpolicella, allargando il campo ad alcune rivelazioni scottanti. «Onestamente – dichiara – non mi piacciono tanto le soluzioni adottate dai miei più stretti colleghi Quintarelli e Dal Forno. Anche loro hanno tirato, tirato, tirato… Poi si sono stancati e hanno fatto scelte un po’ tristi. Nel caso di mio suocero (Quintarelli, ndr) all’epoca ho proposto di fare una società in cui le quattro figlie sarebbero rimaste proprietarie. Ci sarebbe stata una certa liquidità da reinvestire e, contemporaneamente, liquidare un’altra parte. In questo modo si sarebbe data all’azienda una struttura tale da poterla fare crescere, anche in volumi, oltre che in prestigio. Alla fine, invece, la scelta è ricaduta su una figlia sola».
E sulla Dal Forno Romano: «Idem – chiosa Celestino Gaspari – con tre figli. Due hanno deciso di spostarsi altrove e fare dell’altro. A loro avevo proposto di acquistare un’azienda sui Colli Berici. I Berici, come i Colli Euganei, sono due zone che sono la “Bolgheri del Nord”. Hanno suoli e terreni importanti, hanno un microclima e vitigni importanti, storici. Gli ho detto di andar là, carichi dell’esperienza ricevuta dal papà e del nome che si portano sulle spalle, per fare un’azienda nuova: una cantina, da quelle parti, al giorno d’oggi costa ancora relativamente poco».
«Avrebbero fatto parlare della zona e di loro – continua il patron di Zýmē – come “primi” giunti sul posto. L’alternativa sarebbe stata quella di fare Amarone e Valpolicella sperando che il mercato dicesse loro di essere più bravi del fratello. Non il massimo, insomma». Insomma, altra carne sul fuoco sempre accesso della Valpolicella, che si conferma tra gli areali vitivinicoli più dinamici degli ultimi anni, in Italia. Dentro e fuori dal calice.
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Fenocchio esorcizza 2023 Barolo Bussia Riserva 2008 90 di sul mercato
Se «le parole sono importanti», a volte, i numeri, lo sono ancor di più. Come il “2023” per la famiglia Fenocchio, scelto per l’esordio sul mercato del Barolo Bussia Riserva 2008 90dì: 2023, 2008, 90. Numeri che si accavallano, pezzi fondamentali (non gli unici, peraltro) di un’unica storia. Macerazione di 90 giorni (da lì il nome) per il Nebbiolo che non venne all’epoca commercializzato, «per attendere il momento opportuno per rilanciarlo». Eccoci quindi ad oggi. Il 2023, con il carico di significati che si porta dietro, è per Claudio Fenocchio «il momento migliore per “l’uscita ufficiale” di un vino prodotto in numeri limitati».
«Ho deciso di rimetterlo sul mercato – spiega il vignaiolo – proprio perché è un anno veramente importante per la nostra famiglia». Il 2023 rappresenta in primis l’anno del centenario dalla nascita di Giacomo Fenocchio. Ma anche i 60 anni di Claudio ed i 20 di Eleonora, una delle due figlie di Claudio. Un anno, dunque, che racchiude passaggi fondamentali tra le generazioni. Incroci frutto del caso, che sembrano studiati a tavolino. Del resto, il Barolo Bussia Riserva 2008 90dì, ha sempre guardato alla tradizione. Senza snaturarla.
Quindici anni fa – ecco un altro numero – Claudio Fenocchio decise di fare una prova di lunga macerazione, alla maniera del papà; nel “cru del cuore” della famiglia, che proprio lì vive da sempre. Duecento bottiglie, in vendita solo in cantina, proprio in Località Bussia 72, a Monforte d’Alba. «Celebrare con grandi eventi e feste non è proprio il tono di voce che mi contraddistingue, insieme a mia moglie Nicoletta e alle mie figlie Letizia ed Eleonora». In fondo, nulla parla davvero di un vignaiolo e della sua famiglia come un vino.
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La Categoria Vigneti spopola in vendemmia Toscana al vertice della Top 10 Airbnb Italia
La Top 10 Airbnb Italia relativa alle destinazioni più gettonate durante il periodo della vendemmia 2023 non lascia spazio a interpretazioni. A dominare la classifica della Categoria Vigneti è la Toscana, con la tripletta San Gimignano, Montepulciano, Greve in Chianti. Quarto, sesto e decimo posto per il Veneto, con Bardolino, Lago di Garda e Lazise, inframmezzati da Sicilia (quinto posto con l’isola di Pantelleria), Campania (settima con Vietri sul Mare), Sardegna (Bosa, ottava) e Umbria (nona classificata con Orvieto).
I dati, resi pubblici da Airbnb, riflettono le preferenze di una community cresciuta dal 2007 ad oggi ad oltre 4 milioni di host, che a loro volta hanno ospitato più di 1,5 miliardi di persone in quasi tutti i Paesi del mondo. In occasione dell’inizio della vendemmia 2023, la piattaforma ha tirato le somme sull’enoturismo in Italia, a poco più di un anno dall’introduzione della Categoria Vigneti. Le strutture immerse tra le vigne e nelle regioni vinicole italiane – come quella della foto di copertina dell’articolo, ma anche i numerosi casi di ospitalità offerta dalle cantine – hanno accolto 500 mila viaggiatori.
CATEGORIA VIGNETI: LA TOP 10 AIRBNB DURANTE LA VENDEMMIA 2023
La Top 10 di Airbnb certifica la supremazia della Toscana, sulla base del numero di notti prenotate all’interno della Categoria Vigneti tra il gennaio e il giugno 2023, con check-in tra l’agosto e l’ottobre 2023:
San Gimignano, Toscana
Montepulciano, Toscana
Greve in Chianti, Toscana
Bardolino, Veneto
Pantelleria, Sicilia
Garda, Veneto
Vietri sul Mare, Campania
Bosa, Sardegna
Orvieto, Umbria
Lazise, Veneto
«Da quando è stata lanciata – spiega Airbnb in una nota – il numero di alloggi all’interno della Categoria Vigneti in Italia ha raggiunto quota 11.500, tanti dei quali possono considerarsi “accessibili” in termini di budget. Infatti, il costo medio di un alloggio nei pressi di un vigneto in Italia si aggira intorno ai 170 euro a notte. Se si considera che la media dei viaggiatori per viaggio si attesta tra le tre e le quattro persone, un soggiorno di questo tipo costa dai 40 ai 60 euro di media a testa. Sono più frequenti i viaggi in coppia e in famiglia, arrivando al 65% delle prenotazioni totali».
Airbnb introduce la categoria “Vigneti”: enoturismo sempre più a portata di clic
Airbnb introduce la categoria Vigneti enoturismo sempre più a portata di clic. La novità riguarda anche le cantine con ospitalità in Italia
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Feudo Montoni Cantina Bio dell anno per la Guida Top 100 Migliori vini italiani 2024 migliori vini biologici italiani
È Feudo Montoni la Cantina Bio dell’anno per la Guida Top 100 Migliori vini italiani 2024 di winemag.it (disponibile a questo link in prevendita). L’azienda di Contrada Montoni Vecchi (Cammarata, Agrigento), stella sempre più fulgida della costellazione di Assovini Sicilia, esprime anche il Miglior Vino rosato 2024, il Terre Siciliane Igt Nerello Mascalese Rosato Biologico 2022 “Rosa di Adele”, che si è aggiudicato 95/100 nella degustazione alla cieca. Non potevamo scegliere parole migliori di quelle del titolare, Fabio Sireci, per introdurre Feudo Montoni e spiegare le motivazioni del premio Cantina Bio dell’anno 2024. Parole capaci di traslarsi, immutate, dalla filosofia aziendale al calice.
C’è un detto siciliano che dice: Curri quanto voi che cà ti aspetto… Corri quanto vuoi che qui ti aspetto… E a volte mi sembra che questo possa essere quello che pensa la Terra osservando il comportamento dell’uomo. La parola biologico trae origine dal greco ‘bios’ che significa ‘vita’ e da ‘logia’ che significa ‘discorso’, ‘studio’. Quindi ‘discutiamo di bios’.
Parlare di agricoltura biologica non è facile per vari motivi, è una filosofia, un sistema di vita, un complesso di azioni. Biologico è un concetto molto delicato e molto ampio, non significa soltanto non utilizzo di chimica, di pesticidi e pratiche agricole che ogni agricoltore applica nel rispetto della terra. Nelle sedicenti aree civili e sviluppate, non vedo felicità dell’anima, che piano, piano muore. Non vedo Bios».
LA SICILIA DI FEUDO MONTONI, VINI BIOLOGICI PER VOCAZIONE
La purezza di cui parla questo appassionato viticoltore siciliano è la stessa che si ritrova in ognuno dei suoi vini. La storia di Feudo Montoni affonda le radici nel 1469, quando nel cuore della Sicilia, all’interno del Principato di Villanova, viene edificato dalla nobile famiglia aragonese Abatellis il baglio (tipica costruzione siciliana a corte quadrangolare). Dopo seicento anni, nelle stesse cantine, dalle stesse terre vengono prodotti i vini firmati da Fabio Sireci.
È alla fine del 1800 che la storia del baglio si lega a quella di Rosario Sireci, nonno di Fabio che acquistò il Feudo riconoscendo in esso particolari caratteristiche legate al terroir ed alla sua biodiversità. Trovò antiche piante di Perricone, Nero d’Avola, Catarratto, innamorandosi dei vini ottenuti con quelle uve. A suo avviso, presentavano tratti eleganti ed inconsueti.
IL VINI DI TERROIR DI FEUDO MONTONI, CANTINA BIO 2024
Nella seconda metà degli anni Sessanta, a dare impulso alla produzione fu Elio Sireci, padre di Fabio che selezionò le migliori piante presenti nella tenuta attraverso Selezione Massale e, con esse, impiantò i nuovi vigneti. Negli stessi anni avvenne il completo ammodernamento della cantina. Elio Sireci fu in grado di trasmettere al figlio Fabio la passione ed il rispetto per la Natura che oggi valgono a questa realtà il massimo riconoscimento tra le cantine biologiche italiane assegnato dalla Guida Top 100 Migliori vini italiani 2024. Non solo: Elio insegna a Fabio «l’etica del lavoro, del sacrificio per l’ottenimento di un obiettivo».
Un «lavoro» che oggi, il titolare di Feudo Montoni descrive come «un meraviglioso viaggio da vivere, se fatto con dedizione ed amore». Sono passati oltre trent’anni da quando Fabio Sireci ha iniziato a mettere i pratica quegli insegnamenti, proseguendo il «lavoro» del nonno e del padre nel ruolo di «custode delle antiche piante e delle loro uve». In particolare, è lui a seguire in prima persona tutte le diverse fasi del processo di produzione, dal vigneto alla cantina. E il suo amore per questa terra è in ogni calice. In ogni sorso. Provare per credere Feudo Montoni, Cantina Biologica dell’anno per la Guida Top 100 Migliori vini italiani 2024.
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Cantina Santadi e Cantina dell anno per la Guida Top 100 Migliori vini italiani 2024 winemag it
È Cantina Santadi la Cantina dell’anno per la Guida Top 100 Migliori vini italiani 2024 di winemag.it (disponibile in prevendita a questo link). Cantina di Santadi si trova nel Sulcis, nella zona sud-occidentale della Sardegna, a pochi chilometri dalle meravigliose spiagge e dune bianche di Porto Pino. Nata nel 1960, assume un nuovo un nuovo volto con l’arrivo di un nuovo gruppo dirigente, che ne solleva le sorti sino a renderla un vanto non solo per la Sardegna, ma per l’Italia intera. Il vitigno Carignano è da allora al centro del progetto enologico, senza tuttavia trascurare i vitigni a bacca bianca tradizionali della Sardegna come Vermentino, Nuragus e Nasco.
Il desiderio di imporsi sui mercati con qualità è dimostrato dall’arrivo a Cantina Santadi dell’enologo di fama internazionale Giacomo Tachis, oggi compianto. Erano gli anni Ottanta. L’impronta lasciata dal creatore di vini icona dell’enologia italiana come Sassicaia, del Tignanello e del Solaia si fa ancora sentire a Santadi in vini come Terre Brune (primo vino barricato della Sardegna che in questa Guida si aggiudica 96/100, con l’annata 2019), Rocca Rubia, Noras, Araja, Grotta Rossa e Antigua, oltre che nei bianchi Villa di Chiesa, Cala Silente, Pedraia, Villa Solais e Latinia.
La cantina è presieduta dal 1976 da Antonello Pilloni, socio di Santadi dal 1974 e coadiuvato da un Cda che mira a dare all’azienda una forma «snella, dinamica e puntuale». Negli anni Duemila l’altra grande rivoluzione. Con l’obiettivo di produrre vini di maggior qualità viene costruito un moderno e funzionale laboratorio per le analisi, vengono implementati il reparto vinificazione, la sala barrique, il magazzino per il confezionato e vengono aggiunte una serie di vasche in cemento. Non viene mai dimenticato il rispetto e la tutela dell’ambiente e quest’ultima trance di lavori include un impianto fotovoltaico e un moderno depuratore. Cantina Santadi conta oggi 200 soci viticoltori che, insieme, coltivano 600 ettari di vigneto nell’areale del Sulcis.
Guida top 100 Migliori vini italiani - 2024
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marisa leo femminicidio Manager comunicazione vino uccisa dallex compagno in Sicilia
Marisa Leo, manager della Comunicazione delle Cantine Colomba Bianca di Mazara del Vallo, in Sicilia, è stata uccisa dall’ex marito Angelo Reina. La notizia dell’ennesimo femminicidio sconvolge l’Italia e il mondo del vino, che si stringe attorno alla famiglia della vittima. Marisa Leo, originaria di Salemi, aveva 39 anni. Tre anni fa aveva denunciato l’ex per stalking per poi tornare a vederlo, per riavvicinare la piccola figlia al padre. Il fatto è avvenuto mercoledì 6 settembre.
Angelo Reina, 42 anni, ha rivolto diversi colpi di pistola nei confronti di Marisa Leo nelle campagne tra Mazara del Vallo e Marsala. Secondo le prime ricostruzioni dei carabinieri, l’avrebbe invitata nell’azienda agricola di famiglia con la scusa di un tentativo di conciliazione. Dopo averla uccisa ha rivolto la pistola contro se stesso, suicidandosi all’interno della propria auto. Commosso il saluto a Marisa Leo da parte dei colleghi delle Cantine Colomba Bianca, realtà vitivinicola siciliana che raccoglie 6 cantine dislocate nella provincia di Trapani.
IL FEMMINICIDIO DI MARISA LEO IN SICILIA
«Ciao Marisa – si legge sul sito web e sui canali social della cooperativa guidata da Leonardo Taschetta – eri e sarai luce. È stata strappata alla vita Marisa Leo, responsabile marketing e comunicazione di Colomba Bianca. Donna del vino, madre premurosa e ispiratrice delle nostre cantine. Mente e braccio di scelte di successo, colonna portante di progetti internazionali per la filiera vitivinicola italiana, visionaria comunicatrice nel mondo dei vitigni made in Sicily».
Era attiva contro la violenza di genere. È inesplicabile – continua la nota della cantina in ricordo di Marisa Leo – immaginare una nuova vendemmia senza Lei. Siamo sgomenti. Esprimiamo il nostro profondo cordoglio per la perdita che subisce la famiglia di Marisa, di cui ci sentiamo parte integrante anche noi».
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
L Italia annega record stock vino italiano invenduto in cantina
Record di stock di vino italiano in cantina a fine luglio ed export verso i Paesi extra-Ue in peggioramento, specie negli Stati Uniti. L’Italia annega nel suo stesso “oro”, che rimane invenduto come non mai. Lo rileva l’Osservatorio Uiv-Vinitaly che ha elaborato i dati di Cantina Italia (Masaf) sulle giacenze e i numeri sulle vendite nei Paesi terzi relative al 1° semestre di quest’anno secondo le ultime rilevazioni delle dogane.
Secondo l’analisi Uiv e Vinitaly, la vendemmia 2023 si apre con una giacenza di vino in cantina pari a 45,5 milioni di ettolitri, l’equivalente di oltre 6 miliardi di potenziali bottiglie da 0,75/litri. Il dato riflette un’eccedenza dello 4,5% rispetto al pari periodo dello scorso anno a causa in particolare di un incremento senza precedenti degli stock per i vini di maggior qualità, con le Dop a +9,9% sull’ultima rilevazione pre-vendemmiale del 2022.
L’altro indicatore di mercato – aggiunge l’Osservatorio – è anch’esso complicato, con la domanda extra-europea segnalata nel primo semestre in ulteriore contrazione. Tra i top 10 buyer – che assieme rappresentano circa l’85% del mercato extra comunitario – le esportazioni a volume sono positive solo per la destinazione russa, con cali quantitativi in doppia cifra per Stati Uniti, Canada, Giappone, Norvegia, Cina e Corea del Sud.
CANTINA ITALIA: È RECORD STOCK VINO ITALIANO
Complessivamente la riduzione tendenziale nella prima metà dell’anno segna un -9% a volume e un -5% a valore, con gli spumanti giù del 13% e i fermi imbottigliati inchiodati a -5%. Per entrambe le tipologie, il trend a valore indica un gap del 4%, ma mentre per gli sparkling l’aumento del prezzo medio è in linea con il surplus dei costi produttivi (+10%), lo stesso non si può dire per i fermi (+1%). Per il presidente di Unione italiana vini (Uiv), Lamberto Frescobaldi: «Sulla prossima vendemmia – la cui paventata forte contrazione è ancora tutta da verificare – pesa una congiuntura che si sta manifestando in tutta la sua complessità».
Comprendiamo la volontà da parte delle nostre imprese di mantenere le quote di mercato, ma abbassare i prezzi – come per esempio con i rossi sfusi in Germania, che stanno scendendo verso le quotazioni spagnole a circa 50 centesimi/litro – rischia di diventare un pericoloso boomerang una volta fuori dalla crisi di potere di acquisto che coinvolge anche i nostri competitor. A tal proposito – ha concluso Frescobaldi – il fenomeno crescente dei prodotti a private label e gli imbottigliamenti del nostro vino fuori dall’Italia contribuiscono all’erosione del valore aggiunto».
Per l’ad di Veronafiere, Maurizio Danese: «L’Osservatorio aveva previsto un 2023 difficile, ciò si sta verificando nonostante l’economia globale abbia per ora tenuto lontano buona parte delle nubi recessive. Ciò che può fare Vinitaly è intensificare la costruzione di ponti commerciali con l’estero, in particolare nelle relazioni con i mercati extra-Ue, a partire da quello americano».
Peronospora, Frescobaldi (Uiv): «Non può essere rimedio alle giacenze di vino»
Peronospora, Frescobaldi (Uiv) «Non può essere rimedio alle giacenze di vino». Vendemmia 2023 in calo. Parole dure contro vini generici e Doc
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Tenuta del Monsignore in provincia di Rimini la terza cantina piu antica del mondo
La terza cantina più antica del mondo si trova in provincia di Rimini. È Tenuta del Monsignore di San Giovanni Marignano, azienda famigliare riminese che si riscopre, quasi a sorpresa, tra le più longeve e antiche del mondo, al pari di colossi come Marchesi Antinori. E finisce così, di diritto, nel Registro delle imprese storiche. La notizia è stata diffusa da Confagricoltura Forlì-Cesena e Rimini, di cui Tenuta del Monsignore è socia, in occasione dell’ufficializzazione dell’ingresso nel Registro nazionale delle imprese storiche italiane di Unioncamere.
Fondata nel 1385, appartiene da sempre alla famiglia Bacchini. Il primato raggiunto – o meglio il terzo posto nel ranking mondiale delle cantine più antiche del mondo – è dovuto al contributo di un team di esperti che è riuscito a risalire alle origini della cantina di San Giovanni Marignano. A condurre la ricerca sono stati i professori Francesco Raimondi e Lucia de Nicolò per la parte archivistica e il dottor Emiliano Bianchi per la traduzione di alcuni testi in latino.
Una scoperta da record. «Stando all’elenco della rivista di economia americana Family Business – spiega con orgoglio Sandro Bacchini, attuale titolare di Tenuta del Monsignore – siamo la terza azienda agricola-vinicola al mondo al pari di Marchese Antinori. Davanti a noi ci sono solo Château de Goulaine, nella Loira, nata nell’anno 1000, e la fiorentina Barone Ricasoli, fondata nel 1141».
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