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Il Sangiovese “Poggio ai Chiari” di Fabio Cenni. Ovvero perché Chiusi vale bene una Doc

SIENA – Non chiamatelo profeta senza patria. Perché una patria, Fabio Cenni, ce l’ha. Si chiama Chiusi. Il patron dell’Azienda agricola Colle Santa Mustiola si presenta a Sangiovese Purosangue con una verticale 1997-2010 da far tremare i Brunelli.

E col sostegno del giornalista Andrea Gabbrielli chiede una Doc, ovvero una Denominazione di origine controllata, per una delle aree “meno considerate dalla critica enologica italiana”. Chiusi, per l’appunto. Molto più di una boutade goliardica.

Un “torto” che non ha ragione d’esistere, vista la forma strepitosa di tutte le annate in degustazione ieri pomeriggio al foyer del Teatro dei Rinnovati, presso il Palazzo comunale di piazza del Campo, a Siena.

“Chiusi – ha spiegato Davide Bonucci, one man company di Enoclub Siena e ideatore del format sul re dei vitigni toscani – è uno di quei territori non particolarmente mediatici che meritano invece di essere celebrati attraverso i vini lì prodotti. Un’area che non fa massa critica come altre e, forse per questo, non gode della considerazione che merita”:

LA DEGUSTAZIONE
Se non lo hai mai incontrato prima, il Sangiovese “Poggio ai Chiari” di Fabio Cenni (nella foto sopra) rischia di sembrarti piombato sul Pianeta Terra come Superman. Un meteorite nel calice. A maggior ragione dopo aver degustato – meno di 24 ore prima – oltre 200 sfumature del vitigno all’anteprima di Purosangue 2018, rinvenendo “solo” un 10% dei campioni sopra i 90 punti.

Già. Qui siamo di fronte a una delle migliori sublimazioni del Sangiovese in purezza. SI tratta, di fatto, del risultato di un lungo lavoro di selezione clonale che ha portato Cenni a selezionare 28 cloni “Superman” di Sangiovese. “Quelli che mi assicuravano longevità”, spiega il produttore con un filo d’orgoglio, mentre i calici cominciano a tingersi d’un rosso rubino lontano dalle tinte attese per le annate più vetuste.

E’ lì che si inizia a capire di che razza sono i vini di Chiusi. Dall’esame visivo. Zero “unghie aranciate” per dirla alla Treccani del sommelier. Tenuta perfetta. E quando al naso la vendemmia 1997 butta fuori richiami mielosi leggerissimi e garbati, ad accompagnare note di scorza d’arancia, ginger candito e cuoio, capisci di esser davanti a un supereroe di rosso. Un moikano toscano.

Peccato non alzi altrettanto la cresta al palato, che evidenzia solo reminiscenze della gloria che fu, neppure troppo tempo fa: bella concentrazione ma corredo monocorde, col sorso ormai troppo teso sulla sola freschezza. Resta comunque un assaggio da ricordare, pur non in termini di complessità.

Strepitosa, invece, la vendemmia 2002. Colore carico, naso che si accende come il semaforo verde della Formula Uno, alla griglia di partenza. Frutto rosso carnoso, succoso, ma anche toffee e macchia mediterranea, con alloro e salvia a conferire balsamicità, prima al naso e poi al sorso. Fresco e sapido, per tornare al forziere della linguistica sommelier. Col fiore che vira dalla rosa appassita alla viola, per azione di sua Provvidenza, l’Ossigeno. Miglior annata assoluta della verticale.

Una nota verde netta contraddistingue invece il naso della vendemmia 2003, unita alle ormai consuete tinte balsamiche e iodiche, che si mescolano a una speziatura sul filo del rasoio del “piccante”. Un tannino integrato, ma vivo, asciuga forse troppo presto il sorso su note di buccia di arancia disidratata.

La vendemmia 2004 è l’altra annata da ricordare. E pensare che parte chiusa, timida, impacciata. Poi, il Sangiovese inizia a fare il Sangiovese. Ti prende per mano il naso sulla macchia mediterranea, con un gioco d’alloro, rosmarino e mentuccia. Poi di liquirizia e di cuoio, che non coprono del tutto la carnosità del frutto rosso.

In bocca, quest’annata di “Poggio ai Chiari” di Fabio Cenni si rivela compatta, strong. Tattile. Chiusura splendida, sapida e fruttata. Il patron di Colle Santa Mustiola ci crede talmente tanto da averne conservate 2 mila bottiglie, pronte ad essere messe in commercio nei primi mesi del 2019: obbligatorio accaparrarsene almeno un paio.

Vendemmia 2005, quella del giro di boa. Naso tra i più “morbidi” della batteria, ma non è vaniglia: è frutto. Succo di frutto di cloni di Superman Sangiovese. Corrispondenza gusto olfattiva perfetta, su note tendenti al maturo garbato, dosato, centellinato.

Segno di una raccolta e di una selezione perfetta dei grappoli, in vigneto. Che goduria quando il naso vira sul tabacco, mentre in bocca la percezione del tannino pare perfetta per controbilanciare il frutto. Chapeau.

Bel palato fresco e sapido per le vendemmie successive (2006 / 2010), le più “giovani” presenti alla verticale, ancora non pronte ma già in grado di dire più di una parola sull’andamento delle annate e sulle prospettive future.

Di fatto, si distinguono bene l’una dall’altra. La 2009 ricorda per certi versi la 2005, con i suoi richiami di frutta matura: sorprende, addirittura, come una delle più godibili già oggi, potendo contare su una freschezza invidiabile e una chiusura di sale e spezie. La 2007 è certamente tra le espressioni più eleganti del “Poggio ai Chiari”, ma deve ancora assestarsi il tannino, che domina il finale.

Anche le vendemmie 2008 e 2010 paiono simili nel calice, per il loro timido affacciarsi al mondo esterno: è troppo presto per giudicarle, ma saranno sicuramente all’altezza di un nome, “Poggio ai Chiari”, che merita – se non una Doc – almeno la ribalta delle cronache enologiche.

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“La nomenclatura danneggia Puglia e Sicilia”: Stefanò chiede un tavolo tecnico

“Dall’importante lavoro svolto da Ismea e di Wine Monitor – Nomisma, sull’export vinicolo delle regioni italiane, emerge quella che a mio avviso è un’evidente ingiustizia, tutta a scapito del Sud e soprattutto a svantaggio di regioni come la Puglia o la Sicilia. I codici di nomenclatura possono aiutare a ‘tracciare’ gli scambi e ricostruire dati più aderenti al vero”.
Lo ha dichiarato ieri, in occasione della conferenza stampa convocata per le 11:30 nella Sala Nassirya di Palazzo Madama, il senatore Dario Stefàno (Sel) a proposito del calcolo dei dati export del vino, attraverso cui si evidenzia una mancata corrispondenza tra il luogo di origine del prodotto e la località di sdoganamento.
“Non mettiamo in discussione il prezioso e puntuale lavoro di Ismea – precisa Stefàno – puntiamo invece i riflettori su quella che appare come una ‘pigrizia burocratica’ che va a pregiudicare le performance di alcune ragioni tra le quali la Puglia”.
“Basta osservare – ha proseguito Stefanò – dal punto di vista statistico, l’incremento della propensione all’export della regione dove avviene lo sdoganamento, a scapito appunto di quella di origine. È il caso palese di regioni come il Piemonte e il Trentino, dove tale propensione è a 3 cifre percentuali (rispettivamente 141% e 173%).
“Quindi – continua Stefàno – se è logico che una regione non possa esportare più del 100% di quanto produce, come opportunamente segnalato nello stesso report di Ismea, tuttavia da questa percentuale ‘dopata’ scaturiscono e si determinano ricadute penalizzanti e pesanti per interi territori”.
Una su tutte, la ripartizione dei fondi Ocm vino che costruisce le sue determinazioni avvalendosi anche dei dati Istat (come quelli in questione) fino ad arrivare a possibili interessi di appeal commerciali o per investimenti che i privati potrebbero realizzare e che le attuali evidenze statistiche, per alcuni casi, potrebbero addirittura scoraggiare”.
“Per sanare questa distorsione della lente statistica – aggiunge Stefàno – intendo proporre la convocazione di un tavolo tecnico presso il Mipaaf, coadiuvato da Ismea, Agenzia delle Dogane e Istat affinché vengano redatti, per le regioni mancanti, i codici di nomenclatura combinata mediante i quali sarà possibile ricostruire il vero dato circa la propensione all’export delle regioni nonché contribuire a migliorare il sistema di informazioni su tali scambi”. “Un’iniziativa – conclude Stefàno – che ribadisce la centralità e l’importanza dell’origine dei prodotti, sulla quale l’Italia non può permettersi alcun tentennamento”.
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