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Il Moscato d’Asti e lo strano “caso” del nuovo ambassador Alessandro Borghese

EDITORIALE – Con un mail firmata il 7 aprile dal presidente Romano Dogliotti, il Consorzio per la tutela dell’Asti Docg minacciava WineMag.it – e, in particolare, il sottoscritto, in qualità di direttore responsabile ed editore – di ritenere la testata “direttamente responsabile, unitamente alle fonti, ove esistenti”, degli eventuali “danni” arrecati all’ente per l’articolo dal titolo “Chef Borghese e promozione del Moscato: 4,5 milioni di euro che ‘pesano’ su Covid-19″, reperibile a questo link.

“Il nostro Consorzio – scriveva Dogliotti – sta conducendo trattative, volte ad individuare un ‘testimonial’ della denominazione, coperte da riservatezza, per cui ben comprenderete che la divulgazione, non autorizzata, di qualsivoglia nominativo si traduce in possibili danni per il nostro ente e per quanti da tempo si stanno impegnando nella progettualità promozionale e di gestione della denominazione, sia in termini di immagine che di correttezza contrattuale“.

Qualche considerazione è d’obbligo, nella giornata in cui il Consorzio per la Tutela dell’Asti ha, in sostanza, smentito se stesso. Abbiamo ricevuto di fatto, qualche minuto fa, la comunicazione ufficiale che Alessandro Borghese “è diventato l’ambassador per tutte le attività di promozione e valorizzazione della denominazione”.

Incredibile, dunque, come in tempo record (appena 17 giorni da quella mail in cui si chiedeva a WineMag.it di smentire la notizia pubblicata e peraltro ai tempi del Covid-19, con tutti i limiti relativi alla comunicazione e agli spostamenti) il Consorzio guidato da Romano Dogliotti abbia proposto a Borghese il ruolo di ambasciatore del Moscato d’Asti e abbia ottenuto, dal noto personaggio televisivo, l’avallo alla promozione della Denominazione.

Se così fosse, si tratta di un record nel record, anche per il trasformismo col quale Borghese passa dalla Birra Leffe ai discount Aldi, per proseguire l’attività di camaleontico testimonial del Moscato piemontese. Chapeau!

Nello specifico, l’articolo di WineMag.it trattava un tema ben più profondo e sensibile, sul quale il Consorzio di tutela – nonostante l’invito del sottoscritto – si è scordato di soffermarsi e di rispondere.

L’articolo finito nel mirino di Dogliotti (e del suo staff, agguerriti avvocati compresi) si riferiva al lancio di una petizione online promossa dall’Associazione Aroma di un Territorio, presieduta dal giovane vignaiolo Simone Cerruti di Castiglione Tinella (CN).

Al momento sono 162 le firme raccolte su Change.org. “L’Associazione Aroma di un Territorio, a nome dei suoi soci e nell’ interesse di TUTTE le aziende agricole di Moscato d’Asti e Asti Docg, su tutta l’area di produzione – si legge sulla petizione – chiede al Consorzio di Tutela dell’ Asti e del Moscato d’ Asti docg la sospensione immediata, per l’anno in corso e per il 2021 delle trattenute destinate alla promozione, attualmente fissate nell’ importo di 250 euro/ha circa, che dovranno poi essere ridiscusse a scadenza del termine”.

“Tale importo, per le aziende agricole impegnate nella coltivazione di Moscato, in considerazione del periodo di crisi attuale e soprattutto di quello venturo, aggrava la situazione di incertezza economica che certamente si presenterà in termini di reddito”.

“L’Associazione ritiene pertanto doverosa la sospensione richiesta, al fine di garantire la sopravvivenza delle aziende che si preparano ad affrontare un periodo di grandi sacrifici, tali da rendere indispensabili tutte le risorse disponibili”, si legge infine sulla petizione dell’Associazione Aroma di un Territorio.

Molto più di una sterile polemica, quella lanciata da WineMag.it, non crede presidente Dogliotti? In ogni caso auguro al Moscato (di qualità) tutto il bene del mondo. Ricordando però che, stavolta, saranno consumatori (e lettori) a “confermare o ribaltare il giudizio“. Cin, cin!

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Chef Borghese e promozione del Moscato: 4,5 milioni di euro che “pesano” su Covid-19

Duecentocinquanta euro a ettaro per le aziende agricole, ovvero i produttori d’uva. Il resto, ce lo mette l’industria. Un esborso troppo gravoso per raggiungere la cifra di 4,5 milioni di euro per la promozione del Moscato d’Asti e dell’Asti Docg, ritenuta necessaria dal Consorzio di Tutela. Le difficoltà del settore, legate all’emergenza Covid-19, rischiano di minare l’ambizioso progetto dell’ente guidato da Romano Dogliotti, che avrebbe pensato allo chef Alessandro Borghese come testimonial.

Un volto noto della tv – non solo per i programmi che conduce, ma anche per la pubblicità di Birra Leffe e dei discount Aldi – da affiancare a un’imponente campagna di affissioni e cartellonistica nell’area di produzione delle due denominazioni.

Oggi, una petizione su Change.org chiede al Consorzio di Tutela dell’Asti e del Moscato d’Asti Docg “la sospensione immediata, per l’anno in corso e per il 2021, delle trattenute destinate alla promozione, attualmente fissate in circa 250 euro a ettaro, che dovranno poi essere ridiscusse a scadenza del termine”.

A firmare la richiesta, “a nome dei suoi soci e nell’interesse di tutte le aziende agricole del Moscato d’Asti e dell’Asti Docg, su tutta l’area di produzione”, è l’Associazione Aroma di un Territorio, presieduta dal giovane vignaiolo Simone Cerruti di Castiglione Tinella (CN).

“Tale importo, per le aziende agricole impegnate nella coltivazione di Moscato, in considerazione del periodo di crisi attuale e soprattutto di quello venturo, aggrava la situazione di incertezza economica che certamente si presenterà in termini di reddito”, si legge sulla petizione online, che ha raggiunto le 150 firme in quattro giorni.

E ancora: “L’Associazione Aroma di un Territorio ritiene pertanto doverosa la sospensione richiesta, al fine di garantire la sopravvivenza delle aziende che si preparano ad affrontare un periodo di grandi sacrifici, tali da rendere indispensabili tutte le risorse disponibili”.

La petizione, indirizzata anche all’assessore all’Agricoltura della Regione Piemonte, Marco Protopapa, giunge in uno dei momenti più delicati della storia del Moscato d’Asti e dell’Asti Docg. Non solo a causa di Covid-19, ma anche per la concomitanza delle elezioni che vedranno protagonista il Consorzio di Tutela, nel 2020.

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Gourmandia 2019: a Treviso sfilano le stelle della cucina italiana

Da Alajmo ad Esposito, da Berton a Levéillé, passando per Dal Degan e Brutto: sono solo alcuni dei nomi della ristorazione italiana che prenderanno parte al ricco programma di Gourmandia 2019, la tre giorni dedicata agli artigiani del gusto e alle eccellenze enogastronomiche. L’evento, giunto alla sua quarta edizione, si terrà dal 13 al 15 aprile negli spazi dell’Opendream – Ex Area Pagnossin, a pochi passi dall’aeroporto di Treviso.

Quello di Gourmandia è un calendario ricco di appuntamenti, tra show cooking e dibattiti con i volti noti dell’alta ristorazione italiana. Sul palco della manifestazione salirà infatti Max Alajmo, chef del ristorante tristellato Le Calandre, seguito da Andrea Berton, alla guida dell’omonimo locale. Sarà poi la volta di Gennaro Esposito, chef e giudice della trasmissione Cuochi d’Italia di Alessandro Borghese, e di Philippe Levéillé, del Miramonti l’altro, seguiti da Alessandro Del Degan de La Tana Gourmet e da Francesco Brutto di Undicesimo Vineria.

Ogni chef condividerà con il pubblico presente il suo punto di vista sul panorama della ristorazione italiana, oltre che la sua esperienza nelle cucine dei locali più noti. Ci sarà spazio anche per le prelibatezze di Luigi Biasetto, della pasticceria padovana che porta il suo nome. Ospite di Gourmandia sarà infine Tessa Gelisio, conduttrice di Cotto e Mangiato, oltre che produttrice vinicola.

Gourmandia è l’evento sul mondo del cibo artigiano ideato da Davide Paolini (fondatore del Gastronauta e giornalista enogastronomico de Il Sole 24 Ore e di Radio 24), giunto quest’anno alla sua quarta edizione. Oltre al ricco calendario di incontri, dibattiti e show cooking, ci sarà spazio anche per una grande selezione di prodotti artigianali e nuove scoperte gastronomiche del Gastronauta. L’evento è realizzato con il patrocinio del Comune di Treviso.

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birra

Leffe Ambrée, AB InBev

Preannunciata dagli spot pubblicitari con lo chef Alessandro Borghese di cui ci eravamo occupati, Leffe Ambrée è finalmente sotto la nostra lente di ingrandimento.

LA DEGUSTAZIONE
Si presenta di un bel colore ambrato carico, pieno, con riflessi ramati. Al naso note dolci di malto e fresche d’agrumi. In bocca entra morbida e scorrevole. Non troppo calda nei sui 6,6%.

Oltre agli agrumi in bocca emergono anche una piacevole speziatura ed una leggera tostatura. La nota amaricante del luppolo si percepisce solo nel finale e durante la persistenza non lunghissima.

Una birra semplice ma gustosa che può trovare svariati ruoli negli abbinamenti gastronomici. Sufficientemente scorrevole da scivolar via con degli aperitivi e con un corpo leggero che può accompagnare piatti di carne bianca o anche di carne rossa “non impegnativi”.

LEFFE
Fondata nel 1152 a Leffe, oggi quartiere di Dinant in Vallonia, l’abbazia di Notre Dame de Leffe iniziò a produrre birra nel 1240 con lo scopo di ottenere una bevanda sana in un periodo di continue e pericolose epidemie. L’abbazia conobbe periodi di crescita e splendore fino alla rivoluzione francese, periodo nel quale il birrificio venne distrutto.

La produzione di birra ripartì solo nel 1952 grazie alla collaborazione con un birrificio di Bruxelles, birrificio successivamente acquisito dalla multinazionale AB InBev (leader mondiale della produzione di birra). Seppur non più prodotte nel monastero le birre Leffe mantengono una loro precisa identità.

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birra news

Borghese in abbazia con Birra Leffe: chi si beve lo spot?

Da poco più di un mese è in rotazione sulle principali reti televisive e sui social la nuova campagna pubblicitaria di Birra Leffe. Protagonista degli spot lo chef e personaggio televisivo Alessandro Borghese.

La serie di spot (spot 1, spot 2, spot 3) gioca su parole che evocano concetti di tradizione, scoperta, storia e cultura. Le immagini fanno altrettanto, con riprese ambientate all’interno dell’abbazia belga di Leffe e la presenza di un monaco – tale Frate Hervé – che spiega a chef Alessandro Borghese le caratteristiche della birra dell’abbazia.

Nulla di male in tutto questo. Non fosse per un dettaglio: la Birra Leffe non è prodotta in monastero, non è prodotta dai monaci e di tradizionale, ormai, le è rimasto ben poco! Leffe è infatti un marchio prodotto da AB InBev, la più grande multinazionale della birra. Un prodotto industriale.

Nulla contro Birra Leffe in sé, capace di proporsi sul mercato con etichette più che dignitose – specie al supermercato – dall’interessante rapporto qualità prezzo. Birre di cui già ci siamo occupati anche noi di vinialsuper, recensendo positivamente le versioni Royale Whitbread GoldingRoyale Mount Hood (ed altre ne seguiranno).

Troviamo però fuorviante accostare il marchio Leffe all’ambientazione monastica. Il rischio è quello di illudere il “consumatore medio”. Occorre quindi fare un minimo di chiarezza su cos’è la “birra d’abbazia” e su quali birre sono effettivamente prodotte da una comunità monastica e quali, invece, no.

BIRRA TRAPPISTA E BIRRA D’ABBAZIA
Esistono infatti birre prodotte da Abbazie. Sono le così dette “Birre Trappiste”, prodotte da monaci Cistercensi della Stretta Osservanza (o Trappisti). Una birra, per potersi definire “Trappista”, deve rispondere a tre regole.

  1. Deve essere prodotta all’interno delle mura di un’abbazia trappista, da parte di monaci trappisti o sotto il loro diretto controllo
  2. La produzione e l’orientamento commerciale devono dipendere direttamente dalla comunità monastica
  3. I ricavi devono essere destinati al sostentamento dei monaci ed alla beneficenza

Sono 11 i monasteri al mondo che rispondono a queste regole (6 in Belgio, 2 in Olanda, uno in Austria, uno negli USA ed uno in Italia). Le loro birre le riconoscete facilmente: riportano in etichetta il logo esagonale “Authentic Trappist Product”.

Differente discorso per le “Birre d’Abbazia” (come Leffe). Queste sono birre industriali che si fregiano del nome e marchio di una Abbazia, con o senza accordi commerciali con monasteri esistenti o estinti.

Birre che non necessariamente si rifanno a ricette tradizionali di quell’abbazia. Per esempio proprio le due sopra citate, Leffe Royale Whitbread Golding e Royale Mount Hood, o la nuova Leffe Ambrèe (lanciata da Borghese e Leffe attraverso i nuovi spot) rispondono a ricette di recente concezione, nate per soddisfare determinati segmenti di mercato.

LA STORIA DI LEFFE
La storia di Leffe ci aiuta a capire come un prodotto, nato fra le mura di un’abbazia, sia diventato un prodotto industriale. Fondata nel 1152, l’abbazia di Notre Dame de Leffe a Leffe, oggi quartiere di Dinant in Vallonia, iniziò a produrre birra nel 1240.

Lo scopo era quello di ottenere una bevanda sana, in un periodo di continue e pericolose epidemie. L’abbazia conobbe periodi di crescita e splendore fino alla rivoluzione francese, durante la quale il birrificio venne distrutto.

La produzione di birra ripartì solo nel 1952, grazie alla collaborazione con un birrificio di Bruxelles, successivamente acquisito dalla multinazionale AB InBev.

LUCI ED OMBRE
Un’iniziativa pubblicitaria a chiaroscuri, quindi. Accostare il nome di Leffe ai valori ed alla tradizione brassicola monacale nordeuropea è, evidentemente, una forzatura prettamente commerciale.

Dall’altro lato il fatto che uno chef “televisivo” come Alessandro Borghese metta il volto a favore di una birra che, una volta tanto, non sia la solita lager bionda, può nobilitare (speriamo) la percezione della birra al grande pubblico.

Luci ed ombre. Ombre poiché viene da chiedersi se, in un Paese che conta quasi mille birrifici artigianali che costantemente cercano tipicità e particolarità nelle loro produzioni, chef, influencer, critici gourmet e personaggi televisivi vari non possano – una volta tanto – spendere una parola a favore di un movimento in continua crescita. In continuo fermento (ci sia perdonato il gioco di parole).

Quando lo chef Carlo Cracco ha associato il proprio volto agli spot delle patatine della milanese San Carlo, da ogni dove si sono sollevate critiche. Operatori del settore e semplici consumatori sono rimasti interdetti di fronte al binomio “chef stellato – patatine in busta”.

Perché non capita altrettanto col binomio “chef – birra commerciale“? Probabilmente perché nessuno considera la birra un bene che possa essere “non commerciale”, un bere “nobile”. Ci auguriamo che questa serie di spot possa contribuire ad uscire da questa errata percezione.

Luci, quindi. Luci all’orizzonte. Vogliamo sperare che a partire da Borghese molti chef, stellati o meno, vogliano iniziare a trattare la birra alla pari del vino. Ad inserirla nelle proprie carte dei vini col rispetto che merita.

A considerarla negli abbinamenti coi loro piatti. A considerarla come ingrediente di cucina non solo per lo “stinco alla birra”. Avete notato la penuria di offerta brassicola nelle carte dei vini dei ristoranti?

E pensare che ogni regione italiana ha vari birrifici artigianali che fanno della territorialità (o anche dell’internazionalità) il loro punto di forza. Basterebbe davvero un minimo sforzo per iniziare a valorizzarli anche all’interno della ristorazione.

Ci piace pensare che anche una campagna pubblicitaria “furba”, come quella di Leffe, possa in qualche modo aiutare il mondo il della Birra ad uscire dall’anonimato.

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