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Follia in Sudafrica: da 7 settimane vietato consumo, produzione ed export di vino

Tra le misure del lockdown pensate per arginare Coronavirus, il governo del Sudafrica ha inserito il divieto di consumo, produzione ed export di vino. L’industria vitivinicola del Paese africano, già provata dal blocco della vendemmia revocato nel giro di 48 ore, è messa in ginocchio da un provvedimento che dura ormai da 7 settimane. Dovevano essere tre, stando ai primi proclami di Pretoria.

Secondo le stime dell’organizzazione locale Vinpro, un numero compreso tra 60 e 80 cantine – per la maggior parte a conduzione famigliare – rischiano la chiusura. Quattordicimila le persone che potrebbero perdere il lavoro. Una follia “proibizionista” che coinvolge grandi e piccole aziende del Sudafrica, Paese che esporta annualmente il 50% del vino prodotto.

Le misure del governo alimentano peraltro il contrabbando di alcolici in Sudafrica. E il blocco dell’export, oltre a costituire un unicum tra le misure messe in campo per contrastare Coronavirus a livello internazionale, fa perdere ai produttori gli spazi sugli scaffali delle distribuzioni internazionali, in favore di altri Paesi. Difficoltà che si riverberano anche sugli importatori italiani.

È il caso di Fabio Albani (nella foto) che dal quartier generale di Muggiò, a pochi chilometri da Milano, vende ogni anno in Italia circa 75 mila bottiglie di vino sudafricano. Una passione, quella per il Sudafrica, nata da una semplice vacanza, nel 2003. Afri Wines e l’e-commerce ViniSudafrica.it vengono fondati 6 anni più tardi, nel 2009.

Trenta aziende a catalogo, per un totale di oltre 200 etichette, destinate principalmente all’Horeca. “Le misure messe in atto dal Governo in Sudafrica – commenta Albani a WineMag.it – segnano non poco anche il nostro business e ci fanno rimanere con gli occhi aperti, aspettando che la situazione migliori”.

Se il blocco totale delle attività lavorative, in una fase cruciale per la vendemmia in Sudafrica come il mese di marzo, si è protratto solo per 2 giorni, dura invece da 7 settimane il divieto per le aziende di imbottigliare ed esportare le nuove annate, proprio quando sarebbe stata ora di presentarle.

Tutto è legato al fatto che l’ente certificatore dei vini del Sudafrica, Sawis, è chiuso e dunque i vini non possono essere sottoposti ai controlli previsti dalle normative internazionali in materia di origine, salubrità e analisi organolettica”.

 

La situazione, per Fabio Albani, è surreale. “Stiamo cercando di capire quanta merce è disponibile – spiega l’importatore a WineMag.it – per chiudere l’ordine di un container. Le vendite perdute ammontano a circa 5-6 mila bottiglie. Alla situazione in Sudafrica si è infatti aggiunta quella in Italia, con un ordine rimasto bloccato un mese al porto di Genova per carenza di personale deputato ai controlli, dirottato su altri tipologie di merce”.

Nel mese di aprile, Albani ha registrato gli stessi volumi degli anni scorsi. “Il fatto di esserci strutturati sin dagli albori con un e-commerce – spiega l’importatore – ci sta aiutando non poco, nonostante l’Horeca sia ferma. Stiamo anzi assistendo a un exploit in termini di valore, data la marginalità superiore che ha l’online”.

Il timore è che il Governo di Pretoria non faccia presto marcia indietro. “L’autunno in Sudafrica è ormai arrivato – conclude Fabio Albani – e secondo i virologi il freddo favorisce la proliferazione di Coronavirus. La curva dei contagi, di fatto, si sta pericolosamente alzando”. Meglio affrettarsi, dunque, per assaggiare un vino sudafricano.

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Rum Festival: dall’Isola del Tesoro ai giorni nostri. L’epopea di un mito

“Quindici uomini sulla cassa del morto, yo-oh-oh, e una bottiglia di rum!”. Alzi la mano chi non ha mai letto “L’isola del Tesoro” di Stevenson (ok, quei pochi lì perdono!). E chi non ricorda la scena in “Pirati dei Caraibi – La Maledizione della Prima Luna” dove Jack Sparrow, su un’isola deserta, se la prende con Elizabeth perché ha bruciato le scorte di rum per farsi trovare dalla Royal Navy?

Nel nostro immaginario il rum è la bevanda dei pirati. Quella che bevono per infondersi coraggio prima di un arrembaggio e dopo una vittoria per festeggiare. È la bevanda che si beve sui velieri.

Eccezioni e miti a parte, tutto ciò è sostanzialmente vero, per via della facile reperibilità del rum nei Caraibi, per la facilità di trasporto e commercializzazione in Europa durante i due secoli del “commercio triangolare”, per le guerre fra le superpotenze dell’epoca, combattute a suon di embarghi e lettere di corsa.

Basti pensare che per i marinai della Marina Militare di Sua Maestà fu introdotto il “tot” (la razione giornaliera di rum) nel 1655, eliminato per decreto parlamentare solo il 30 Luglio 1970: il così detto Black Tot Day, quando alle 11 del mattino suonò l’ultimo “Up Spirits”.

DAL MITO AI GIORNI NOSTRI
Ma oggi il rum è molto più di quel semplice distillato di melassa reso celebre da romanzi e cinematografia piratesca. Occasione per fare il punto della situazione, per conversare con gli operatori e per degustare marchi storici e nuovi produttori è stato lo scorso 1 Aprile il Rum Festival & Cocktail Show di Milano tenutosi presso l’Hotel Marriott di via Washington 66.

Presenti all’evento tutti maggiori distributori italiani con i loro prodotti in degustazione ed alcuni bar tender pronti a dare bella mostra della loro fantasia ed abilità nel mixing. All’interno della manifestazione, inoltre, ben 3 Masterclass (Selezione Rum Nation, Selezione Rum Plantation e verticale Ron Abuelo) e 2 seminari “(Origini, storia, tipologie ed aneddoti del rum” e “Il Rhum Agricolo”). Insomma tutto l’occorrente per iniziare a muovere i primi passi nell’affascinante mondo di questo distillato o per approfondire le proprie conoscenze e competenze. Di che divertirsi per neofiti ed esperti. Ecco quindi la possibilità di viaggiare virtualmente per tutti i paesi produttori, seguendo itinerari diversi, andando alla scoperta di profumi e sapori fra loro anche molto diversi.

ALLA SCOPERTA DEL RUM
Solera. Tecnica d’invecchiamento dinamico introdotta dagli spagnoli che ritroviamo declinata diversamente dai diversi produttori, ognuno con un suo stile. “Ron Diplomatico” dal Venezuela, rotondo e leggermente speziato, “Zafra” da Panama che per il suo Anejo 21 usa botti ex-bourbon ottenendo un rum setoso e piuttosto secco, i Colombiani La Hechicera, dal forte ricordo di rovere, vaniglia, caffè e tabacco, o “Dictador” coi suoi 15yo, 20yo e XO, tutti molto “fashion”, morbidi ed agrumati, che al Rum Festival presenta il suo Millesimato “Best of 1986” più inteso nei profumi e molto scorrevole al palato.

Guyana. Terra in cui la canna da zucchero cresce in modo pressoché unico, basti pensare al fiume Demerara ed allo zucchero che porta il suo nome. Ma non solo, perché è proprio a partire dalla melassa di quello stesso zucchero che nascono rum del tutto particolari. Fra loro la selezione 2005 di Plantation, con note dolci ed una speziatura leggermente spigolosa, o il Single Cask “Kill Devil” 46% 15yo di Diamond Distillery, rum ottenuto unendo distillati provenienti da diversi alambicchi a colonna in rame, in metallo ed in legno e poi invecchiato per 15 anni, che conquista con la sua pienezza al naso e palato, caldo eppur morbido e dolce, con spiccate note di cannella e pepe nero.

Agricole. Termine che indica i rum ottenuti a partire dal succo di canna grezzo. Fra essi alcuni marchi molto noti anche a livello commerciale (tutti ottimi prodotti) ed alcuni piccoli produttori artigianali. Fra essi spiccano “La Mauny” e “Trois Rivières”. La prima a fianco dei tradizionali invecchiamenti propone un rum invecchiato in botti ex-porto, assai fruttato. La seconda con una meravigliosa selezione “verticale”: VS, VSOP ed un Hors d’Age Triple Millesime 1998-2000-2007 la cui complessità supera ogni aspettativa ed a cui l’invecchiamento regala sentori che quasi si avvicinano a quelli di un Single Malt delle Highlands centrali.

Proprio Trois Rivière col suo “Cuvee de l’Ocean”, ricco di note iodate e salmastre, ci offre l’occasione di parlare di un altro importante prodotto che fa capolino fra i tavoli del Rum Festival: il rum bianco. Eh si! Perché il rum bianco non è solo quel distillato incolore ed un po’ grezzo che i mixologist usano per preparare cocktail in locali più o meno trandy. Il rum bianco in alcuni casi diviene un distillato da consumarsi “as is”. Non essendo invecchiato ci permettere di cogliere al suo interno i sapori e le sfumature della canna da zucchero e le caratteristiche della zona in cui cresce (il terroir tanto caro ai sommelier).

MAURITIUS, FILIPPINE, AFRICA E GIAPPONE
In ultimo il Festival ci offre la possibilità di espandere il nostro viaggio virtuale anche al di fuori dei Caraibi, andando alla ricerca di quei paesi che solo recentemente si sono affacciati sul mercato mondiale del rum. È il caso delle Mauritius presenti con diversi produttori, tutti accomunati da semplicità e forza aromatica carica di sentori floreali, miele e canna da zucchero.

Le Filippine sono rappresentate da Don Papa, azienda ormai molto nota agli amanti del rum. La canna da zucchero utilizzata cresce sull’isola di Negros sulle pendici dal monte Kanlaon su terreno vulcanico. Pur leggero di corpo al palato accoglie il naso con la sua dolcezza quasi prepotente, carica di vaniglia e di arancia candita accompagnate da sentori di frutta esotica.

Il continente africano ci offre rum artigianali particolari. Sicuramente imperfetti al naso non nascondono alcuni sentori poco puliti che ricordano il cuoio bagnato ed in alcuni casi anche sentori animali, ma è in questo loro essere particolarmente “sporchi” e “virili” che sta il loro fascino e il piacere della scoperta di un prodotto che sa di “autentico”, senza compromessi.

Infine il Giappone, con “Ryoma” 7yo. È un rum agricolo, è invecchiato ben 7 anni, eppure non sembrerebbe. Il colore è dorato scarico, probabilmente figlio dello scarso “Angel Share” dell’isola di Shikoku, a sud Giappone, ed i profumi sono estremamente puliti. Verrebbe da dire che come per i Whisky i Maestri distillatori Giapponesi hanno appreso fin troppo bene e senza sbavature le tecniche tradizionali straniere.

IL RUM CARONI
Menzione d’onore per il Rum “Caroni” selezionato proprio dagli organizzatori del Festival: scuro, pieno al naso ed al palato. Capace di sprigionare, oltre ai tipici profumi, una nota che, strano a dirsi, ricorda la torba scozzese. Indescrivibile.

Ma tutto questo non è che l’inizio, non sono altro che alcuni spunti dai quali partire per scoprire davvero il mondo affascinante del rum. Ed allora che ognuno parta per il proprio viaggio, per la propria avventura inseguendo i propri gusti e il proprio desiderio di scoperta. Rispolverando il vostro Jolly Roger, “Gentleman, hoist the colours!”.

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Approfondimenti

Ovse, Italia forte nell’export “grazie alle bollicine”. Africa nuova frontiera, già scoperta dalla Francia

A far da locomotiva ai numeri del vino italiano all’estero, soprattutto i vini spumanti. Nel 2015 la produzione nazionale è stata di 520 milioni di bottiglie, per un valore-origine di 1,352 mld/euro (euro 2,60 a bottiglia in cantina). Sul totale prodotto, 373 milioni di bottiglie (pari al 72%) sono state spedite in 90 Paesi nell’arco dell’anno per un valore pari a 1,327 mld/euro (per euro 3,56 a bottiglia) e un giro d’affari nel mondo di 2,573 mld/euro (per euro 6,9 a bottiglia). Rispetto al 2014, Ovse, l’Osservatorio economico dei vini effervescenti, fondato nel 1991 da Giampietro Comolli (nella foto), registra un +17% dei volumi e un +14% in valore all’origine. Il 2015 è un altro anno che cancella i record precedenti degli ultimi 10 anni, come produzione e esportazione: “Bene i volumi – commenta Giampietro Comolli – ma da anni sollecitiamo a fare più attenzione al valore di vendita cogliendo anche il sentimento tricolore favorevole. Il gap da colmare è ancora eccessivo, perché nella cultura globale il prezzo è anche sinonimo di qualità. Non corrisponde alla realtà qualitativa il divario di 4,66 euro per una bottiglia italiana con i 12,10 euro delle bollicine francesi, con una media di 22,49 euro al vertice per una bottiglia di Champagne”. Ovse constata anche un ulteriore calo nelle vendite delle etichette varietali, degli spumanti comuni e dell’Asti con alcuni ritocchi al ribasso di prezzo all’esportazione, mentre al consumo tutte le etichette made in Italy registrano un forte incremento di prezzo. Comolli rileva: “Negli Stati Uniti un calice di bollicine tricolori viaggia da 6 a 10 dollari, al ristorante non meno di 12 dollari”. L’escalation dei volumi esportati è stata molto forte negli ultimi 4 anni con un raddoppio anche delle destinazioni, tranne qualche paese in cui dazi e accise, embarghi, svalutazione e leggi sui consumi hanno bloccato l’importazione di tanti prodotti, in India, Cina, Russia, Brasile, Argentina. Molto bene soprattutto nel vecchio continente a 28 paesi che assorbe il 65% di tutto l’export. Usa e Uk hanno registrato crescite nel medio periodo del 150-200%. Altri paesi come Giappone, Messico, Canada, Germania, sono più oscillanti con continui sali-scendi. Ottimi risultati export si sono registrati in Francia, Austria, Svizzera e Svezia. Calo degli spumantini anonimi dolci e secchi, tengono alcuni mercati nell’Europa orientale per spumanti di vitigno (Moscato, Malvasia, Trebbiano, Soave). Per la ‘piramide’ Prosecco Docg-Doc ancora record: sul totale sono 275 milioni sono le bottiglie veneto-friulane consumate (3 su 4) per un valore in cantina di 700 mil/euro che si triplica con il giro di affari nel mondo a oltre 2 mld/euro. Le spedizioni in dogana registrano per il Prosecco docg (Conegliano, Valdobbiadene, Asolo, Cartizze) 38 mil/bott e per il Prosecco doc 237 mil/bottiglie.

La esportazione si concentra con il 30% nel Regno Unito, il 20% negli Stati Uniti e il 9% in Germania. Per entrare in dettaglio nel 2015 la Gran Bretagna conferma la leadership con oltre 96 mln di bottiglie, per 220 mln/€ (+26%). Non più solo Gdo e spumanti generici, ma il Prosecco entra in pub, circoli privati e ristoranti, non solo italiani. Enorme mercato con l’e-commerce, ma 9 su 10 siti sono gestiti da importatori/distributori e non da aziende. Prezzi al consumo in crescita del 8%: a Londra ci vogliono 12,25 sterline (pari a 15,52 euro) in media per una bottiglia di Prosecco sullo scaffale, grazie anche al cambio monetario e senza patire le accise messe dal governo Cameron solo sul vino (pari a 2 sterline il tappo), esentato invece il wisky. Al secondo posto troviamo gli Stati Uniti, sempre più costa occidentale oriented, volumi in crescita grazie all’euro svalutato e un prezzo alla dogana ritoccato al ribasso, con un +17,3% sul 2014 a quota 64,9 milioni di bottiglie, portando a +7,3% il fatturato al consumo per 305 mln/euro. Grandi guadagni per gli importatori/distributori. Una bottiglia di Prosecco che entra a 4,90 dollari (pari a 4,38 euro) sullo scaffale va a 21,3 dollari (circa 19 euro). Addirittura un calice di Prosecco nei ristoranti di New York si posiziona fra 12 e 19 dollari (circa 10,8-17,1 euro). Terzo paese torna a essere la Germania, dopo alcuni anni di cali, spostando in modo significativo il tiro sugli spumanti Dop rispetto a generici per un volume di 29 milioni di bottiglie pari a 90 mln/euro di valore alla dogana. Buono il recupero sul valore a bottiglia. Conferma al quarto posto per la Russia, seppur con tutte le problematiche della valuta e della crisi, con volumi a 18,8 mln/bott e 45 mln/euro di plv, concentrati in 4-5 marchi e dove l’Asti rappresenta ancora l’emblema delle bollicine italiane con oltre 7 milioni di bottiglie. Seguono, nell’ordine, la Svizzera con 15,3 mln/bott e un prezzo fuori dogana fra i più alti con 5,96 euro alla bottiglia; il Belgio con 11,7 mln/bott, l’Austria con 10 mln/bott, Giappone, Svezia, Francia a 9,5 mln/bott per paese. Canada e Paesi Bassi confermano il record di maggiori estimatori delle bollicine italiane, con un valore unitario da 6,37 e a 6,80 euro/bott franco distributore/importatore per una quota di mercato rispettiva a 5,6 mln/bott e 3,5 mln/bott. In poco più di 3 anni, la Francia conferma la scoperta del Prosecco superando 1,1 mln/bott. In Cina ancora qualche difficoltà per il sistema-mercato interno e l’inserimento nei diversi canali: bene nelle enoteche, ma si registra il record del più basso valore alla dogana con 3,20 euro/bottiglie.

Per il metodo tradizionale italiano il percorso all’estero è sempre molto complicato perché ci si scontra con i colossi Champagne e Cava (rispettivamente 135 e 160 mln/bott spedite nel mondo). In ogni caso dal 2012 il trend si mantiene in crescita: l’anno scorso sono state 2,2 mln/bott esportate di cui 1,4 di Franciacorta (+7,3% rispetto al 2014), un valore medio alla dogana di 28 dollari/bott (pari a euro 31,10) e spedizioni concentrate nell’ordine in Giappone, Usa e Svizzera. Molto difficile l’export per gli altri metodo tradizionali: segnali positivi solo per Asti e Gavi. Il Trento doc cresce bene in valore all’origine rispetto agli anni passati. “Negli ultimi 5 anni – evidenzia ancora Giampietro Comolli – l’Asti ha perso il 21% del mercato, mentre il Prosecco Doc è cresciuto mediamente del 21% annuo più che raddoppiando la quota, diventando il primo landbrand al mondo per le bollicine superando anche il generico Sekt. L’Italia quindi primo paese produttore con il 20,8% del totale (2,5 mld/bottiglie) e primo paese esportatore di vini effervescenti al mondo con una quota del 33% su 1,1 mld/bottiglie. Un settore che ha bisogno di una politica unitaria globale all’estero”. Molti ancora gli spazi di crescita in volumi e in valore. “L’Italia del vino – evidenzia ancora Comolli – è assente in Africa. La Francia è prima in tutti i paesi africani più ricchi, dove ha iniziato a investire da 10 anni. Seppur con burocrazia molto elevata, Nigeria, Kenia, Angola, Tanzania, Madagascar chiedono vini di fascia alta, compreso bollicine. Inoltre occorre una strategia diversificata per paese in base alle potenzialità e stile di vita: gli spumanti sono una tipologia abbinata alla festa nel mondo. Appannaggio di un mondo con buone disponibilità di spesa. Ma anche molte regioni europee e italiane reclamano bollicine. Ovse – conclude il presidente Ovse – sollecita da anni una revisione dell’Ocm-Vino verso la promo-commercializzazione anche sui mercati interni non come aiuto di Stato, ma per favorire l’elasticità della domanda e per far crescere i consumi interni”.

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