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Enoteche, preoccupazione per bozza nuovo Dpcm 6 marzo su divieto asporto vino

Divieto di asporto del vino dalle enoteche dalle ore 18. La norma, contenuta nella bozza del nuovo Dpcm 6 marzo 2021 che sta circolando in rete e dovrebbe essere approvata entro il 5 marzo, preoccupa Vinarius. L’associazione che raggruppa gli enotecari italiani è già costretta a fare i conti con la stessa misura sino alla scadenza del Dpcm 15 gennaio 2021, attualmente in vigore.

Verrebbe dunque «reiterato l’errore ampiamente denunciato e messo in luce» fin da subito proprio da Vinarius, relativo al divieto di vendita per asporto di qualsiasi bevanda alcolica e analcolica da parte di tutti i negozi specializzati con codici Ateco 47.25.

Siamo seriamente allarmati e increduli – spiega Andrea Terraneo, Presidente Vinarius – all’idea che si possa nuovamente incorrere in quello che è stato in tutta evidenza un equivoco contenuto nel precedente decreto che aveva penalizzato l’operatività delle enoteche, dopo le ore 18.

In effetti le enoteche che hanno il 47.25 non sono enoteche di mescita ma negozi di vendita al dettaglio esattamente come la Grande distribuzione organizzata (i supermercati, ndr), gli alimentari non specializzati, fruttivendoli, macellerie che giustamente non sono stati colpiti da questa norma».

Un equivoco sottolineato alla Camera anche dall’onorevole Andrea Dara (Lega-Salvini premier), attraverso una interrogazione parlamentare. «Aveva fatto ben sperare gli enotecari italiani la risposta del ministro Patuanelli – sottolinea Vinarius – il quale ha dato prova che si fosse trattato di una svista».

Anche il senatore Gian Marco Centinaio (Lega Nord), ex ministro dell’Agricoltura, ha chiesto lumi sulla questione al governo. Ma i tempi al Senato, anche per l’inizio della crisi di governo, non hanno ancora visto la calendarizzazione dell’interpellanza.

Il Dpcm 16 gennaio mette Enoteche contro Supermercati. Vinarius: «Noi discriminati»

Ora che le forze politiche che ci hanno supportato in questo difficile iter sono al Governo – sottolinea Andrea Terraneo – è necessario intervenire fattivamente per una totale risoluzione del problema. Preghiamo pertanto le forze politiche di andare a rileggere la definizione del Codice Ateco 47.25».

La preoccupazione degli enotecari è acuita dal fatto che il nuovo provvedimento potrebbe interessare un periodo cruciale per le vendite di vino, come quello delle festività della Pasqua.

Le attività con Ateco 47.25, di fatto, dalle 18 alle 20 vedono mediamente il 30% del fatturato giornaliero, che diventa ancora più sostanzioso in concomitante delle festività, come quella pasquale.

«Ho apprezzato che molte altre associazioni si siano unite in queste ultime settimane al nostro richiamo di attenzione, che per primi ci siamo sentiti di denunciare. Ora noi tutti in Vinarius ci auguriamo che quella che è stata diffusa on line sia solo una bozza errata e che invece il nuovo Dpcm eviterà fattivamente una riedizione di questa stortura fortemente discriminatoria».

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Unionbirrai sostiene l’appello di Fipe e Fiepet per la riapertura di bar e ristoranti

Unionbirrai si unisce all’appello di Fipe-Confcommercio e Fiepet-Confesercenti per la definizione di un piano che conduca a una riapertura in sicurezza dei locali, condividendo i contenuti del documento unitario presentato delle due organizzazioni maggiormente rappresentative del settore dei pubblici esercizi al Ministero per lo Sviluppo economico.

«Non possiamo fare altro che unirci al grido d’aiuto di Fipe e Fiepet, appoggiando in particolare la necessità della riapertura dei locali. Riaprire in sicurezza significherebbe dare una spinta per la ripartenza ad un’intera rete – ha commentato Vittorio Ferraris, direttore generale Unionbirrai – La crisi dei pubblici esercizi è strettamente collegata a quella della birra artigianale, che seguendo principi di filiera corta e territorialità si esprime maggiormente nei canali commerciali tipicamente legati a quelli della somministrazione».

L’associazione di categoria dei piccoli birrifici indipendenti, in particolare, intende sostenere la necessità di una riapertura anche graduale, purché stabile e in grado di garantire l’effettiva possibilità di lavoro ai pubblici esercizi, fra i più colpiti dalle restrizioni dovute alla pandemia.

Limitazioni che inevitabilmente si ripercuotono sulla produzione della birra artigianale, prodotto caratterizzato nella maggior parte dei casi una shelf life estremamente ridotta, che a differenza dell’industria identifica il suo mercato di vendita quasi esclusivamente in pub e ristoranti, avendo solo in maniera minima sbocco commerciale nella grande distribuzione.

«Alcune limitazioni – ha aggiunto Ferraris – come ad esempio il divieto di asporto dopo le 18, hanno solo spostato l’acquisto di bevande e probabilmente anche la possibilità di assembramenti, favorendo di fatto la grande distribuzione e aumentando ancor di più le difficoltà di un mercato, quello della birra artigianale, per natura molto diverso dall’industriale».

«Motivo per cui – ha concluso il direttore di Unionbirrai – da tempo ci stiamo battendo affinché piccoli birrifici indipendenti e industrie siano identificati da codici Ateco differenti e, in condivisione con le altre associazioni direttamente coinvolte nella filiera, riteniamo favorevole il superamento del criterio legato ai codici Ateco per identificare la platea di beneficiari di ristori».

Su questi temi si è svolto un incontro con il Segretario Nazionale di Confesercenti Mauro Bussoni e il Direttore di Confesercenti Emilia-Romagna Marco Pasi, nel corso del quale si è avuto modo di constatare l’opportunità di condividere azioni e strategie utili a superare la delicata fase di crisi del settore horeca e lavorare per raggiungere obiettivi comuni nella consapevolezza che occorre valorizzare e salvaguardare tutti i soggetti economici della filiera.

«Per questi motivi – hanno sottolineato i rappresentanti di Confesercenti nel corso dell’incontro – i nostri sforzi sono ora orientati principalmente a garantire l’effettiva possibilità di lavoro a 300 mila imprese, che negli ultimi 12 mesi hanno registrato circa 38 miliardi di euro di perdita di fatturato, e a eliminare le prescrizioni che prevedono il blocco delle attività, anche lavorando, come è stato sottolineato da Fiepet e Fipe al Comitato tecnico scientifico, per implementare i protocolli sanitari tutt’ora vigenti».

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Gli Editoriali news news ed eventi

Dalle 18 il vino si compra in macelleria ma non in enoteca. E i Consorzi? Muti

EDITORIALE – Silenzio assordante dei Consorzi del vino italiano in seguito all’ultimo Dpcm (16 gennaio 2021) e alle proteste degli enotecari di Vinarius, che hanno scritto al premier Giuseppe Conte chiedendo una rettifica della norma. Per effetto del decreto, le enoteche non potranno vendere vino da asporto a partire dalle ore 18.

Divieto che non vale per negozi non specializzati come supermercati (grande distribuzione), ma anche macellerie e gastronomie. Insomma, per tutte quelle attività con Codice Ateco diverso dal 47.25 (“Commercio al dettaglio di bevande in esercizi specializzati”) ma che comunque vendono vino e alcolici.

Mentre il Consorzio Tutela Vini Montefalco tira dritto per la sua strada e continua a investire nella pubblicità dell’e-commerce istituzionale (“vini a prezzi di cantina” recita l’ultimo spot, alla faccia dell’Horeca), a condividere la posizione di Vinarius sono il Consorzio del Brunello di Montalcino e l’ente Vini dei Colli Euganei.

Nulla di eclatante, anche in questo caso: condivisione sui social della lettera firmata dal presidente Vinarius, Andrea Terraneo indirizzata a Conte, senza ulteriore commento o “virgolettato” di protesta.

Il Dpcm 16 gennaio mette Enoteche contro Supermercati. Vinarius: «Noi discriminati»

Tutti gli altri in silenzio, insomma, come se andasse bene così. Bocche cucite non solo nei Consorzi, ma anche nei sindacati, nelle associazioni e nelle Federazioni come Coldiretti, Confagricoltura e Fivi, la Federazione italiana vignaioli indipendenti. E se fosse accaduto il contrario?

La risposta arriva dalla Lombardia ed è già nella storia. Lo scorso ottobre, la giunta guidata da Attilio Fontana è stata costretta a eliminare il divieto di vendita di alcolici dalle ore 18 nei supermercati, dopo la valanga di proteste arrivate in poche ore al “Pirellone” da produttori (e Consorzi, Chianti in testa) di mezzo Paese.

In questo senso, la Grande distribuzione organizzata dimostra così di essere, per l’ennesima volta, il settore su cui vige un’ipocrisia dilagante tra produttori e Consorzi del vino italiano: polvere dorata, da mettere sotto il tappetto. Non se parli e non la si irriti, purché continui a vendere. Anche a discapito dell’Horeca. Cin, cin.

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Il Dpcm 16 gennaio mette Enoteche contro Supermercati. Vinarius: «Noi discriminati»

Enoteche contro Supermercati. Davide contro Golia. C’è malumore, tra gli enotecari italiani, in seguito alla pubblicazione del Dpcm 16 gennaio 2021. Il nuovo decreto vieta infatti la vendita d’asporto di vino e alcolici dopo le ore 18 alle enoteche, ovvero ai negozi specializzati con codici ATECO 47.25, ma non alla Grande distribuzione organizzata.

A sollevare il problema, parlando di «discriminazione» è Andrea Terraneo (nella foto sopra), Presidente di Vinarius, Associazione delle Enoteche italiane. Una protesta messa nera su bianco, con una lettera aperta indirizzata al presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

«Non comprendiamo il motivo per cui viene impedito a centinaia di enoteche sparse sul territorio nazionale di operare lasciando invece libertà di farlo alla grande distribuzione organizzata, incorrendo maggiormente nel rischio di assembramenti», scrive Terraneo.

Chiediamo pertanto la cancellazione di questa misura affinché non vengano penalizzate tutte quelle attività comprese nel divieto che stanno operando da mesi con massimo rigore e attenzione alla tutela della clientela e nel rispetto delle normative»

«Siamo certi – aggiunge Terraneo – che le ragioni da noi esposte possano portare ad un pronto accoglimento della nostra richiesta basandosi essa stessa su criteri di ragionevolezza e coerenza con lo spirito di tutela della salute pubblica e di salvaguardia delle attività commerciali che stanno a cuore a tutti quanti noi».

Il presidente di Vinarius sostiene di «comprendere il momento di forte difficoltà che sta attraversando il Paese a causa della pandemia e il complesso contesto con cui vengono prese le relative decisioni, incorrendo in possibili errori nella indicazione dei codici ATECO».

Ma a nome dell’Associazione delle Enoteche italiane chiede «un sollecito chiarimento in merito, affinché non vengano discriminati attività e operatori professionali appartenenti al settore del commercio di bevande alcoliche e analcoliche. La preoccupazione deriva dal fatto che inibire l’apertura dopo le 18 toglie all’enoteca il 30% del fatturato giornaliero in un quadro economico generale che ci vede già penalizzati».

La lettera del presidente Andrea Terraneo arriva a 9 mesi circa dal precedente sollecito inviato al ministro Putuanelli, nell’aprile 2020. Attraverso un sondaggio esteso anche alle enoteche non associate, Vinarius aveva fotografato il momento di difficoltà del settore.

I titolari delle 105 attività intervistate rimaste aperte nonostante l’emergenza Covid-19 avevano evidenziato un calo del fatturato tra il 50 e l’80%. Il 22% delle enoteche aveva deciso di rimanere chiuso, mentre il 25% di rimanere chiuso ma di effettuare consegne a domicilio.

«Il rimanente 53% – precisava sempre ad aprile 2020 Vinarius – dimostra come le enoteche siano diventate in questo momento di incertezza dei punti di riferimento per il territorio per l’offerta di beni di prima necessità come acqua, pasta ed altri generi alimentari»

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Cia e Unionbirrai: “Filiera agricola a rischio se si ferma la Birra Artigianale”

La Birra Artigianale Italiana come motore trainate dell’intero comparto agricolo ad essa legato. Motore che a causa della pandemia ha subito una battuta d’arresto, con gli oltre 900 microbirrifici che registrano un calo del fatturato pari al 90%, che rischia di frenare l’intera filiera agricola composta da migliaia di produttori di luppolo e orzo distico.

È quanto emerge dalla webinar “La birra indipendente artigianale e la filiera brassicola in Italia: il difficile presente, le azioni a supporto, le sfide del 2021” organizzata congiuntamente da Cia-Agricoltori Italiani e Unionbirrai, cui hanno partecipato il presidente nazionale di Cia Dino Scanavino, il direttore generale di Uninbirrai Vittorio Ferraris, Silvio Menghini (docente di Marketing Agrario dell’Università di Firenze), Andrea Soncini (consigliere Unionbirrai con delega agli Affari legali), Erri Morlacca (Birrificio Agricolo Jester), Leonardo Moscaritolo (presidente Gie Cereali di Cia e produttore di orzo distico) e Francesco Fancelli (presidente Consorzio Luppolo Made in Italy).

La crescita della Birra Artigianale è da sempre legata a doppio filo alla crescita dei consumatori: quanto più consapevole è il consumatore tanto più la Birra cresce e con essa la sua filiera agricola. Oggi le chiusure di ristoranti, pub e bar, confermate per le festività di Natale, e il blocco di fiere, eventi, sagre che ne costituiscono il naturale mercato di sbocco rischiano di innescare il meccanismo opposto, generando non solo una crisi che va oltre la birra stessa, ma anche “raffreddando” il consumatore.

Sono necessari interventi strutturali e di lungo periodo per tutelare e dare nuovo slancio al settore. “Bisogna differenziare il mondo artigianale dalla produzione industriale di birra – ha dichiarato Vittorio Ferraris – Ad oggi esiste un unico codice Ateco sia per i piccoli produttori che per le grandi industrie. Con un codice Ateco specifico per i piccoli birrifici indipendenti, invece, si faciliterebbero future iniziative ad hoc per il comparto”.

L’emendamento approvato alla legge di Bilancio 2021, che prevede un fondo di 10 milioni di euro a sostegno delle filiere agricole minori, può essere un primo passo ma ci sono anche altre richieste da parte degli operatori che vanno nella direzione di un allentamento di obblighi fiscali e finanziari, come ad esempio la riduzione dell’Iva per il 2021 per la birra artigianale italiana, considerandola come prodotto della filiera agroalimentare.

Più volte inoltre è stato chiesto di prevedere un credito d’imposta per gli esercenti che hanno acquistato e acquisteranno birra artigianale sfusa, così da aiutare i locali attualmente di nuovo in lockdown e rilanciare la produzione dei birrifici. Già da tempo, inoltre, si è avviato un dialogo costruttivo con la Gdo per entrare in maniera concorrenziale nei supermercati italiani, puntando sulla qualità.

Se è indubbio il valore della Birra Artigianale, forte del 4% del mercato italiano della birra ed in grado di dare lavoro ad oltre 7 mila addetti, con una produzione media di 500 mila ettolitri l’anno, di cui circa il 20% biologico, ed un fatturato di oltre 250 milioni di euro, meno evidenti sono le sue ripercussioni sulle attività a monte. La ricerca di una sempre più spiccata territorialità e di una maggiore “italianità”, a partire dalle materie prime, ha spinto negli ultimi anni a sempre maggiori investimenti in agricoltura.

La coltivazione di orzo distico ha preso sempre più piede là dove, fino a pochi anni fa, il grano duro era la principale cultivar cerealicola del bel paese. Un cambio di passo che ha giovato e gioverà all’agricoltura italiana alleviando la stanchezza dei terreni troppo intensamente coltivati con un’unica varietà, favorendo lo sviluppo di aree rurali in cui per la mancanza di infrastrutture l’orzo risulta essere l’unica cultivar economicamente produttiva, nonché innescando un meccanismo di “turismo brassicolo” con logiche simili a quelle della vite e del vino.

Se la battuta d’arresto della Birra Artigianale rischia di bloccare lo sviluppo della filiera dell’orzo, ancor più gravi rischiano di essere le ripercussioni su quella del luppolo, da sempre anello debole della catena brassicola nazionale ma anche grande opportunità di sviluppo. Ad oggi sono circa 80 gli ettari coltivati a luppolo in Italia, pochi ma con grandi possibilità di crescita sia per il mercato nazionale che internazionale.

Opportunità che si possono cogliere solo facendo progredire una filiera che si sta costruendo ex novo e che richiede continui investimenti. Basti pensare che avviare la produzione di luppolo costa circa 40 mila euro all’ettaro, ettaro che diventa pienamente produttivo solo dopo il terzo anno con una produzione di circa 2 mila kg all’anno. Se si considera che ad un agricoltore il luppolo italiano viene pagato da 15 ai 18 euro al kg è evidente lo sforzo necessario.

Grossi investimenti da fare in fiducia che sono stati trainati dalla forte crescita della Birra Artigianale. Ora che il volano si è fermato occorre farlo ripartire per evitare di perdere non solo ciò che si è costruito ma anche, e soprattutto, ciò che si potrà costruire.

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Parola di mastro birraio: “Il Governo si è dimenticato della Birra Artigianale”

“Non si vive nemmeno più alla giornata. Si vive all’ora. Con questa sorta di nuovo lockdown anti Covid-19 si ricomincerà a fare quel poco di delivery, ma con una condizione molto diversa da marzo. Perché se allora un po’ di fieno in cascina magari c’era, adesso non ce n’è più. Il delivery sono briciole, ci copri un po’ i costi vivi ma non ci ripaghi gli investimenti“.

A parlare a Giancarlo ‘Giamma’ Longhi, mastro birraio del giovane micro birrificio Beer Farm Hoppy Hobby di Legnano, tra Milano e Varese. In un’intervista rilasciata a WineMag.it, denuncia la situazione in cui versa il settore della Birra Artigianale a fronte dell’ultimo Dpcm.

Confermando, di fatto, quanto sottolineato da tante sigle Horeca come Italgrob, Assobibe e Assobirra, oltre a Fipe (Federazione italiana pubblici esercizi) e Gh: le misure hanno quasi azzerato il mercato. Nelle parole di Longhi, tutto lo sconforto di una categoria che si sente “dimenticata dalle istituzioni”.

Eravamo in piazza a Milano con Fipe mercoledì scorso (28 ottobre) quando sono arrivate le prime notizie ufficiali sul DL Ristori con le indicazioni dei codici Ateco. Fra questi non figuravano i produttori di birra o di vino.

Ma come? Chiudi pub e birrerie perché lavorano la sera dopo le ore 18, limiti tantissimo ristoranti ed enoteche, chiudi definitivamente le tap room e non contempli negli aiuti i maggiori fornitori di queste categorie?.

Vi è un bonus di Regione Lombardia, una sorta di ticket di 150 euro, di cui possono usufruire i ristoratori per l’acquisto di vini della regione. Un aiuto nato per supportare i produttori di vino. E i produttori di birra? Niente“.

Uno scenario pesante quello descritto dal mastro birraio Giancarlo Longhi. Dopo un settembre in cui si avvertiva una cauta ripresa, con i clienti che avevano iniziato ad avanzare ordini interessanti, anche in vista di un presunto trend di crescita autunnale, ecco arrivare il nuovo improvviso giro di vite. Un Dpcm che ha bloccato la ristorazione, canale di vendita prevalente della Birra Artigianale.

Col primo lockdown ho perso circa il 20% dei clienti – sottolinea il titolare del birrificio milanese – adesso quanti ne perderò? Ma non penso solo a me, la situazione è analoga per i miei colleghi.

Per esempio Orso Verde di Busto Arsizio (VA) ha una produzione molto grossa e due tap room, una a Milano e l’altra a Varese. Loro fanno infustamento isobarico ed avevano in affinamento circa 5 mila litri di birra già pronti: adesso che fanno? I fusti a chi li vendono? Li tengono fermi per mesi?”.

Analoga situazione per il Birrifico War di Cassina de’ Pecchi (MI), che “ha messo in cassa integrazione i birrai dipendenti proprio perché sanno che non venderanno nulla, da qui a chissà quanto”, riferisce ‘Giamma’ Longhi.

“La Birra Artigianale – evidenzia ancora – è un prodotto fresco: puoi tenerne alcune tipologie in cella, per un po’ di mesi, ma non si va molto lontano. Birrificio Italiano alla sua Tipopils (storia ed icona della birra artigianale italiana nel mondo, ndr) dà 6 mesi di scadenza proprio per avere un prodotto perfetto”.

“Stiamo parlando di prodotti di eccellenza, per i quali la freschezza viene prima di tutto. Se blocchi questo processo uccidi la qualità del prodotto ed il concetto stesso di artigianalità. I pub, ora, dovranno svuotarle i loro fusti e buttare le birre. Piange il cuore a pensare a tutto questo. C’è sconforto. C’è tanto sconforto“.

Nelle parole di Longhi si ritrova anche l’incertezza di chi è impossibilitato a pianificare il proprio lavoro, alle porte di un Natale 2020 che si preannuncia in sordina, dal punto di vista commerciale: “Basti pensare all’organizzazione prenatalizia. Ho dei clienti che ogni anno fanno le cassette personalizzate per i loro clienti”.

“Quest’anno, se chiudono tutto, le cassettine le regaleranno lo stesso? Forse no. Però io le devo preparare in anticipo, le devo preparare adesso. Cosa faccio? compro le cassette, compro le bottiglie, faccio le cotte personalizzate per poi magari sentirmi dire ‘Giancarlo mi dispiace, è tutto chiuso l’ordine non mi serve più’?”.

Siamo nel periodo in cui, dopo la crisi del 2008, ci si stava risollevando proprio grazie allo spirito artigianale. L’Italia è stata resa grande dagli artigiani. Senza andare troppo lontano da Legnano e da Milano, pensiamo a Parabiago ‘Città della calzatura’. Cambiamo regione, andiamo in Piemonte: lì ‘Ferrero’ ti inventa la ‘Nutella’. Senza citare poi tutte le eccellenze nel caffè e nell’enogastronomia”.

Pensiamo a tutti questi grandi artigiani che sono diventati specialisti nella propria nicchia, o grandissimi nomi del proprio settore. Se ammazzi questa gente, cosa trovi poi? Cosa ti resta?

Sono anni in cui sono nate tante nuove cose bellissime: birre, agricoltura di precisione, amari, distillati e via dicendo. Giovani ragazzi che hanno iniziato ed investito, credendo in un progetto che è anche culturale: tutte persone che, adesso, sono seriamente in pericolo”.

Non meno importante, la paura di perdere non solo gli “artigiani del gusto” ma anche il consumatore. Quel consumatore sempre più attento che è stato, ed è, motore del mercato artigianale. Lo stesso che ora, a fronte delle restrizioni e delle difficoltà finanziarie, rischia di “regredire” e interrompere il proprio percorso di crescita. L’orizzonte è oscuro, insomma. Da una parte e dell’altra del boccale.

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Italgrob, Assobibe e Assobirra: “Nel DL Ristori ignorati i codici Ateco della filiera”

Ordini fermi, prodotti fermi su bancali, cali di produzione e attività. Sono le immediate, gravi ed inevitabili ripercussioni delle nuove chiusure imposte ai punti di consumo di alimenti e bevande sugli operatori della Filiera. Un danno che aumenta ogni giorno. Italgrob, Assobibe e Assobirra, congiuntamente sollecitano il Governo ad attuare, subito, correttivi immediati al DL Ristori. Non riflessioni ma azioni immediate.

Le tre associazioni della filiera del Beverage chiedono di non focalizzare le misure solo sul punto vendita finale aggiungendo i codici Ateco dei soggetti che riforniscono le attività dell’Horeca, di fatto chiuse, e ripensando accise e nuove tasse in arrivo nel 2021 che aumenteranno l’effetto recessivo.

Italgrob (Federazione Italiana Distributori Horeca) nel lockdown di marzo-giugno ha registrato perdite di fatturato per oltre l’80% situazione che, con questa seconda ondata, rischia di precipitare definitivamente mettendo a rischio oltre 800 aziende e migliaia di posti di lavoro.

L’improprio obbligo di chiusura alle 18.00 dei locali e lo smart working – dichiara Vincenzo Caso, Presidente di Italgrob – drenano consumi che si tramutano in mancati incassi per i locali che a loro volta si ripercuotono direttamente sulle aziende di distribuzione. I nostri mezzi sono fermi e i depositi pieni di merci che non potremo vendere. Il paradosso è che nel decreto Ristori tutto questo non viene considerato”.

È come se la categoria non esistesse – prosegue – in quanto sono stati indebitamente ignorati i codici Ateco dei distributori (46.30). Chiediamo un pronto reintegro dei nostri codici Ateco, anche in relazione di quanto previsto nel comma 2 dell’art 1 del Decreto Ristori. Chiediamo inoltre, così come consesso ai locali della ristorazione, la totale abolizione del secondo semestre Imu”.

Per il Presidente di Assobibe Giangiacomo Pierini “non si può pensare di introdurre nuove tasse nel 2021, stressare le imprese oggi già in difficoltà a causa degli ulteriori cali di attività”. Il riferimento è al primo decreto attuativo della Sugar tax, pubblicato pochi giorni fa, che aumenta del 28% la fiscalità su un litro di bibita “togliendo liquidità ogni mese ai produttori e generando costi per l’adeguamento alle decine di nuove procedure burocratiche. È necessaria – conclude Pierini – la sospensione subito almeno per tutto il 2021, non pochi mesi”.

Gli fa eco Michele Cason, Presidente di Assobirra, sottolineando come “la birra è l’unica bevanda da pasto a pagare le accise. Un’anomalia che ora più che mai non può essere ignorata e che incide in maniera significativa su tutta la filiera: produttori, distributori, pubblici esercizi e consumatori”, e ribadendo le proposte di Assobirra per degli interventi strutturali che assicurino una boccata d’ossigeno all’intero comparto.

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