Cisterna d’Asti è una Doc piemontese praticamente sconosciuta, situata tra Asti, Cuneo e il Roero, con pochissimi produttori rimasti a imbottigliare vino con questa denominazione. Per disciplinare, le uve base devono essere minimo 80% Croatina, vitigno autoctono molto presente anche nell’Oltrepò Pavese e nel Piacentino. Una piccola perla nascosta, dunque, capace di emozionare. Ne è un esempio la versione Superiore 2011 prodotta dalla Azienda Vitivinicola Mo.
Nel bicchiere il vino presenta un colore rosso granato di media intensità e trasparenza, con buona consistenza. Il naso è intenso e complesso, con note fruttate di marasca, more e scorza di arancia, floreali di glicine e lavanda; successivamente incalzano sentori balsamici mentolati e di erbe aromatiche, con l’alloro in prima linea. In bocca regna un ottimo equilibrio, grazie alla buona struttura e a soddisfacente morbidezza, ben contrastate da tannino fine e gradevoli acidità e sapidità.
Buona la persistenza, con note finali di frutta e erbe aromatiche. Vino maturo e molto interessante, da degustare a una temperatura di 16°C in calici di media ampiezza e da abbinare a primi con ragù di carne o a formaggi di media stagionatura.
LA VINIFICAZIONE
Il vino è prodotto da uve Croatina in purezza, dai vigneti siti in Cisterna d’Asti e in Canale coltivati su terreni sabbiosi-argillosi. Dopo la fermentazione alcolica e malolattica, affina per almeno 12 mesi in acciaio, per poi venire imbottigliato. L’azienda Vitivinicola Mo è attiva dagli anni ’60 e si è da sempre dedicata alla coltivazione di vitigni quasi esclusivamente autoctoni, con grande passione e dedizione.
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Trovarsi alla Terra Trema ogni anno è come passare una serata con gli amici lontani, con cui ti ritrovi raramente. Legno. Luci soffuse. Musica in sottofondo. Un buon bicchiere di vino. E chiacchiere. Tante chiacchiere. In particolar modo se, per te, è il sesto anno consecutivo. Ma siamo alla 12° edizione. La numero 10 al Leoncavallo di Milano. E si vede. Finalmente il bicchiere non è quello classico, da degustazione della festa del paese. E’ un calice!
Gli amici sono quelli di sempre, ma ogni anno conosci qualcuno di nuovo. Perché la manifestazione conta ben 90 produttori, in media, all’anno. Tutti Vignaioli, contadini, amanti della terra. Del suo profumo e del suo calore. Lo trasmettono. Anche solo da come ti parlano. Tutto attorno, un ambiente che li mette a loro agio. Come in campagna. Nulla di sfarzoso.
Niente distoglie il visitatore da quei faretti. Puntati solo su di loro. I protagonisti. Al fianco dei loro vini. Bisogna solo avvicinarsi e parlare. Non aspettano altro che raccontarti la loro passione. La loro fatica.
LA DEGUSTAZIONE
L’inizio è quello di sempre, con i vignaioli che poi si incontrano anche in cantina, durante l’anno. Si parte col Pecorino dell’Azienda Agricola Fiorano di Cossignano (AP), il Donna Orgilla 2015. Giallo paglierino con riflessi verdognoli, naso floreale ed erbaceo, caldo figlio di un’annata tosta. In bocca sapido e molto minerale. E’ capitato negli anni di degustare magnum con qualche anno sulle spalle. E questa vigna riesce col tempo a sfoderare evoluzioni Riesliniane.
Da lasciare a bocca aperta. Peccato che Paolo, co-titolare dell’azienda, non ne abbia portate in degustazione. Altro Pecorino di casa è il Giulia Ermina, con fermentazione in tonneaux francese e maturazione “sur lies” per 12 mesi, più 8 di affinamento in bottiglia. Una piccola chicca, per chi ama il sentore terziario appena percettibile del legno, sempre ben bilanciato da una buona acidità. Vero e proprio contraltare della freschezza di Donna Orgilla.
Nuova tappa ma ancora Pecorino. Stavolta Il Fiobbo di Vini Aurora ad Offida (AP). Questo è un gioiellino e basta. Perfetto, intrigante, complesso nei sentori gusto-olfattivi ma allo stesso tempo beverino. Anche qui riflessi verdognoli tipici del vitigno. Naso di mela verde, agrumi, fieno ed erbe aromatiche. Finale rinfrescante.
Facciamo un passo più a nord, sempre Marche. Stavolta quella del Verdicchio. Corrado Dottori di Cupramontana (AN). Azienda La Distesa, è in ritardo. Il banchetto è ancora vuoto. E allora ne approfittiamo per assaggiare i Verdicchio di La Marca di San Michele, che porta il Capovolto 2015 e il PassoLento 2014, in magnum. Capovolto 2015 è quello che non ti aspetti. Annata calda, siccitosa. Ma la vendemmia è stata anticipata di più di un mese, con inizio a fine agosto. E qui si trova la chiave di tutto. Qui non c’è macerazione e non c’è passaggio in legno.
Solo acciaio. E 8 mesi sulle fecce nobili. E’ un vino che esprime il varietale del Verdicchio. Da bere a secchi in estate. PassoLento 2014 è invece il fratello maggiore… inizia la fermentazione in acciaio poi passa in botti di rovere da 10 hl dove finisce la fermentazione e matura per 9 mesi sulle fecce fini. Poi attende altri 9 mesi in bottiglia. E’ molto più complesso e strutturato con un corpo caldo nonostante l’annata fresca, di 13% vol. Un vino che ancora deve evolvere.
Lasciamo le Marche e andiamo in Sicilia, regione rappresentata a La Terra Trema da ben 15 produttori. Nino Barraco e Marilena Barbera fanno da capofila. Barraco schiera una batteria di 10 e forse più vini in degustazione. Uno più buono dell’altro. Merita una nota particolare il rosso Milocca 2006 da vendemmia tardiva di Nero D’Avola. Una perla. Affinato in castagno da 205 litri per 24 mesi. C’e tutto: pepe, cacao, ciliegie, anice stellato. In bocca dolce e sapido, suadente. Tra i bianchi, non si può scegliere. Ognuno ha le proprie peculiarità. Il Catarratto, lo Zibibbo in secco, il Grillo. Sono tutti deliziosi. Acidità e sapidità la fanno da padrona, ma non coprono mai i varietali. Qui Nino Barraco ha trovato la giusta alchimia.
Da Marilena Barbera è facile perdere la testa. Per lei, per il suo amore per il proprio lavoro, per la sua terra. E per i suoi vini. Inzolia 2015 è quasi salmastro. E per Marilena questa è la chiave. Ammette infatti che il sale stimola le papille gustative e le rende più recettive ai sentori. Rendendo la beva molto più interessante e appagante. Ma da Marilena Barbera, quest’anno, c’è una sorpresa: l’Arèmi, blend con una piccola percentuale di Zibibbo. Vino imbottigliato quella stessa mattina, come racconta entusiasta la vignaiola, proprio per portarne un campione alla fiera. Niente vendita. Ma è facile immaginare che chiunque l’abbia assaggiato si sia appuntato il numero della cantina. Per ordinarne un bancale. Un vino che non puoi non amare: fresco, sapido, con quella nota aromatica dello Zibibbo di Menfi, nel sud più profondo.
Lasciamo Marilena Barbera ma rimaniamo in Sicilia. Per una scoperta. 2012 Etna Rosso – Eno-trio, Nerello Mascalese in purezza da vigne a piede franco in contrada Calderara. Versante nord-ovest dell’Etna. E’ amore a prima olfazione.
Età media delle piante: 80-90 anni. Rese da 600g/1kg per pianta. Siamo al top. Affinamento in tonneaux e barrique di secondo, terzo passaggio per 12-18 mesi, più altri 6 in bottiglia. Boom. Naso commovente, con frutto dolcissimo e speziato, ciliegia, china, noce moscata, carbone, fumo e questa dolcezza intossicante che fa pensare alle pesche mature.
Notevole, veramente notevole. Bocca (per fortuna) idem: il tannino morbido accarezza il palato, poi è dolce, setoso e lungo. Poi un Traminer Aromatico, da vigne a 1000m d’altezza sull’Etna. Anche qui siamo su rese bassissime, ma con densità di impianto leggermente superiore al Nerello. Vino elegante, aromatico, delicato. Con note floreali, fruttate e con sentori di spezie. Altra bel prodotto.
Risalendo lo stivale cadiamo nella tentazione di qualche bella bollicina. Di Lambrusco, però. Il vino giusto, per spezzare e preparare il palato ai rossi corposi. Denny Bini è un personaggio da amare. Un Emiliano Doc, di Reggio. La Rosa dei Venti lo puoi bere anche a colazione. Lambrusco varietà Grasparossa, rosato rifermentato in bottiglia. Macerazione di 2 ore senza controllo. Secco, leggermente amaro, con un accenno di tannino. Bellissimo. Ponente 270 Lambrusco dell’Emilia, “come lo si fa a Reggio”, ci racconta. Cinque giorni di macerazione, mischiando tutte le varietà di Lambrusco: Lambrusco Grasparossa, Malbo Gentile, Lambrusco Salamino, Lambrusco di Sorbara. Pieno, ma morbido. Libeccio 225, il suo Lambrusco, il Grasparossa. Qui siamo a 10 giorni di macerazione , il colore lo rivela. Rifermentato in bottiglia. Bel corpo e una bevibilità che non ti stanca mai. Un po’ come La Terra Trema. Imperdibile, l’anno prima. Come l’anno dopo.
Medico per vocazione e sommelier per passione. Mi sono poi riscoperto medico per passione e sommelier per vocazione. Sostieni il nostro progetto editoriale con una donazione a questo link.
L’Oltrepò Pavese e le Stelle. Del vino. Appuntamento imperdibile domenica 7 agosto per i winelovers lombardi a Santa Giuletta, in provincia di Pavia. Dalle ore 18, Tenuta La Tessèra (Casa Rossa, frazione Castello) ospiterà Calici di Stelle, manifestazione organizzata in ogni angolo del Belpaese da Città del vino e dal Movimento Turismo del Vino. Numerose le aziende agricole del territorio pavese che aderiscono all’iniziativa: dalla Cignoli Carlo a La Costanza, da La Travaglina a Lozza Roberto, senza dimenticare Montini, Sangiorgio, Terre Bentivoglio e Borgo Santuletta. Il programma prevede la degustazione guidata dei vini a cura del sommelier Luca Bergamin, che saprà certamente consigliare il vino migliore da gustare con le prelibatezze gastronomiche del territorio. I partecipanti saranno invitati a scattare fotografie dei loro momenti di convivialità per “La Stella di Federica”, concorso organizzato annualmente dall’associazione nazionale dei Comuni vitivinicoli d’Italia, Città del Vino. Per partecipare sarà sufficiente inviare gli scatti all’indirizzo email piscolla@cittadelvino.com. Le tre migliori foto saranno appunto premiate con tanto buon vino. Calici in mano e occhi puntati al cielo, per ammirare le stelle. Un appuntamento fortemente voluto dal sindaco di Santa Giuletta, Simona Dacarro, che ha potuto contare sulla locale Pro Loco Santa Julita, cui sarà affidata la ristorazione. Per maggiori info: Sergio (334.59.87.952) e Francesca (338.38.78.617).
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Dormire “in cantina” e puntare la sveglia “ogni due-tre ore”, per controllare “il colore del rosato” ottenuto da uve Rossese. Che non dev’essere “né troppo rosso, né d’un rosso scialbo”. Problemi con cui solo un viticoltore ligure deve fare i conti. Problemi, per fare i nomi, di viticoltori di Liguria come Luigi Anfossi, trentacinque anni. Rappresentante della quarta generazione di una famiglia d’origine genovese – con influenze inglesi – che nel quartier generale di Bastia d’Albenga, Savona, produce basilico atto a divenire pesto destinato alla grande distribuzione italiana (Unilever). E vini (Vermentino, Pigato, Rossese Riviera Ligure di Ponente Doc e rosato) reperibili sugli scaffali di Esselunga e Carrefour. Un’impresa a conduzione famigliare che può annoverare tra i propri clienti la nota “John Frog”, nome col quale Luigi Anfossi ama chiamare la Giovanni Rana. Ma se è vero che il basilico rappresenta il core business dell’Azienda agraria Anfossi (10 gli ettari coltivati), degna di nota è anche la produzione di vini liguri, ottenuti grazie all’allevamento di 5 ettari di terreno vitato e dalle uve di alcuni conferitori della zona. Per una produzione annuale complessiva che si assesta sulle 70 mila bottiglie.
Un’azienda fondata nel 1919, che si appresta a spegnere entro breve le (prime) cento candeline. Una storia lunga un secolo che vede il suo momento chiave negli anni Ottanta, quando l’impresa agricola viene rilanciata sul mercato italiano ed europeo da Mario Anfossi con la collaborazione del socio piemontese Paolo Grossi. Al figlio Luigi il compito di occuparsi delle sorti del settore vitivinicolo. Diplomato in agraria dopo aver iniziato gli studi al Liceo Classico, Luigi sogna per la propria azienda e per il settore vitivinicolo ligure un futuro luminoso. “La Liguria ha grandissime potenzialità inespresse in questo settore – commenta Luigi Anfossi -. Potenzialità che potremmo alimentare innanzitutto iniziando a valorizzare a livello locale i nostri vini, ottenuti da vitigni autoctoni come il Pigato. Capisco che in un mondo globalizzato come il nostro sia corretto trovare anche in Liguria una selezione sterminata di Gewurztraminer. Ma se si puntasse di più sulla promozione dei vini locali, raccontandone la storia anche ai turisti nelle varie attività del lungomare, sono sicuro che ne trarrebbe grande beneficio tutta l’economia locale”. D’altronde “quanti liguri sanno come mai il Pigato si chiama così?”, chiede ironicamente Luigi Anfossi, alludendo alle “macchie” presenti sull’acino di questa straordinaria varietà autoctona della Liguria.
LA DEGUSTAZIONE Il Pigato dell’Azienda agraria Anfossi, esprime tutta la ‘semplice complessità’ dei vini liguri. Di facile beva per i suoi richiami fruttati freschi, eppure tutto sommato ‘impegnativo’ per il suo corpo e la sua struttura, tutt’altro che banale. Morbido al palato, è capace di sorprendere con quella punta amara che risveglia i sensi, in un finale sapido che preclude un retrogusto amarognolo, stuzzicante, da sgranocchiare come le nocciole tostate. Un vino dall’ottimo rapporto qualità prezzo, insomma, da pescare tra le corsie degli store del marchio Caprotti a una cifra che si aggira solitamente attorno agli 8 euro. Non presente in Esselunga, ma comunque apprezzabilissimo, il Vermentino ligure di Anfossi. Meno impegnativo del Pigato, ancora più soave nei richiami fruttati, strizza l’occhio a un consumatore meno esigente di quello che preferisce il Pigato. Un Vermentino da regalarsi nelle giornate di sole, da abbinare a piatti di pesce o di carne bianca non troppo elaborati. Meno profumato, invece, il naso del rosato Paraxo 2015 Anfossi: classificato come vino da tavola, ottenuto come anticipato da uve Rossese rimaste a contatto con le bucce non oltre le 24 ore, soddisfa nell’abbinamento con piatti della tradizione come il coniglio alla ligure. Al palato sfodera infatti la buona struttura del Rossese e una complessità aromatica non banale (13% di alcol in volume). La degustazione si chiude con l’ottimo Rossese in purezza, l’unico vino rosso prodotto dall’Azienda agraria Anfossi di Bastia di Albenga. Uno di quei rossi non convenzionali, capaci di esprimere il meglio della terra di provenienza. Il Rossese Anfossi parla infatti – al naso – di resine di macchia mediterranea, in un concerto di piccoli frutti a bacca rossa. Corrispondente al palato, non manca un finale di buona persistenza. Un vino da assaporare sia con il pesce (provare per credere, per esempio con un piatto di tonno in crosta di pistacchio) sia con la carne (ben cotta). Il segreto dei vini Anfossi? Lo spiega Luigi. “Non possiamo contare su terreni in altura – commenta – ma abbiamo la fortuna di avere una grande vigna in prossimità del fiume Centa, qui ad Albenga. Viene così assicurata una buona escursione termica. In futuro mi piacerebbe comunque sperimentare qualcosa di nuovo, magari attraverso macerazioni prolungate delle uve per ottenere vini più longevi”. Segreti e progetti per il futuro di un viticoltore ligure pieno di idee. Una storia, quella di Anfossi, destinata a continuare a lungo.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Slow Food Piemonte e Valle D’Aosta fa centro, un’altra volta. Si è conclusa con un successo la grande domenica tra le cantine della Doc Colli Tortonesi, lo scorso 19 giugno. Quatar Pass per Timurass, quarto appuntamento del ricco programma di Cantine a Nord Ovest, ha visto la partecipazione di 210 persone. E mentre la macchina organizzativa di Slow Food è già all’opera per il prossimo appuntamento (il 23 luglio per “Scopri il Canelli”, incentrato sull’Oro Giallo, il Moscato d’Asti) Leo Rieser, responsabile eventi della banda piemontese della chiocciola, gongola per il risultato raggiunto. “E’ stata l’edizione di Quatar Pass per Timurass di maggiore successo – evidenzia – pur essendo questo appuntamento uno dei meno storici dell’intero candelario. Abbiamo incontrato persone che erano già state qui nelle edizioni precedenti, a dimostrazione della grande attrattività di questo territorio, che oltre al Timorasso offre grandi vini rossi e specialità gastronomiche eccezionali, come il formaggio Montebore e il salame Nobile del Giarolo”. Un ‘microclima’ particolare, dunque, anche per i rapporti tra viticoltori. “La peculiarità dei Colli Tortonesi – sottolinea Rieser – è che l’esponente d’eccellenza Walter Massa ha saputo recuperare un vitigno autoctono come il Timorasso e creare, assieme ad altri grandi pionieri della zona, un sistema di sincera collaborazione tra viticoltori. Una collaborazione fattiva, tutt’altro che di facciata. Non so quanto sia sincera o puramente provocatoria la dichiarazione che nel 2018 smetterà di fare vino, a voi rilasciata. Quello che mi sento di dire – conclude l’esponente Slow Food – è che qualsiasi cosa farà, la saprà fare benissimo. Walter Massa è un grande, non hai mai sbagliato un colpo. Ma è anche l’uomo dei grandi annunci, dunque staremo a vedere”.
CLAUDIO MARIOTTO
Non è iniziato da Walter Massa il tour di vinialsupermercato.it tra le cantine dei Colli Tortonesi. Bensì da un altro grande riferimento della zona: Claudio Mariotto. Lo abbiamo raggiunto nella cantina di strada per Sarezzano 29, proprio a Tortona, dopo aver ritirato il nostro calice al banchetto Slow Food allestito presso “Il Dì Cafè” di corso Leoniero, angolo piazza Duomo. Grande ressa già alle 11 alla cantina di Mariotto. “Il Timorasso – dichiara il viticoltore – ha fatto sì che un territorio pressoché sconosciuto avesse visibilità. Oggi il Timorasso è a New York, Tokyo, Londra e in tutto il mondo. in vigna l’attività viene portata avanti nel rispetto dell’ambiente, senza entrare però nella partitocrazia del mondo del vino di oggi: mi riferisco alle bandierine del ‘biologico’ o del ‘vino etico’. Facendo vino buono, senza avere soldi per fare pubblicità, si diventa dei riferimenti: il marketing nel vino si fa con le bottiglie buone, bicchiere dopo bicchiere. In una parola, il mio vino è vero”. Oltre a uno splendido Derthona 2010, vino delizioso che promette ancora parecchi anni di evoluzione in bottiglia, degustiamo Pitasso 2004: ottenuto dalla vigna storica di Timorasso, esposta a sud est sul territorio di Vho, colpisce per la potenza espressa dalla struttura, ma anche per le note fruttate che esaltano una beva lenta e voluttuosa, in un sorso che pare di glicerina pura. Le radici profonde della vecchia vecchia pescano gli elementi nutritivi da un suolo che regala un’espressione fantastica di Timorasso, da provare. Ottimi anche i rossi di Mariotto. La Freisa 2014 Braghé è un esempio di quanto questo antico vitigno autoctono piemontese possa essere (anzi debba essere) ulteriormente valorizzato in Italia e nel mondo. Un naso elegante e fine di rosa e piccole bacche rosse, precede un palato in cui le note fruttate di marasca e lampone – chiare, distinte, pulite – chiudono un sorso di grande corpo e sapidità. Chiudono il cerchio i vini Barbera di Mariotto, vero trait d’union di un terroir capace di regalare grandi bianchi, ma anche eccellenti rossi. Non a caso Poggio del Rosso è il vino preferito del viticoltore tortonese, quello che considera la migliore espressione della sua intera produzione. E non solo per una questione di cuore, dal momento che “Il Rosso” è il soprannome col quale veniva chiamato il padre Oreste. Il Poggio del Rosso affina 3 anni in cantina, per la maggior parte in rovere. Risulta così un vino dal tannino morbido ma vivace, impreziosito da note di ciliegia e cioccolato. Sentori terziari di grande pregevolezza già percepibili al naso: dalla cannella al tabacco dolce, dal caffè alla liquirizia.
LA COLOMBERA
Non è dello stesso impatto “emotivo” la visita all’azienda Agricola Semino Piercarlo “La Colombera” di strada comunale per Vho, 7, a Vho per l’appunto. Degustiamo Derthona e Il Montino, entrambi ottenuti da uve Timorasso. Viene proposta una mini verticale che mette in luce le grandi capacità di invecchiamento del vitigno, anche se i prodotti de La Colombera paiono meno ‘pronti’ in gioventù rispetto ad altri degustati domenica 19 in zona Tortona. Le annate 2014 e 2013 suggeriscono di bere Cortese piuttosto che Timorasso, per trovare soddisfazioni immediate sia al naso sia al palato. Merita invece una menzione il Derthona 2009: caldo, complesso, finalmente corposo e strutturato. Capace di regalare i tipici idrocarburi e sentori minerali del vitigno. Lascia perplesso il prezzo di vendita della vendemmia 2009 Derthona: soli 9 euro, a dispetto degli 8 euro delle vendemmie ‘giovani’. In una zona vinicola capace di fare squadra come in poche altre in Italia, una tale disparità di prezzi tra le stesse annate di diversi produttori rischia di sconcertare il consumatore. E deviarlo verso la ricerca del prezzo, più che della qualità. Un punto, questo, su cui devono lavorare in concerto i produttori di Timorasso, pur nell’autonomia delle singole aziende vitivinicole. Alla Colombera apprezziamo anche il naso di Suciaja, rosso ottenuto da uve Nibiò, vitigno autoctono dei colli tortonesi, ‘parente’ del Dolcetto. Ottimo invece nel complesso Arché 2011, altro vino rosso de La Colombera, ottenuto questa volta da uve Croatina. Dopo un breve appassimento sulla pianta, i grappoli vengono raccolti e vinificati. Il vino matura 14 mesi in tonneaux, regalando un naso speziato (pepe) e di piccoli frutti a bacca rossa. Al palato buona la struttura e il corpo: tannino piuttosto elegante e alcolicità sostenuta (14,5%) ma tutt’altro che fastidiosa, impreziosita da una sapidità non banale.
WALTER MASSA Il filosofo del vino, il pioniere e marinaio che ha condotto Tortona a Hong Kong, passando per Londra, New York e Tokyo. Dire Timorasso senza citare Walter Massa è come parlare di calcio senza aver mai toccato un pallone. Lo raggiungiamo all’ora di pranzo nel suo quartier generale di piazza Capsoni 10, a Monleale. Quando arriviamo, Massa sta dicendo messa. E’ al centro di una lunga tavolata, affollata di ospiti che lo ascoltano come se stesse parlando il Messia. Perché Walter Massa è il verbo del Timorasso e il Timorasso è il verbo di Walter Massa. Per questo, chi non c’era, provi a portarsi a casa un Costa del Vento (dalla vendemmia 2014 in giù, finché il portafogli lo consente); o uno Sterpi 2013, un Timorasso che pare per certi versi Vermentino di Gallura. “Io prendo quello che la natura mi dà e cerco di portarlo in bottiglia”, dice Walter Massa mentre invita Pigi, la sua graziosa “badante”, a smettere di riempire i piatti di cassoeula e brodo con i ceci: “Sono qui per il vino, mica per mangiare!”. “Qui abbiamo l’acqua ligure, il vento piacentino, ma ci troviamo in Piemonte: siamo bastardi pieni”, scherza (ma non troppo) Massa, sollevando l’ilarità generale. E tra un sorriso e l’altro spuntano i vini rossi. E che rossi. Pertichetta 2010, 14,5%, ottenuto da uve Croatina, e soprattutto Bigolla 2001, 14,5% di Barbera granata, da definire con una sola parola: eccezionale.
OLTRETORRENTE Dal mito alla new entry. Il passo è breve tra i Colli Tortonesi. Approdiamo così in via Cinque Martiri, a Paderna, dove Chiara Penati e Michele Conoscente, marito e moglie di 35 e 38 anni, sono espatriati da Milano per inseguire il loro sogno, dopo la laurea in Agronomia e diverse esperienze in aziende del settore. Tutto inizia nel 2010, con l’acquisto dell’attuale cantina su tre piani, un edificio storico nel centro del paese, parzialmente ristrutturato. Vengono condotte qui nei primi anni, per la vinificazione, le uve provenienti dal primo ettaro e mezzo di Oltretorrente, che prende il nome “da un romantico episodio di resistenza nell’omonimo quartiere di Parma – spiega Chiara – durante il ventennio fascista: alcuni abitanti, grazie a fantasiosi espedienti, fecero credere di essere armati fino ai denti, barricandosi in un palazzo e scacciando così le milizie. Un episodio che dimostra come, a volte, basta poco per fare le cose in grande e raggiungere grandi obiettivi”. In effetti la produzione di Oltretorrente è degna di nota. Oggi l’azienda può contare su un’altra struttura, sempre a Paderna, in grado di sostenere la lavorazione dei 3,5 ettari complessivi sin ora acquistati. “Si tratta di vigne vecchie – spiega Chiara – dai 20 anni ai 100 anni, con una media di 60”. Un aspetto fondamentale per comprendere la maturità di questa piccola ,e interessantissima realtà. In degustazione non troviamo (purtroppo) una grande varietà di prodotti. L’antipasto è il Cortese 2015, ottenuto dalla pressatura soffice delle uve intere, seguita da un affinamento di 8 mesi in acciaio sui propri lieviti, senza malolattica. Un’attenzione che offre un ottimo naso, fragrante, floreale e fruttato. Al palato vince invece lo spunto minerale, apprezzabilissimo. Sorprendente il Timorasso 2014, che regala note eleganti di fiori bianchi (camomilla). Al palato grande acidità e bel corpo, sorretto anche da una sapidità e da una mineralità che fanno presagire le grandi potenzialità del prodotto. Sulla via di una buona evoluzione anche il Timorasso 2013, l’unico in occasione di Quatar Pass a mostrare venature di uva passa e frutta candita. Buoni prodotti anche i due Barbera dei Colli Tortonesi, con quella Superiore (vendemmia 2012) che si eleva nettamente sulla prima per la grande pulizia delle note fruttate, sia al naso sia in bocca, impreziosite dalle spezie (liquirizia) e da un tannino levigato. “Accorpando vigne di anno in anno – annuncia Chiara – non siamo ancora riusciti a certificarci come produttori biologici, ma questo è il progetto per il futuro”.
POGGIO AZIENDA VINICOLA
Un capitolo a parte merita l’azienda vincola Poggio di Vignole Borbera, sempre in provincia di Alessandria ma all’estremo confine con la Liguria: per intenderci, siamo a pochi chilometri dall’outlet dell’abbigliamento di Serravalle Scrivia (buon motivo per combinare le due visite). Ci troviamo nella preziosa sottozona delle “Terre di Libarna”. Ezio e Mary Poggio, fratello e sorella, lui enologo, lei farmacista, rappresentano la terza generazione di una famiglia che vive nel mondo del vino da 50 anni, che da circa 15 anni ha iniziato a produrre in proprio, appoggiandosi anche su una filiera di piccole aziende agricole limitrofe, alcune delle quali condotte da giovani viticoltori. “Il Timorasso nasce qui come vitigno, in Val Borbera – sottolinea Mary – poi è stato portato nel Tortonese. A un certo punto scomparve per via delle malattie della vite e dello spopolamento delle valli, con gli abitanti della zona attirati dalle industrie, nelle grandi città come Genova, nel dopoguerra. Negli anni 90 Walter Massa ha avuto il merito di cominciare la riscoperta di questo autoctono. Noi siamo arrivati un po’ più tardi, nel 2002, avviando la produzione”. Nella Valle Borbera e nella limitrofa Valle Spinti, negli anni 40, c’erano 275 ettari di vigneto, tutti persi. Oggi in produzione ce ne sono una decina, tutti inseriti nella sottozona Terre di Libarna della Doc Colli Tortonesi. Quella della famiglia Poggio è stata una scommessa: “Abbiamo iniziato a impiantare Timorasso nella speranza che di lì a pochi anni fosse riconosciuta la Doc, altrimenti avremmo dovuto estirpare – sottolinea Mary -. Fortunatamente l’abbiamo ottenuta e abbiamo deciso di chiamare questa sottozona ‘Terre di Libarna’ in onore del sito archeologico di Libarna, che si trova a 4 Km da noi: un’antica cittadella romana, del II secolo avanti Cristo, che godeva di una fiorente viticoltura in Val Borbera e Spinti”.
I vigneti del Poggio si trovano tutti a un’altezza compresa tra i 450 ai 550 metri sul livello del mare. Le viti, come nel Tortonese, affondano le radici in un terreno argilloso e calcareo. Ma le grandi escursioni termiche permettono di produrre un Timorasso da degustare a tutti i costi. Diverso da quello di Tortona e Vho: un Timorasso dall’acidità ancora più spiccata. Con una gradazione alcolica inferiore anche di due gradi rispetto alla media tortonese, che si aggira sui 14 – 14,5%, compensata però da una balsamicità magicamente avvolgente. I risultati ottenuti dal Poggio dalla prima vendemmia del 2008, fa pensare ai coraggiosi Ezio e Mary che avrebbero potuto produrre con successo anche una versione spumantizzata. Ed è così che nel 2010 nasce Lusarein, ottenuto in purezza da uve Timorasso, raccolte precocemente, ottenendo una “base” da 11,5 gradi. Uno charmat d’autoclave lunga (6 mesi), imbottigliato a 12,5 gradi. Di colore giallo paglierino con riflessi verdognoli, Lusarein sfodera una spuma leggera con perlage fine e persistente. Al naso note minerali e agrumate. In bocca una sapidità piuttosto spiccata, cui fa eco un’acidità notevole: caratteristiche che invitano al sorso successivo, che si chiude con un retrogusto amarognolo. Ottimo come aperitivo, può essere abbinato a primi e secondi di pesce, ma anche alle carni bianche. Di Lusarein 2014 sono state prodotte 4 mila bottiglie. Ottimi, del Poggio, anche L’Archetipo e il Caespes, ottenuti sempre da uve Timorasso 100%. Caespes è il base, di cui degustiamo l’annata 2014, già pronta a sorprendere per la grande acidità che regala una beva facile, ma tutt’altro che banale. Si sale ulteriormente di livello con L’Archetipo 2013, dalla notevole vena balsamica, che diventa ancora più profonda e fresca nella vendemmia 2011, davvero degna di nota. Tutti vini ottenuti da rese per ettaro basse, sotto i 50 quintali. Un numero che, per la vendemmia 2015, è sceso addirittura a 35 quintali. Diciottomila le bottiglie prodotte complessivamente dal Poggio, tutte all’insegna di una grande qualità.
AZIENDA AGRICOLA RICCI
Di grande pregio anche la produzione dell’azienda Azienda Agricola Ricci, situata in via Montale Celli 9, Costa Vescovato. Una realtà alla quale ci siamo avvicinati in occasione del Vinitaly 2015. Carlo Daniele Ricci, il titolare, si è ormai specializzato nella produzione di un Timorasso senza pari. Il viaggio tra i sapori (e i colori) di questo uvaggio inizia con Terre del Timorasso 2013, vinificato in acciaio. Vino di un giallo dorato, sfodera un naso non particolarmente intenso, preludio tuttavia di un palato caldo e persistente. Si passa dunque a San Leto 2009, ottenuto mediante fermentazione e affinamento in acacio. San Leto 2006 stupisce per l’intensità olfattiva, che sfiora le tinte balsamiche. Giallo di Costa 2011 scorre nel calice tingendolo di un ambra allettante, che in bocca diventa piacere puro, tanto risulta morbido e rotondo il nettare, nonostante il calore dei suoi 14 gradi di alcol in volume. Giallo di Costa 2007, è l’eleganza fatta vino. E San Leto 2004 la ciliegina su una torta di una produzione di altissimo livello. “Lavorare bene in vigna – commenta il produttore Carlo Daniele Ricci – è il primo passo per ottenere vini di grande equilibrio. Conosco ogni singolo componente dei terreni che coltivo, avendo effettuato per anni delle ricerche accuratissime che mi permettono di capire come sarà il vino ancor prima di produrlo. Nell’area di produzione del Timorasso c’è grande rispetto per l’ambiente e unità tra produttori. Siamo partiti come carbonari, contro tutti i commercianti di vino e le cantine sociali. Dopo 20 anni di fatiche e battaglie, possiamo finalmente affermare che il territorio ce l’abbiamo in mano noi, produttori attenti alla terra e all’ambiente”. Quale immagine migliore per la Doc Colli Tortonesi?
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
E’ una salita fra gli alti cipressi, tanto ripida quanto romantica, a condurre all’azienda agricola Col di Bacche. Siamo a Magliano in Toscana, piccolo comune in provincia di Grosseto. E quell’irto, faticoso cammino, che conduce al punto più alto di strada di Cupi, nella piccola frazione di Montiano, è il simbolo più fulgido dell’avventura di Alberto Carnasciali e Franca Buzzegoli. Marito e moglie, uniti anche nella cantina fondata nel 1998. Anno in cui Alberto Carnasciali si sfila di dosso l’abito da imprenditore edile e decide di sognare ad occhi aperti. Dando vita a Col di Bacche. La prima vendemmia, nel cuore delle terre del Morellino di Scansano, risale al 2001. Sono passati 15 anni, ormai. Quindici anni che hanno incoronato Col di Bacche tra le cantine dell’Olimpo Toscano del vino. Ne è consapevole Franca Buzzegoli, che ci accoglie in cantina con la fierezza di chi sa d’aver svoltato. Non solo nella vita. “Noi siamo di origine chiantigiana – spiega – nati e vissuti nel Chianti fino alla fine degli anni Novanta, quando abbiamo deciso di cominciare questa avventura in Maremma. Mio marito era titolare di un’impresa edile e, anche per questo, sapevamo che intraprendere un’attività nel settore vitivinicolo nella nostra zona era molto complicato. Ma abbiamo sempre bazzicato in Maremma. Quando siamo arrivati qui, non c’era niente. O meglio: c’era un poggio vuoto, che faceva parte di un podere. Ci piacque tantissimo questa location e così l’acquistammo. Nel ’98 impiantammo i primi vigneti. Poi – prosegue Franca Buzzegoli – costruimmo l’annesso agricolo che oggi ospita la prima cantina. Nel 2001 gli ultimi vigneti, che hanno subito reso troppo piccoli i locali per la vinificazione. Diciamo che ci siamo fatti prendere un po’ la mano! E così, tra il 2004 e il 2005, abbiamo realizzato la cantina attuale, trasformando la prima cantina in sala per le degustazioni e adattandola ad altre funzioni”. Sessantanni lui, cinquantadue lei. L’età giusta per sognare, ancora. Sin dagli albori, Col di Bacche si avvale dell’esperienza dell’enologo Lorenzo Landi, che assieme ad Alberto Carnasciali, sommelier Ais, impianta ad uno ad uno quattordici ettari totali di terreno. Si tratta principalmente di Sangiovese. Ma anche di Syrah e Cabernet Sauvignon. Nella parte bassa dell’azienda, dove il Sangiovese non maturerebbe bene, i coniugi Carnasciali decidono di allevare Merlot. Una scelta più che mai azzeccata. Il riscontro di critica e mercato di Cupinero, Merlot Igt Maremma Toscana, è sin da subito eccezionale. Il vero e proprio fiore all’occhiello dell’azienda agricola Col di Bacche. Un Merlot impiantato a cordone speronato alto, con sistema fogliario libero di crescere sulla ‘testa’ del grappolo. Accorgimenti che evitano a un vitigno precoce nella maturazione di assumere sentori di confettura che poco avrebbero a che fare con la ricerca di eleganza e finezza di Cupinero. Ma il vero segreto della ‘chicca’ di casa Col di Bacche è il ruscello che scorre a pochi metri dal Merlot. Garantendo un’efficace e benevola escursione termica.
LA FILOSOFIA Terreni ricchi di scheletro e sabbiosi, situati dai 120 ai 230 metri sul livello del mare, sono l’habitat dei vini di quest’azienda agricola toscana che fa della riduzione delle rese del vigneto un vero dogma. “Prendiamo ad esempio il Morellino di Scansano – commenta Franca Buzzegoli -. Il disciplinare ci consentirebbe una resa di 90 quintali per ettaro, mentre noi lo produciamo a 60-70. I nostri sono vini territoriali che aspirano a dimostrare come in Maremma si possano ottenere produzioni molto interessanti, pur non essendo la zona nota al grande pubblico, come quella del Chianti. In Toscana ci sono denominazioni più prestigiose rispetto a quelle maremmane, ma non è detto che tutte le aziende che operano in contesti prestigiosi lavorino secondo il principio della qualità. Quello che noi cerchiamo invece di fare quotidianamente”. Ogni anno, Col di Bacche sforna dai suoi 14 ettari di vigneti circa 60 mila bottiglie annue. Il Morellino ‘base’ costituisce il cuore della produzione, assestandosi sul 40%. Seguono Morellino Riserva, Merlot e, da quattro anni, Vermentino di Toscana. Prodotto inizialmente acquistando uve da terzi, Col di Bacche si è resa nel tempo autosufficiente, impiantando appositi vigneti: neppure un ettaro, che garantisce una produzione di circa 5.500 bottiglie l’anno. “Un bianco che sta andando molto bene – evidenzia Franca Buzzegoli – ottenuto da due particelle che non sono esattamente adiacenti al resto dell’azienda agricola, ma che si trovano in un’ottima posizione, con un’ottima esposizione”. Il mercato di Col di Bacche si svolge per il 65% in Italia. Il business funziona, ma Franca Buzzegoli non risparmia qualche stoccata al ‘sistema’. “In questa zona – evidenzia la ‘donna del vino’ – lottiamo con il fatto che quella del Morellino di Scansano è una denominazione che si è un po’ fermata negli ultimi anni. Grandi aziende sono venute qui a investire da tutta Italia, ma gli sforzi economici compiuti non sono affatto ricaduti sul territorio, o sulla valorizzazione della denominazione di origine controllata e garantita. I prezzi, anche a causa dell’arrivo di questi colossi, sono al ribasso. E non è facile competere. Fare vino in Toscana è un privilegio, pone in una situazione di intrinseca superiorità rispetto ad altre regioni italiane – ammette Franca Buzzegoli – soprattutto quando si va a proporre i propri vini nel mondo. Ma a livello di Consorzio si potrebbe fare ancora di più, soprattutto nelle politiche che riguardano gli imbottigliatori. Così come si potrebbe fare di più a livello di promozione del territorio, che è basata principalmente su pochi eventi, tutti molto costosi per le aziende e, per questo, sempre appannaggio dei soliti pochi noti”. Il futuro di Col di Bacche è comunque luminoso, con il figlio 24enne, laureando in Storia dell’Arte, pronto a rimboccarsi le maniche in un settore diverso da quello degli studi. Eppure così affine: un buon vino, non è forse un’opera d’arte?
LA PRODUZIONE COL DI BACCHE La degustazione, guidata da Franca Buzzegoli, inizia come si consueto bianco. In questo caso con il Vermentino Igt Toscana 2015. Le uve vengono vendemmiate nel corso della prima decade del mese di settembre. La vinificazione avviene in acciaio, a temperatura controllata. Il Vermentino Col di Bacche affina per 6 mesi, sempre in acciaio. Prima della commercializzazione, un ulteriore affinamento in bottiglia. Ottimo per l’aperitivo, il Vermentino Col di Bacche si abbina a piatti di pesce e carne bianca. Franca Buzzegoli propone poi l’assaggio del Morellino di Scansano 2014. La vendemmia del Sangiovese (90%) e degli altri vitigni a bacca nera (un 10% tra Syrah, Cabernet Sauvignon e Merlot) avviene tra la seconda metà di settembre e la prima settimana di ottobre: una vendemmia verde, in corrispondenza dell’invaiatura. La fermentazione si compie a temperatura controllata, per 20 giorni. L’affinamento è affidato all’acciaio per il 60% del vino; la parte restante matura in barriques di terzo e quarto anno. Un passaggio, questo, che rende il Morellino ‘base’ Col di Bacche apprezzabile con le sue caratteristiche peculiari anche a distanza di qualche anno dall’imbottigliamento. La grande centralità del frutto nella beva e la particolare attenzione alla pulizia negli esercizi di cantina sono palpabili e completano un quadro più che apprezzabile. Perfetto con i primi saporiti della cucina tradizionale toscana, si fa apprezzare a tutto pasto e con formaggi salati, di media stagionatura. Saliamo i gradini dell’eccellenza con Rovente 2012, il Morellino di Scansano Riserva Col di Bacche. Un prodotto ottenuto da un 90% di Sangiovese addizionato a un 10% di Syrah, vendemmiati tra la seconda metà di settembre e la prima settimana di ottobre da vigneti che registrano una resa di 55 quintali per ettaro, diradati sino al 50% in corrispondenza dell’invaiatura, ovvero nel periodo in cui gli acini iniziano ad assumere il colore tipico dell’uva. La vinificazione prevede una diraspapigiatura soffice e una fermentazione alcolica in serbatoi di acciaio inox a temperatura controllata, variabile tra i 28 e i 30 gradi. Continui rimontaggi e délestages precedono la macerazione sulle bucce, che si prolunga tra i 18 e i 21 giorni. L’affinamento del Rovente avviene in barriques di rovere francese, in parte nuove e in parte usate, per circa 12 mesi. Un ulteriore affinamento in bottiglia anticipa la commercializzazione. E sul mercato finisce un vino dall’ottimo rapporto qualità prezzo (13 euro all’horeca), con note fruttate fresche intense impreziosite da una delicata speziatura, un tannino elegante e rotondo e una capacità di invecchiamento medio lunga. In cucina ama piatti corposi, con cui mettere alla prova la un’ottima struttura: la cacciagione e i formaggi stagionati sono solo alcuni degli abbinamenti utili a valorizzare Rovente. Nella ‘verticale’ della produzione Col di Bacche, ecco arrivati a Cuponero, l’indicazione geografica tipica Maremma Toscana, vero fiore all’occhiello della vinicola di Magliano. La base (90%) è costituita come detto dal fortunato Merlot, cui viene aggiunto un 10% di Sauvignon: una percentuale variabile di anno in anno. La vendemmia proposta è la 2011, in grande forma già all’esame visivo col suo rosso rubino intenso. Al naso, alle note di frutta rossa fa eco un fresco sottobosco, invitante. Corrispondente al palato, regala un elegante e persistente finale. La vinificazione di Cupinero comincia dall’attenzione riservata agli acini durante il loro sviluppo. Le uve subiscono una diraspapigiatura soffice e una fermentazione alcolica in serbatoi di acciaio inox, a temperatura controllata variabile tra i 28 e i 30 gradi. Si cerca di favorire l’estrazione delle sostanze fenoliche con rimontaggi e délestages, prima di una macerazione sulle bucce della durata variabile tra i 18 e i 21 giorni. L’affinamento di Cupinero prevede l’utilizzo di barriques di rovere francese, in parte nuove ed in parte usate. Dura circa un anno. Alcuni mesi di ulteriore affinamento in bottiglia regalano agli amanti del Merlot (ma non solo) un’espressione unica del vitigno. L’espressione maremmana. Tutto da provare anche il Passito di Sangiovese Col di Bacche, ottenuto col classico metodo dell’appassimento delle uve al sole, cui viene fatto seguire l’affinamento in barrique. Ottima anche la grappa Riserva di Merlot, distillata dalle vinacce di Cupinero e affinata per 18 mesi in barrique.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
(3,5 / 5)Ottimo rapporto qualità prezzo per il Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg 1 Lucrezia della nota cantina Aneri. Non difficile, soprattutto dopo le feste natalizie appena trascorse, trovarlo in promozione nei supermercati che lo distribuiscono. Si tratta di un Brut Millesimato. Ovvero di uno spumante con un residuo zuccherino inferiore a 12 grammi per litro, dunque “Brut” ovvero “Secco”; prodotto con uve di una singola annata (vendemmia), detta anche “millesimo”: in questo caso, la 2014. All’esame visivo si presenta di una limpidezza brillante, trasparente, di un giallo paglierino intenso. La grana del perlage è mediamente fine e dà vita a un’effervescenza persistente, longeva. All’olfatto, il Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg 1 Lucrezia si rivela intenso, schietto, fine. Spumante complesso, regala al naso sentori di acacia, mela e fiori di campo. Al palato è equilibrato, con sapidità e acidità ben bilanciate: fresco, secco, rotondo, di giusta alcolicità (11%), in quadro di buon corpo e struttura generale. Un Prosecco intenso, fine e persistente, che si fa apprezzare con piatti a base di pesce e crostacei, ma anche come semplice aperitivo. La vinificazione prevede, per le caratteristiche intrinseche dell’uva – dagli acini piccoli e dorati – la rifermentazione in grandi recipienti. Viene prodotto per Aneri di Legnago (Verona) dalla Ca.Va.-S.a.c. di Valdobbiadene con uve dell’azienda agricola Eden di Susegana, provincia di Treviso. Per la vendemmia 2014 sono stati conferiti 61.886 chilogrammi di uve, ottenendo una produzione di 43.320 litri di Valdobbiadene Docg, ovvero circa 64.400 bottiglie.
Prezzo pieno: 8-9 euro
Acquistato presso: Esselunga – Il Gigante
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(4 / 5) Etichetta curiosa quella del Dolcetto d’Alba Cantina del Parroco Azienda San Michele, che opera a Neive, nel pieno della zona di produzione del Barbaresco, in provincia di Cuneo, Piemonte. La cantina San Michele, di fatto, è quanto lasciato in eredità dall’Arciprete Don Giuseppe Cogno, Parroco di Neive, che nel 1973 diede vita assieme ad altri tre viticoltori del paese a una cantina che aveva come scopo “la produzione di grandi vini a prezzi altamente competitivi”. Oggi finisce sotto esame il Dolcetto d’Alba dell’annata 2014. Nel calice si presenta di un rosso rubino intenso. Al naso evidenzia le caratteristiche note floreali di geranio, ciclamino e viola. Presente anche una componente olfattiva fruttata, che richiama le fragoline di bosco e la mora. Curioso come questa bottiglia regali all’olfatto anche una percezione inaspettata per il vitigno Dolcetto: parliamo dello zafferano, che si riesce a percepire quando il vino si apre completamente nel calice. Al palato, il Dolcetto d’Alba Cantina del Parroco risulta invece didattico, con richiami alla mora, alle fragoline di bosco e al lampone, con finale ammandorlato tendente all’amarognolo e lievemente speziato (liquirizia dolce). Una bottiglia da consumare a tutto pasto, dagli antipasti di salumi ai primi e alle portate di carne non troppo elaborate. E’ Claudio Cavallo a spiegare come si ottiene questo vino: “La tecnica di vinificazione – dichiara l’enotecnico dell’Azienda San Michele – è quella classica, in acciaio inox, a temperatura controllata, che oscilla tra i 27 e i 28 gradi. I rimontaggi avvengono in maniera regolare, ma non insistita. All’ottenimento dell’estrazione del colore voluto delle vinacce si procede a una svinatura anticipata, per non arricchire troppo il vino attraverso un contatto prolungato con le bucce, mantenendo così i caratteri fruttati e di freschezza tipici del Dolcetto”. Missione più che compiuta.
Prezzo pieno: 9,99 euro
Acquistato presso: Il Gigante
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La signora Luisa esce di casa con un golfino di lana sulle spalle. “Comincia a far davvero freddo”, constata facendosi ancora più piccola, nello stringersi il collo fin dentro le clavicole. In effetti, quella di sabato notte, 21 novembre, è stata la prima timida nevicata sulle colline dell’Oltrepò Pavese. Una spruzzata che domenica pomeriggio imbianca ancora, qua e là, il circondario di San Damiano Al Colle. Regalando a questo paesino di 800 anime della provincia di Pavia posato delicatamente su una collina al confine con Piacenza, un’atmosfera ancora più magica. Col Sole negli occhi, la signora Luisa guarda a destra e a sinistra. Attraversa la strada. E citofona al figlio: “Ti cercano, scendi”. Luigi arriva dopo cinque minuti. Breve scambio di saluti e decidiamo di darci subito del tu, mentre entriamo nella cantina dell’Azienda Agricola Vitivinicola Bagnoli. Di cartelli che indicano l’attività di via Cascina Nuova 7, non ce ne sono sul tragitto. “E’ una nostra scelta – precisa Luigi Bagnoli – dal momento che non vogliamo che entri chiunque, specialmente durante l’estate, quando questa strada è molto battuta dai ciclisti. Chi viene qua, è perché già conosce i nostri vini”. Centro. Avete mai provato un Bonarda senza ‘spuma’, fermo? Un Bonarda da 14 gradi che, dell’originale, conserva la facilità di beva e la piacevolezza degli aromi, ma con tannini ben più evidenti e sentori che richiamano grandi vini passati in barrique? Ebbene, vinialsupermercato.it si trova all’Azienda Agricola Vitivinicola Bagnoli per questo.
BONARDA FERMO IL GIUBELLINO
Si chiama Giubellino ed è il Bonarda fermo da 14 gradi degustato quasi per caso a Mortara (PV), in occasione di un pranzo all’Agriturismo “La Gambarina” di Gianluca Gallina. Uno dei vini “top” della Bagnoli, che serve “per scelta solo l’alta ristorazione e i negozi di gastronomia di alto livello”. Giubellino, di fatto, è molto più di un Bonarda. “E’ il nome di una vigna particolarissima – spiega Luigi Bagnoli – che abbiamo acquistato e vitato negli anni Ottanta. A differenza dei due appezzamenti che la circondano, questa era in precedenza occupata solamente da alberi di ciliegio. Li abbiamo estirpati, lasciando nel terreno migliaia e migliaia di radici, che ancora oggi condizionano in modo unico i profumi elaborati dalla pianta di vite. Per questo Il Giubellino è un Bonarda irripetibile, sotto tutti i punti di vista, con un terreno che imprime un’impronta unica e inconfondibile in ogni annata prodotta”. La raccolta delle uve della vigna Giubellino è lasciata per ultima all’interno dei 21 ettari totali della Bagnoli, situati a un’altitudine che varia tra i 210 e i 260 metri slm. Viene spinta così al limite la maturazione sulla pianta, per consentire la successiva estrazione in cantina di aromi fruttati e, assieme, di un’eleganza impareggiabile, anche grazie a una lenta macerazione delle bucce a temperatura controllata e soprattutto a diversi délestage, al raggiungimento dei due terzi della fermentazione. Nel calice, questo Bonarda (annata 2012) scorre denso e regala note di frutti di bosco in un sottofondo di vaniglia e cannella. In bocca è corposo, grasso, di frutta di bosco che sembra d’assaporare in macedonia più che bere. In un concerto tannico evidente ma che si equilibra alla perfezione con l’armonia delle note speziate, di vaniglia e mentuccia. E’ l’accompagnamento perfetto per i piatti dicarne della tradizione Pavese, come i bolliti, ma anche per brasati, selvaggina, formaggi stagionati e carne rossa in generale. Ma se Giubellino è il re dei vini rossi dell’Azienda Agricola Vitivinicola Bagnoli, Luna Blu è certamente la sua regina bianca.
LUNA BLU
Si tratta di un Riesling Igt, che non sembra Riesling. Non scherziamo: in bocca e al naso ricorda più uno Chardonnay, o un Sauvignon. “La prima vendemmia di Luna Blu – dichiara fiero Luigi – è avvenuta nel 2003. Ogni anno, da allora, ci sorprendiamo per il risultato eccezionale che riusciamo a ottenere”. Il terreno vitato da cui nasce Luna Blu, guarda caso, è un’altra scommessa vinta da Luigi e da suo fratello Fausto con Madre Natura. Si tratta di una vigna in precedenza vitata a Barbera. “Una Barbera che dava risultati ormai abominevoli – spiega Luigi – che quindi abbiamo deciso di estirpare, piantando Riesling. Nel 2003 Luna Blu vantava 13,5 gradi. La produzione 2014 si è assestata sui 12”. E Luna Blu finisce spesso sold-out. La vinificazione avviene in bianco, con macerazione iniziale per alcune ore delle uve ancora integre, in ambiente inerte (azoto), in pressa a membrana. Il mosto ottenuto, dopo essere stato defecato e illimpidito tramite abbattimento termico, inizia a fermentare in autoclave. “Io utilizzo una tecnica poco usata in Italia – spiega Luigi Bagnoli – perché rischiosa. È quella della fermentazione a temperatura e pressione controllata. Questo consente di evitare la dispersione degli aromi primari e mi permette di arrivare a vino finito con un’intensità aromatica notevole. Poi si procede con i normali travasi, sempre in ambiente inertizzato per poi arrivare alla fase dell’imbottigliamento”. Un procedimento che permette di assaporare in questo Riesling aromi freschissimi anche a distanza di oltre un anno dall’imbottigliamento, come nell’annata 2013 da noi degustata. Dunque, re rosso e regina bianca. Non manca nulla alla Bagnoli. Neppure una storia da raccontare.
DAL VINO SFUSO AL CONSUMO D’ELITE
Fino alla fine degli anni Ottanta questo piccolo gioiello incastonato nell’Oltrepò Pavese soddisfaceva appena il sostentamento di Ugo Bagnoli, della moglie Luisa e dei due figli Luigi e Fausto. E se oggi il giro d’affari si assesta su cifre considerevoli (250 mila bottiglie l’anno), lo si deve alla disubbidienza ostinata dei due figli d’arte agli inviti di papà Ugo e mamma Luisa. “I nostri genitori – ammette Luigi Bagnoli – sognavano un futuro a Milano per noi. Volevano che ci laureassimo e che abbandonassimo questo duro lavoro, anche se sono sicuro che oggi, in cuor loro, sono contenti di quello che abbiamo costruito”. Luigi, 47 anni, ragioniere diplomato, e il fratello Fausto, 53 anni, laureato in Economia e Commercio, sul finire degli anni Ottanta si guardano in faccia e capiscono di avere “molto potenziale tra le mani, senza sapere bene come gestirlo”. Innanzitutto viene eliminata la stalla e raddoppiata la superficie vitata, grazie all’acquisizione di terreni e soprattutto alla riconversione in vite di alcuni appezzamenti già di proprietà. “Fiore all’occhiello – evidenzia Luigi Bagnoli – era e rimarrà sempre la vigna del Sabbione”. Un terreno a forma di cupola che sovrasta la cantina, oggi sviluppata su una superficie di 1200 metri quadrati, che può vantare grazie alla sua forma semisferica un’ottima esposizione solare, la massima ventilazione anche nei periodi inverali (non a caso “qui la neve si scioglie una settimana prima che nel resto dei terreni circostanti”) e una composizione chimica fortemente argillosa, perfetta per la coltivazione della vite e in particolare per l’ottenimento di un altro prodotto di punta della Bagnoli, il Barbera Il Sabbione Igt, anch’esso fermo come il Bonarda Il Giubellino.
“Oltre alla consapevolezza di avere terreni straordinari – commenta Luigi Bagnoli – io e mio fratello ci siamo resi conto sin da subito che per distinguerci nel panorama vitivinicolo dell’Oltrepò avevamo bisogno di introdurre innovazioni tecnologiche in cantina”. L’ossessione dei Bagnoli, come quella di tanti altri viticoltori, diventa ben presto quella dell’ossidazione. “A partire dalla fine degli anni Ottanta – spiega Luigi Bagnoli – abbiamo investito cifre considerevoli in macchinari di appurata qualità mondiale, che ci hanno consentito di fare uno straordinario salto dalla vendita di vino sfuso praticata dai nostri genitori alla commercializzazione di vino esclusivamente mediante canali professionali di alto livello. Un salto necessario per contrastare la concorrenza spesso sleale di molti competitor, creandoci una platea di clienti di prim’ordine che non chiedono vino da bere, bensì vino di qualità, prodotto peraltro senza diserbanti in vigna”. Una scelta abbracciata in piena coscienza, che ha portato Luigi e il fratello Fausto a declinare addirittura l’invito di entrare nel mondo della grande distribuzione organizzata, avanzato da un noto colosso di supermercati italiani. Oggi l’azienda Agricola Vitivinicola Bagnoli può contare in cantina su un 70 per cento di macchinari per la vinificazione prodotti in Germania. “Perché i tedeschi sappiamo tutti come sono”, sorride Luigi, “precisi e maniacali come posso apparire anch’io”.
E il macchinario per la pressatura delle uve dotato di puntamento laser di cui dispone la Bagnoli, sembra uscito da un film di fantascienza. Così come è avveniristico il sistema di pompaggio utilizzato per i travasi, sempre tedesco, utilizzato esclusivamente nel settore farmaceutico e chimico. “Viene solitamente utilizzata per il passaggio di sostanze altamente infiammabili – spiega Luigi Bagnoli-. Questa pompa, che assicura dunque la massima delicatezza nel passaggio del mosto durante i travasi, senza alterare minimamente la temperatura, è molto più delicata di quelle utilizzate convenzionalmente nell’industria vinicola e dimostra la nostra particolare attenzione nei confronti della qualità del prodotto finale“. Un prodotto, l’uva, che alla Bagnoli viene accarezzato e coccolato, più che lavorato, sino all’imbottigliamento e al consumo finale. Ed è grazie a questi investimenti che Luigi e il fratello Fausto riescono a portare avanti la cantina, avvalendosi della sola collaborazione di altri tre dipendenti, che si dedicano esclusivamente alle vigne. “Durante la fase di vendemmia – dichiara Luigi – saliamo a circa venti persone, cui chiedo la massima collaborazione ed elasticità, perché da noi non si lavora come dagli altri. Qui si raccoglie manualmente solo al giusto grado di maturazione delle uve, a scalare tra le vigne. Quest’anno, per esempio, quando attorno a me gli altri viticoltori avevano finito di raccogliere, io iniziavo. Ho rischiato molto, ma è obbligatorio rischiare quando il tuo pallino è solo ed esclusivamente il prodotto finale”. La vendemmia 2015, terminata il 13 ottobre, segnerà peraltro l’avvento di un nuovo prodotto.
LE BOLLICINE BAGNOLI
“Si tratta di uno spumante Brut da uve Pinot nero – annuncia Luigi – il cui tratto distintivo sarà l’utilizzo di uve eccezionali, che noi abbiamo deciso di raccogliere piuttosto mature rispetto ai canoni di produzione dello spumante, che richiedendo buona acidità e dunque uve non mature. Per questo spesso si assiste alla smodata introduzione di dosi di solfiti, liqueur de dosage e ‘sciroppi’ vari”. Le bollicine Bagnoli saranno ottenute attraverso il metodo Martinotti Charmat, in autoclave. Ma l’intraprendenza dei titolari li porterà presto a sperimentare, forse già per la vendemmia 2016, lo Champenoise, il metodo classico di rifermentazione in bottiglia, che consentirà di dare una maggiore impronta di unicità alla bottiglia, conferendogli inoltre maggiore longevità. “L’Oltrepò – sostiene Luigi Bagnoli – potrebbe diventare il vero territorio leader del panorama vitivinicolo nazionale, se solo fosse compatto e unito nel lavorare bene. Se ci mettessimo in testa tutti di puntare più sulla qualità che sulla quantità, riusciremmo a creare seri problemi anche a zone rinomate come il Piemonte e la Toscana”. Alla Bagnoli si sogna in grande, insomma. Anche con gli occhi degli altri.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Dall’alto della collina, sulla terrazza panoramica di Cascina San Michele, lo spettacolo è di quelli che mozzano il fiato. Vigneti che si perdono a vista d’occhio, baciati da un Sole che abbraccia l’intero arco alpino. Siamo in provincia di Asti, lungo strada San Michele, sopra Nizza Monferrato. Un antico borgo dove il tempo sembra essersi fermato, se non ci fosse il campanile di una piccola chiesetta a scandirlo di rintocchi.
Qui, il vignaiolo ed enologo Daniele Chiappone ha raccolto il testimone dello zio Armando, classe 1908, fondatore di quella che oggi è l’azienda vitivinicola Erede di Chiappone Armando. Una piccola realtà, che nel mondo globalizzato odierno si potrebbe ascrivere alla fantascienza.
Già, perché accanto a Daniele ci sono solamente il padre e la madre Diliana, oltre alla sorella Michela. In quattro, a dividersi la fatica e il sudore (ma anche le grandi soddisfazioni) di 10 ettari di vigneti di proprietà più 2 in affitto, situati nel circondario di Cascina San Michele.
Dodici ettari di passione, e una bella fetta di coraggio. Alla Erede di Chiappone Armando, mezzo ettaro è dedicato infatti a un vitigno autoctono piemontese, sempre più raro e prezioso: il Freisa d’Asti. Un uvaggio poco noto al ‘grande pubblico’, che regala tuttavia vini rossi fermi di grande carattere e pregio.
Nulla a che vedere, insomma, con quelli che giungono sulle tavole degli italiani grazie alla grande distribuzione organizzata, dove il Freisa è presente nella sua versione vivace (vedi il Duchessa Lia), rinfrescante e di facile beva. Sanpedra è il nome di fantasia che Daniele ha voluto dare alla sua Freisa d’Asti Doc.
Di colore rosso rubino con riflessi granati e viola, regala al naso sensazioni floreali e di erba, ben bilanciate con quelle di spezia. In bocca è un vino rotondo, di gran carattere, con tannini eleganti ed equilibrati. A guidare alla degustazione è praticamente l’intera famiglia Chiappone, nella sala ad hoc di Cascina San Michele.
L’annata di questo splendido Freisa è la 2009, dotata di gran carica alcolica: 14,5%. Delizioso l’accostamento di questa bottiglia alla selvaggina, ma anche alla carne cruda del posto, come l’incomparabile salsiccia di Bra battuta al coltello.
“La filosofia aziendale – spiega Daniele Chiappone – è quella di voler produrre vini di elevatissima qualità e personalità, che rispecchino le caratteristiche di tipicità del territorio. Questo in pratica si traduce in un lavoro meticoloso e tempestivo nella gestione del vigneto e nelle operazioni di vinificazione in cantina. Così facendo si vuole avere sempre il massimo di qualità nel vigneto, in modo da poterlo poi ritrovare in bottiglia”.
Il progetto per il futuro è quello di ampliare la superficie vitata, ma senza snaturare la filosofia ormai più che centenaria dell’azienda. “Seguiamo e seguiremo per la gestione della lotta ai parassiti vegetali e animali della vite un piano agroalimentare regionale di lotta integrata – spiega Daniele Chiappone – che prevede un continuo controllo sull’uso e sui quantitativi dei prodotti di sintesi da parte della stessa Regione Piemonte”.
Alla Erede di Chiappone Armando, oltre al fiore all’occhiello costituito dal Freisa d’Asti, tra l’altro segnalato dalla stessa associazione Slow Food per l’alto livello di qualità raggiunto, si coltivano principalmente Barbera, Dolcetta e Favorita.
Ottimo il Barbera d’Asti superiore Nizza Doc “Ru”, un vino nuovo dal momento che la sottozona di produzione Nizza è nata nel 2000, raggruppando 18 territori comunali con caratteristiche viticole omogenee. La Erede di Chiappone Armando produce poi “Brentura”, un Barbera d’Asti piacevole, con note di frutta fresca e acidità ben bilanciata, in cui spicca la “fruttosità” dei migliori Barbera. Anche il Dolcetto D’Asti “Mandola” è fruttato e presenta la tipica sensazione di mandorla, che conferisce morbidezza alla bevuta.
C’è poi il Monferrato bianco doc “Valbeccara”, che ricorda il Cortese e la Favorita. Ed è possibile trovare anche l’inconsueto rosso da tavola “Stagera”, un passito di Barbera: le uve, dopo un primo appassimento in vigna, vengono raccolte e fatte appassire ancora in cascina.
Ne scaturisce un vino di grande struttura, ottimo per l’abbinamento con i formaggi e la pasticceria. “San Michele” è il nome del vino aromatizzato Barbera Chinato, dolce e amaricante. Chiude il quadro la grappa di Barbera d’Asti Nizza, ottenuta per affinamento di vinacce Barbera Nizza in rovere francese: incredibilmente morbida, al naso regala frutta fusa a note di cacao dolce e vaniglia.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
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