Come sarà la vendemmia di Pinot Nero in Oltrepò Pavese? La risposta sta nelle foglie. Lo assicura l’agronomo ed enologo di fama nazionale Giulio Vecchio, in occasione di un sopralluogo tra i vigneti lombardi. Buone, anzi buonissime notizie quelle che arrivano dalle terre di uno dei Metodo Classico migliori d’Italia. La vendemmia 2016, per il Pinot Noir, sarà da ricordare. Per qualità.
“Quest’anno – spiega Vecchio – il Pinot Nero ha avito delle condizioni di maturazione vantaggiosissime. Non si sono mai superati, se non per qualche ora, i 35 gradi di temperatura durante la fase di maturazione. Questo ha consentito alle foglie di svilupparsi in modo ideale, accumulando zuccheri e mantenendo sopratutto l’acidità, che è uno dei fattori fondamentali per la realizzazione di un Metodo Classico di qualità, soprattutto nell’ottica di una sua preservazione nel tempo”.
Il meteo, del resto, è stato clemente in provincia di Pavia. “Si sono registrate grandi piovosità a ridosso dell’arco alpino – evidenzia ancora Giulio Vecchio – ma la zona appenninica, che riguarda maggiormente l’Oltrepò Pavese, è stata risparmiata. Grazie anche alle temperature medio basse, le piante oggi registrano una maturazione perfetta e foglie perfettamente verdi. Una condizione che difficilmente si realizza. Foglia verde significa una fabbrica che sta lavorando a pieno ritmo per garantire tutti gli elementi di qualità nel nostro grappolo di Pinot Nero”.
IL CONSORZIO: “QUALITA’ ASSICURATA”
La vendemmia, insomma, entra nel vivo in Oltrepò Pavese: 13.500 ettari a vigneto, patria del Pinot nero Metodo Classico italiano dal 1865 e primo terroir viticolo di Lombardia. Sono impegnate 1700 aziende e un totale di circa 8 mila addetti tra imprenditori agricoli, agronomi, enologi, consulenti, operatori addetti alla raccolta e dipendenti delle cantine. Oltre al Pinot Nero, sulle colline oltrepadane si allevano Croatina, Barbera, Riesling e Moscato.
Il presidente del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese, Michele Rossetti, enologo della scuola di Alba, conferma le previsioni di Giulio Vecchio. E preannuncia che sarà “una campagna vendemmiale qualitativa, con rese in linea o leggermente inferiori sul 2015”.
“Abbiamo iniziato la raccolta delle basi spumante – annuncia Rossetti – per l’Oltrepò Pavese Metodo Classico Docg. L’annata è contraddistinta da un’eccezionale salubrità delle uve e un andamento climatico nel complesso positivo. Dai primi campionamenti si prevede, sulla carta e sulla base delle analisi, un’annata molto buona. Le uve denotano buone acidità e buon grado zuccherino. In merito alle rese una prima stima lascia supporre quantità in linea con quelle dello scorso anno o in leggero calo”.
In sintesi per le uve da Metodo Classico il quadro del Consorzio è positivo per l’Oltrepò Pavese. “Si prevede una vendemmia eccellente per nostre basi spumante”, riassume Rossetti. In merito alle uve bianche, il presidente chiarisce: “Gli ultimi giorni si sono contraddistinti per un’escursione termica tra giorno e notte particolarmente accentuata, foriera di una differenziazione degli aromi delle uve bianche che ci daranno vini particolarmente profumati”. L’ultima vendemmia in Oltrepò sarà quella delle uve rosse.
“Qui è prematuro fare delle previsioni su base scientifica – spiega Rossetti – ma al momento i grappoli si presentano sani e hanno beneficiato di un andamento climatico favorevole. Sarà un anno particolarmente importante per le uve Croatina, da cui in particolare nascono ogni anno 20 milioni di bottiglie di Bonarda dell’Oltrepò Pavese DOC. Per le altre uve rosse siamo in attesa dei primi dati che ci diranno cosa ci dovremo aspettare ma si parte anche qui da ottime premesse”.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Centosessantadue vini degustati in diciotto differenti cantine, poste su un percorso di circa 250 chilometri. Sono i numeri più significativi del wine tour di vinialsupermercato.it in Svizzera, dal 24 al 30 luglio. Una settimana di peregrinazioni tra le splendide vie del “vino eroico” dei cantoni Valais (Vallese), Vaud e Geneve (Ginevra). Vigne a picco sul nulla, divise da cascate, costrette a fare i conti con il gelo invernale così come con il caldo torrido estivo. Vigne che costringono alla raccolta manuale delle uve. Vigne nelle quali i viticoltori locali vivono e, come successo a luglio a Fully, nei pressi di Sion, muoiono di lavoro. In due parole: viticoltura eroica. Ci hanno aperto le porte piccole realtà a conduzione famigliare, così come grandi gruppi cooperativi attenti più alla qualità che alla quantità del vino imbottigliato. E minuscole cantine, la cui produzione finisce – pressoché interamente – sulle tavole di lusso dei ristoranti stellati Michelin. Un tuffo in una realtà, quella del vino svizzero, a noi tanto vicina eppure ancora praticamente sconosciuta. Un wine tour che ci ha portato a toccare con mano la decrescita registrata per il secondo anno consecutivo, nel 2015, dai vini svizzeri nella Gdo (Coop Schweiz, Spar Handels, Volg per citarne alcuni, mentre Migros non vende alcolici). Una tendenza inversa al consumo di vini locali, in crescita dello 0,8%, come evidenzia una ricerca condotta da Philippe Delaquis per l’Osservatorio svizzero del mercato del vino (Osmv). Con i vini bianchi che restano i più venduti nei supermercati elvetici, mentre le vendite dei rossi Aoc (l’Appellation d’origine contrôlée che equivale alla Doc italiana) calano del 13%, a fronte di un aumento dell’1,8% del consumo di vino rosso svizzero. Sta pagando, insomma, il tentativo di recupero dei vitigni autoctoni svizzeri condotto da diverse cantine visitate. Oltre alla valorizzazione di uvaggi prima destinati alla sola produzione di vino sfuso o da “da tavola”.
“Visto le scarse riserve a disposizione e le incertezze legate al franco forte – evidenzia Philippe Delaquis in una nota dell’Osmv – il vino svizzero oggi cerca un’alternativa alla grande distribuzione. Per questa ragione l’Osmv, dal primo aprile 2016 ha deciso di raccogliere anche i dati presso i produttori, le cantine e di stimare ogni tre mesi, anche attraverso la Mercuriale, le tendenze di consumo. Questi dati esistono dal 2012 per i vini del cantone Vaud, ma l’Osservatorio intende ora estendere questa raccolta a tutte e 6 le regioni vitivinicole svizzere”. In generale, i vini importati provengono dall’Italia (71 milioni di litri), seguita dalla Francia (circa 40 milioni di litri) e dalla Spagna (circa 37 milioni di litri). Dal Portogallo sono stati importati circa 11 milioni di litri di vino. Se paragonate alle importazioni, le esportazioni risultano modeste: 227.500 litri in meno rispetto al 2014. Complessivamente, nel 2015 il volume d’esportazione è stato a 1,3 milioni di litri, cifra che comprende anche i vini esteri importati e riesportati, come evidenzia in una nota l’Ufag, Ufficio Federale dell’Agricoltura Svizzera. Una vendemmia non eccezionale in termini di quantità, quella del 2015: 85 i milioni di litri prodotti. Ma ottima dal punto di vista qualitativo. I giorni di sole sono stati molti. Ed è così che, tra le cantine, abbiamo potuto degustare uno straordinario vino bianco biologico senza solfiti a 15,5%. Proprio sul grado zuccherino, in particolare sulla possibilità di estendere ai vini Aoc l’autorizzazione di introdurre artificialmente zucchero, è in corso in Svizzera una battaglia tra piccoli viticoltori e grandi gruppi, a colpi di carte bollate presso i rispettivi governi federali.
ST JODERN KELLEREI, VISPERTERMINEN (VALAIS) Quale posto migliore per iniziare il wine tour se non i vigneti della St Jodern Kellerei, considerati tra i più alti d’Europa? Siamo a Visperterminen, piccolo Comune di 1.500 anime arroccato sui monti a sud del Rodano (Rhone). La zona meridionale dell’imponente corso d’acqua – che nasce in Svizzera e si spegne nel Mediterraneo, dopo aver attraversato il Sud della Francia – è considerata quella sfavorevole per la viticoltura vallese (5.100 ettari totali). Ma l’esposizione a Sud dei circa 50 ettari di vigneti della St Jodern Kellerei – cifra che si raggiunge sommando una miriade di piccoli appezzamenti di terreno, appartenenti ad appassionati abitanti del posto – costituisce un miracolo della natura che, assieme allo straordinario terroir, contribuisce a rendere magici i vini. Un’area vitivinicola che, di per sé, meriterebbe il riconoscimento di quella che in Italia è la Docg. I terreni, composti prevalentemente da sabbia, ardesia e argilla, sottendono al clima secco di una vallata che è la meno piovosa dell’intera Svizzera. Fendant, Johannisberg (Sylvaner), Gewurztraminer, Resi (Rèze), Pinot Nero, Gamay, Gamare e Syrah i vitigni allevati. Ma a farla da padrona, con circa un terzo delle bottiglie prodotte (100 delle 450 mila totali) è certamente l’Heida (Savagnin Blanc), il “vino delle Alpi”. All’enologo di formazione italiana Michael Hock (nella foto), 34 anni, il compito di fare gli onori di casa. “St Jodern Kellerei – spiega – è una cooperativa completamente differente rispetto al concetto di cooperativa italiana nel ramo del vino. Quando sono venuto via dall’Italia, dove in seguito agli studi presso l’Università di Torino ho lavorato per la Vignaioli Piemontesi, ho portato qui l’expertise acquisita. Ma sono rimasto sconvolto, positivamente, dall’attaccamento alla terra di ognuna delle famiglie che conferiscono le proprie uve a questa cantina. Nella maggior parte dei casi si tratta di persone che svolgono prevalentemente altri lavori, ma che comunque amano a tal punto le loro viti da trattarle come figlie. Il 99% di quello che conferiscono al momento della vendemmia, che qui si svolge manualmente, approssimativamente dal 25 settembre al 7 novembre, è letteralmente perfetto dal punto di vista fitosanitario: un sinonimo della gioia della tradizione e della voglia di portare avanti con successo il frutto delle terre ereditate di generazione in generazione”.
L’enologo Michael Hock ci ha messo comunque del suo, trasformando la St Jodern Kellerei in una cantina vocata alla produzione di vini veri, originali, tradizionali. Vini che parlano del terroir, del microclima di Visperterminen. E che esprimono al meglio l’unicità del vitigno, non solo nel caso di autoctoni superlativi come il Resi, da cui St Jodern ottiene meno di 2 mila bottiglie l’anno, di cui tre quarti già venduti prima della vendemmia. Il giro d’affari della cooperativa si aggira sui 4,5 milioni di euro, con una fetta del 40% proveniente dal canale Horeca (ristorazione) e dalle enoteche. Quarantamila bottiglie all’anno finiscono poi sugli scaffali della Gdo, in cui è Coop a farla da padrona con la sua linea “Pro montagna” (4 i vini St Jodern presenti in assortimento). Numeri raggiunti “nel rispetto totale delle famiglie conferitrici – spiega Hock -. Basti pensare che paghiamo un quintale di Heida più di quanto venga pagato un quintale di Nebbiolo destinato alla produzione del Barolo, assicurando circa 7,50 franchi al Kg, ovvero più di 6 euro”.
ST JODERN KELLEREI – BEST WINES Heida Veritas 2013, 14,5% – Vino bianco ottenuto da vite a piede franco centenaria, che genera acini e grappoli minuscoli. Garantita così la letterale esplosione della tipicità del vitigno. St Jodern affina in giare di terracotta questo vino, per mantenere ulteriormente intatte le caratteristiche dell’uva. Di un bel giallo carico, al naso evidenzia note floreali fresche e fruttate (albicocca). Annuncia già all’olfatto una mineralità che ritroveremo anche al palato, sotto forma di una sapidità di rara pregevolezza. Vino di grande persistenza. Fuori dalle righe, un fuoriclasse.
Pinot Nero 2015, 13,8% – Affina in acciaio questo Pinot Nero St Jodern, cui viene aggiunta una percettibile quantità di Gamay, che solitamente si aggira attorno all’8-10%. Bel rosso rubino brillante, regala un naso tutta frutta e mineralità. E’ questo, insomma, il filo conduttore dei vini St Jodern. La centralità del frutto (bacche rosse, canoniche) anche al palato gioca sinuosamente con una pregevole sapidità. Tannino piuttosto leggero, ma non siamo certo nell’area dei Pinot Nero di Salgesh. Un vino di montagna, naturale, non costruito. Da apprezzare per la verità territoriale che racconta. E per la sfida che rappresenta per St Jodern, nel futuro: migliorare ulteriormente la produzione dei rossi, portandoli ai livelli straordinari dei bianchi di casa Visperterminen.
ALBERT MATHIER ET FILS, SALGESCH (VALAIS) Abbiamo nominato prima i Pinot Nero della zona più vocata, Salgesch. Ed eccoci dunque alla Albert Mathier et Fils, casa vinicola di grande tradizione nel Vallese, oggi guidata da Amédée Mathier, nipote del fondatore. A condurci nella visita della cantina e nella degustazione è Patrick Jost (nella foto). In un territorio dove il Pinot Nero è la “specialità della casa”, Mathier è riuscita a distinguersi con uno straordinario progetto: quello della vinificazione in anfore di terracotta interrate. Sul retro della cantina, infatti, si possono scorgere le cinque postazioni in cui si trova il vino. Ogni “kvevri” – questo il nome georgiano delle anfore, localmente ridefinite con l’onomatopea “tschatscha” – può contenere fino a 1800 litri. Si tratta di un blend tra Resi (Rèze) ed Ermitage (Marsanne) per il bianco (che in realtà assume il colore tipico degli orange wine dei nostri friulani Josko Gravner e Sasa Radikon), e di Syrah in purezza per il Vin D’Amphore Noir. Dopo la vinificazione in anfora, momento in cui risultano fondamentali i ripetuti batonnage, il vino affina in botti di acacia e ciliegio. Regalando agli intenditori dei nettari unici e rari, di grandissima complessità (64 euro il prezzo di una bottiglia). Vini ossidativi, dunque, di cui vengono prodotte solamente 800 “pezzi” per tipologia, ognuno dei quali ha contribuito a rendere famosa nel mondo questa cantina vallese. Trenta gli ettari di terreni vitati su cui può contare la Albert Mathier et Fils, con un potenziale annuo che si aggira attorno alle 500 mila bottiglie. Tutti vini di grande pulizia e perfezione enologica quelli di questa cantina di Salgesch, che tuttavia non lasciano l’impronta territoriale sperata. Il “plus” di questa winery è proprio quello offerto dalle giare, vero colpo di genio di Amédée Marhier, assieme al tentativo di sviluppare l’enoturismo realizzando un salotto esterno alla cantina, abbellito dalle opere di alcuni artisti locali, dove presto sarà possibile consumare al calice la produzione della cantina. Segnaliamo a questo proposito due vini.
ALBERT MATHIER ET FILS – BEST WINES Malvoisie Flétrie 2014, 14,2% – Pinot Grigio, vendemmia tardiva. Buon vino da dessert, in grado di accompagnare anche formaggi a pasta semidura. Bel corpo e persistenza, esprime una dolcezza pacata, non invadente. Gradevoli le note di albicocca e miele che accompagnano prima l’olfatto e poi il palato verso una buona persistenza retro olfattiva. Rhoneblut 2013 Vinum Lignum, 13,5% – Fa parte della gamma di vini affinati in legno questo Pinot Noir in purezza di casa Mathier. Fratello maggiore della versione base, per complessità ed eleganza. Pregevole tannino, note fruttate chiare e distinte. E una freschezza espressa da un’acidità spiccata: ottime le potenzialità di una lunga vita in bottiglia, in ascesa. Il fondatore della cantina ha voluto chiamare questa linea “Rhone-blut” per sottolineare il suo attaccamento alla terra d’origine: “Rhone” è il fiume Rosano, “blut” il sangue. “Scorre come un fiume il sangue in questo vino”.
CAVE DU RHODAN, SALGESCH (VALAIS) Il titolare della Cave du Rhodan è assente al momento del nostro arrivo e il personale presente non parla inglese. Veniamo comunque invitati alla degustazione dei vini di questa premiatissima cantina vallese, capace di aggiudicarsi riconoscimenti a livello internazionale. Semplice ed efficace la filosofia da queste parti: Sandra e Olivier Mounir producono “vino sostenibile da agricoltura sostenibile”. La produzione infatti si fregia della certificazione biodinamica.
CAVE DU RHODAN – BEST WINES Petite Arvine 2015, 13,5% – Medaglia d’argento al Decanter 2016, non a caso. Profumato di fiori e frutta fresca al naso, morbido e rotondo al palato, sfodera come d’improvviso, accendendosi d’un tratto, un corpo e una struttura inimmaginabili in precedenza. Note fruttate eleganti anche nel retro olfattivo, ottima la persistenza.
Merlot Barrique 2014, 14% – Naso di liquirizia che colpisce ancor prima d’averne scorto il colore nel calice, che si tinge d’un bel rosso rubino con riflessi granati. Ritroviamo la medesima piacevolezza e concentrazione delle tinte fruttate riscontrato in tutto il resto della produzione Cave Du Rhodan, evidentemente a premiare l’ottimo lavoro in vigna e una padronanza totale delle difficoltà intrinseche alla viticoltura biodinamica. Barrique presente, distinta nei sentori terziari conferiti al nettare. Ma utilizzata, anche questa, con grande garbo. Tannino elegante e ottima persistenza. Gran bel rosso. Da degustare, magari, anche tra qualche anno.
KREUZRITTER KELLEREI, SALGESCH (VALAIS) E’ il giovane Jonas Leo Cina (nella foto), quarta generazione di una famiglia di viticoltori dal cognome diffusissimo a Salgesch e nel Vallese, a condurci alla scoperta dei vini della Kreuzritter Kellerei di Unterdorfstrasse, 32. Duecentomila bottiglia prodotte annualmente, per una realtà che è sulla cresta dell’onda dal 1917. Che oggi può contare anche su un hotel, l’Arkanum, in cui è possibile dormire in letti ricavati da tonneau dismesse. L’hotel sorge proprio sulla vecchia cantina, che nel 1985 è stata abbandonata per far spazio all’innovativo progetto di accoglienza dei turisti. La produzione della Kreuzritter Kellerei è tutta interessante e Jonas non teme il confronto con gli altri 49 viticoltori del paese. Ma ha un sogno. “Vorrei che tutto il Vallese fosse più unito – commenta – come lo siamo noi qui a Salgesch: un paese di 1500 abitanti, con 50 cantine attive sul territorio! Nel villaggio accanto, dove si inizia a parlare francese al posto del tedesco, c’è molta gente gelosa del nostro terroir e del nostro clima. Vorrei che si capisse che abbiamo tutti gli stessi problemi, tutti le stesse difficoltà. Confido molto nel lavoro delle nuove generazioni in questo senso”. Due i vini della cantina Kreuzritter che ci sentiamo di consigliare: non a caso sono entrambi vini rossi.
KREUZRITTER KELLEREI – BEST WINES Salquenen Cuvée d’Amitié 2014, 13% – Il giovane Jonas Leo ha introdotto questa deliziosa Cuvée da qualche anno nell’assortimento della propria cantina. Un successo lampante: le 1.500 bottiglie prodotte annualmente finiscono subito sold out. Prenotate ancor prima di essere imbottigliate. Si tratta di un Cabernet Sauvignon affinato 6 mesi in barrique, dove trova compimento la stessa vinificazione. Lampone, ribes, cioccolato, tabacco dolce al naso. Una vena vegetale che richiama la foglia del pomodoro e il peperone. In bocca la frutta a bacca rossa. Ad anticipare una chiusura elegantemente speziata. Vino di grande longevità.
Pinot Noir Le Refuge 2014 – Nessun affinamento in barrique, invece, per questo pregevole Pinot Nero tutto frutta ed eleganza del tannino. Ci sorprende il colore, veramente troppo carico per un Pinot Noir. Finché Jonas Leo non dichiara la presenza di un 5% di Diolinoir, varietà autoctona spesso utilizzata nei blend vallesi per la massiccia presenza di antociani, composti responsabili del colore rosso del vino. Le Refuge rispecchia le caratteristiche peculiari del terroir, guadagnandosi un posto d’onore tra i Pinot Noir di Salgesch.
DOMAINES ROUVINEZ, SIERRE (VALAIS) “La passione per l’eccellenza”. Questo lo slogan della famiglia Rouvinez, capace di abbracciare 12 domini dislocati nel Vallese, per un totale di 87 ettari. Un’avventura che affonda le radici nel 1947 per volere del fondatore, Bernard Rouvinez, che oggi può contare sui figli Dominique e Jean-Bernard, entrambi enologi. “Ad ogni vino la sua terra migliore per esprimersi”, sintetizza l’ottima Yannick Poujol (nella foto), responsabile Accoglienza della cantina di Chemin des Bernadienes 45, Sierre. “Single grape from single domain“. E una blend line a completare l’offerta, tra cui spicca a livello di notorietà conquistata in Svizzera l’assemblaggio di Cornalin, Humane Rouge, Syrah e Pinot Noir: il corposo Le Tourmentin, che ha visto la luce nel 1983. Il tour si svolge in quella che è la cantina storica della famiglia Rouvinez, oggi casa eletta dei vini da affinamento in legno. Una nuova struttura è stata realizzata negli anni Novanta a Martigny, uno dei centri di interscambio commerciale principali per la sua posizione strategica tra il Vallese e il cantone Vaud. Seicentomila le bottiglie prodotte annualmente da Rouvinez. “Ognuna, a suo modo – evidenzia Yannick Poujol – è in grado di esprimere al meglio le peculiarità dei vitigni. Non a caso in Vallese, pur essendoci solo 500 ettari vitati, possiamo contare ben 10 terroir diversi. Ed è lì che coltiviamo le nostre uve, a un’altezza variabile tra i 400 e i 1000 metri d’altezza”. Di assoluta perfezione e pulizia enologica, ai Rouinez va riconosciuto il grande merito di portare nel calice le caratteristiche intrinseche del Vallese.
DOMAINES ROUVINEZ – BEST WINES Coeur de Domaine, 14,5% – Strepitoso blend ottenuto dall’assemblaggio di un 70% di Petite Arvine, un 20% di Heida e un 10% di Hermitage (Marsanne), provenienti da tre differenti domaine, tra i quali è stato selezionato accuratamente, acino per acino, il meglio della produzione. Lo suggerisce lo stesso nome di fantasia dato a questo bianco poderoso per struttura, ma tutt’altro che invadente nonostante l’alcolicità sostenuta. Sfodera sia al naso sia al palato note elegantissime di limone e frutta a polpa bianca, che impreziosiscono una beva di persistenza infinita: vino sinuoso, di grande complessità, robusto e allo stesso tempo delicato come una nuvola che ti s’infila nel palato. Compagno perfetto per una cena a base di pesce.
Merlot Bio 2014, 14% – Tra gli ottimi rossi di Rouvinez (avremmo potuto citare per esempio l’Humane Rouge 2014 o il Cornalin 2014, o lo stesso, ottimo, Le Tourmentin Valais Aoc 2013) scegliamo di premiare a pieni voti il Merlot biologico, vendemmia 2014: letteralmente da applausi. Per la perfezione delle distinte note fruttate. Per la pulizia dell’olfatto tutto. Per la perfetta armonia ed equilibrio tra il corpo “grasso” e l’alcolicità. Per il semplice fatto che fa sognare d’aver di fronte un piatto di carne succulenta. Da divorare tra un sorso e l’altro.
CHATEAU CONSTELLATION, SION (VALAIS) C’è anche spazio per un curioso tuffo nella cronaca giudiziaria elvetica in occasione del wine tour di vinialsupermercato.it in Svizzera. Ci imbattiamo casualmente in Chateau Constellation, cantina che non avevamo in programma di visitare. Impossibile non notare l’imponente struttura, costruita con le sembianze di un castello, che domina il panorama in direzione Nendaz. Scopriamo così che Chateau Constellation è il nome scelto dal principale azionista, Dominique Giroud, per la sua “riconsacrazione” nel mondo del vino elvetico, dopo le accuse per frode, falsificazione di merci e contraffazione che lo hanno visto al centro di uno scandalo senza pari, per presunti reati commessi a cavallo tra il 1997 e il 2013. La stampa svizzera ha rinominato la vicenda Affaire Giroud. Tra le accuse, anche quelle di aver tagliato del St Saphorine del Vaud (vino bianco pregiato, ricavato da una sottozona della Aoc Lavaux) con del Fendant del Vallese. All’epoca, l’imprenditore era titolare della Giroud Vin SA, che ha dichiarato la bancarotta. Tra i dipendenti in forza a Chateau Constellation, almeno un paio sono italiani. E dall’Italia provengono molti vini oggi in vendita nel sontuoso “salotto” borghese allestito a Sion da Dominique Giroud: perché è così che andrebbe definito il piano terra del “castello”, dove è sorta una vera e propria enoteca con spazio ristorazione (tavola fredda). E ai piani alti, sale per ricevimenti, matrimoni, occasioni speciali. Ovviamente all’insegna del lusso. Cordialissimo il personale che ci guida nella visita delle cantine e dell’immensa struttura. Nonché nella degustazione dei vini. Un po’ meno memorabile la preparazione enologica degli addetti, che forse da queste parti non deve contare più di tanto. Vini di puro commercio, di fatto, quelli che degustiamo a Constellation. Destinati ad accontentare – immaginiamo – palati internazionali radical chic, alla ricerca di curiosi “pezzi svizzeri” da aggiungere a una spocchiosa collezione di “vini dal mondo”. Vini, quelli di Chateau Constellation, che la catena di supermercati svizzeri Denner ha tolto dall’assortimento dei propri punti vendita, in seguito all’Affaire Giroud. Modalità Svizzera: on.
SELECTION EXCELSUS JEAN CLAUDE FAVRE, CHAMOSON (VALAIS) Dal vino come business, al vino come ragione di vita. Eccoci a Chamoson, nel nostro incedere dal Vallese verso il canton Vaud. Tappa imprescindibile del nostro wine tour, la cantina Selection Excelsus di Jean Claude Favre (nella foto). Personaggio istrionico, Jean Claude ha organizzato in ogni minimo dettaglio il nostro incontro. Con tanto di traduttori per colloquiare in lingua inglese. “I vini Selection Excelsus sono l’espressione fedele d’un terroir d’eccezione”. Così Jean Claude ci introduce idealmente nel suo regno di Chamoson, il Comune con la maggiore superficie vitata del Valais. Un territorio fortemente frammentato. I proprietari di vigneti sono circa 1200. E diversi appezzamenti sono di soli 100 metri quadrati. Un affare di cuore la viticoltura, da queste parti più che altrove. Una situazione simile solo a quella di Visperterminen. In questo puzzle, Selection Excelsus può contare su circa 6 ettari vitati (45 mila bottiglie). Tutti situati sulla conoide alluvionale che rende speciale – in termini di terroir – questo villaggio svizzero. Solo il 10% delle vigne di Chamoson si trovano infatti su terrazzamenti eroici. Eroica è stata invece l’impresa di Jean Claude Favre, che è riuscito a trasformare la cantina fondata nel 1980 dal padre (conferitore d’uve) in una delle più rinomate della Svizzera. Allargando il business a Paesi come Germania e Italia. Come? “La produzione – spiega l’eclettico vigneron – si basa principalmente sulla valorizzazione dei singoli vitigni. Solo due i blend: un bianco e un rosso, entrambi indicati col nome di fantasia ‘1955’, codice postale di Chamoson. Fondamentalmente faccio vini che piacciono a me. E’ questa la mia filosofia. E infatti, tra le varietà, è possibile riscontrare, oltre a quelle tipiche come il Johannisberg e il Fendant, anche il Pinot Blanc e il Pinot Gris: semplicemente perché li amo!”.
SELECTION EXCELSUS – BEST WINES Humagne Blanche 2014, 12,5% – Mineralità, frutto, utilizzo non invasivo della barrique. Che cosa manca a questo Humagne Blanche per essere definito perfetto? Niente. Ottenuto dalla più antica varietà di cui si abbia notizia Nel Vallese (“Registre d’Anniviers”, 1313), contiene molto più ferro rispetto agli altri vini. Tanto da essere soprannominato “vino della nascita”. Alle giovani donne che partoriscono negli ospedali vallesi ne viene tradizionalmente offerto un calice a scopo ricostituente. Riti e usanze a parte, quello di Selection Excelsus è un Humane Blanche eclettico, impreziosito dalla barrique e capace di accompagnare aperitivi, pesce e crostacei, dall’antipasto ai primi. Perfetto anche con i piatti a base di formaggi locali. La spiccata acidità fa sì che l’Humagne Blanche Selection Excelsus possa essere conservato in cantina per anni, prima di essere degustato su note più evolute. In gioventù si mostra aromatico, ma di un’aromaticità estremamente fine. “Eccelsa”, per restare in tema.
Cornalin 2015, 13% – La pazienza è la virtù dei saggi. E di chi ama il vino, aggiungiamo noi. Dare tempo al Cornalin 2015 di Selection Excelsus è quasi un obbligo morale. Se non altro per rispetto delle viti storiche, impiantate nel 1978, su cui può contare Jean Claude Favre per la produzione di questo straordinario rosso di prospettiva. Piante capricciose, difficili da coltivare. Quattromilacinquecento le bottiglie prodotte in media ogni anno, con rese di 30-35 quintali. Dire Cornalin a Chamoson è come dire Nebbiolo a Barolo. Ma quello di casa Favre ha una marcia in più rispetto a quello dei vicini. Un naso di ciliegie e note floreali di sambuco precedono un palato di struttura, buona acidità e tannini pregevolissimi. Già apprezzabile con piatti importanti a base di carne, va – come anticipato – dimenticato in cantina e riscoperto tra almeno 4-5 anni. Come minimo, ovviamente.
DOMAINE DE BEUDON, FULLY (VALAIS) Appena travolta da una tragedia immane, come quella della scomparsa di Jacques Granges – deceduto in seguito a un incidente avvenuto proprio tra le vigne – veniamo accolti a Beudon dalla moglie del vigneron, Marion Granges-Faiss (nella foto). Quella tra le “vigne del cielo” di Fully, per noi di vinialsupermercato.it, è stata di fatto un’esperienza umana straordinaria, oltre che professionale. Dell’incontro con Marion abbiamo già trattato nel nostro ampio reportage. Ricordiamo qui che la produzione del Domaine de Beudon, certificata biodinamica, rientra nel circuito dei viticoltori Triple A. Le vigne, tutte situate a un’altezza compresa tra i 600 e i 900 metri, con pendenze da scalatore, danno vita a vini dagli eccezionali profumi e aromi. Vini estremamente longevi, capaci di scardinare di netto certe leggi non scritte del vino svizzero, secondo le quali – per esempio – un Fendant “va bevuto giovane”.
DOMAINE DE BEUDON – BEST WINES Fendant 2004– Nel calice si presenta ancora d’un bel giallo paglia, con riflessi verdolini. Al naso l’impagabile freschezza delle note fruttate (albicocca) e uno spunto vegetale che costituirà ilfil rouge, preziosissimo, di tutta la produzione del Domaine de Beudon. Un contrasto solo apparente, in quadro in cui anche la mineralità gioca un ruolo fondamentale. Un vino d’agricoltura, d’artigianato. D’arte.
Riesling Sylvaner 2004 – Ottenuto da un appezzamento di 1,6 ettari situato interamente a 800 metri d’altezza, risulta aromatico come un giovane Moscato al naso, nonostante i 12 anni, con un tocco di miele delicato e fine. Lunghissimo in bocca, chiude su note amarognole che ricordano vagamente il rabarbaro.
Petite Arvine 2014– Premiato come miglior vino bianco bio della Svizzera. Lo degustiamo leggermente fuori temperatura. Ma ne apprezziamo comunque la freschezza. Bel naso, a cui risponde in bocca una portentosa struttura e calore: verbena, timo, limone. La sensazione è quasi balsamica.
Constellation 2007 – E’ il riuscitissimo blend tra Pinot Noir, Gamay e Diolinoir, varietà autoctona del Vallese. Un vino sensualissimo. Dai profumi vellutati di frutta (piccole bacche rosse) al riconoscibilissimo sentore di rosa. Un vino sinuoso, del fascino della discretezza. Anche al palato. Dove chiude con le canoniche note di erbe officinali, persistenti, lunghe.
LA CAVE DES CHAMPS CLAUDY CLAVIEN, MIEGE (VALAIS) Ormai pronta a prendere le redini della cantina al fianco del padre, Shadia Clavien (nella foto) ci accoglie nella sala degustazioni de La Cave des Champs, a Miege nel Vallese, da vera padrona di casa. La giovane, 23 anni, sta completando gli studi nella prestigiosa Alta Scuola di Viticoltura ed Enologia di Changins, a Nyon, canton Vaud. Il polo universitario più accreditato dell’intera Svizzera in materia enologica. E tra un paio d’anni sarà pronta a seguire le orme di quello che, in terra elvetica e non solo, è considerato un guru del vino: Claudy Clavien. Abbiamo ormai abbandonato da una decina di minuti il rettilineo che taglia in due il cantone, correndo parallelo al reno. Avventurandoci nelle tortuose stradine che conducono da Sierre a Crans Montana. Fino a giungere a Miege. Pittoresco paesino di 1.500 anime, a 700 metri sul livello del mare. Anche qui, quella che ormai è una consuetudine: più vigne che campanelli delle abitazioni. Dei 130 ettari vitati del paese, La Cave des Champs può contare su 10. Con una capacità produttiva annua che si assesta, in media, sulle 700 mila bottiglia. “Grazie a un attento lavoro in vigna – spiega Shadia Clavien – cerchiamo di tradurre in bottiglia sia le caratteristiche di struttura sia quelle di freschezza del vino, a seconda dell’uvaggio. Mio padre ama i vini sottili e strutturati ed è per questo che lavoriamo con botti di alta qualità, cercando di conferire al vino ulteriore complessità e un lento e promettente invecchiamento”. In effetti è vasta la produzione de La Cave des Champs che si avvale dell’utilizzo di barrique. E ad ogni sorso è evidente il grande potenziale dei vini firmati da Claudy Clavien. Vini territoriali, da aspettare in cantina per anni. Vini che, bevuti oggi, esprimono un tannino di grande potenzialità e sentori terziari vanigliati un po’ troppo aggressivi, almeno per il gusto italiano. Una gamma che, dall’anno prossimo, si arricchirà del frutto della prima vendemmia di Merlot, impiantato per la prima volta tre anni fa.
LA CAVE DES CHAMPS, BEST WINES Fendant 2015, 11,5% – Per finezza, il miglior vino da uve Chasselas degustato in Svizzera in occasione del nostro wine tour. E parliamo della “finezza” della semplicità, non della complessità. Si tratta infatti del vino bianco più diffuso in questa regione. Un vino leggero, da pasto. Che in casi come questo, rarissimi, si eleva all’ennesima potenza. Naso tutta frutta e fiori freschi. E facilità di beva straordinaria, resa tutt’altro che banale dalla ‘grassezza’ delle note fruttate, che conferisco grande morbidezza a un palato di velluto. Ottimo come aperitivo, il Fendant 2015 La Cave Des Champes può aspirare ad accompagnare addirittura piatti di pesce. Da provare.
Cornalin 2015, 13% – Vitigno difficile da coltivare, è una delle sfide più interessanti per Claudy Clavien la produzione in purezza del Cornalin. Molti altri lo hanno estirpato. Tanta frutta nel naso e in bocca, per un vino che vale di degustare per giungere – idealmente – all’esatto compresso tra la freschezza di un Pinot Nero e la complessità e struttura d’un Syrah. Tannino straordinario per finezza.
Diolinoir 2014, 13% – Ha bisogno di qualche minuto nel calice per aprirsi completamente e sprigionare le proprie potenzialità il Diolinoir di Claudy Clavien. Si tratta di un ‘incrocio’ ottenuto dalle varietà Diolly e Pinot Noir, introdotto nel Vallese negli anni Settanta. Naso interessante dominato dai piccoli frutti a bacca rossa, sfodera l’ennesimo tannino elegante di casa La Cave, mostrando ampi margini di potenziale invecchiamento. Già oggi piacevolissimo, regala una bocca ricca e piena e un retro olfattivo degno di nota.
Carminoir 2014, 13% – Se avete da giocarvi una sola fiche, bene: puntate tutto sul Carminoir di Claudy Clavien, delizioso incrocio tra Pinot Noir e – questa volta – Cabernet Sauvignon. Quantomeno per la sua unicità. Bel naso elegante su note fruttate che, presto, rivelano d’essere in ottima compagnia di sentori speziati di liquirizia e aromi di caffè (12 mesi di affinamento in barrique). In bocca è suadente, morbido, rotondo nonostante la buona struttura. Svela, solo nel finale, uno spunto leggero di liquirizia dolce. Grande persistenza. Perfetto per accompagnare piatti anche strutturati a base di carne, è un altro vino capace di invecchiare bene negli anni.
CLOS DE TSAMPÉHRO, FLANTHEY (VALAIS) Sono vini in giacca e cravatta, quelli di Clos de Tsampéhro. La penna è quella di Emmanuel Charpin (nella foto), artefice con i suoi tre soci Joel Briguet, Christian Gellerstad e Vincent Tenud, di un vero e proprio miracolo enologico. La cantina di Flanthey, che divide i locali con la consociata Cave La Romaine di Joel Briguet, apre ufficialmente i battenti nel 2013. Si brinda con le bottiglie della prima vendemmia, la 2011. Il target è subito evidente. Alta gamma. La produzione Clos de Tsampérho, ben presto, cattura le attenzioni dei ristoranti svizzeri più accreditati. Non passa inosservata agli stellati Michelin. Che fanno a gara, uno dopo l’altro, per aggiudicarsi i vini della nuova casa vinicola di Flanthey. Un successo arrivato presto, prestissimo. Ai nastri di partenza. Non a caso condividiamo la degustazione dei vini Clos de Tsampéhro con Pierre Edouard Coullomb, head sommelier dell’Hotel Les Sources des Alpes, cinque stelle di Leukerbad. Che presto avrà in carta queste “chicche”, ottenute da 2,5 ettari vitati complessivi, per un totale di 9500 bottiglie prodotte nel 2015. E’ Emmanuel Charpin a guidarci alla scoperta del cuore pulsante della cantina: la barricaia. Centoventi piccole botti, in cui riposano per un minimo di due anni i nettari in seguito alla vinificazione, avvenuta rigorosamente in legno (botti grandi di rovere). “Tsampérho – spiega Charpin – ha come unico obiettivo la qualità assoluta, senza il minimo compromesso. Ciò si traduce in basse rese in vigna, nella migliore selezione delle uve ma, ancor prima, in trattamenti di tipo biologico per prevenire le malattie della vite, al posto di combatterle”. Clos de Tsampéhro è infatti una delle dieci cantine della Svizzera che si avvalgono di elicotteri per i trattamenti agricoli. Alla giovane cantina di Flanthey va anche riconosciuto il grande merito d’aver promosso il recupero del Completer, vitigno autoctono del Vallese a bacca bianca, ormai sparito. Le barbatelle provengono dal canton Grigioni, dove invece è ancora allevato. Di seguito i migliori vini degustati, tenendo presente, però, che l’assaggio è avvenuto direttamente dalle barrique. I vini 2016 di Clos de Tsampéhro, tutti eccellenti, devono ancora essere imbottigliati.
CLOS DE TSAMPÉHRO, BEST WINES Tsampérho blanc 2015, ?% – Le premesse in barrique sono ottime per questo straordinario assemblaggio delle varietà Heida (70%) e Reze (30%). Vinificazione totale – 15/18 mesi – in botte, dopo la raccolta manuale dei grappoli e la pressatura soffice. Alla complessità e alla finezza degli aromi del primo uvaggio si sommano i muscoli e le caratteristiche più ruvide del secondo, sopratutto in termini d’acidità. Il risultato, al naso, è pressoché aromatico: frutta a polpa bianca, albicocca, fiori d’acacia. In bocca regna un perfetto equilibrio, con prevedibile predominanza delle note morbide e vellutate dell’Heida. L’acidità del Reze dona ulteriore freschezza e complessità alla beva. E ne fa un vino atto all’invecchiamento, che immaginiamo verterà su tinte – ancora più spiccate – di idrocarburo. Chapeau.
Completer 2014, ?% – Suadente e vellutato al naso, si conferma tale anche al palato. Le note di idrocarburo, qui già ben distinte, fanno spazio anche a sentori di pietra focaia. L’alcolicità è spiccata, assestandosi oltre i 15% in volume. Ma l’equilibrio è letteralmente perfetto. Un vino che fa vibrare il palato per le note evolute che parlano d’agrumi, per l’acidità piacevolmente citrica, per lo spunto gassoso percettibile anche nel retro olfattivo. Un capolavoro. Da aspettare ancora qualche mese, prima dell’imbottigliamento dalla barrique. E poi per anni, in cantina. Se si è capaci.
Tsampéhro III 2014, 14,2% – Il numero III indica la terza vendemmia della casa vinicola, che ha scelto di incartare la bottiglia con una carta velina fine, su cui è stampata la mappa dei vigneti. Una prima impressione che deve far pensare alla territorialità di questo blend rosso, che in una degustazione alla cieca potrebbe essere scambiato – senza vergogna – per un Super Tuscan. A comporre l’assemblaggio sono Cornalin (che fa la parte del leone), Merlot, Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon. “Vogliamo vini perfetti – evidenzia Emmanuel Charpin mentre versa il prezioso nettare nel calice – ma che siano anche piacevoli da bere”. Missione compiuta, Emmanuel. Perché Tsampéhro III 2014 lo puoi accostare a piatti saporiti a base di carne. Ma si presta alla perfezione anche come vino da meditazione, dopo pasto. Il compagno perfetto di un buon libro. Un vino rosso dominato dal fil rouge delle note fruttate grasse e dalla struttura del Cornalin, cui si sommano le note speziate del Merlot e quelle vegetali e fresche dei due Cab. Un vino che racconta – al naso e al palato – sentori di confettura di amarene e prugna, impreziositi da varietali speziati al pepe nero e terziari come liquirizia e cuoio. Evidente la propensione di questo blend all’ulteriore affinamento in bottiglia, fino a 15 anni.
NEYROUD FONJALLAZ, CHARDONNE (VAUD) Jean Francoise e Anne Neyroud, marito e moglie, sono i titolari di questa storica cantina di Chardonne, prima tappa di vinialsupermercato.it nel cantone Vaud. Fondata nel 1901, l’attuale struttura è stata acquistata dalla famiglia dalla famiglia Neyroud nel 1938. La vera svolta nel 1962, quando il padre di Jean Francoise abbandona le attività collaterali legate al bestiame per dedicarsi anima e cuore alla sola viticoltura. Ci troviamo nel cuore delle terrazze di Lavaux, che dominano la parte centro-orientale del Lago di Ginevra, ai piedi del Monte Pèlerin. Un luogo unico, patrimonio mondiale dell’Unesco. I terreni vitati della Neyroud Fonjallaz, che ammontano a circa 7,5 ettari, si trovano tutti in sottozone elette alla viticoltura del Lavaux, come Saint-Sephorine, Calamin e Dézeley.
NEYROUD FONJALLAZ, BEST WINES Dézeley 2015, 12,5% – Dopo i primi bianchi a base Chasselas, più destinati all’aperitivo che ad accompagnare un pasto completo, ecco un Dézeley di buona finezza, sia al naso sia al palato. Dominano la scena note fruttate di buona eleganza, che richiamano il melone e i frutti esotici. Buona anche la persistenza.
Saint-Sephorine Pinot Noir 2015, 12,8% – Un Pinot Noir in purezza che, al naso, regala le classiche note di sottobosco, con predominanza dei piccoli frutti a bacca nera su quelli a bacca rossa (più mora che lampone e fragolina). Un bel tannino elegante segue il valzer della frutta, prima di una piacevole chiusura su tinte minerali e sapide. Bella esaltazione del terroir di Lavaux in questo rosso di casa Neyroud-Fonjallaz. Semplice e genuino come la famiglia che lo produce.
JACQUES & AURELIA JOLY, GRANDVAUX (VAUD) Ad accoglierci, nella “casa-cantina” di Grandvaux, a pochi passi dal pittoresco centro storico del villaggio elvetico che s’affaccia su un lago di Ginevra mozzafiato, è un ragazzetto in pantaloncini corti, a petto nudo. Buon inglese. E la maturità d’un adulto: “Mi metto una maglietta e chiamo papà. Solo un momento”. Jacques Joly è in vigna quando suoniamo al campanello. Ci mette poco ad arrivare, seguito poi dalla moglie. Nel frattempo Gerome, il figlio 15enne, ci fa accomodare nella sala degustazione. Una bella famiglia del vino svizzero, i Joly. “Our wine, our life“, si legge sulla brochure di presentazione. E in effetti è questa la prima impressione. Tre ettari di terreni, per una produzione di circa 25 mila bottiglie l’anno. Terreni che non sono di proprietà di Jacques e Aurelia. Ma che, forse, un giorno lo diventeranno. La cantina, sorta nel 2008, ha già saputo imporsi nel panorama nazionale, aggiudicandosi diversi premi enologici (Lauriers d’Or Terravin). Inoltre, il governo cantonale ha premiato i Joly per il loro impegno nella promozione dell’enoturismo locale, che dallo scorso anno ha subito un’impennata nel Lavaux. La produzione dei Joly, del resto, è in grado di offrire una valida fotografia delle sfaccettature che assume il vitigno Chasselas (chiamato Fendant nel Vallese) nelle 8 diverse sottozone di produzione del Lavaux (830 ettari ripartiti su 6 Comuni rivieraschi). Qualche esempio? Il cru Dézaley dà vita a Chasselas che assumono sentori spiccatamente minerali, che sfociano nella pietra focaia. A Calamin, l’altro cru, la massiccia presenza d’argilla nel suolo regala vini complessi, soprattutto dal punto di vista olfattivo. E a Villette, l’area più estesa con i suoi 175 ettari, la sabbia compie l’esatto opposto: vini di facile e pronta beva, poco atti all’invecchiamento, ma molto fruttati.
JACQUES & AURELIA JOLY, BEST WINES Epesses Lavaux Aoc La Destinée 2015, 12% – Un gran bell’esempio della complessità offerta allo Chasselas dai terreni argillosi della sottozona Epesses. Al naso note fruttate eleganti e mineralità spiccata. Le stesse che si ritrovano in un palato di grande equilibrio. Pregevole anche il finale: La Destinée chiude, lungo e persistente, su note di melone maturo. L’ennesimo vino bianco svizzero che può aspirare a qualcosa di più del semplice abbinamento in occasione dell’aperitivo. L’Arpent 2014, 13,5% – Riuscitissimo blend tra Garanoir (80%) e Syrah (20%), L’Arpent è un rosso poderoso, ottenuto da seconda rifermentazione in barrique. La vinificazione delle uve avviene separatamente e il mix del Syrah con la varietà locale Garanoir viene effettuato solo in seguito a una selezione accurata della barrique nella quale le uve del vitigno francese esprimono il tannino e la morbidezza desiderata. Ne scaturisce un vino dall’imponente impronta olfattiva: alle note di confettura di more fanno eco intensi richiami al cuoio, alla liquirizia e al cioccolato. Con l’ossigenazione, L’Arpent si apre anche a sfumature fumé. Buona morbidezza al palato, dove il tannino risulta effettivamente equilibrato. L’utilizzo della barrique è perfetto: le note vanigliate fanno solo da contornom nel finale e nel retro olfattivo, al ritorno delle note fruttate di mora.
CAVE PHILIPPE BOVET, GIVRINS (VAUD) Vale proprio la pena di percorrere ogni singolo chilometro delle strade anguste che tagliano in due il distretto di Nyon, staccandosi dalla E62, fino a giungere alla cantina di Philippe Bovet. Siamo a Givrins, cuore pulsante del vino del Vaud, lontano dai terrazzamenti tipici del lago di Ginevra (Lavaux). E quella di Philippe Bovet (nella foto) non è una cantina. Non è un’azienda. E’ un sogno ad occhi aperti. E quello che sta combinando da queste parti Bovet, è qualcosa a metà tra l’opera d’arte d’un visionario. E la follia. Philippe Bovet, il Maradona del vino svizzero: lo rinominiamo così al termine della nostra visita in cantina. Un soprannome che va ben oltre la leggera somiglianza tra il vigneron – ex maestro di sci e tuttora grande amico del campione olimpico Didier Défago – e il Pibe de Oro. Ma andiamo con ordine. Sono le 10.30 quando giungiamo a Givrins. Ad occuparsi di noi è Baptiste Moreau (nella foto, sotto), bischero di 21 anni che ha mollato la cantina del padre, produttore di Chablis in Francia, per andare a studiare a Changins. “Troppa teoria e poca pratica”: un fardello, quello della scuola d’alta formazione in Viticoltura ed Enologia, che Baptiste ha liquidato in pochi mesi. Trovando comunque un posto d’onore nella cantina di Bovet. Del resto, il vino ce l’ha nel sangue, Baptiste. Che con destrezza ed estrema preparazione ci guida nella visita della cantina. Grande importanza per il progetto di Bovet rivestono le barrique in cui affinano vini che fino a pochi anni fa erano praticamente sconosciuti in Svizzera. Parliamo del Malbec, su tutti. “Sono un grande amante dell’Argentina e del suo vino principe – spiega Bovet – così ho deciso di tentare di allevarlo qui, a partire dal 2009”. Tra gli 8 ettari di terreni della Cave (5 in conversione biologica), in grado di assicurare una produzione annua di 80 mila bottiglie (numero che sale a 200 mila considerando le vinificazioni effettuate per conto di altri viticoltori della zona), Bovet può contare su 5 differenti cloni di Malbec. Quattro dei quali provengono direttamente dall’Argentina, o meglio dalla cantina Tempus Alba di Mendoza.
Quello piantato nel 2009 arriva invece dalla Francia (Montpellier). Il Malbec di Bovet affina tre anni in barrique. E finisce sold out ancor prima di essere riversato in bottiglia. Una fortuna poter degustare da una delle piccole botti la vendemmia 2014, che sarà “pronta” nel 2017. Ottimo, sempre dalla barrique, anche il Viognier 2015, ottenuto da una particella costituita da viti di 20 anni posta sotto la chiesa di Givrins. Ma in realtà, Bovet ha reso famosa la Svizzera del vino per un altra produzione: quella del Gamay. Avete capito bene. Proprio per il Gamay, considerato il ‘vino rosso da tavola’ degli svizzeri. “Quando ho iniziato a produrre Gamay affinato in barrique, riducendo di molto le rese in vigna – spiega Philippe Bovet – in molti in Svizzera pensavano fossi diventato pazzo. Ho proposto il mio Gamay ad alcune degustazioni professionali: pensavano si trattasse di Syrah. Invece era proprio Gamay”. Il Gamay è la sintesi della filosofia produttiva della Cave Bovet, che punta a valorizzare al massimo il singolo vitigno, “che deve parlare di sé, della terra da cui nasce, ed esprimere nel calice tutto il suo potenziale”. “E’ così che ho vinto un sacco di premi, parlando della purezza di ogni vitigno prodotto”, commenta col sorriso stampato sul viso il viticoltore. La Cave Philippe Bovet produce assieme ad altri tre produttori svizzeri due vini – un bianco e un rosso – frutto di un assemblaggio segreto: “Les 4 Elements”. Si tratta del tentativo di unire lo spirito d’innovazione, il savoir faire e l’expertise in materia enologica di Bovet e degli altri produttori svizzeri Guy Cousin (Vignoble Cousin, Concise – canton Vaud), Stéphane Gros (Dardagny, canton Geneve) e Cave Christophe Jacquod (Bramois – canton Valais) che condividono la medesima filosofia. Sono loro i “quattro elementi”: acqua (Bovet), terra (Cousin), fuoco (Gros) e aria (Jacquod). L’unico vino capace di unire il meglio delle produzioni di quattro distinti cantoni. Molto più di una semplice operazione di marketing. “Nei mesi che precedono la vendemmia – spiega Bovet – osservo le uve e i loro mutamenti e stilo una lista di cose che vorrei sperimentare. A fine vendemmia mi rendo conto d’aver realizzato neppure la metà delle cose che mi ero prefissato. Per chi vuole innovare e sperimentare, soprattutto in Paesi come la Svizzera, dove il clima è particolare e spesso avverso, ogni vendemmia passata è una vendemmia persa. Perché? Perché siamo viticoltori e non cuochi: noi non possiamo rifare una ricetta venuta male, cambiando semplicemente gli ingredienti”. Goal. Palla di nuovo al centro.
CAVE PHILIPPE BOVET, BEST WINES Chenin Blanc 2015, 13,9% – Imbottigliato da circa tre mesi, lo Chenin Blanc 2015 di Philippe Bovet esprime già bene il suo potenziale, che non potrà che esplodere ulteriormente con l’ulteriore affinamento. Il vitigno, originario della Valle della Loira, si racconta nel calice sotto una delle sue poliedriche forme: quello della complessità e della qualità assoluta, a dispetto di chi bistratta i nettari ottenuti da questa nobile bacca bianca. Bovet attende sino all’ultimo minuto la maturazione in vigna, spingendola sino al limite. La vendemmia 2015, del resto, è stata molto favorevole. Giallo paglierino, con riflessi dorati. A un naso complesso di frutta esotica, con il melone che spicca sulle altri frutti come il mango, fa eco una mineralità che segna uno stacco con altri Chenin Blanc degustati in Svizzera, oltre a un corpo di tutto rispetto. La buona acidità lo rende vino atto a un degno invecchiamento, superiore anche ai 5 anni.
Verticale di Gamay, 2010 / 2015 – Viaggio nelle ultime cinque annate della varietà che ha reso famoso Bovet – a buona ragione – in Svizzera e nel mondo. Si comincia dal frutto spinto all’ennesima potenza del Gamay 2015 Pacifique (14%). La vinificazione in acciaio regala un naso e una bocca a base di frutti rossi: consistenti, pieni, ricchi, persistenti. Elegante il tannino, come mamma l’ha fatto. Il Gamay 2014 Atlantique (13,4%) affina invece in barrique. Stessa pulizia delle note fruttate, che sfociano sia al naso sia al palato in terziari di speziati. Botte per nulla invadente nel conferimento di leggere note vanigliate. Si tocca il cielo con un dito con il Gamay 2011 di Bovet: mix perfetto di eleganza e finezza, espressione del magnifico terroir locale. E’ la vittoria di Davide su Golia. La vittoria della qualità sulla quantità. La scommessa vinta da Bovet. Ottimo anche il Gamay 2010, che si fa grasso con le sue note intense di marmellata di prugna e datteri. Unica pecca, quello svanire un po’ frettolosamente nel retro olfattivo: un sogno a bocca piena, che svanisce troppo presto.
DOMAINE MERMETUS, ARAN VILLETTE (VAUD) Il sole luccica sul lago di Ginevra e lo spettacolo che offre la natura, tra le vigne del Domaine Mermetus, è degno d’un quadro impressionista. In mezzo alla cornice si muove una figura piccola, composta. Ci viene incontro. E’ Claire (nella foto), la padrona di casa. Che ci accoglie col sorriso, pronta a guidare con grande professionalità la degustazione. Una fortuna, per il marito Henry Chollet e per il figlio Vincent, poter contare sull’apporto di questa dama del vino svizzero, che conosce bene come le sue tasche la terra e le mille sfumature del vino del Lavaux. Siamo ad Aran Villette, poco lontano da uno svincolo autostradale della E62. Eppure regna il silenzio. Delle auto, neppure l’ombra. Il tetto di Domaine Mermetus e le sue pareti bianche spuntano come per magia tra le vigne della “maison”, poco prima che la collina, scoscesa ma non ripidissima, baci l’acqua del lago di Ginevra. Siamo a casa di un produttore che, grazie al suo profondo attaccamento alla terra d’origine, è tra i fondatori dell’Association Plant Robert – Robez – Robaz. Henry Chollet, marito della splendida Claire, è tra i pionieri che nell’aprile 2002, a Cully, sottoscrivono l’impegno formale nella riscoperta di un vitigno autoctono ormai quasi scomparso: il Plant Robert – Robez -Robaz, per l’appunto. Un vitigno a bacca rossa, della famiglia del Gamay, coltivato nel Lavaux tra il 18° e il 19° Secolo e salvato dall’oblio, in extremis, nel 1966 dal vigneron Robert Monnier. Densità d’impianto minima di 7.500 piante per ettaro, con resa massima di 0.7 litri per metro quadrato e densità del mosto minima di 85° Oechsle: queste le regole del ‘gioco’ dell’associazione, che per garantire l’autenticità del prodotto si rifà all’Organisme Intercantonal de Certification (Oic), a sua volta rispondente al Service d’Accréditation Suisse (Sas). Una speciale “fascetta”, simile al contrassegno di Stato apposto sui vini Docg in Italia, viene apposta sulle bottiglie di Plant Robert autentico. Una missione, quella di Domaine Mermetus, che oggi viene portata avanti con entusiasmo dal figlio di Henry e Claire Chollet, Vincent, in collaborazione con la moglie. Sette ettari totali, suddivisi in 35 particelle. Capaci di trasformarsi in 33 diverse cuvée interamente elaborate, dalla vigna alla bottiglia, dalla famiglia Chollet.
DOMAINE MERMETUS, BEST WINES Vase n° 10 2015,12,8% – E’ lo Chasselas in purezza che, da queste parti, definiscono “gastronomico”. Ovvero il più complesso. Quello che, per caratteristiche, è adatto ad accompagnare un pranzo o una cena, al di là dell’aperitivo. Dopo aver degustato l’ottimo Les Terrasses de Valérie 2015 (Chasselas d’Epesses intenso, grasso, minerale), passiamo con curiosità a Vase n° 10 e ce ne innamoriamo. Di un bel giallo paglierino carico, risulta intenso al naso, ma con la classica nota esotica (melone) che si fa attendere rispetto ad altri Chasselas, piacevolmente sovrastata dalla spiccata mineralità, che poi troveremo anche al palato. Chiude fruttato, con note che ricordano la banana matura. Vase n° 10 è ottenuto senza malolattica, per garantirne la purezza e la struttura ideale per l’accompagnamento gastronomico. La terra ricca di argilla e limo, in cui affondano le radici le viti, è il segreto di questo ottimo bianco svizzero.
Viognier Essence lémanique 2015, 14,9% – Avete letto bene. Un Viognier dall’accentuata alcolicità, eppure così bevibile, per nulla stucchevole o da capogiro. A nostro parere, assieme al recupero del Plant Robert, è questo il vero capolavoro di Domaine Marmetus. Un vitigno, il Viognier, che i Chollet allevano da oltre 20 anni. E un nome, Essence lémanique, scelto non a caso: Lemano è il nome originario del lago di Ginevra, di cui questo vino sembra esprimere l’essenza. La sintesi perfetta. Un po’ come se i Chollet fossero riusciti a condensare, in un’unica bottiglia, tutte le caratteristiche dei terroir del Lavaux. In questo Viognier troviamo la freschezza delle note fruttate riscontrabili nei bianchi della sottozona Villette. Ma anche la complessità dei vini d’Epesses e Calamin. E infine la mineralità e le note evolute dei migliori Dézalay. D’un giallo dorato già di per sé invitante, si presenta al naso con più albicocca che pesca. In bocca morbido, intenso. Con l’alcolicità a fare da cornice, calda ma equilibrata, alle note fruttate. Lungo finale, con spruzzata leggera di pepe bianco. Il compagno perfetto per gustare piatti speziati della cucina indiana.
Plant Robert Le Chant de la terre 2014, 13% – Il “Canto della terra”. Altro nome azzeccato per un vino – questa volta rosso – che parla della tradizione più profonda e dell’amore e dell’attaccamento alle origini della viticoltura del Lavaux. Per comprendere appieno le caratteristiche di questo Plant Robert bisogna conoscere il Gamay, di cui è la versione “esplosa”: più frutta, più spezie. E uno spunto animale, rustico, tradizionale, tipico dei vini veri, sinceri. Non artificiali, autentici. In una parola: naturali. Di un rosso rubino profondo, poco trasparente, Le Chant de la terre si presenta al naso col megafono: piccoli frutti a bacca rossa e nera (lampone, more) accompagnano una speziatura accentuata di pepe e chiodi di garofano. Caratteristiche che ritroviamo anche al palato, dove si comprende come il Plant Robert sia un vino d’attendere qualche anno, prima che esprima appieno tutto il suo potenziale. Col passare dei minuti, l’ossigenazione del nettare nel calice contribuisce a esaltare note più morbide e grasse al naso, che sfociano addirittura nel balsamico delle resine d’abete. Un vino rustico, ma elegante. Un ossimoro con cui accompagnare portate di carne importanti, come per esempio la selvaggina d’agnello.
DOMAINE HENRI CRUCHON, ECHICHENS (VAUD) Ultima tappa prevista tra le cantine del Vaud, prima di spostarci e chiudere il wine tour nel cantone Ginevra, è il Domaine Henri Cruchon di Echichens. Siamo nel distretto di Morges, a casa di una famiglia di viticoltori appassionati, giunta ormai alla terza generazione. Un vero e proprio riferimento nella zona. Ai 12 ettari del Domaine vanno a sommarsi infatti altri 42 ettari vitati di proprietà di altre famiglie, unite in una sorta di cooperativa Il fondatore, Henri Cruchon, può contare sull’apporto dei due figli Michel (viticoltore) e Raoul (enologo), su quello delle loro mogli Anne e Lisa (impiegate amministrative) e, dal 2010, anche sull’apporto della nipote Catherine Cruchon, enologa con esperienze formative anche in Italia, nel Piacentino. Tutti e 12 gli ettari di proprietà sono certificati biodinamici, così come 32 dei 42 ulteriori ettari delle famiglie conferitrici. “La terra non ci appartiene – spiega Catherine – noi siamo i suoi custodi. La coltiviamo, dunque, con l’idea che dobbiamo garantirne la longevità, con pratiche di totale rispetto nei confronti della natura”. Il contesto è quello dell’Aoc Morges, compresa tra la città di Losanna e il fiume Aubonne. La denominazione più estesa del canton Vaud. E’ qui che i viticoltori hanno riscoperto e valorizzato il Servagnin, varietà autentica di Pinot Nero, introdotto in Svizzera proprio a partire da Morges.
DOMAINE HENRI CRUCHON, BEST WINES Altesse 2015, 15,5% (senza solfiti, non filtrato) – Rimaniamo letteralmente folgorati di fronte a questo bianco senza solfiti di casa Cruchon. Altesse è il nome del vino ma anche quello della rarissima varietà Altesse, coltivata solamente nella Savoia francese, luogo dal quale proviene. I grappoli maturi prendono le sembianze del Gewurztraminer una volta maturi: quel bruno rossastro che è gli ha fatto guadagnare il soprannome “La Roussette” da parte dei locali. In realtà la traduzione corretta sarebbe “Sua Altezza”. Un appellativo più che azzecato. Nel calice l’Altesse 2015 del Domanine Henri Cruchon si presenta d’un giallo dorato carico. Al naso l’acqua del mare: una percezione salmastro-minerale di rara pregevolezza, unita a richiami esotici, agrumati (limone) ed erbacei (fieno). Al palato l’alcolicità calda non disturba una beva morbida, straordinariamente rotonda e avvolgente. Anzi, esalta le note di miele e cedro, di eleganza sublime, che sembrano disciogliersi nel sale di cui è ricco anche il palato, oltre al naso. Straordinario il lavoro effettuato in vigna dai Cruchon con questo rarissimo uvaggio, sin dal 1998, anno della prima produzione. Un’attenzione che poi si trasferisce in cantina, dove gli acini vengono pressati interi e vinificati in serbatoi da 500 litri. Lunga fermentazione, che comprende la malolattica.
Pinot Noir Champanel 2014, 13% – Fa parte dei Gran Cru della casa vinicola di Echichens, questo Pinot Nero che reca appunto il nome della vigna Champanel, divisa a metà tra la varietà a bacca rossa e il locale Chasselas. Il terroir Champanel è caratterizato da un profondo terreno argilloso-calcareo, che si trova su una morena formatasi 10 mila anni fa per l’attività dei ghiacciai. Non a caso, da questa posizione si può ammirare il Monte Bianco, al di là del Lago di Ginevra. “Al fine di mettere in evidenza il carattere pieno di questo Grand Cru – spiega Catherine Cruchon – le viti, tutte di 30 anni, sono coltivate nel rispetto dei ritmi lunari, ovviamente senza utilizzo di prodotti chimici”. La vendemmia viene compiuta a mano, su rese molto basse. In seguito alla vinificazione tradizionale, il vino matura per 18 mesi, di cui 12 in botti di rovere. Ne scaturisce un Pinot Nero validissimo: imbottigliato solo da due mesi, quello che degustiamo mostra grandi margini di miglioramento nel medio-lungo periodo (6 anni) evidenziando carattere e finezza rappresentati benissimo da un tannino da ricordare.
DOMAINE DU CENTAURE, DARDAGNY (GENEVE) Per raggiungere Dardagny, il navigatore ci conduce al confine con la Francia, per poi farci rientrare in territorio elvetico in seguito a un brevissimo tratto di superstrada. Stranezze della tecnologia a parte, Dardagny è una tappa imprescindibile del nostro wine tour: l’ennesimo Comune con più vigne che campanelli, designato a rappresentare l’altissimo livello qualitativo dei vini del cantone di Ginevra. La prima delle due cantine visitate è Domaine du Centaure, il regno di Claude Ramu e dei suoi figli Nicolas e Julien (nella foto). A guidarci nel tour della winery è proprio quest’ultimo. Una cantina moderna, realizzata nel 1980 e sempre in continua evoluzione dal punto di vista tecnologico. Oggi i Ramu, famiglia storica, presente a Dardagny sin dal 1400, arrivano a produrre circa 200 mila bottiglie dai 20 ettari di proprietà, cui vanno a sommarsi gli 8 in locazione. “In tutti questi anni – tiene a sottolineare Julien Ramu – siamo sempre stati indipendenti, senza mai aderire a nessuna cooperativa. Fummo noi a introdurre il metodo Guyot in Svizzera, nel 1925 con Edmond Ramu, nostro capostipite. E fu sempre lui a piantare il primo Gamay e Pinot Nero, nel 1936”. Una storia curiosa quella dei Ramu, che negli anni Cinquanta trova in Charles Ramu un altro innovatore: pilota di auto da corsa in Italia con Alfa Romeo, rifiutò la chiamata in Formula 1 per tornare tra le sue vigne di Dardagny. Introdusse così Aligoté, Pinot Grigio, Gewurztraminer e Moscato, ottenendo diverse medaglie d’oro. Ma fu Claude Ramu a cambiare il nome dell’azienda in Domaine du Centaure, nel 1982. Assegnando al pittore Serge Diakonoff il compito di realizzare le caratteristiche etichette dei suoi nuovi vini.
DOMAINE DU CENTAURE, BEST WINES Pinot Gris Les Chant des Sirènes, vins doux – Vino dolce ottenuto grazie all’appassimento delle uve per due mesi su graticci. Una volta raggiunto il grado zuccherino desiderato, mediante disidratazione, gli acini di Pinot Grigio vengono pressati e, in seguito alla fermentazione, posti ad affinare in barrique per 20 mesi. Bel giallo dorato, al naso sprigiona la freschezza delle note di brutta a polpa bianca (pera, banana) e d’albicocca. Lo apprezziamo per la grande pulizia al palato e per la scelta maestrale di un grado zuccherino non stucchevole: un’operazione non riuscita ad altri viticoltori svizzeri.
Garanoir-Gamaret barrique Légende 2014 – More, pepe, spezie. Il blend tra le varietà locali Garanoir e Gamaret è riuscitissimo al Domaine Du Centaure. Un vino tannico, di corpo, capace di sfoderare un grande carattere. Uno di quei vini da aspettare, anche se già in grado di accompagnare più che bene piatti saporiti a base di carne, come la selvaggina.
DOMAINE LES HUTINS, DARDAGNY (GENEVE) Si conclude qui il nostro wine tour in Svizzera. E non poteva che terminare in una delle cantine svizzere che fanno della qualità il proprio baluardo. Seconda ed ultima tappa a Dardagny è Domaine Les Hutins, cantina storica che oggi è retta dall’ingegnere Jean Hutin e dalla figlia enologa Emilienne Hutin Zumbach (nella foto). Ormai la quinta generazione di una famiglia di viticoltori. L’anno della svolta, da queste parti, è il 1982. Quando Jean inizia a impiantare Sauvignon Blanc. Molti altri seguono poi il suo esempio in Svizzera, dal Ticino alla Svizzera tedesca. “La nostra filosofia produttiva – spiega Emilienne – prevede la massima attenzione in vigna, nel rispetto dell’ambiente. Stiamo portando avanti la produzione integrata, con 3,5 ettari sui 20 totali coltivati in biodinamica, pur senza certificazione. Il nostro vino deve parlare della terra e dell’andamento dell’annata, senza artifici. E’ un vino vero, insomma”. Quindici le varietà allevate, che danno vita a 27 differenti etichette, equamente suddivise tra bianchi e rossi. I terreni si trovano a un’altezza di 430 metri sul livello del mare. Tutti in piano, a esclusione dei 2 ettari in pendenza suddivisi tra Sauvignon, Syrah, Merlot e Viognier, nei pressi del fiume Rodano.
DOMAINE LES HUTINS, BEST WINES Sauvignon Blanc 2014, 13,5% – Ottenuto dalle vigne vecchie, questo Sauvignon Blanc affina in barrique per 12 mesi. Vino molto più diretto e schietto del suo parente non affinato in barrique (di cui però abbiamo degustato la vendemmia 2015, 14,5%), esprime sentori fruttati meno esuberanti, ponendosi di diritto come vino gastronomico. Pregevole la chiusura su note di limone, che lo rende ancora più interessante. L’affinamento viene compiuto in barrique da 500 litri, senza aver prima svolto malolattica. Legni che sono stati selezionati con cura da Emilianne e reperiti dopo una lunga ricerca atta a esaltare le caratteristiche del vitigno internazionale e le peculiarità del terroir di Dardagny.
Chasselas Bertholier 2015 13 % – E’ lo Chasselas top di gamma di Hutins. E si sente. Non il solito vino “leggero”, da aperitivo, bensì un nettare che mostra buona struttura e consistenza. L’erba in campo non viene diradata, ad esclusione della base della pianta, con dosi minime d’erbicida. Fermentazione lunga, che si aggira attorno ai due mesi per questo Chasselas gastronomico. Naso floreale (tiglio) con richiami minerali che poi si riscontrano nuovamente al palato, dove la salinità precede una chiusura fruttata, ma di sostanza.
Bertholier Rouge 2014, 13,5 – Altro top di gamma di Hutins. Si tratta dell’assemblaggio tra Gamaret (70%), Merlot (15%) e Cabernet Sauvignon (15%) vinificati in barrique. Le tre varietà che compongono il blend effettuano assieme la fermentazione. Nel calice, Bertholier Rouge si presenta d’un rosso intenso, poco trasparente. Intenso è anche il naso, che da un principio fruttato (bacche rosse) si evolve con l’ossigenazione verso tinte balsamiche, mentolate. Si sprigiona a quel punto anche la caratteristica nota vegetale del Sauvignon, che apprezziamo particolarmente. Al palato si conferma vino di sostanza e di corpo, capace di accompagnare degnamente piatti complessi a base di carne e selvaggina. La verticale compiuta da Hutins ne dimostra la longevità, con l’annata 2005 ancora straordinariamente viva nel calice.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Scricchiola, appesa ai fili tesi al cielo di Fully, canton Vallese, la teleferica di Jacques Granges e Marion Granges-Faiss. Scricchiola. Sembra arrancare, a tratti. Barcolla un poco, mentre sale. Ma non si ferma. E non si fermerà mai. E’ il cuore grande di Marion e delle sue tre figlie che la tiene in funzione. Anche ora, anche oggi. Anche se per metà, quella teleferica, non avrebbe più senso d’esistere. Di raggiungere il cielo. Almeno da quel terribile 10 giugno 2016. Quel giorno che nel Valais – e non solo – nessuno scorderà più. Jacques era solo. A 870 metri d’altezza. Tra le sue vigne. Una distrazione, tra i filari. Forse a causa della fatica, dovuta alla fortissima pendenza del terreno. Il macchinario su cui si trovava si è ribaltato. Alcuni operai hanno trovato Jacques una decina di minuti dopo. Privo di vita. Per il forte trauma subìto alla testa. Inutili i soccorsi. I disperati tentativi di rianimazione. Lo attendevano per la pausa pranzo. Erano le 12.30 passate. E Jacques era un tipo puntuale. Se n’è andato così, il padre della viticoltura biodinamica svizzera. All’età di 70 anni. Se n’è andato tra le sue vigne. Tra le sue “figlie”. Tra le piante di Fendant, Riesling Sylvaner, Gamay e Pinot Nero. Se n’è andato lasciando Domaine de Beudon nelle sapienti mani della moglie Marion, che da una vita gli era accanto, anche in vigna. Per cercare di trarre il meglio, seguendo i principi della biodinamica (no diserbi, no concimi: in due parole “no chimica”) dallo splendido terroir di “loess”, come chiamano da queste parti l’argilla mista a sabbia e detriti morenici. Combattendo quotidianamente con le insidie del meteo e, in generale, con Madre Natura. Un’amica nemica da rispettare, quassù. Anche quando decide di fare la stronza. “Science, Coscience et Amour. Lo diceva sempre, Jacques. Aggiungendo subito dopo, ‘Tant Amour. Mi faceva sempre tanto ridere!'”. E’ con le parole del marito che Marion Granges-Faiss ci accoglie nella sua casa sulla montagna. Di nome e di fatto. Ci siamo fatti caricare sulla teleferica da Laura, l’impiegata storica del Domaine de Beudon. E abbiamo raggiunto l’abitazione, costruita proprio lassù. Tra le vigne eroiche. Cinque minuti di pura adrenalina, per arrivare a quasi 900 metri d’altezza. Sul cielo di Fully. Sul cielo di una Svizzera che piange ancora oggi, per la scomparsa di un grande uomo. Un rivoluzionario del vino. E della vita. Prende per mano il nipotino, Marion. Tra le dita sporche di terra il piccolo di 4 anni tiene una mela succulenta. Che sgranocchia goloso, durante il nostro tour delle vigne. Niente snack da queste parti: solo cibo genuino. La vista, tra i filari, è di quelle che mozzano il fiato. Ma è Marion che riesce a toglierti il respiro. Per davvero. Ancora più delle vertigini. E a farti lacrimare il cuore.
Cammina come un gatto tra le sue piante, Marion. Sinuosa, esperta. Delicata, decisa. E’ l’ossimoro fatto donna. Ogni tanto, tra una parola e l’altra in inglese, francese e italiano, si ferma. Si piega, sciolta. Strappa da terra un po’ di verbena e te la mette sotto il naso. “Quassù è pieno di piante officinali”, fa notare. “Ci facciamo delle buonissime tisane”. Profumi che ritroveremo nei vini del Domaine de Beudon. Chiari, netti, fini, in ognuna delle 25-30 mila bottiglie prodotte in media ogni anno dalle uve del Domaine, lavorate a Saillon nella cantina di Pierre Antoine Crettenand. “Perché noi non abbiamo mai avuto una cantina tutta nostra”, spiega Marion. Del resto di lavoro ce n’è sempre stato abbastanza tra i 7,5 ettari di proprietà della famiglia. Vigne che il 1 luglio hanno compiuto i 45 anni dal loro acquisto. Un traguardo che Jacques Granges ha solo sfiorato. “Negli anni ’70 l’acquisizione dei terreni – spiega la Signora del vino svizzero – e dal 1992 la certificazione del biodinamico, anche se fin dall’inizio ne abbiamo rispettato i princìpi. Come mai questa decisione? Perché noi siamo esseri umani e dobbiamo rispettare il nostro prossimo, ma anche l’ambiente. Il vino che produciamo, del resto, è per la gente. La biodinamica, per noi, è sempre stata più che una scelta una necessità morale: per noi, per i nostri cari, per il prossimo. Per la Terra”. Non a caso Domaine de Beudon aderisce al circuito di viticoltori Triple A – Agricoltori, Artigiani, Artisti: unica casa vinicola dell’intera Svizzera.
LA DEGUSTAZIONE Una scelta radicale. Compiuta con la consapevolezza dell’amore per la propria terra. Ma anche una decisione preziosa, dal punto di vista enologico. I vini biodinamici non filtrati di Jacques e Marion Granges-Faiss sono ormai riconosciuti internazionalmente come straordinari. Oltre il pionierismo. Oltre certe leggi non scritte del vino svizzero, secondo le quali – per esempio – un Fendant “va bevuto giovane”. Nel calice la vendemmia 2004 Beudon si presenta ancora d’un bel giallo paglia, con riflessi verdolini. Al naso l’impagabile freschezza delle note fruttate (albicocca) e uno spunto vegetale che costituirà il fil rouge, preziosissimo, di tutta la produzione del Domaine de Beudon. Un contrasto solo apparente, in quadro in cui anche la mineralità gioca un ruolo fondamentale. Vini d’agricoltura, d’artigianato. Vini d’arte. Vini di fatica. Vini folli. Basti pensare che in occasione della vendemmia, per i bianchi è prevista una prima pressatura in “alta quota”. Il mosto scorre dunque verso il basso mediante una canalina, costruita appositamente. Una volta a “terra”, il prezioso nettare finisce nelle vasche inox per la chiarifica (dèbourbage), poi condotte alla cantina di Pierre Antoine Crettenand per la lavorazione. Per i rossi il discorso è diverso. Ancora più folle, se possibile. Le uve, raccolte in piccole cassette, vengono condotte dai 600-900 metri d’altezza delle vigne sino a terra (a 450 metri slm) mediante ripetuti viaggi in teleferica. Immaginate un ‘ascensore’ pieno di cassette d’uva appena colta a grappoli, che scende dai monti come un dono del cielo. Viticoltura eroica dal campo alla bottiglia, insomma. Ed eroico è pure il Riesling Sylvaner 2004 del Domaine de Beudon. Ottenuto da un appezzamento di 1,6 ettari situato interamente a 800 metri d’altezza, risulta aromatico come un giovane moscato al naso, nonostante i 12 anni, con un tocco di miele delicato e fine. Lunghissimo in bocca, chiude su note amarognole che ricordano vagamente il rabarbaro. La degustazione prosegue con un Johnannisberg 2013 di grandissima intensità olfattiva. Miele, erbe d’alpeggio. Si passa ai rossi, con il Gamay 2009 (13%). Un assemblaggio tra uve provenienti da diversi appezzamenti del vigneto. Splendido tannino, gran frutto. Un marchio di fabbrica garantito dalle lunghe e lente macerazioni in acciaio. “Per garantire la tipicità del vitigno”, spiega Marion. Constellation 2007 (12,5%) è invece il riuscitissimo blend tra Pinot Noir, Gamay e Diolinoir, varietà autoctona del Vallese. “Con la biodinamica riusciamo a ottenere più ‘estratto’ di tutto”, commenta ancora la viticoltrice, sorseggiando il rosso. E in effetti siamo di fronte a un vino sensualissimo. Dai profumi vellutati di frutta (piccole bacche rosse) al riconoscibilissimo sentore di rosa. Un vino sinuoso, del fascino della discretezza. Anche al palato. Dove chiude con le canoniche note di erbe officinali, persistenti, lunghe. Chiudiamo con il Petite Arvine 2014, premiato come miglior vino bianco bio della Svizzera. Lo degustiamo leggermente fuori temperatura. Ma ne apprezziamo comunque la freschezza. Bel naso, a cui risponde in bocca una portentosa struttura e calore: verbena, timo, limone. La sensazione è quasi balsamica. “Adesso le tocca raccontare che i vini svizzeri ottenuti dalla viticoltura biodinamica sono longevi”, scherza Marion. Ci “tocca”? Dobbiamo. Chapeau.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Abiti di sughero, realizzati interamente mediante l’utilizzo dei “tappi” del vino. Ma anche borse, cornici, collane e accessori. E’ una nuova moda che viene dall’Ucraina quella che risponde al nome di Sergey Tkachuk, che a Kiev dirige il Wine Cork Art Design Studio. Vere e proprie opere d’arte le sue, che saranno presentate anche in Italia, in occasione della Bologna Design Week 2016, in programma in Emilia Romagna dal 28 settembre al 1 ottobre (previews 26-27 settembre). La manifestazione internazionale dedicata alla promozione della cultura e del design, organizzata nel centro storico bolognese in occasione del Cersaie, Salone della Ceramica per l’architettura e dell’arredobagno, mappa e riunisce “le eccellenze culturali, formative, creative, produttive e distributive in un progetto integrato di comunicazione”. Un ambito in cui le realizzazioni dell’ucraino Sergey Tkachuk entreranno a pieno titolo, sdoganando anche in Italia quello che è ormai definito internazionalmente “Cork style”, ovvero lo “Stile sughero”, da cui discende la “Wine Cork Art”. E per una volta chi se ne importa se il vino sapeva di tappo.
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Grasso che cola. E per una volta non è quello dell’unico lardo a Denominazione d’origine protetta d’Italia. Ad Arnad, villaggio di 1.300 anime della bassa Valle D’Aosta, protetta da una gincana di stradine strette che conducono sulla riva di un torrente, opera la società cooperativa La Kiuva. Frazione Pied de Ville, civico 42, per i pignoli. Trecentosessantuno metri sul livello del mare, per i curiosi. E uno Chardonnay da far invidia alle più prestigiose case vitivinicole italiane, per chi mastica pane e vino. Sabrina Salerno e Jo Squillo per la colonna sonora: qui, ad Arnad, canterebbero che “oltre al lardo c’è di più”. Lo sa bene Ivo Joly, 43 anni, il dinamico presidente de La Kiuva. Una cooperativa che, oltre a competere con le prestigiose realtà private del vino valdostano, si è ormai inserita nel business della ristorazione, servendo menu a base di prodotti tipici proprio sopra i locali adibiti a cantina. Per trovare l’eccellenza vera, basta spostarsi nell’ampio wine store dotato di un moderno bancone per la degustazione dei vini. E chiedere uno Chardonnay. Anzi, due. La Kiuva produce infatti uno Chardonnay “base”, che definire “base” non si può. E un secondo, affinato in barriques: altro calice con cui varrebbe la pena di fissare un tête-à-tête. Prima o poi, nella vita.
Di colore giallo paglierino mediamente carico, lo Chardonnay La Kiuva presenta al naso note di frutta fresca a polpa bianca e gialla. Il caratteristico richiamo esotico all’ananas fa spazio con l’ossigenazione a sentori grassi, tipici del burro di montagna spalmato sul pane croccante. Una sorta di contrasto dolce-salato che si fa solido nel suo materializzarsi concreto. Preannunciando una beva di grande mineralità, struttura e persistenza. Per una “base” che “base” non è, come annunciato. Ed è questo il punto di partenza (d’eccezione) dell’altro capolavoro della cooperativa: lo Chardonnay barrique La Kiuva. Con la sua beva sapida e minerale resa ancora più morbida e rotonda dal legno cui è affidato l’affinamento del prezioso nettare, in grado di conferirgli inoltre un’apprezzabilissima vena balsamica. Vini che, bevuti giovani o più maturi (il barrique è un vendemmia 2011 perfettamente in auge), offrono il meglio dell’accoppiata costituita da terroir ed escursione termica, in questo angolo di Valle d’Aosta reso grande da Madre Natura. Lo stesso si può dire del Muller Thurgau, che sfodera senza ritegno una spalla acida invidiabilissima e una mineralità accentuata, ben calibrata con la piacevolezza delle note fruttate fresche. Meno significativi Pinot Gris e Petite Arvine, proposti in apertura di degustazione. Nettari comunque in grado di comunicare, seppur in maniera più soffusa, le peculiarità del marchio La Kiuva.
SPUMANTI E VINI ROSSI
Non mancano, per gli amanti delle bollicine, due metodo classico come il Seigneurs de Vallaise – 40% Chardonnay, 30% Pinot Noir e 30% Pinot Gris – dal perlage accattivante al palato e dal buon corpo (forse un po’ a discapito delle note fruttate) e l’ancora più interessante Traverse La Kiuva, spumante ottenuto al 100% da uve Nebbiolo. Quaranta mesi minimo di permanenza sui lieviti che conferiscono a questo “rosè” sentori di agrumi e crosta di pane, oltre agli accenni immancabili a piccoli frutti a bacca rossa. In bocca colpisce la gran sapidità, che gioca sottile su note eleganti di lime e pompelmo, nonché su una linea (rieccola) vagamente balsamica che richiama la mentuccia. Un corpo e una sostanza diversa da quella dei Nebbiolo rosé prodotti nel vicino Piemonte (per esempio nella zona di Ghemme, Novara), forse per quel calore nella beva espresso dai 13,5 gradi di percentuale d’alcol in volume. Capitolo rossi della Cooperativa La Kiuva di Arnad? A spiccare su tutti, ma agli antipodi tra loro, sono il Nebbiolo Picotendro e l’Arnad Montjovet Superior. Un Nebbiolo da assaporare giovane, il primo, che nel calice si mostra d’un rosso rubino intenso e che al naso evidenzia note di lamponi, fragoline di bosco e more mature. Corrispondente al palato, risulta morbido e avvolgente e dal tannino delicato, che ha comunque bisogno di qualche minuto per slegarsi completamente e conferire una dignitosissima eleganza alla beva. Ma se il Picotendro della Cooperativa La Kiuva è ottenuto mediante macerazione prefermentativa a freddo di 3-4 giorni e fermentazione a 30-32°, con macerazione delle bucce per 5/7 giorni e svinatura dolce, più complessa è l’elaborazione del Valle d’Aosta Doc Arnad Montjovet Superior. Vino rosso top di gamma de La Kiuva, è costituito da un 70% minimo di Nebbiolo, cui vengono aggiunti Gros Vien, Neyret, Cornalin e Fumin. La vinificazione è tradizionale, a cappello emerso, con lunga macerazione delle vinacce: sino a 15-20 giorni, a temperatura controllata, variabile tra i 28 e i 30 gradi. Fondamentale l’affinamento in legno per un periodo tra i 10 e i 12 mesi, cui vanno a sommarsi altri 6 mesi di maturazione in bottiglia, prima della commercializzazione. Un vino che nel calice si mostra d’un rosso rubino con riflessi granati, dal quale si sprigionano eleganti note fruttate (confettura), balsamiche e speziate. In bocca esprime tutta la potenza elegante del Nebbiolo: misurate ma intense le note balsamiche e speziate che ritornano anche al palato. E di nuovo un’accentuata sapidità, che chiama il sorso successivo. Solo cinquecento le bottiglie prodotte mediamente ogni annata, numero che sale a 5 mila per la “base” (che “base” non è).
“VIGNAIOLI PER PASSIONE” Curioso scoprire dopo la degustazione che La Kiuva, nonostante il buon livello dei vini prodotti, costituisca l’attività “secondaria” dei quaranta soci della Cooperativa. “La maggior parte di noi – spiega il presidente Ivo Joly (nella foto) – non è dedita alla produzione di vino a tempo pieno. Si tratta di un’attività collaterale, affiancata a quella principale che può essere nel ramo dell’agricoltura o dell’artigianato. La sede principale è stata edificata nel 1975, una delle prime cantine concepite dalla Regione Autonoma Valle d’Aosta. I primi conferimenti di uve e dunque la prima vinificazione risalgono al 1979″. Dal 2008, anno nel quale La Kiuva ha deciso di produrre lo spumante metodo classico 100% Nebbiolo, la coop ha ridato vita ad alcune cantine storiche dislocate sul territorio di Arnad, oggi utilizzate principalmente come luogo per lo stoccaggio del vino in maturazione. “La sfida per il futuro – dichiara ancora il presidente Ivo Joly – è quella di offrire un prodotto che risulti concorrenziale sul mercato. Abbiamo prodotti di nicchia dei quali vantarci, capaci di conquistare anche mercati diversi da quello italiano. Esportiamo già negli Usa 20 mila bottiglie delle 100 mila prodotte complessivamente. L’interesse è crescente all’estero, sia sui vini da tavola sia sul nostro Picotendro. Sarebbe interessante, quindi, riuscire a consolidare ulteriormente la nostra presenza in Italia. Magari puntando tutto sul nostro Traverse. Superficie e potenzialità per incrementare ulteriormente la produzione ci sono – conclude Joly – ma dobbiamo innanzitutto tener conto della nostra realtà, tutto sommato giovane e costituita, appunto, da vignaioli per passione, più che per professione”. Basti pensare che, fino a 10 anni fa, i vigneti che conferivano alla Kiuva erano ancora a pergola. Oggi solamente filari. Splendidi. Pronti a perdersi, a vista d’occhio, con le montagne a fare da sfondo. O magari all’ombra del Forte di Bard. Tra i 13 ettari vitati che vanno da Hone a Montjovet.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Partito il 14 Luglio, a seguito dell’Assemblea dei soci del Consorzio di tutela vini Maremma l’iter di modifica del disciplinare di produzione della Doc Maremma Toscana, nata nel 2011 e che sta diventando sempre più rilevante.
Tra le principali modifiche la revisione della base ampelografica per la produzione di rossi e bianchi: eliminazione della presenza obbligatoria di un solo vitigno prevalente (Sangiovese per il 40% nella produzione del rosso e del Vermentino o Trebbiano per la produzione del bianco) e possibilità di utilizzo delle prime cinque varietà a bacca rossa e bianca più diffuse sul territorio per un minimo del 60%.
Inserimento di nuove tipologie varietali come Cabernet Franc, Petit Verdot e Pugnitello, vitigno autoctono scoperto nel 1978 che sta diventando di grande interesse per i produttori. Richiesto, come accade già per gli Igt la possibilità di menzionare in etichetta due varietà .Inserimento di tipologia Rosato e Spumante per i vini da uve a bacca rossa come e Syrah e della menzione tradizionale “Governo all’uso toscano” per il vino rosso da uve Sangiovese.
Inserimento della menzione riserva per il rosso con invecchiamento minimo di due anni di cu almeno sei mesi in botte e per il bianco se affinato almeno 12 mesi. Limitazione dell’imbottigliamento alla sola zona di produzione, come i cugini del Chianti, ma con la deroga per le aziende con diritto acquisito di proseguire fuori dalla zona autorizzata.
“Il Consorzio è nato due anni fa, tra l’altro, con l’obiettivo di tutelare e salvaguardare la DOC Maremma Toscana, intervenendo, se necessario, anche sulle regole che ne disciplinano la produzione. Siamo soddisfatti di aver concluso positivamente e in modo così celere la prima parte di questo percorso importante, che porterà la DOC ad un disciplinare di produzione più adeguato alle esigenze del mercato e del territorio”, ha dichiarato Edoardo Donato, Presidente del Consorzio Tutela Vini della Maremma Toscana.
Affinché le modifiche proposte diventino regole verrà presentata domanda al Ministero delle Politiche agricole e potenzialmente le nuove regole potrebbero essere applicate dalla vendemmia 2017.
Il Consorzio vanta 349 aziende per un totale di 4 milioni di bottiglie prodotte in provincia di Grosseto, nella zona compresa tra le pendici del Monte Amiata e la costa, fino all’isola del Giglio. 8.600 ettari di cui, vendemmia 2015 ben 1.630 dedicati alla produzione della Denominazione Maremma Toscana Doc.
Produzione in costante crescita: i dati del 2016 fanno registrare nei primi sei mesi imbottigliamenti per 21.700 ettolitri pari al 70% del totale dei dodici mesi dell’anno precedente.
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Il consiglio di amministrazione del Consorzio del Soave, riunitosi in questi giorni, ha definito le prossime linee guida dell’ente consortile in ambito di gestione della doc, promozione estera, nuove regole di produzione.
In materia di gestione della doc, a tutela del valore oggi percepito della produzione, si prevede la riduzione delle rese per il Soave Doc da 150 a 120 quintali per ettaro e per il Soave Classico da 140 a 110 quintali per ettaro.
Una scelta forte, condivisa dalle aziende del Soave, in linea con il percorso iniziato nel 2009 che ha condotto ad un equilibrio produttivo e ad una gestione virtuosa di sfuso ed imbottigliato.
La misura, che verrà applicata già a partire dalla prossima vendemmia, prevede alcune deroghe per non penalizzare le aziende virtuose che operano lungo tutta la filiera produttiva dalla vigna alla bottiglia.
“Il Soave – evidenzia il presidente del Consorzio Arturo Stocchetti – consolida le posizioni in termini di volumi e valori ma il comprensorio ha una potenzialità produttiva che ha un costante bisogno di monitoraggio e di controllo ad ogni vendemmia. E’ dunque in momenti come questi che il sistema deve saper analizzare con tempestiva lucidità la situazione per porre in essere misure adeguate al mercato. Abbiamo scelto l’unico strumento applicabile nel nostro caso, peraltro già attivato dalle principali denominazioni italiane, per recuperare l’equilibrio tra produzione e mercato, a difesa del valore del prodotto”.
L’Osservatorio Economico del Consorzio ha segnalato che a giugno 2016 i trend di vendita si sono allineati con gli andamenti dell’anno precedente. Spicca in cima alla lista il Soave Doc con una produzione al 30 giugno 2016 di 22.000.000 bottiglie seguito a ruota dal Soave Classico che si attesta sui 6.500.000 bottiglie, a fronte di un imbottigliato complessivo che si proietta sui 56.000.000 di bottiglie su base annua.
A supportare la bontà della scelta in materia di equilibrio produttivo arrivano i primi risultati delle campagne promozionali di Stati Uniti e Giappone, segno che il Soave di oggi, frutto di una lungimirante politica di gestione della denominazione, piace e convince.
Molto bene infatti nella piazza nipponica dove è attualmente in corso la campagna Soave by the Glass che prevede azioni mirate per operatori di settore assieme ad iniziative di carattere diretto per avvicinare i consumatori in oltre 300 locali tra Tokyo, Fukuoka ed Osaka.
Qui, nel primo trimestre 2016, sono triplicati i consumi di Soave rispetto allo stesso periodo dello scorso anno (Fonte Istat). Positivo anche il sentiment negli Stati Uniti, dove il Soave registra un +7% nei consumi rispetto al primo semestre 2015.
A questo si aggiungono le forti attese da parte dei produttori per l’incoming di 14 selezionati buyer americani che arriveranno nel Soave la prossima settimana in cerca di nuove referenze da lanciare.
All’ordine del giorno anche le nuove regole produttive che condurranno ad una generale semplificazione della denominazione. Tra le novità più significative si prevede l’eliminazione della sottozona Colli Scaligeri ed una riqualificazione del Soave Superiore Docg.
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Un paio di star, qualche buon attore. Diversi figuranti. La degustazione di Champagne delle maison La Chapelle e José Michel & Fils organizzata ieri pomeriggio da vinodalproduttore.it a Milano, negli spazi Multiverso di via Mecenate 77, regala al folto pubblico intervenuto due certezze assolute. A dominare la scena è Privilège Brut Cru La Chapelle, ottenuto dall’assemblaggio di un 40% di Pinot Meunier, un 35% di Pinot Noir e un 25% di Chardonnay. Una bollicina francese raffinata, di struttura. Elegante ed armonica. Naso di crosta di pane tostata e palato croccante. Ottima anche la persistenza delle note minerali e agrumate nel retro olfattivo. Una cuvée prodotta nel villaggio vinicolo di Ville Dommange, 1er Cru de la Coté Ouest, paesino di 500 anime del dipartimento della Marna, nella regione della Champagne Ardenne.
Servito dagli ottimi sommelier Fisar della delegazione di Milano Duomo anche Special Club 2007 di José Michel & Fils, l’altra bella sorpresa del pomeriggio meneghino. Una cuvée ugualmente spartita tra Pinot Meunier e Chardonnay spremuti da vigne vecchie di 70 anni, prodotto con la stessa etichetta da 28 produttori consorziati seguendo un rigorosissimo disciplinare, che prevede (tra l’altro) un periodo minimo d’affinamento di 3 anni prima della commercializzazione. Si tratta indubbiamente del prodotto di punta della maison di Moussy, altro paradiso della Champagne Ardenne. Naso intenso, elegante e fine che racconta sentori di frutta a polpa bianca, crosta di pane e fiori. Rispondente al palato, dove a dominare sono ancora le note delicate di frutta. Interessanti anche il Brut Gran Vintage 2007 e il Blanc de Blancs 2007 di José Michel & Fils, così come il Millesimé Brut 2008 (33,3% Meunier, 33% Pinot Noir, 33,7% Chardonnay) di La Chapele. Restano solamente ‘comparse’ i rosé proposti in degustazione: dal Nuance Brut di La Chapelle al 50% Pinot Noir e Meunier di Michel, nessuno convince appieno.
GLI ORGANIZZATORI Soddisfatto dal successo dell’evento Guido Groppi, titolare del portale milanese di e-commerce del vino vinodalproduttore.it. “Quella che proponiamo – spiega – è una formula diversa da tutti gli altri. Dopo aver selezionato produttori di grande qualità, poniamo in vendita i loro vini e li promuoviamo anche grazie ad eventi come questo. Il vino viene consegnato al cliente direttamente dalla cantina del produttore, mediante il nostro servizio spedizioni che non fa altro che prelevare il pacco in cantina e consegnarlo all’indirizzo segnalato del cliente. Questo garantisce alcuni vantaggi: innanzitutto assicuriamo la qualità della conservazione. E inoltre il nostro assortimento è costituito sostanzialmente da quanto il produttore stesso ha in cantina, comprese le grandi annate e i grandi formati”.
Un’idea nata nel 2010, spiega Groppi, “quando mi sono messo a cercare chi vendeva il vino Montevetrano dei Colli di Salerno prodotto da mia suocera”. “Mi sono reso conto così che tutte le enoteche, comprese quelle online, compravano dai produttori, stoccavano e vendevano poi all’utente finale. Vinodalproduttore.it inverte semplicemente questa procedura: il vino resta in casa del produttore sino a quando il cliente non lo acquista tramite il nostro portale, eliminando così tutti i problemi dovuti allo stoccaggio da parte di terzi”. Il prezzo di vendita, a maggior ragione, è concordato preventivamente con il produttore. Un procedimento, dunque, che veste d’etica l’intera filiera. “All’inizio è stato difficilissimo – ammette Guido Groppi – perché la maggior parte dei produttori viveva con una certa diffidenza il mondo di Internet, anche per esperienze negative vissute con altre ‘enoteche online’. Poi un certo numero di produttori di livello ha iniziato a darci fiducia, rendendosi conto della coerenza della nostra proposta. In un mondo tutto sommato piccolo, come quello del vino di qualità, la nostra onestà, alla lunga, ha pagato”. Vinodalproduttore.it può contare su una squadra di dieci persone, a cui sono affidate le sorti (sul web) di 55 produttori ‘associati’.
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Dormire “in cantina” e puntare la sveglia “ogni due-tre ore”, per controllare “il colore del rosato” ottenuto da uve Rossese. Che non dev’essere “né troppo rosso, né d’un rosso scialbo”. Problemi con cui solo un viticoltore ligure deve fare i conti. Problemi, per fare i nomi, di viticoltori di Liguria come Luigi Anfossi, trentacinque anni. Rappresentante della quarta generazione di una famiglia d’origine genovese – con influenze inglesi – che nel quartier generale di Bastia d’Albenga, Savona, produce basilico atto a divenire pesto destinato alla grande distribuzione italiana (Unilever). E vini (Vermentino, Pigato, Rossese Riviera Ligure di Ponente Doc e rosato) reperibili sugli scaffali di Esselunga e Carrefour. Un’impresa a conduzione famigliare che può annoverare tra i propri clienti la nota “John Frog”, nome col quale Luigi Anfossi ama chiamare la Giovanni Rana. Ma se è vero che il basilico rappresenta il core business dell’Azienda agraria Anfossi (10 gli ettari coltivati), degna di nota è anche la produzione di vini liguri, ottenuti grazie all’allevamento di 5 ettari di terreno vitato e dalle uve di alcuni conferitori della zona. Per una produzione annuale complessiva che si assesta sulle 70 mila bottiglie.
Un’azienda fondata nel 1919, che si appresta a spegnere entro breve le (prime) cento candeline. Una storia lunga un secolo che vede il suo momento chiave negli anni Ottanta, quando l’impresa agricola viene rilanciata sul mercato italiano ed europeo da Mario Anfossi con la collaborazione del socio piemontese Paolo Grossi. Al figlio Luigi il compito di occuparsi delle sorti del settore vitivinicolo. Diplomato in agraria dopo aver iniziato gli studi al Liceo Classico, Luigi sogna per la propria azienda e per il settore vitivinicolo ligure un futuro luminoso. “La Liguria ha grandissime potenzialità inespresse in questo settore – commenta Luigi Anfossi -. Potenzialità che potremmo alimentare innanzitutto iniziando a valorizzare a livello locale i nostri vini, ottenuti da vitigni autoctoni come il Pigato. Capisco che in un mondo globalizzato come il nostro sia corretto trovare anche in Liguria una selezione sterminata di Gewurztraminer. Ma se si puntasse di più sulla promozione dei vini locali, raccontandone la storia anche ai turisti nelle varie attività del lungomare, sono sicuro che ne trarrebbe grande beneficio tutta l’economia locale”. D’altronde “quanti liguri sanno come mai il Pigato si chiama così?”, chiede ironicamente Luigi Anfossi, alludendo alle “macchie” presenti sull’acino di questa straordinaria varietà autoctona della Liguria.
LA DEGUSTAZIONE Il Pigato dell’Azienda agraria Anfossi, esprime tutta la ‘semplice complessità’ dei vini liguri. Di facile beva per i suoi richiami fruttati freschi, eppure tutto sommato ‘impegnativo’ per il suo corpo e la sua struttura, tutt’altro che banale. Morbido al palato, è capace di sorprendere con quella punta amara che risveglia i sensi, in un finale sapido che preclude un retrogusto amarognolo, stuzzicante, da sgranocchiare come le nocciole tostate. Un vino dall’ottimo rapporto qualità prezzo, insomma, da pescare tra le corsie degli store del marchio Caprotti a una cifra che si aggira solitamente attorno agli 8 euro. Non presente in Esselunga, ma comunque apprezzabilissimo, il Vermentino ligure di Anfossi. Meno impegnativo del Pigato, ancora più soave nei richiami fruttati, strizza l’occhio a un consumatore meno esigente di quello che preferisce il Pigato. Un Vermentino da regalarsi nelle giornate di sole, da abbinare a piatti di pesce o di carne bianca non troppo elaborati. Meno profumato, invece, il naso del rosato Paraxo 2015 Anfossi: classificato come vino da tavola, ottenuto come anticipato da uve Rossese rimaste a contatto con le bucce non oltre le 24 ore, soddisfa nell’abbinamento con piatti della tradizione come il coniglio alla ligure. Al palato sfodera infatti la buona struttura del Rossese e una complessità aromatica non banale (13% di alcol in volume). La degustazione si chiude con l’ottimo Rossese in purezza, l’unico vino rosso prodotto dall’Azienda agraria Anfossi di Bastia di Albenga. Uno di quei rossi non convenzionali, capaci di esprimere il meglio della terra di provenienza. Il Rossese Anfossi parla infatti – al naso – di resine di macchia mediterranea, in un concerto di piccoli frutti a bacca rossa. Corrispondente al palato, non manca un finale di buona persistenza. Un vino da assaporare sia con il pesce (provare per credere, per esempio con un piatto di tonno in crosta di pistacchio) sia con la carne (ben cotta). Il segreto dei vini Anfossi? Lo spiega Luigi. “Non possiamo contare su terreni in altura – commenta – ma abbiamo la fortuna di avere una grande vigna in prossimità del fiume Centa, qui ad Albenga. Viene così assicurata una buona escursione termica. In futuro mi piacerebbe comunque sperimentare qualcosa di nuovo, magari attraverso macerazioni prolungate delle uve per ottenere vini più longevi”. Segreti e progetti per il futuro di un viticoltore ligure pieno di idee. Una storia, quella di Anfossi, destinata a continuare a lungo.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Un cammino degustativo tra le birre artigianali abruzzesi. Il tutto in riva al mare di Montesilvano. Si chiama ‘Luppoli di Mare’ la nuova manifestazione, organizzata da Confesercenti, nell’ambito di FestEstiva, il cartellone eventi montesilvanese, in collaborazione con l’associazione Commercianti ‘Montesilvano nel Cuore’. Dopo le fortunate edizioni di ‘Cerasuolo a Mare’, Confesercenti propone alla citta’ un viaggio tra malto e luppoli alla scoperta delle birre regionali.15 stabilimenti balneari della citta’, dal 6 all’8 luglio, dalle 19:00 all’una si trasformeranno in punti di degustazione, dove sara’ possibile assaggiare e conoscere, con il supporto di un sommelier, circa 45 diverse tipologie di birra prodotte da 16 birrifici regionali. La manifestazione e’ stata presentata questa mattina da Paolo Cilli, assessore al Commercio, Gianni Taucci, direttore provinciale di Confesercenti ed Elio Di Giuseppe, presidente Fiba Confesercenti. «L’idea di ‘Luppoli di Mare’ prosegue l’iniziativa di ‘Cerasuolo a Mare’ che quest’anno giungera’ alla sua terza edizione – afferma il direttore di Confesercenti, Gianni Taucci -. Con queste manifestazioni spingiamo il pubblico a visitare il lungomare di Montesilvano, proponendo un viaggio nel gusto. In questo caso sara’ possibile conoscere da vicino i birrifici artigianali della regione. E’ quanto si legge in un comunicato diffuso, poco fa, dal servizio informazione e comunicazione del Comune di Montesilvano. La notizia, qui riportata secondo il testo completo del comunicato diffuso, e’ stata divulgata, alle ore 14, anche sulle pagine del portale web dell’ente, sul quale e’ stata rilanciata la notizia. Ogni azienda partecipante proporra’ al pubblico 3 tipologie di birre diverse. Ad esse verra’ affiancata una degustazione di prodotti tipici, preparata dagli stabilimenti e dai ristoranti aderenti. Siamo molto soddisfatti delle adesioni raccolte».
«Gli stabilimenti balneari di Montesilvano hanno compreso le opportunita’ che possono derivare da questo genere di manifestazioni – ha aggiunto l’assessore Paolo Cilli -. Con ‘Cerasuolo a Mare’, due anni fa, e’ iniziata una sperimentazione importante che ha coinvolto gli stabilimenti balneari nelle aperture serali e che si rinsalda ulteriormente con ‘Luppoli di Mare’. È fondamentale che tutti contribuiscano attivamente allo sviluppo economico e turistico della citta’, e queste iniziative sono un’occasione ideale». «Attraverso questi eventi – ha concluso Di Giuseppe – vogliamo connotare la riviera di Montesilvano come vetrina dei prodotti enogastronomici della nostra terra, valorizzando al tempo stesse le aziende produttrici e i luoghi del nostro lungomare che si mettono a disposizione per ospitare queste degustazioni». Acquistando, al costo di 5 euro, un kit comprensivo di una sacchetta porta bicchiere e del bicchiere da degustazione e di un buono di 5 euro presso la Conad Forum, sara’ possibile usufruire di una degustazione. Alla degustazione delle birre verra’ abbinato un menu’ preparato ad hoc dagli stabilimenti balneari, non incluso nel biglietto. Gli stabilimenti e i birrifici coinvolti:Stabilimento La Racchetta – Birrificio Deb’s; Stabilimento La Riviera – Birrificio Tocci Oppidum; Stabilimento La Rosa dei Venti – Birrificio Bertona; Stabilimento Bagni Padovani – Birrificio Mezzopasso; Ristorante Sapo’ – Birrificio Desmond; Stabilimento Pallino Beach – Birrificio Leardi; Stabilimento Onda Verde – Birrificio Alkibia; Stabilimento Hotel Sole – Birrificio Bibibir; Stabilimento Sabbia d’Oro – Birrificio Almond’22; Stabilimento Bagni Bruno – Birrificio Anbra; Stabilimento New Sporting – Birrificio Maiella; Stabilimento Settebello – Birrificio Delphin Beer; Stabilimento La Bussola – Birrificio Opperbacco; Stabilimento La Conchiglia Azzurra – Birrificio La Casa di Cura; Stabilimento Il Veliero – Birrificio Antica Birra degli Abruzzi e Birrificio Birra del Borgo.
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Una tradizione davvero unica nel suo genere e molto divertente quella che si è tenuta anche quest’anno in Spagna nella regione della Roja. Parliamo della famosa guerra di Haro, una vera e propria battaglia del vino, all’ultimo goccio che ogni anno tinge la città di rosso rubino.
Festa ufficiale dal 1965, si tiene ogni 29 giugno ad Haro, in occasione di San Pedro, santo patrono della città, ma ha origini antichissime che risalgono ai tempi dei pellegrinaggi quando, dopo le cene, le feste, i canti e i balli ci si divertiva a farsi “gavettoni” con il vino rimasto imbevuto.
I soldati di Haro, per partecipare devono osservare un rigoroso dress code: abiti bianchi e foulard rossi. La festa comincia alle sette del mattino con il trasporto dei vini che saranno lanciati durante la battaglia fino al santuario.
Il cerimoniale quindi prevede che il sindaco, una volta giunti sul punto più alto del monte, dopo aver issato la bandiera celebri la messa. Solo che il consueto “andate in pace”, non è poi così pacifico.
Èproprio alla fine della funzione religiosa che si scatena l’inferno. Tutti pronti a macchiarsi gli abiti fino all’ultimo litro di vino, ma sempre con spirito festoso e goliardico fino a notte inoltrata.
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“I dati dei primi tre mesi del 2016 ci parlano di un aumento complessivo delle vendite del 5,4% a volume e del 6,2% in valore, offrendoci un quadro complessivo ottimistico, in linea con il trend riscontrato negli ultimi due anni. Dati che ci fanno ben sperare rispetto alla tendenza al ribasso nei consumi fuori casa che ha caratterizzato il periodo 2008-2013. L’Osservatorio del Vino apre finalmente una finestra sui consumi in un settore complesso come l’Horeca”. Con queste parole Antonio Rallo, presidente dell’Osservatorio del Vino, commenta i dati sui consumi fuori casa, ovvero l’”On Trade” italiano (ristoranti, bar, enoteche, hotel, catering), del primo trimestre 2016, rilevati da Nomisma Wine Monitor (partner dell’Osservatorio del vino) su un campione di 23 grandi e medie aziende che rappresentano un fatturato complessivo pari a 2 miliardi di euro. Lo studio evidenzia che i vini spumanti trainano i consumi con un +9,5% in valore e un +6,8% in volume, seguiti dai bianchi fermi (+8,9% in valore e +5,7% in volume) e dai frizzanti (+6% in valore e + 23,5% in volume). I rossi crescono anche se di poco in valore (+1,7%) e calano in volume (-4,5%). Nei singoli punti vendita dell’On Trade, le vendite al dettaglio aumentano rispettivamente del 5,8% a valore e del 4,4% a volume. E sono hotel e catering a guidare con +10% a valore e +12,5% a volume, seguiti dai ristoranti (+7,3% valore e +10,8% volume), da wine bar (+3,8% valore e +2,5% volume) ed enoteche (+3% valore e -10% volume).
Le vendite all’ingrosso fanno rilevare un aumento del 7,3% a valore e del 7,6% a volume. Oltre ai consumi nel settore Horeca, l’Osservatorio del Vino grazie alla partnership con Ismea, monitora anche le vendite in Gdo. Nei primi cinque mesi 2016 l’analisi sulla base dei dati Nielsen, evidenzia volumi in calo del 2% e una sostanziale stabilità nei valori (+0,4% a 776 milioni di euro). Gli spumanti anche in questo caso sono il prodotto trainante, segnando vendite a +6% a volumi e a +7,3% a valore. I vini Dop crescono a valore (+2,4% a 310 milioni di euro) e calano lievemente a volume (-1%). I vini Igt fanno registrare -8% a volume e -4% a valore, per una spesa totale di 171 milioni di euro nei cinque mesi. “Siamo molto soddisfatti di questo primo anno di attività di ricerca e studio del settore ‘On Trade’ con l’Osservatorio del Vino – conclude Antonio Rallo -. Le aziende associate hanno per la prima volta un quadro dettagliato ed aggiornato del mercato dell’Horeca, completato dai dati di sistema su tutto il comparto attraverso la partnership con Ismea, Crea e Bocconi. Ora, l’obiettivo è di incrementare la base delle aziende monitorate per rendere lo strumento ancora più preciso ed efficace, consentendo così all’imprenditore di basare le proprie scelte su dati certi e guadagnare in competitività”.
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Slow Food Piemonte e Valle D’Aosta fa centro, un’altra volta. Si è conclusa con un successo la grande domenica tra le cantine della Doc Colli Tortonesi, lo scorso 19 giugno. Quatar Pass per Timurass, quarto appuntamento del ricco programma di Cantine a Nord Ovest, ha visto la partecipazione di 210 persone. E mentre la macchina organizzativa di Slow Food è già all’opera per il prossimo appuntamento (il 23 luglio per “Scopri il Canelli”, incentrato sull’Oro Giallo, il Moscato d’Asti) Leo Rieser, responsabile eventi della banda piemontese della chiocciola, gongola per il risultato raggiunto. “E’ stata l’edizione di Quatar Pass per Timurass di maggiore successo – evidenzia – pur essendo questo appuntamento uno dei meno storici dell’intero candelario. Abbiamo incontrato persone che erano già state qui nelle edizioni precedenti, a dimostrazione della grande attrattività di questo territorio, che oltre al Timorasso offre grandi vini rossi e specialità gastronomiche eccezionali, come il formaggio Montebore e il salame Nobile del Giarolo”. Un ‘microclima’ particolare, dunque, anche per i rapporti tra viticoltori. “La peculiarità dei Colli Tortonesi – sottolinea Rieser – è che l’esponente d’eccellenza Walter Massa ha saputo recuperare un vitigno autoctono come il Timorasso e creare, assieme ad altri grandi pionieri della zona, un sistema di sincera collaborazione tra viticoltori. Una collaborazione fattiva, tutt’altro che di facciata. Non so quanto sia sincera o puramente provocatoria la dichiarazione che nel 2018 smetterà di fare vino, a voi rilasciata. Quello che mi sento di dire – conclude l’esponente Slow Food – è che qualsiasi cosa farà, la saprà fare benissimo. Walter Massa è un grande, non hai mai sbagliato un colpo. Ma è anche l’uomo dei grandi annunci, dunque staremo a vedere”.
CLAUDIO MARIOTTO
Non è iniziato da Walter Massa il tour di vinialsupermercato.it tra le cantine dei Colli Tortonesi. Bensì da un altro grande riferimento della zona: Claudio Mariotto. Lo abbiamo raggiunto nella cantina di strada per Sarezzano 29, proprio a Tortona, dopo aver ritirato il nostro calice al banchetto Slow Food allestito presso “Il Dì Cafè” di corso Leoniero, angolo piazza Duomo. Grande ressa già alle 11 alla cantina di Mariotto. “Il Timorasso – dichiara il viticoltore – ha fatto sì che un territorio pressoché sconosciuto avesse visibilità. Oggi il Timorasso è a New York, Tokyo, Londra e in tutto il mondo. in vigna l’attività viene portata avanti nel rispetto dell’ambiente, senza entrare però nella partitocrazia del mondo del vino di oggi: mi riferisco alle bandierine del ‘biologico’ o del ‘vino etico’. Facendo vino buono, senza avere soldi per fare pubblicità, si diventa dei riferimenti: il marketing nel vino si fa con le bottiglie buone, bicchiere dopo bicchiere. In una parola, il mio vino è vero”. Oltre a uno splendido Derthona 2010, vino delizioso che promette ancora parecchi anni di evoluzione in bottiglia, degustiamo Pitasso 2004: ottenuto dalla vigna storica di Timorasso, esposta a sud est sul territorio di Vho, colpisce per la potenza espressa dalla struttura, ma anche per le note fruttate che esaltano una beva lenta e voluttuosa, in un sorso che pare di glicerina pura. Le radici profonde della vecchia vecchia pescano gli elementi nutritivi da un suolo che regala un’espressione fantastica di Timorasso, da provare. Ottimi anche i rossi di Mariotto. La Freisa 2014 Braghé è un esempio di quanto questo antico vitigno autoctono piemontese possa essere (anzi debba essere) ulteriormente valorizzato in Italia e nel mondo. Un naso elegante e fine di rosa e piccole bacche rosse, precede un palato in cui le note fruttate di marasca e lampone – chiare, distinte, pulite – chiudono un sorso di grande corpo e sapidità. Chiudono il cerchio i vini Barbera di Mariotto, vero trait d’union di un terroir capace di regalare grandi bianchi, ma anche eccellenti rossi. Non a caso Poggio del Rosso è il vino preferito del viticoltore tortonese, quello che considera la migliore espressione della sua intera produzione. E non solo per una questione di cuore, dal momento che “Il Rosso” è il soprannome col quale veniva chiamato il padre Oreste. Il Poggio del Rosso affina 3 anni in cantina, per la maggior parte in rovere. Risulta così un vino dal tannino morbido ma vivace, impreziosito da note di ciliegia e cioccolato. Sentori terziari di grande pregevolezza già percepibili al naso: dalla cannella al tabacco dolce, dal caffè alla liquirizia.
LA COLOMBERA
Non è dello stesso impatto “emotivo” la visita all’azienda Agricola Semino Piercarlo “La Colombera” di strada comunale per Vho, 7, a Vho per l’appunto. Degustiamo Derthona e Il Montino, entrambi ottenuti da uve Timorasso. Viene proposta una mini verticale che mette in luce le grandi capacità di invecchiamento del vitigno, anche se i prodotti de La Colombera paiono meno ‘pronti’ in gioventù rispetto ad altri degustati domenica 19 in zona Tortona. Le annate 2014 e 2013 suggeriscono di bere Cortese piuttosto che Timorasso, per trovare soddisfazioni immediate sia al naso sia al palato. Merita invece una menzione il Derthona 2009: caldo, complesso, finalmente corposo e strutturato. Capace di regalare i tipici idrocarburi e sentori minerali del vitigno. Lascia perplesso il prezzo di vendita della vendemmia 2009 Derthona: soli 9 euro, a dispetto degli 8 euro delle vendemmie ‘giovani’. In una zona vinicola capace di fare squadra come in poche altre in Italia, una tale disparità di prezzi tra le stesse annate di diversi produttori rischia di sconcertare il consumatore. E deviarlo verso la ricerca del prezzo, più che della qualità. Un punto, questo, su cui devono lavorare in concerto i produttori di Timorasso, pur nell’autonomia delle singole aziende vitivinicole. Alla Colombera apprezziamo anche il naso di Suciaja, rosso ottenuto da uve Nibiò, vitigno autoctono dei colli tortonesi, ‘parente’ del Dolcetto. Ottimo invece nel complesso Arché 2011, altro vino rosso de La Colombera, ottenuto questa volta da uve Croatina. Dopo un breve appassimento sulla pianta, i grappoli vengono raccolti e vinificati. Il vino matura 14 mesi in tonneaux, regalando un naso speziato (pepe) e di piccoli frutti a bacca rossa. Al palato buona la struttura e il corpo: tannino piuttosto elegante e alcolicità sostenuta (14,5%) ma tutt’altro che fastidiosa, impreziosita da una sapidità non banale.
WALTER MASSA Il filosofo del vino, il pioniere e marinaio che ha condotto Tortona a Hong Kong, passando per Londra, New York e Tokyo. Dire Timorasso senza citare Walter Massa è come parlare di calcio senza aver mai toccato un pallone. Lo raggiungiamo all’ora di pranzo nel suo quartier generale di piazza Capsoni 10, a Monleale. Quando arriviamo, Massa sta dicendo messa. E’ al centro di una lunga tavolata, affollata di ospiti che lo ascoltano come se stesse parlando il Messia. Perché Walter Massa è il verbo del Timorasso e il Timorasso è il verbo di Walter Massa. Per questo, chi non c’era, provi a portarsi a casa un Costa del Vento (dalla vendemmia 2014 in giù, finché il portafogli lo consente); o uno Sterpi 2013, un Timorasso che pare per certi versi Vermentino di Gallura. “Io prendo quello che la natura mi dà e cerco di portarlo in bottiglia”, dice Walter Massa mentre invita Pigi, la sua graziosa “badante”, a smettere di riempire i piatti di cassoeula e brodo con i ceci: “Sono qui per il vino, mica per mangiare!”. “Qui abbiamo l’acqua ligure, il vento piacentino, ma ci troviamo in Piemonte: siamo bastardi pieni”, scherza (ma non troppo) Massa, sollevando l’ilarità generale. E tra un sorriso e l’altro spuntano i vini rossi. E che rossi. Pertichetta 2010, 14,5%, ottenuto da uve Croatina, e soprattutto Bigolla 2001, 14,5% di Barbera granata, da definire con una sola parola: eccezionale.
OLTRETORRENTE Dal mito alla new entry. Il passo è breve tra i Colli Tortonesi. Approdiamo così in via Cinque Martiri, a Paderna, dove Chiara Penati e Michele Conoscente, marito e moglie di 35 e 38 anni, sono espatriati da Milano per inseguire il loro sogno, dopo la laurea in Agronomia e diverse esperienze in aziende del settore. Tutto inizia nel 2010, con l’acquisto dell’attuale cantina su tre piani, un edificio storico nel centro del paese, parzialmente ristrutturato. Vengono condotte qui nei primi anni, per la vinificazione, le uve provenienti dal primo ettaro e mezzo di Oltretorrente, che prende il nome “da un romantico episodio di resistenza nell’omonimo quartiere di Parma – spiega Chiara – durante il ventennio fascista: alcuni abitanti, grazie a fantasiosi espedienti, fecero credere di essere armati fino ai denti, barricandosi in un palazzo e scacciando così le milizie. Un episodio che dimostra come, a volte, basta poco per fare le cose in grande e raggiungere grandi obiettivi”. In effetti la produzione di Oltretorrente è degna di nota. Oggi l’azienda può contare su un’altra struttura, sempre a Paderna, in grado di sostenere la lavorazione dei 3,5 ettari complessivi sin ora acquistati. “Si tratta di vigne vecchie – spiega Chiara – dai 20 anni ai 100 anni, con una media di 60”. Un aspetto fondamentale per comprendere la maturità di questa piccola ,e interessantissima realtà. In degustazione non troviamo (purtroppo) una grande varietà di prodotti. L’antipasto è il Cortese 2015, ottenuto dalla pressatura soffice delle uve intere, seguita da un affinamento di 8 mesi in acciaio sui propri lieviti, senza malolattica. Un’attenzione che offre un ottimo naso, fragrante, floreale e fruttato. Al palato vince invece lo spunto minerale, apprezzabilissimo. Sorprendente il Timorasso 2014, che regala note eleganti di fiori bianchi (camomilla). Al palato grande acidità e bel corpo, sorretto anche da una sapidità e da una mineralità che fanno presagire le grandi potenzialità del prodotto. Sulla via di una buona evoluzione anche il Timorasso 2013, l’unico in occasione di Quatar Pass a mostrare venature di uva passa e frutta candita. Buoni prodotti anche i due Barbera dei Colli Tortonesi, con quella Superiore (vendemmia 2012) che si eleva nettamente sulla prima per la grande pulizia delle note fruttate, sia al naso sia in bocca, impreziosite dalle spezie (liquirizia) e da un tannino levigato. “Accorpando vigne di anno in anno – annuncia Chiara – non siamo ancora riusciti a certificarci come produttori biologici, ma questo è il progetto per il futuro”.
POGGIO AZIENDA VINICOLA
Un capitolo a parte merita l’azienda vincola Poggio di Vignole Borbera, sempre in provincia di Alessandria ma all’estremo confine con la Liguria: per intenderci, siamo a pochi chilometri dall’outlet dell’abbigliamento di Serravalle Scrivia (buon motivo per combinare le due visite). Ci troviamo nella preziosa sottozona delle “Terre di Libarna”. Ezio e Mary Poggio, fratello e sorella, lui enologo, lei farmacista, rappresentano la terza generazione di una famiglia che vive nel mondo del vino da 50 anni, che da circa 15 anni ha iniziato a produrre in proprio, appoggiandosi anche su una filiera di piccole aziende agricole limitrofe, alcune delle quali condotte da giovani viticoltori. “Il Timorasso nasce qui come vitigno, in Val Borbera – sottolinea Mary – poi è stato portato nel Tortonese. A un certo punto scomparve per via delle malattie della vite e dello spopolamento delle valli, con gli abitanti della zona attirati dalle industrie, nelle grandi città come Genova, nel dopoguerra. Negli anni 90 Walter Massa ha avuto il merito di cominciare la riscoperta di questo autoctono. Noi siamo arrivati un po’ più tardi, nel 2002, avviando la produzione”. Nella Valle Borbera e nella limitrofa Valle Spinti, negli anni 40, c’erano 275 ettari di vigneto, tutti persi. Oggi in produzione ce ne sono una decina, tutti inseriti nella sottozona Terre di Libarna della Doc Colli Tortonesi. Quella della famiglia Poggio è stata una scommessa: “Abbiamo iniziato a impiantare Timorasso nella speranza che di lì a pochi anni fosse riconosciuta la Doc, altrimenti avremmo dovuto estirpare – sottolinea Mary -. Fortunatamente l’abbiamo ottenuta e abbiamo deciso di chiamare questa sottozona ‘Terre di Libarna’ in onore del sito archeologico di Libarna, che si trova a 4 Km da noi: un’antica cittadella romana, del II secolo avanti Cristo, che godeva di una fiorente viticoltura in Val Borbera e Spinti”.
I vigneti del Poggio si trovano tutti a un’altezza compresa tra i 450 ai 550 metri sul livello del mare. Le viti, come nel Tortonese, affondano le radici in un terreno argilloso e calcareo. Ma le grandi escursioni termiche permettono di produrre un Timorasso da degustare a tutti i costi. Diverso da quello di Tortona e Vho: un Timorasso dall’acidità ancora più spiccata. Con una gradazione alcolica inferiore anche di due gradi rispetto alla media tortonese, che si aggira sui 14 – 14,5%, compensata però da una balsamicità magicamente avvolgente. I risultati ottenuti dal Poggio dalla prima vendemmia del 2008, fa pensare ai coraggiosi Ezio e Mary che avrebbero potuto produrre con successo anche una versione spumantizzata. Ed è così che nel 2010 nasce Lusarein, ottenuto in purezza da uve Timorasso, raccolte precocemente, ottenendo una “base” da 11,5 gradi. Uno charmat d’autoclave lunga (6 mesi), imbottigliato a 12,5 gradi. Di colore giallo paglierino con riflessi verdognoli, Lusarein sfodera una spuma leggera con perlage fine e persistente. Al naso note minerali e agrumate. In bocca una sapidità piuttosto spiccata, cui fa eco un’acidità notevole: caratteristiche che invitano al sorso successivo, che si chiude con un retrogusto amarognolo. Ottimo come aperitivo, può essere abbinato a primi e secondi di pesce, ma anche alle carni bianche. Di Lusarein 2014 sono state prodotte 4 mila bottiglie. Ottimi, del Poggio, anche L’Archetipo e il Caespes, ottenuti sempre da uve Timorasso 100%. Caespes è il base, di cui degustiamo l’annata 2014, già pronta a sorprendere per la grande acidità che regala una beva facile, ma tutt’altro che banale. Si sale ulteriormente di livello con L’Archetipo 2013, dalla notevole vena balsamica, che diventa ancora più profonda e fresca nella vendemmia 2011, davvero degna di nota. Tutti vini ottenuti da rese per ettaro basse, sotto i 50 quintali. Un numero che, per la vendemmia 2015, è sceso addirittura a 35 quintali. Diciottomila le bottiglie prodotte complessivamente dal Poggio, tutte all’insegna di una grande qualità.
AZIENDA AGRICOLA RICCI
Di grande pregio anche la produzione dell’azienda Azienda Agricola Ricci, situata in via Montale Celli 9, Costa Vescovato. Una realtà alla quale ci siamo avvicinati in occasione del Vinitaly 2015. Carlo Daniele Ricci, il titolare, si è ormai specializzato nella produzione di un Timorasso senza pari. Il viaggio tra i sapori (e i colori) di questo uvaggio inizia con Terre del Timorasso 2013, vinificato in acciaio. Vino di un giallo dorato, sfodera un naso non particolarmente intenso, preludio tuttavia di un palato caldo e persistente. Si passa dunque a San Leto 2009, ottenuto mediante fermentazione e affinamento in acacio. San Leto 2006 stupisce per l’intensità olfattiva, che sfiora le tinte balsamiche. Giallo di Costa 2011 scorre nel calice tingendolo di un ambra allettante, che in bocca diventa piacere puro, tanto risulta morbido e rotondo il nettare, nonostante il calore dei suoi 14 gradi di alcol in volume. Giallo di Costa 2007, è l’eleganza fatta vino. E San Leto 2004 la ciliegina su una torta di una produzione di altissimo livello. “Lavorare bene in vigna – commenta il produttore Carlo Daniele Ricci – è il primo passo per ottenere vini di grande equilibrio. Conosco ogni singolo componente dei terreni che coltivo, avendo effettuato per anni delle ricerche accuratissime che mi permettono di capire come sarà il vino ancor prima di produrlo. Nell’area di produzione del Timorasso c’è grande rispetto per l’ambiente e unità tra produttori. Siamo partiti come carbonari, contro tutti i commercianti di vino e le cantine sociali. Dopo 20 anni di fatiche e battaglie, possiamo finalmente affermare che il territorio ce l’abbiamo in mano noi, produttori attenti alla terra e all’ambiente”. Quale immagine migliore per la Doc Colli Tortonesi?
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
God save the wiine (doppia “i” voluta, adesso indovinate la pronuncia). E poi chi se ne frega della regina Elisabetta. Men che meno dei suoi sudditi, divisi tra leave o remain. Il vino unisce tutto. E tutti. Chiedetelo a Luisa Todini.
Presentazioni di rito lunghe come la Bibbia. Piene di contraddizioni a cui solo la fede (per l’anti politica) può dare una spiegazione. Logica, s’intende.
Dal 1994 al 1999 in Forza Italia come eurodeputata, viene proposta da Renzi come presidente di Poste Italiane nel 2014, pur essendo in quota Lega.
Ricopre nel contempo, dal 2012, l’incarico di consigliera nel CdA Rai, dal quale si dimette il 19 novembre 2014. Non prima d’aver votato contro il ricorso al decreto Irpef presentato dal governo italiano (presieduto da Renzi) nel mese di aprile: un ricorso che prevedeva il prelievo forzoso dalle casse dell’azienda televisiva per circa 150 milioni. Chapeau.
Ma è della Todini imprenditrice del vino che c’importa, in fondo. O no? A proposito, ultimo capitolo del curriculum: Luisa Todini è anche la titolare di Cantina Todini, che il 23 giugno ha annunciato a Londra la propria intenzione di “continuare a investire e a scommettere sul mercato britannico”.
DENTRO O FUORI
“Continuiamo comunque a investire in un luogo dove abbiamo sempre investito – dichiarava la Todini a un giorno del voto – e continuiamo a farlo anche ora. La mia speranza è che non ci sia la Brexit. Che tutti gli inglesi capiscano”. Secondo la Todini, il Regno Unito “continuerà a essere una piazza fondamentale per il made in Italy, anche con Brexit.
Io sono qui per raccontare un pezzo di territorio italiano, l’Umbria, e nello specifico Todi, presentando vini d’eccellenza a base di Sangiovese e Grechetto”. Grande risalto per queste dichiarazioni sui media italiani.
Così come grande risonanza è stata data dalla stampa italiana alla presentazione dei vini Todini in occasione di due eventi organizzati ad hoc: uno a Bianco43, ristorante al 43 di Greenwich Church street, Londra; l’altro al Novikov nel Mayfair, esclusivo distretto londinese. Presenti, tra gli altri, l’ambasciatore italiano Pasquale Terracciano e lo chef Giorgio Locatelli. Entrambi i ristoranti hanno i vini Todini in wine list.
“Per noi – evidenzia Luisa Todini al Sole 24 Ore – questo è un grande punto di arrivo, ma vuole essere anche un punto di partenza. Il mercato britannico ha riservato una calorosa accoglienza ai nostri vini Todini: nel giro di un anno, dopo il debutto nel 2015, i vini sono presenti in oltre 25 ristoranti su tutto il territorio, con una vendita di oltre 8 mila bottiglie prodotte da uve autoctone. L’intenzione ora è di ampliare la presenza a un numero ancora più grande di ristoranti e anche di arrivare sugli scaffali di una selezionata grande distribuzione. Le trattative sono già in corso”. Good save the (Todini) wiine.
IL BORDEAUX SALE, I BUYER GONGOLANO Forse più preoccupazione regna in Francia. Secondo gli analisti economici del Regno Unito, il mercato del vino pregiato nel Regno Unito potrebbe registrare un arresto.
Brexit rende di fatto più costoso il vino dei Paesi Ue per gli acquirenti muniti di sterline. In un momento in cui il settore del vino mostrava segni di ripresa, la prima prima vittima del voto Brexit potrebbe essere la campagna francese per l’anteprima del Bordeaux 2015.
“L’incremento dei prezzi del Bordeaux era già stato paventato nelle scorse settimane, prima del referendum – evidenzia Justin Gibbs a Liv-ex, piattaforma di trading di vini con sede a Londra – ma con una sterlina debole possiamo aspettarci un ulteriore incremento del prezzo di oltre il 10%”.
Liv-ex segnala al contempo un boom di ordini di vino durante la scorsa notte. Un boom proveniente prevalentemente da Hong Kong, ma anche degli Stati Uniti. Semplice la spiegazione. I buyer di questi mercati pensano di poter contrattare con il Regno Unito prezzi d’affare per il vino nelle prossime settimane, se la sterlina rimane debole.
“Gli acquirenti muniti di dollaro – evidenzia Gibbs – potrebbero utilizzare questo come un’opportunità per accumulare vini”. L’analista ritiene comunque che “il mercato del vino pregiato è relativamente resistente agli shock rispetto ad altri settori. Le papille gustative dei clienti non sono cambiate durante la notte”.
Will Hargrove, imprenditore del settore del vino nel Regno Unito, sottolinea che “ci vorrà tempo per conoscere le conseguenze di Brexit”. “Chiaramente – prosegue – l’incertezza nei mercati finanziari non giova a nessuno. Sento dire che in autunno sapremo veramente quali sono gli effetti dell’uscita dall’Unione europea. Ma nel frattempo l’anteprima Bordeaux è in gran parte diventata un esercizio di intermediazione”.
Secondo l’imprenditore inglese, il settore del vino britannico “voleva rimanere nell’Ue. Ma il popolo britannico si è espresso in altro modo, decretando l’apertura di un nuovo capitolo della nostra storia. Lavoreremo per aiutare il governo a preservare il nostro accesso al mercato unico, sostenendo le esportazioni e trattando per ottenere i migliori accordi di libero scambio internazionale”.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Nonostante la fama di “precisini” non ci hanno pensato due volte, alcuni Svizzeri, a conclusione di un festival musicale, a sversare nel ruscello di Dürnten, nell’Oberland zurighese, ben mille litri di birra. Una “leggerezza” che ha provocato un letterale fiume di birra. Chiamati sul posto per verificare l’origine della schiuma, arginata poi mediante barriere galleggianti, i pompieri sono risaliti alla dinamica e ai colpevoli dello sversamento. Nessun danno per la flora e la fauna, ma i responsabili saranno comunque chiamati a rispondere di inquinamento acquifero. Da un punto di vista, certamente meglio la birra piuttosto che sostanze chimicamente pericolose, ma rimane l’arcano. Perché tutta questa birra sprecata? Forse un tentativo maldestro di realizzare il sogno dei beerlovers di aprire il rubinetto e vedere scorrere birra?
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
“Dall’importante lavoro svolto da Ismea e di Wine Monitor – Nomisma, sull’export vinicolo delle regioni italiane, emerge quella che a mio avviso è un’evidente ingiustizia, tutta a scapito del Sud e soprattutto a svantaggio di regioni come la Puglia o la Sicilia. I codici di nomenclatura possono aiutare a ‘tracciare’ gli scambi e ricostruire dati più aderenti al vero”.
Lo ha dichiarato ieri, in occasione della conferenza stampa convocata per le 11:30 nella Sala Nassirya di Palazzo Madama, il senatore Dario Stefàno (Sel) a proposito del calcolo dei dati export del vino, attraverso cui si evidenzia una mancata corrispondenza tra il luogo di origine del prodotto e la località di sdoganamento.
“Non mettiamo in discussione il prezioso e puntuale lavoro di Ismea – precisa Stefàno – puntiamo invece i riflettori su quella che appare come una ‘pigrizia burocratica’ che va a pregiudicare le performance di alcune ragioni tra le quali la Puglia”.
“Basta osservare – ha proseguito Stefanò – dal punto di vista statistico, l’incremento della propensione all’export della regione dove avviene lo sdoganamento, a scapito appunto di quella di origine. È il caso palese di regioni come il Piemonte e il Trentino, dove tale propensione è a 3 cifre percentuali (rispettivamente 141% e 173%).
“Quindi – continua Stefàno – se è logico che una regione non possa esportare più del 100% di quanto produce, come opportunamente segnalato nello stesso report di Ismea, tuttavia da questa percentuale ‘dopata’ scaturiscono e si determinano ricadute penalizzanti e pesanti per interi territori”.
Una su tutte, la ripartizione dei fondi Ocm vino che costruisce le sue determinazioni avvalendosi anche dei dati Istat (come quelli in questione) fino ad arrivare a possibili interessi di appeal commerciali o per investimenti che i privati potrebbero realizzare e che le attuali evidenze statistiche, per alcuni casi, potrebbero addirittura scoraggiare”.
“Per sanare questa distorsione della lente statistica – aggiunge Stefàno – intendo proporre la convocazione di un tavolo tecnico presso il Mipaaf, coadiuvato da Ismea, Agenzia delle Dogane e Istat affinché vengano redatti, per le regioni mancanti, i codici di nomenclatura combinata mediante i quali sarà possibile ricostruire il vero dato circa la propensione all’export delle regioni nonché contribuire a migliorare il sistema di informazioni su tali scambi”. “Un’iniziativa – conclude Stefàno – che ribadisce la centralità e l’importanza dell’origine dei prodotti, sulla quale l’Italia non può permettersi alcun tentennamento”.
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Milleottocento bottiglie per cinquecento partecipanti, tra semplici amanti delle nobili “bollicine” francesi ed esperti del settore. Un successo senza pari quello di “Un mare di Champagne”, l’evento che lunedì 20 giugno ha reso Alassio capitale del Pinot Noir, dello Chardonnay e del Pinot Meunier. Numeri da capogiro se confrontati con l’edizione precedente, che aveva fatto registrare il “botto” di mille bottiglie per 350 persone, nella splendida cornice del Grand Hotel Alassio & Spa di via Gramsci 2/4. E se gli organizzatori del Consorzio Macramé sorridono, non sono da meno i partner gastronomici di Selecta Spa, con i banchetti del gusto presi letteralmente d’assalto dai presenti, per accaparrarsi un’ostrica o una fetta di culatello. Delizioso anche l’olio e le olive a marchio Novaro (Olio Novaro 1860, Imperia), offerto in assaggio dal sales director Enrico Novaro. Come impareggiabili sono risultate le creme di Maison della Nocciola (Settimo Torinese, Torino), con cui la general manager Giovanna Galletti ha ammaliato gli astanti. Ma il vero protagonista dell’evento è stato, ovviamente, lo Champagne. Di seguito le nostre migliori degustazioni. Si tratta di bottiglie non reperibili nella grande distribuzione organizzata, acquistabili nelle migliori enoteche e reperibili nei grandi ristoranti.
IL PODIO
Sul gradino più alto del podio finiscono due piccoli produttori: Ulysse Collin e Frank Pascal. Splendido Les Roises Extra Brut di Ulysse Collin – un Blanc del Blanc Extra Brut che può vantare un breve periodo di fermentazione in legno, ottenuto da vigne di 60 anni, un cru meraviglioso sia al naso sia al palato – e memorabile il QuintessenceExtra Brut 2005 di Frank Pascal – 60% Pinot Nero, 25% Meunier, 15% Chardonnay biologico, con 4g/litro di residuo zuccherino – che avvolge il naso con richiami di miele d’acacia, una golosità che ritroviamo anche al palato, sinuoso e perfetto nel corpo, dove il Noir si fa sentire eccome.
Altro pari merito, al secondo posto, per due produttori di Champagne tra loro molto diversi: Duval – Leroy, distribuito dalla Compagnia dei Caraibi Srl (To) e rappresentati ad Alassio da Marco Galasso, e Lanson, gruppo Duca di Salaparuta Spa, maison di Reims raccontata dal wine ambassador Andrea Pellegrini. Il Rosè Prestige Brut Premier Cru, ottenuto da un 90% di Pinot Noir e un 10% di Chardonnay della Cote des Blancs è un gioiellino: d’un rosa salmone brillante, regala al naso note intense di ciliegia, fragoline di bosco e fico, impreziosite da un pizzico austero di zenzero. Un rosè di grande eleganza anche al palato, dove le note fruttate del Pinot Noir giocano con un perlage soffice come le nuvole. Lascia il segno, come una bella donna, anche Femme de ChampagneMillésime 2002 Brut di Duval – Leroy, il 100% Pinot Nero Grand Cru che costituisce l’eredità del patron della maison alla moglie Carol, che ora conduce assieme ai figli Julien, Charles e Louis il tesoro di una “famiglia indipendente”, come recita il claim aziendale, dal 1859. Da una piccola maison, lady Carol ha trasformato in pochi anni la Duval – Leroy in un colosso fondato proprio su questo rosè unico. Sino ad arrivare a produrre qualcosa come 6 milioni di bottiglie, grazie ai 200 ettari di vigne e all’uva selezionata scrupolosamente da selezionati terzisti.
L’ottimo Andrea Pellegrini presenta invece la vasta gamma di Champagne Lanson, che apprezziamo particolarmente per l’anticonformismo (è proprio il caso di dirlo) nel dosaggio a 4 grammi litro per la maggior parte della produzione. Segnaliamo dunque l’Extra Age BrutLanson, blend composto per il 40% da Chardonnay e per il 60% da Pinot Noir. Le uve provengono esclusivamente da vigneti selezionati “Grand Cru” e “Premier Cru” e costituiscono il matrimonio di tre eccezionali annate come la 2002, la 2004 e la 2005. Cinque anni (minimo) di affinamento per regalare all’esame visivo un giallo paglierino intenso e un perlage molto fine. Pan speziato e miele la fanno da padrona all’olfatto, assieme a note fruttate di pesca e frutta secca. Mentre in bocca lascia il segno una struttura sostenuta da una bella acidità, con le note fruttate a fare da contorno. Da bere almeno una volta nella vita anche il Gold Label Vintage 2005Lanson, ottenuto in prevalenza da Pinot Nero, con un’aggiunta di Chardonnay che, per il millesimo in questione, si assesta attorno al 45%. Uno champagne prodotto esclusivamente nelle annate migliori, che prevede un affinamento minimo di 5 anni in seguito alla pigiatura delle uve provenienti dai cru Cramant e Le Mesnil-Sur-Oger (Chardonnay) e Ay, Louvois, Verzenay e Verzy per il Pinot Noir. Anche se il calice della degustazione non esalta il perlage, le “catenelle” sono presenti, persistenti e fini. Ancora note “grasse” al naso prima e al palato poi, con il miele d’acacia e la frutta candita. Pienezza straordinaria al palato, per uno Champagne di gran classe.
Come non citare, sul podio, Perrier-Jouet col suo Belle Epoque 2007: terzo posto nella nostra speciale classifica. Champagne e maison che non hanno bisogno di presentazioni, con la distribuzione italiana affidata alla Marchesi Antinori Spa di Firenze, rappresentata alla grande ad Alassio dall’istrionico direttore commerciale Leo Damiani. Otto grammi litro il dosaggio del Grand Brut, così come per il Blason Rosé Perrier-Jouet. Bottiglie “piacione”, che citiamo solo per dovere di cronaca e che non facciamo rientrare nella classifica delle migliori degustate. Produzioni, queste, nate per ammaliare un pubblico vasto. Volutamente “così”. E, come tali, in grado di strizzare l’occhio a un gentil sesso non necessariamente esperto del settore. Il Grand Brut (40% Chardonnay, 40% Meunier, 20% Pinot Noir) è uno degli Champagne più rotondi reperibili sul mercato, e non solo al “Mare” di Macramè. Una “bollicina” ottenuta da un 70-80% di vini di vendemmia, cui va a sommarsi un 20-30% di vini di riserva. “La sua forza è la costanza nel tempo, nello stile, difficile da conseguire di anno in anno – ammette Leo Damiani -. Il Grand Brut è lo stereotipo dello Champagne”. Persistenza e semplicità, da gettare distrattamente in un flute. Blason Rosé è la declinazione in rosa di quanto appena descritto. Una trama più complessa al palato, che si gioca tutto sull’acidità e sulle note agrumate. Un quadro piacevole e, nuovamente, rotondo.
LE ALTRE DEGUSTAZIONI
Quarto posto per il Brut Grand Cru Blanc de Blancs di Encry, distribuito in Italia da Proposta Vini di Pergine Valsugana, Trento. Ennesimo dosaggio a 4 grammi litro che apprezziamo sin da subito per la luminosità del giallo paglierino che colora il calice, ravvivato da un perlage fine. Buona complessità al naso, con note di zucchero filato a incoronare fiori bianchi e mandorla. In bocca buona struttura e piacevolissima sapidità: per gli amanti del “genere” sapido, uno Champagne da provare a tutti i costi. Ottenuto in acciaio, con 40 mesi di affinamento. Segnaliamo anche lo Zero Dosage Grand Cru Blanc de Blancs Encry e il Grand Rosé Prestige Encry.
Quinto Champagne che suggeriamo è il Brut Nature Cuvée Perle de Ayala 2005. Splendido blend composto all’80% da Chardonnay e al 20% da Pinot Nero, 96 mesi sui lieviti, si presenta di un giallo dai riflessi dorati. Al naso spiccano chiare le note di nocciola, biscotti e miele. Tutte note che ritroviamo anche al palato, dove una soffusa speziatura di zenzero rende il sorso successivo una necessità. Di grande freschezza e Nerbo anche il Brut Majeur Ayala, ottenuto da Pinot Noir 40%, Chardonnay 40% e Pinot Meunier 20%. Uno Champagne da gustare a tutto pasto, ottenuto dalla cuveée composta per l’85% da uve della vendemmia 2006, cui vengono addizionati vini di riserva da Chardonnay e Pinot Noir.
Jean-Christophe Gremillet, cellar master dell’omonima maison di Balnot sur Laignes, lo definisce “la migliore espressione del terroir di proprietà, combinato all’esperienza maturata della casa produttrice”. Una definizione che non possiamo che sottoscrivere, quella riservata al Blanc de Noirs Brut Gremillet, un 100% Pinot Nero dalla grande persistenza e pulizia degli aromi: è il sesto della nostra classifica di Champagne degustati ad Alassio. Premiatissimo a livello internazionale, questo Champagne è adatto a chi ama ritrovare anche tra il perlage le note speziate, decise e robuste del pepe. Una bottiglia inconfondibile, anzi: riconoscibile tra un milione. Che invita i più audaci a giocare anche in cucina, con abbinamenti tutti da scoprire.
Per gli amanti del “dosaggio zero”, ecco il settimo Champagne: è il Brut Nature – Dosage Zéro di Ar Lenoble, distribuito da Champagne Ar Lenoble Italia. Una potenza inconsueta per questo blend di Pinot Nero e Pinot Menunier (35%), che mostra la rotondità del secondo solo dopo aver scattato la fotografia dei muscoli del primo. Un bel mix di potenza e grazia quello della maison di Rue Paul Douce, Damery, prodotto al 100% dalle vigne di proprietà di Antoine e Anne Malassagne, fratello e sorella che danno corso con passione a una tradizione famigliare che risale al 1920. Il Brut Nature – Dosage Zéro Ar Lenoble è ottenuto grazie a una pozione così composta: 30% da Chardonnay del Grand Cru di Chouilly, 35% di Pinot Nero dal Premier Cru di Bisseuil, 35% di Pinot Menunier di Damery (Valle della Marna). La base è costituita da vini della vendemmia 2010, più un 22% di vini di riserva. Ar Lenoble è un’azienda attenta all’ambiente, certificata in Francia con il riconoscimento dell’Haute Valeur Environnementale, conseguito nel 2012. Un’attenzione che viene ripagata da un calice di estrema schiettezza e pulizia.
Ultimi tre posti della nostra speciale classifica degli Champagne da provare almeno una volta nella vita, occupati da due maison distribuite da aziende del sudovest Milanese. La maison al settimo posto è Steinbruck (Steinbruck Italia Srl, Pieve Emanuele – Mi) con la sua Cuvée Blanc de Noir che abbraccia tutte le zone della Cote des Blancs: morbido, invita al sorso, anche grazie a un perlage croccante. Profumi intriganti di frutta esotica che rischiano di disorientare, ma nel complesso un ottimo prodotto. La famiglia Steibruck, proprietaria di alberghi in Costa Azzurra, seleziona dal 1880 Champagne da proporre alla propria clientela. Un’attività ripresa oggi da Marque Auxiliare (Acheter). Sempre di Steinbruck il nono classificato, la Cuvée Brut Blanc de Noir: uno Champagne dal bel giallo paglierino, ottenuta al 100% da Pinot Nero dei Cru Montagne de Reims (Bouzy ed Ay), Vallée de la Marne e Aube (Cote de Bar). Tre anni sui lieviti per le uve 100% uve Pinot Noir provenienti dalla Montagne de Reims (Bouzy ed Ay) e per un’altra parte dei Pinot Noir della Aube. Ottanta i vini che compongono questa interessantissima cuvée, tra i quali circa un 20% di vino di riserva. Gran corpo e struttura per questo Champagne: un altro che può regalare soddisfazioni in cucina, anche con gli abbinamenti più azzardati.
E’ Deutz, col suo Brut Classic, a chiudere la classifica delle maison di “Un Mare di Champagne”. Una bottiglia che è ormai diventata un classico, anche se divide il pubblico di appassionati ed esperti. Non la pensano così i distributori di Corsico (MI), che la definiscono “il base che nessuno sa fare”. Di certo si tratta di uno Champagne lungo, dall’acidità importante, invidiabile. Da provare, insomma. Il Brut Classic Deutz è ottenuto dalla somma dei 33% di Pinot Noir, Pinot Meunier e Chardonnay, che registrano l’aggiunta di una percentuale variabile tra il 20 e il 40% di vini di riserva. L’acidità molto alta equilibra bene gli 8 grammi litro di residuo zuccherino, che in altri Champagne degustati ha compromesso il giudizio finale.
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Si scrive “Walter Massa”, si legge “Timorasso”. Anzi: oggi, più che mai, “Derthona”. Ma cosa succederebbe se il re del vino dei Colli Tortonesi decidesse di gettare la spugna?
La notizia shock in esclusiva al microfono di vinialsupermercato.it: “Non ci sto più dentro e nel 2018 cambio lavoro. Faccio ancora due vendemmie. Poi la mia azienda andrà avanti coi miei nipoti o con qualcun altro. Ma non vi dico che lavoro farò! Dico solo che devo prendere tanti voti per cambiare lavoro”.
Fermi tutti. Seduti. Un sorso d’acqua. Fatto? Bene. Flashback. Sulla terrazza di piazza Casponi 10, a Monleale, quartier generale alessandrino del vignaiolo che ha avuto il merito di rilanciare il Timorasso in Piemonte e nel mondo, sono da poco passate le 17.30 di domenica 19 giugno.
Un pubblico di appassionati di vino affolla la casa del guru in occasione di Quatar Pass per Timurass, la (riuscitissima) quarta tappa del tour organizzato da Slow Food Piemonte – Cantine a Nord Ovest. Strappiamo letteralmente Massa dalla ressa. E ci facciamo concedere un’intervista. Parliamo del rapporto tra vino e grande distribuzione. Un argomento su cui il re dei Colli Tortonesi mostra un’inaspettata apertura.
“Il mio è un progetto ambizioso e quindi cerco di stare sui canoni, come li definiscono quelli che hanno studiato, dell’horeca. Però il vino è un prodotto per il quotidiano, da sempre. E quindi va messo alla portata di tutti: va distribuito in maniera diligente e rispettosa. Ci sono dei supermercati che hanno fatto investimenti diligenti sul vino e io li rispetto tantissimo. Poi, finché riesco e se riesco, cerco di starne fuori. Ma apprezzo davvero chi ha fatto grandi sforzi per rendere alla portata di tutti i vini agricoli e i vini di qualità”.
“Siamo tutti uguali, la carne è debole. Quando vendi, quando tiri, quando sei di moda – ammette Massa – fai il fenomeno e magari ti permetti di dare il vino solo a chi te lo paga anticipato, alle grandi enoteche, ai ristoranti stellati. Poi, appena comincia a mancarti qualcosa o a entrarti in società qualcuno che preme per il fatturato e per il business, paventando la possibilità che l’azienda possa altrimenti chiudere, ti fermi un attimo e ti rendi conto che forse bisogna dire basta alla filosofia. E di filosofi siamo tanti, nel vino, in Italia”.
“Il vino – prosegue Walter Massa – deve essere sempre il seguito di un pensiero. Un pensiero che va sostenuto. Questo si ottiene solo con delle scelte e io ho fatto le mie: cerco di differenziare i prodotti, di tenerli sotto controllo… Poi sarà sempre la legge della domanda e dell’offerta, la legge degli uomini, la legge della fortuna a prevalere su tutto. Io penso di essere più che la mia fortuna, la fortuna di un territorio. Qui ho trovato tanti colleghi con cui ho un bel feeling e con cui sto cercando di recuperare un gap storico. A Savona, dieci anni fa, pensavano che a Tortona neppure si facesse il vino. Oggi, che si fa il vino a Tortona, lo sanno i salotti buoni che ci sono a Hong Kong, piuttosto che a Tokio, piuttosto che a New York o nel nord Europa”.
LA SVOLTA Proprio per questo, secondo Massa, è arrivato il momento di svoltare. Di cambiare prospettiva. “Adesso – evidenzia – dobbiamo anche pensare a un Timorasso, anzi meglio a un Derthona, per tutti. Io ho fatto il Petit Derthona copiando dal Petit Chablis, perché voglio difendere al massimo il Timorasso”.
“Non voglio che il Timorasso sfuso sia alla mercé di gente che col vino centra come io centro con gli aeroplani. Come? Imbottigliandolo io, fino all’ultima goccia. Pensate che un Lugana sfuso vale 4,50 euro al litro, quando una Barbera del mio vicino di casa un euro al litro: questa è pazzia, è una cosa vergognosa. Non per il Lugana, ma per il Barbera”.
“Il Gavi sfuso – sottolinea Massa – vale 3 euro al litro! E io non voglio che il Derthona sfuso esista! Perché noi del Derthona siamo tutte aziende con un know how in cantina per imbottigliare il vino e vogliamo far sì che, se il Derthona a casa mia esce a 10 euro, il Petit Derthona esca dalla mia cantina a 6 euro. E il consumatore, sugli scaffali, trovi il Petit a 7-8 euro, e il Derthona a 15-16 euro”.
Un’apertura alla Gdo? “Non nel mio caso – precisa Massa – perché il Petit Derthona è l’ultimo prodotto a cui io penso. Quando ho fatto tutte le selezioni per i cru e per il Derthona, quello che avanza diventa Petit Derthona. Lo dichiaro al mio distributore e mi auguro che lo gestisca come tale. Dobbiamo smetterla di fare i commercianti falsi, noi del vino”.
“Se finisco il mio vino e lo vado a comprare dal mio vicino – aggiunge Massa – finisce la filosofia, la poesia del vignaiolo indipendente. Il vignaiolo è indipendente quando può mandare tutti a cagare e andare al mare, la terza domenica di giugno. Non star qui a mendicare o a dare a retta a tutti. Lo faccio volentieri, ma il vignaoiolo indipendente è tale quando dice che va nella vigna e ci va davvero! Io vado in cantina, vado in vigna, vado in giro a raccontare fiabe ma, soprattutto, sono sempre in prima linea come uomo. La cosa è semplice: o siamo contadini, o siamo commercianti. Questo è quello che detesto del pianeta vino in Italia. La mia partita è fare il versus: versus Borgogna, versus Reno, versus Sancerre, versus Verdicchio, versus San Gimignano, versus Collio, versus Gavi. Io voglio che il Derthona entri nell’olimpo dei grandi bianchi del mondo”.
IN VINO POLITICA Massa ha voglia di parlare e ci incalza con risposte sempre più piccate. Risposte che fanno solo lontanamente presagire un finale shock. “Come fondatore della Fivi (Federazione italiana vignaioli indipendenti, ndr) – continua il re dei Colli Tortonesi – assieme ad altri 300 grandi uomini italiani, alcuni grandi vignaioli e alcuni grandi del vino, ho dovuto fare esattamente come De Gasperi e Togliatti: per tenerci lontana la Russia abbiamo dovuto parlarci e inventare una Democrazia Cristiana che avesse dentro tutti. Dai latifondisti agli operai, dai cattolici ai partigiani. Dagli ex partigiani, ai fumatori e agli astemi! Quindi nella Fivi, per adesso, troviamo tutto quello che in Italia si chiama ‘Azienda agricola’, che comprende anche chi può fatturare il 49% del totale. E’ una cosa che, col cuore, definirei vergognosa. Ma con il cervello non posso che giudicare quale passaggio indispensabile. Adesso metteremo delle regole un po’ più rigide”.
“Io sono al quarto mandato – continua Massa – e al secondo da vice presidente. Il patto è quello di stringere le maglie. Perché io voglio lavorare per i grandi, non per i grossi. E i grandi sono anche quelli che hanno due ettari di vigna e fanno mangiare una famiglia intera, la loro. Facendo al contempo grande l’Italia intera nel mondo. Perché l’Italia la fa bella Salvatore Ferrandes, a Pantelleria, come la fa bella Anselmet o Lo Triolet, o Zidarich, o Dirupi. In Valle D’Aosta, nel Carso o in Valtellina. Ho messo in croce l’Italia, come piace a me metterla in croce”.
Ma è quando si parla di e-commerce che Walter Massa non ci vede più: “Se ti cercano, ti comprano, ti vogliono, perché nascondersi? Io, intanto, sto con chi, in Inghilterra, vuole uscire dalla Ue. Perché mandare il vino nella Ue è un lavoro, mandare il vino a Singapore, in Giappone, in Russia, in Norvegia è un gioco? Ti vessano, dicendoti che devi fare una bolla solo per far mangiare qualche essere dannoso all’economia e al Pil italiano. Per me il lavoro non è solo un diritto, ma soprattutto un’opportunità. E, quindi, noi dobbiamo far sì che il vino in Europa giri liberamente”.
“Disfiamo questa Europa – attacca Walter Massa – è ora di dire basta. O, piuttosto, rimettiamola a posto. Tutte queste barriere, tutta questa burocrazia, non è altro che una presa per il culo per mandare i D’Alema della situazione a prendere uno stipendio”. Fine del flashback. A questo punto Massa vuota il sacco. E fa presagire come Montecitorio (nome di un vigneto Massa) e Anarchia Costituzionale (nome di un suo vino), possano essere molto più di un messaggio subliminale.
“Di certo dico subito che non andrò con i Cinque Stelle – precisa il vignaiolo – anche se per Roma faccio il tifo per Virginia Raggi e non certo per Orfini. I partiti istituzionali vanno messi al loro posto, lasciando i bastardi, i falliti e quelli in via di fallimento a casa, al posto di farsi salvare come sempre dalla politica”. Il mondo del vino trema. E forse, da oggi, anche quello della politica. Situazione meteo: uragani su Roma, provenienza Piemonte.
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Il vino è conviviale, bene prezioso da condividere dalla notte dei tempi anche secondo greci e romani. E allora perché bere da soli, soprattutto se si hanno gatti curiosi che fissano golosi i calici dei padroni. Ebbene, la soluzione è arrivata dall’America. Apollo Peak, infatti, è la prima azienda americana che ha pensato di produrre e commercializzare un vino destinato ai felini.
Ma come? I gatti non possono bere alcolici, lo sanno tutti e l’accoppiata vino-gatto farebbe drizzare i capelli a veterinari, animalisti e chi più né ha più né metta. Tranquilli.
Nonostante la denominazione Doc trattasi di bevande analcoliche a base di erba gatta e acqua colorata con barbabietola. “È fatto come un tè – ha dichiarato il fondatore di Apollo Peak Brandon Zavala – ma volevamo che fosse molto simile ad un vino e percepito come tale da parte del consumatore, affinché potesse pensare di bersi un bicchiere di vino con il proprio animale domestico”.
Il vino per i gatti è nato a novembre del 2015, una storia strana, nata per scherzo secondo Brandon Zavala, etichettando una vera bottiglia di vino (che evidentemente si era scolato da solo). Dopo aver fatto alcune ricerche però, Brandon Zavala ha scoperto che un prodotto simile esisteva, ma sfortunatamente solo in Giappone, a base di uva e potenzialmente tossico per i gatti. Da qui l’idea di produrre il cat wine, approvato dai veterinari.
Perché dovreste comprare un Pinot Miagolio? Secondo Apollo Peak ha un bouquet aromatico pazzesco, i gatti non resisteranno, ergo, “provare per credere”, ma questo è un altro claim. Tre i formati disponibili nei due “uvaggi”. Addirittura è prevista una confezione speciale per le feste.
E qui passiamo alle note dolenti perché il prezzo di questo nettare di bacco, manco a dirlo, non è proprio alla portata di tutti, anzi. In particolare, per il Moscato, è ben al di sopra del prezzo medio del “corrispettivo” per umani cui siamo abituati in Italia.
Qualche esempio? La bottiglia da 8 once, pari a 226,8 grammi costa $ 11,95. La bottiglia formato speciale sullo shop di Apollo Peak risulta in rottura di stock: esaurita. Noi continuiamo a bere i Pinot originali e ai gatti? Il latte no sicuramente perché fa male, tantomeno il cat wine.
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Ecco i vincitori di Radici del Sud 2016. Si sono chiuse le degustazioni dell’XI edizione della rassegna dei vini del Meridione d’Italia. Sono ottanta i vini premiati in occasione della rassegna internazionale, che vede protagonista il Sud Italia. La giuria composta da giornalisti stranieri e da buyer provenienti da 13 Paesi esteri (Svezia, Finlandia, Norvegia, Danimarca, Gran Bretagna, Olanda, USA, Canada, Giappone, Lituania, India, Polonia e Brasile) oltre che da operatori e stampa nazionale, ha decretato i migliori vini da vitigni autoctoni iscritti alla competizione. Nella rosa salita sul podio ci sono quest’anno anche i vini spumanti, nuova categoria inserita che completa il panorama enologico del Meridione. I blind tasting si sono svolti sabato 11 e domenica 12 con quattro sessioni di assaggio e come giudici hanno anche degustato i rappresentanti di AssoEnologi Puglia, Basilica e Calabria. Una edizione da record quella del 2016: sono stati 432 i vini in concorso, 183 le aziende partecipanti (23 produttori siciliani, 18 produttori calabresi, 16 produttori lucani, 32 produttori campani e 94 produttori pugliesi).
Giuria Press 1: Maurizio Valeriani (presidente); Remy Charest; Simon Woolf; Tomasz Prange – Barczyจฝski; Warren Edwardes; William Zacharkiw; Erin Stockton; Maria Grazia Melegari: Francesco Soleti. Press 2: Pierluigi Gorgoni (presidente); Aneesh Bhasin; Arto Koskelo; Charles Scicolone; James Melendez; Mayumi Nakagawara; Elisabetta Tosi; Davide Sarcinella. Buyer 1: Ole Udsen (presidente); Mariusz Majka; Mehmet Adanir; Steen Højgård Rasmussen; Warren Edwardes; Nana Wad; Giorgio Cotti. Buyer 2: Chiara Giorleo (presidnete); Alessandro Pagano; Andrzej Kostyk; Brian Gwynn; Daiva Mumgaudiene; Erica Nonni; Bernardo Conticelli; Fernando Zamboni; Giuseppe Bino.
GRECO – GIORNALISTI
1) GRECO DI TUFO DOCG 2015, DI MEO; 2) LE PAGLIE 2015, MATERA DOC, CANTINE CERROLONGO
BUYER
1) JENTILINO 2015, TERRE DI COSENZA DOP, LA PESCHIERA: 2) GRECO DI TUFO DOCG 2015, SOCIETÀ AGRICOLA NATI
FIANO – GIORNALISTI
1) FIANO DI AVELLINO DOCG 2015, DI MEO; 2) BIANCOFIORE 2014, DAUNIA IGP, KANDEA
BUYER
1) TRENTENARE 2015, PAESTUM IGP, SAN SALVATORE 1988; 2) TORRE DEL FALCO 2015, PUGLIA IGP, TORREVENTO
ROSATI DEL SUD – GIORNALISTI
1) CIRÒ DOC ROSATO 2015, SCALA CANTINA E VIGNETI: 2) OSA! 2015, TERRE SICILIANE IGP, PAOLO CALÌ; 3) LE ROTAIE 2015, VALLE D’ITRIA IGP, I PASTINI
BUYER
1) NAUSICA 2015, SALENTO IGP, CARDONE; 2) NERO DI TROIA ROSÈ, ROSSO DI CERIGNOLA DOC, BIOCANTINA GIANNATTASIO; 3) SPEZIALE 2015, SALENTO IGP, TRULLO DI PEZZA
NERO DI TROIA – GIORNALISTI
1) OTTAGONO 2013, CASTEL DEL MONTE DOCG, TORREVENTO; 2) NERO DI TROIA 2014, PUGLIA IGP, VALENTINA PASSALACQUA
BUYER
1) GRAN TIATI GOLD VINTAGE 2010, PUGLIA IGP, CANTINE TEANUM; 2) LUI 2012, PUGLIA IGP, CANTINA MUSEO ALBEA
BUYER
1) PAPALE LINEA ORO 2013, PRIMITIVO DI MANDURIA DOP, VARVAGLIONE VIGNE E VINI; 2) PRIMITIVO DI MANDURIA DOP 2012, ANTICA MASSERIA JORCHE
NERO D’AVOLA – GIORNALISTI
1) CURMA 2010, SICILIA IGT, A R M O S A; 2) VUARIA 2010, SICILIA IGT, FEUDO DISISA
BUYER
1) SANTA CECILIA 2011, NOTO DOC, PLANETA; 2) VUARIA 2010, SICILIA IGT, FEUDO DISISA
GRUPPO MISTO VINI ROSSI DEL SUD – GIORNALISTI
1) TAURASI S.EUSTACHIO 2008, TAURASI DOCG, BOCCELLA; 2) GHIAIA NERA 2013, SICILIA DOC, TASCA D’ALMERITA; 3) DON VINCENZO 2013, LACRYMA CHRISTI DEL VESUVIO DOC ROSSO, CASA SETARO
BUYER
1) ERUZIONE 1614 2013, SICILIA DOC, PLANETA; 2) LIBICI 2012, CALABRIA IGP, CASA COMERCI. Ex aequo 2: TAURASI 2011, TAURASI DOCG, TENUTA SCUOTTO. 3) BOCCA DI LUPO 2011, CASTEL DEL MONTE DOC, TORMARESCA
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Vinialsupermercato.it non poteva mancare, quest’oggi, a Torre a Mare. La frazione del Comune di Bari ha ospitato una delle più importanti rassegne sui vini del Sud. Parliamo ovviamente di Radici del Sud, manifestazione internazionale dedicata ai soli vini meridionali. Alle loro mille facce e sfaccettature. Dall’Aglianico della Basilicata al Primitivo della Puglia, passando per la Falanghina della Campania e al Nero d’Avola della Sicilia, per citarne solo alcuni (qui i vini 2016 premiati dalla giuria). Un’iniziativa lodevole, che vede finalmente i produttori meridionali – ormai affermatissimi nel panorama mondiale per la qualità dei loro vini – riunirsi sotto lo stesso “tetto” per un evento comune, in cui sfoggiare le proprie perle. Tutto bellissimo. Se non fosse che la location, una delle sale dell’Una hotel Regina, sia parsa piuttosto “ristretta” per una manifestazione di tale portata. Vero è che i 15 euro previsti per l’ingresso, con degustazioni illimitate, sono risultati ai più un prezzo ‘onesto’ per accedere alla stupenda sala da cerimonie in pietra. All’interno, ecco i vari banchi d’assaggio, sistemati in maniera un po’ confusa: poca la chiarezza nella distinzione tra i produttori delle varie regioni. Con un po’ d’impegno, abbiamo avuto comunque la possibilità di scoprire interessantissime realtà. A conferma che i produttori del Sud abbiano ormai intrapreso la strada della qualità, dimostrando di essere bravi vinificatori, nonostante mille difficoltà.
I MIGLIORI ASSAGGI
E non ci riferiamo soltanto ai ‘grandi nomi’ quali Feudi di San Gregorio, con le cantine vassalle Basilisco e Ognissole, o a marchi importanti pugliesi come Antica Masseria Jorche, una delle regine del Primitivo di Manduria, o ancora a Colli della Murgia, cantina biologica di Gravina in Puglia che presentava due spumanti metodo Charmat e un rosato pugliese ‘atipico’, di un eccellente rosa tenue, oltre ai vari bianchi di Minutolo. Grandi conferme anche quelle riservate dai vini lucani, con la nota Cantine del Notaio a sfoggiare – otre ovviamente ai vari Aglianico del Vulture – un metodo classico di Aglianico vinificato in bianco, molto interessante. Tra i vini che meritano una menzione particolare, ecco un bianco vinificato come un vino rosso, in otri di terra cotta: quello dell’azienda Lunarossa di Giffoni Valle Piana, provincia di Salerno, Campania. Quartara è il nome di questo gioiello, che prende il nome dal recipiente che lo culla sino a diventare un nettare così prelibato: un Fiano dei colli Salernitani che rimane a contatto con le bucce per 2 mesi. Abbastanza per regalare un bianco fresco e brillante, non trattato, nel rispetto della filosofia dei più famosi vignaioli friulani. Insomma: sono ormai tante le realtà vitivinicole meridionali che meritano di essere raccontate su palcoscenici di tutto rispetto. Anche – e soprattutto – fuori dai confini di un Sud Italia che sta sempre più ‘stretto’ al cuore e alla passione di questi produttori. Un cuore che, il più delle volte, batte al ritmo della qualità assoluta.
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Development of an Orange Taste è il titolo scelto per il documentario sugli orange wines presentato, in anteprima nazionale, al Ristorante La Montecchia di Selvazzano (Padova). Trenta minuti, firmati da Laura Michelon e Mike Hopkins e prodotti da Bottled Films, per raccontare come nascono i vini bianchi sottoposti a macerazione sulle bucce.
Documentario che arriva in Italia dopo la première a Londra dello scorso 19 aprile e che vede il produttore di Oslavia Joško Gravner fra i protagonisti del progetto.Development of an Orange Taste prende in esame la storia degli orange wines in Italia, partendo proprio da quando, nel 1997, Gravner inizia a lavorare su un nuovo modo di fare vino, producendo un vino bianco lasciato a fermentare assieme alle bucce per un lungo periodo di tempo.
Una scelta che nel 2001 evolve nella vinificazione in anfora. Dopo un viaggio in Georgia Joško sceglie la modalità classica del Caucaso, quella della zona dei Kakheti, che prevede grandi anfore in terracotta interrate. È un ritorno al passato, ma soprattutto un forte balzo nel futuro, tant’è che molti da quel giorno lo seguono nella sua idea di riportare il vino al suo significato originario.
Come Angiolino Maule e Daniele Piccin, assieme a Gravner nel film, legati a Joško da una sorta di filo rosso che attraversa le regioni e le generazioni. La proiezione si è svolta giovedì 9 giugno alla Montecchia di Selvazzano Dentro (PD) e per l’occasione Massimiliano Alajmo ha creato un menu abbinato ai vini dei tre produttori.
Il trailer è visibile nel sito di Bottled Films. Il film sarà disponibile sullo stesso sito dal 16 giugno al costo di 5 €. Può essere acquistato con sottotitoli in inglese o in italiano.
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“L’enoturismo è tricolore, lo si può dire con certezza. Ma è un tricolore francese, non certo il nostro”. A tuonare così è il presidente nazionale del Movimento Turismo del Vino (Mtv), Carlo Pietrasanta (nella foto), a commentato delle “recenti importanti iniziative” intraprese dai “cugini” francesi “in favore dell’enoturismo”.
“Come in un film già visto – dichiara Pietrasanta – la Francia ci sovrasta in quanto a programmazione e managerialità della cosa pubblica. E quello che è successo nell’ultimo anno è sotto gli occhi di tutti: Parigi ha messo in piedi un portale che raccoglie tutta l’offerta enoturistica del Paese e che funziona benissimo, nonostante non sia costato milioni di euro come i nostri, inutili, siti vetrina. E non è un caso che il portale, che punta ad attirare 4 milioni di nuovi enoturisti stranieri entro il 2020, anche attraverso prenotazioni dirette dal sito – sia stato presentato dal ministro degli Esteri”. Pietrasanta fa riferimento all’inaugurazione, avvenuta a fine maggio a Bordeaux, de La Cité du vin, “La città del vino”.
“E non è un caso neppure che, giusto un anno fa – prosegue il presidente del Movimento del Turismo del Vino – lo stesso ministro francese Laurent Fabius abbia annunciato un piano speciale con un fondo nazionale in favore del comparto. Detto, fatto. E mentre in Italia, da Expo in poi, in tutti i grandi comizi sul vino nessun politico dimenticava di citare l’enoturismo, in Francia si stanziavano decine di milioni di euro per investire veramente”.
Per il presidente del Movimento Turismo del Vino, che conta circa mille cantine associate, gli 81 milioni di euro impiegati per costruire La Cité du vin de Bordeaux “sono la ciliegina su una torta che nella regione fattura, sotto la voce turismo, ben 4 miliardi di euro l’anno e che negli ultimi 15 anni ha triplicato i propri visitatori da 2 a 6 milioni, con 50 mila posti di lavoro diretti”. Una ciliegina che, secondo le stime, porterà altri 450 mila visitatori l’anno. “Tutto ciò – aggiunge Carlo Pietrasanta – mentre da noi non si trova nemmeno la quadra per fare un nuovo regolamento comune”.
Il riferimento è all’annosa questione della vecchia legge sulle Strade del Vino del 1999, “che non ha mai contemplato la possibilità di fatturare visite, attività e mescita di vini in cantina, nonostante siano ormai diventate pratiche comuni e voci importanti di bilancio”.
E se Cantine Aperte spopola, con un numero di persone pari agli spettatori di 50 partite di Serie A, “noi – attacca Pietrasanta – ci sentiamo come una provinciale tra i giganti del calcio internazionale”. “Siamo in attesa, per esempio, di un testo unico sul vino – spiega il presidente del Mtv – che doveva essere presentato al Vinitaly 2015 e poi al Vinitaly 2016, dove è passata solo una bozza. E in cui, deo gratias, è inclusa una mini postilla che dovrebbe aprire almeno alle degustazioni in cantina. Ma tant’è – conclude Pietrasanta – la grandeur francese partorisce le montagne. Noi purtroppo nemmeno un topolino”.
LE CITÈ DU VIN DE BORDEAUX L’idea di rendere l’area di Bordeaux un “magnete per l’enoturismo in Francia”, come ha spiegato Philippe Massol (nella foto), direttore della Fondazione per la Cultura e civiltà del vino francese, il giorno dell’inaugurazione de La Citè du Vin, “è nata osservando i visitatori arrivati a Bordeaux, interessati al vino ma senza un posto per soddisfare le loro aspettative”.
Un discorso iniziato nel 2008, germogliato nell’ambito della campagna elettorale locale, per un progetto condiviso da entrambi gli schieramenti politici, che poi hanno finito per opporsi.
Infine, Alain Juppé (LR) ha prevalso sul socialista Alain Rousset. Pochi anni prima, un tentativo meno ambizioso ristrutturazione di una cantina sul Quai des Chartrons non aveva sollevato particolare interesse. L’incontro tra Massol e Sylvie Cazes, poi eletto a sindaco di Bordeaux, co-proprietario del Château Lynch – Bages a Pauillac e creatore dell’agenzia di turismo del vino di Bordeaux Saveurs, servì a catalizzare le energie verso il risultato finale.
Il sostegno del sindaco di Bordeaux ha fatto il resto. Un progetto, Le cité du Vin, che si basa su altri illustri esempi di enoturismo virtuoso in Europa, come il Museo Vivanco della cultura del vino in Rioja, Spagna , e l’Hameau Duboeuf di Romanèche Thorins, nel Beaujolais, in grado di attirare quasi 100 mila visitatori all’anno.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Il livello cumulativo di sicurezza attualmente stabilito per sette solfiti utilizzati come additivi nel vino e in altri alimenti “è sufficiente a tutelare i consumatori”. Parte da questo dato di fatto l’European Food Safety Authority nell’impegnarsi a “rivedere comunque tale conclusione”. Efsa chiede le vengano forniti ulteriori “dati, provenienti da nuovi studi, per colmare le lacune nelle informazioni, ridurre le incertezze e confermarne pienamente la sicurezza per i consumatori”.
4I sette additivi alimentari – anidride solforosa E 220, solfito di sodio E 221, bisolfito di sodio E 222, sodio metabisolfito E 223, metabisolfito di potassio E 224, solfito di calcio E 226, bisolfito di calcio E 227 e potassio bisolfito E 228 – sono valutati insieme, “dal momento che si comportano in modo simile – spiega Efsa – dopo l’ingestione”.
Si tratta infatti di sostanze che si formano naturalmente durante la vinificazione e sono anche aggiunti a molti vini per bloccare la fermentazione e agire da conservanti. Il contenuto di solfiti nei vini bianchi e dolci è generalmente superiore a quello dei vini rosati, rossi e secchi. Vengono impiegati anche nel sidro, nei succhi di frutta e di verdura e nella frutta e verdure essiccate, in particolare quelle a base di ravanelli e patate.
“OCCORRONO DATI”
I dati scientifici sui solfiti e su ciò che accade loro all’interno dell’organismo sono tuttavia limitati. Se consumati negli alimenti possono innescare reazioni d’intolleranza e alcuni consumatori sono più sensibili di altri ai solfiti nel cibo.
L’attuale dose giornaliera ammissibile (Dga) si assesta sui 0,7 milligrammi per chilogrammo di peso corporeo. Si applica cumulativamente a tutte le sette sostanze. Le stime dell’esposizione alimentare a queste sette sostanze per consumatori della maggior parte delle fasce d’età “sono talvolta superiori a tale quantitativo – evidenzia l’Efsa – in particolare per i forti consumatori”.
Il gruppo di esperti scientifici sugli additivi alimentari raccomanda che “la Dga temporanea di gruppo venga valutata nuovamente entro cinque anni, dopo aver effettuato nuovi studi per produrre i dati mancanti”.
Il gruppo scientifico suggerisce inoltre che “l’etichettatura riporti l’effettivo livello di solfiti o anidride solforosa nei singoli prodotti, per aiutare i consumatori sensibili o intolleranti a contenere la propria assunzione”. La legislazione dell’Unione europea impone oggi di indicare sulle etichette alimentari la dicitura “contiene solfiti”, senza tuttavia specificarne la quantità, quando eccedano i 10 milligrammi per chilogrammo o per litro.
NUOVE VALUTAZIONI I regolamenti UE richiedono che l’Efsa valuti ex novo entro il 2020 la sicurezza di tutti gli additivi alimentari autorizzati prima del gennaio 2009. Mentre l’Efsa ha completato la nuova valutazione di quasi tutti i coloranti alimentari e prevede di completare la valutazione di altri additivi alimentari in programma entro il 2016.
Restano ad oggi in lista di attesa “oltre 100 additivi alimentari”, sempre secondo i dati Efsa. “Nonostante dal 2006 siano stati pubblicati diversi bandi sia generici sia specifici per la ricerca di dati sugli additivi alimentari – conclude l’European Food Safety Authority – permane una carenza di dati sulla tossicità delle sostanze impiegate come additivi alimentari e sui loro tenori negli alimenti”.
I produttori e gli utilizzatori di additivi alimentari sono pertanto sollecitati a fornire tutte le informazioni a loro disposizione per consentire la valutazione della sicurezza degli additivi alimentari, al fine di proteggere adeguatamente i consumatori”.
Tutto ciò mentre è ormai accertato che “più del 97% dei campioni di alimenti” valutati nel 2013 dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare “contiene livelli di residui di pesticidi che rientrano nei limiti di legge”, con “poco meno del 55% dei campioni privo di tracce rilevabili di tali sostanze chimiche”.
I risultati fanno parte della relazione annuale dell’Efsa sui residui di pesticidi negli alimenti, comprendente i risultati per quasi 81 mila campioni di alimenti provenienti da 27 Stati membri dell’UE, Islanda e Norvegia.
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E alla fine t’accorgi che ha ragione lui. Il “primitivista”, “montagnard” e “nebbiolista”, come ama definirsi su Twitter, Francesco Quarna. T’accorgi che – parafrasando Andreotti – il vino annoia, chi (la passione) non ce l’ha. Ma noi sì. Eccome. Ed è per questo che incontriamo negli studi di Radio Deejay, in via Massena 2 a Milano, un nostro follower d’eccezione: il web content manager Francesco Quarna, per l’appunto.
Fatecela tirare un po’, adesso, da dietro la tastiera, mentre stendiamo il testo di quest’intervista. Perché al Deejay Building le gambe tremavano, di quel tremore tipico di chi ha la fortuna di entrare a piè pari in un sogno. Radio Deejay è da una vita la nostra radio di riferimento.
E toccarla con mano non è “roba” da poco. Francesco ci accoglie con un bel tour dell’edificio. Per lui abbiamo incartato a dovere una bottiglia di Grumello Valtellina Superiore Docg Mamete Prevostini. Un 100% Nebbiolo, con cui contiamo di fare centro con Quarna, grande amante del Nebbiolo in purezza.
Francesco, per i più sbadati: qualcosa su di te Nella mia vita ho sempre fatto solo radio, prima come fonico, poi come deejay, poi nell’ufficio Musica.
Sono a Radio Deejay dal 2003, dove oggi ricopro il ruolo di caporedattore e social manager, oltre a seguire la parte di programmazione musicale di “Tropical Pizza”.
Ho una compagna di lungo corso e una bimba di 4 anni, che si chiama Giuditta. Loro sono la mia prima passione. Poi vengono musica, vino e montagna.
Da buon piemontese, allora, non ti manca nulla “sotto casa” Esattamente. Sono originario di un paese che si chiama Ghemme. E la mia famiglia è proprio originaria del Piemonte, tra Vercelli e Novara. Sono cresciuto lì, con un forte legame alla terra. I miei nonni hanno sempre avuto dei piccoli appezzamenti di terra, coltivati a vite. Si sono sempre fatti il vino da soli, per uso e consumo personale.
Esser cresciuto in una zona che ha vissuto e sta vivendo un revival enologico, mi gasa molto! Ci sono un sacco di produttori giovani, che stanno innalzando il livello del vino dell’Alto Piemonte, conosciuto altrimenti soprattutto per le Langhe.
Da amante di Cesare Pavese, vivo quotidianamente questa dicotomia tra città e paese: trascorro cinque giorni a settimana a Radio Deejay e, negli altri due, avverto il bisogno di tornare a casa, tra le vigne, a fare danni! Ho proprio bisogno di respirare, di vedere orizzonti. Se non vedo il Monte Rosa almeno una volta a settimana mi manca proprio l’aria, il fiato…
Dal paesello della provincia piemontese alla metropoli milanese: uno shock? La città è una figata e la radio è un mondo meraviglioso, che mi ha dato da vivere e regalato un sacco di soddisfazioni. Però, diciamo che le radici affondano nei suoli fluvioglaciali di Ghemme, piuttosto che nell’asfalto cittadino.
Ti definisci “primitivista”, “montagnard” e “nebbiolista”: qual è il fil rouge? “Primitivista” per il mio legame fortissimo con la natura, nel solco tracciato da filosofi e poeti come Ralph Waldo Emerson, che si sono esplicati poi in opere come “Walden ovvero vita nei boschi” di Henry David Thoreau. Tutti temi ripresi poi da Mario Soldati nel Novecento: natura, contemplazione.
Di lì il passo è breve verso l’altra definizione, “montagnard”: amo andare in montagna, sono un alpinista di serie b! “Nebbiolista” perché sono cresciuto bevendo Nebbiolo: secondo me, e non solo secondo me, è il vino più elegante del mondo, oltre ad avere un modo eccezionale di leggere il terreno e di trasferire nel bicchiere quello che c’è nella terra. Il richiamo del suolo, insomma, è sempre presente dentro me. E’ questo il filo conduttore.
E se non fossi nato in Piemonte? Beh, certamente mi sarebbe piaciuto nascere in Borgogna! Ma so di poter risultare prevedibile con questa risposta, quindi aggiungo anche Nuova Zelanda, dove fanno dei Sauvignon incredibili.
Che fai? Tradisci il Nebbiolo? E’ un altro tipo di vino, ma bevo anche i bianchi. Mi piacciono quelli molto minerali, il Riesling in particolare. Da buon piemontese aggiungo l’Erbaluce. Vini comunque scarichi di colore, freschi, modello Reno, dove senti tanto la nota minerale, la pietra focaia.
Ma il vino di tutti i giorni qual è? Un vino fatto “in casa”, blend tra vari autoctoni piemontesi come Nebbiolo, Uva Rara e Vespolina. Se devo invece scegliere un vino per il sabato sera o nelle occasioni, si tratta sicuramente di Nebbioli da invecchiamento: Ghemme, Gattinara, Carema, Valtellina, Nebbioli delle Langhe. Tutti vinificati in botte grande, evoluti, dagli 8 anni in su. Quest’anno sto bevendo il 2007-2008. L’ultimo vino aperto è un Barbaresco 2009, pensando fosse pronto vista l’annata calda. Invece probabilmente un paio d’anni ancora in bottiglia gli avrebbero fatto bene. In ogni caso bevo sempre in compagnia.
Quale vino regali, invece? Di solito cerco di fare da ambasciatore della mia terra, cambiando di volta in volta produttore. Quindi regalo dei Ghemme, dei Gattinara, dei Lessona, dei Bramaterra. Mi è capitato una volta di regalare un ottimo Barolo e di sentirmi dire che faceva schifo: la persona a cui lo avevo donato non era un intenditore e lo ha stappato ad agosto. Accompagnandolo con un piatto di pasta! In generale, il vino ce l’ho sempre con me. Se mi capita di fare dei viaggi in treno porto spesso una bottiglia delle mie parti, per fargli respirare un’aria diversa. Perché il vino cambia in base a dove si trova. Ricordo ancora il Boca bevuto sull’Alpe Sattal, un rifugio a oltre 2 mila metri situato nella zona di Alagna Valsesia, gestito dal mio amico Jo. Aveva tutto un altro sapore rispetto a quello a cui siamo abituati giù in paese.
Acquisti vini al supermercato? Sì, certo. Ma se acquisto, la condizione essenziale è che siano vini imbottigliati all’origine. Cerco sempre questa formula: “all’origine”. Altrimenti non acquisto. Mi dà sicurezza questa dicitura, forse perché mi dà l’idea che ci sia un coinvolgimento maggiore da parte del produttore – viticoltore. Altro criterio di acquisto sono le offerte: ma cerco di non scendere mai sotto la soglia dei 5 euro, a meno che non si tratti di un’offerta al 50%. D’altro canto non supero mai 15 euro a bottiglia. E cerco di stare local. Apprezzo infatti molto le catene che hanno una selezione di vini locali dichiarata, come Tigros e Carrefour, per fare due esempi.
Qual è la catena della Gdo che più ti soddisfa? Sicuramente Coop, che in alcuni punti vendita ha addirittura una cantinetta dedicata ai vini del posto, separati dal resto dell’enoteca del supermercato. Ma mi trovo bene anche con Esselunga, che ha un bell’assortimento.
Che cos’è per te il vino? Il vino è un veicolo emozionale, molto efficace, un po’ come la musica. Ha una capacità incredibile di raccontare una storia attraverso i sensi. Il vino è cultura, ha un qualcosa da dire. E’ complesso da realizzare: può vantare una componente di terreno, clima e uomo che nessun’altra cosa ha. E in più riesce a far leva sui sensi, colpendoti dritto alla pancia, al cervello. Il vino, se è buono, te lo ricordi. Ha una potenza evocativa forte. E’ un’emozione. Un’esperienza multisensoriale.
Tornando alla tua terra d’origine: cosa manca all’Alto Piemonte? Quali invece i punti di forza? Secondo me il punto debole è la difficoltà nel fare sistema. Non c’è massa critica. Ci sono troppe Doc piccole che confondono il consumatore, spesso figlie di campanilismi incredibili. Fosse per me, in zona esisterebbero solo tre Docg: Ghemme, Gattinara, Boca.
Il resto, con buona pace dei miei amici produttori di Sizzano, Fara, Bramaterra, Coste della Sesia, Colline Novaresi… Farei un conto unico, creando una Doc “Alto Piemonte”. Punto di forza dell’enogastronomia piemontese potrebbe poi essere il connubio riso-vino. Abbiamo picchi di qualità ed eleganza che non hanno eguali in Italia nel vino.
E il riso cresce praticamente solo lì in Italia, con la Dop della Baraggia Biellese e Vercellese. Si potrebbe partire da questo punto di forza per costruire attorno il resto. E dal canto mio, con gli amici Mauro e Marco, ho di recente fondato un sito, altropiemonte.it, che parla proprio di questa zona straordinaria ma ancora poco conosciuta, pur essendo distante pochi chilometri da Milano, da Malpensa e da Torino.
Il rapporto di Milano con il vino? C’è ancora molto da fare. E’ una piazza che, secondo me, andrebbe ancora evangelizzata. Si parla un po’ troppo per sentito dire. Non si fa cultura. Va tutto ad ondate, in base alla moda del momento: Morellino, Nero D’Avola, ora Prosecco. Ma il primo passo dovrebbe essere quello di calmierare i prezzi.
Non è possibile trovare calici di modesti Dolcetto a 6,50 euro al calice. Le liste dei vini, del resto, sono troppo omologate tra loro. Secondo me si dovrebbe bere più local: puntare sull’Oltrepò Pavese, oppure sull’altra Doc, quella vera e propria milanese, che è la San Colombano. La ‘Milano da Bere’, beve. Ma non bene. A Torino si beve decisamente meglio.
E a Radio Deejay, chi beve oltre a Francesco Quarna? Dj Aladyn e Nikki, i due colleghi con cui condivido “Tropical Pizza”. Nikki è uno da barrique e litighiamo sempre su questa cosa. A lui piacciono i vini belli ‘tostati’, californiani, quelle cose lì. Chi beve peggio? Meglio non dirlo!
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Arriva un nuovo premio nel medagliere dei vini della Casa vinicola Fazio: il Gabal Nero d’Avola Doc Sicilia annata 2014 si è aggiudicato la Medaglia d’argento al Concours Mondial de Bruxelles, uno dei più prestigiosi concorsi internazionali del vino.
Quest’anno la competizione si è svolta Plovdiv, in Bulgaria, con oltre 8.750 vini provenienti da 51 paesi che si sono affrontati davanti a una selezione dei migliori degustatori del mondo. Per l’edizione 2016 del concorso, la cantina Fazio ha scelto di presentare una selezione di vini di altissima qualità e dall’ottimo rapporto qualità prezzo.
Il Nero d’Avola in purezza prodotto alle pendici del monte Erice, in provincia di Trapani, ha stregato la platea formata da sommelier, buyer e giornalisti del settore. Prodotto da uve che crescono a 300 metri sul livello del mare, il Gabal deve il suo nome al modo con cui gli arabi chiamavano Erice.
Un rosso fruttato, che fa un breve élevage in botte di rovere francese e continua l’affinamento in bottiglia per tre mesi. Il suo colore è rubino vivace intenso, con note olfattive di frutti a bacca rossa come ribes nero, mirtillo e ciliegia, che fanno del Gabal uno dei vini della Fazio più apprezzati e richiesti nei mercati esteri.
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Weekend di grandi festeggiamenti in Germania per celebrare i 500 anni del Reinheitsgebot, conosciuto anche come ”editto di purezza” emesso il 23 Aprile 1516 da re Guglielmo IV. Una norma che obbligava i mastri birrai a utilizzare solo acqua, orzo, luppolo per la produzione della birra.
Legge emessa in parte per calmierare i prezzi, ma anche per tutelare la salute dei consumatori, proibendo di fatto l’uso del frumento che aveva avuto un raccolto disastroso. Diventata legge ufficiale nel 1906, è un decreto in vigore ancora oggi che ha contribuito alla costruzione della fama mondiale della birra tedesca. La dicitura di qualità ”prodotta secondo la legge di purezza tedesca” viene utilizzata da alcuni produttori esteri per distinguersi e sottolineare l’eccellenza.
Tra gli ospiti presenti alle celebrazioni in Baviera, anche Angela Merkel, che ha colto l’occasione per parlare al pubblico dei vantaggi dell’accordo di libero scambio tra UE e USA. La Germania è oggi il più grande produttore di birra europeo, pure essendo il secondo paese come consumo procapite.
Il primo posto spetta ai cechi, seguono i tedeschi, quindi al terzo posto i belgi con 80 litri di birra annui a testa. Per festeggiare i 500 anni dell’editto sono previsti altrieventi nel corso del 2016. A luglio, in particolare si terrà a Monaco il Festival 500 Jahre Bayerisches Reinheitsgebot. Dal 22 al 24 luglio, la Odeonplatz sarà sede di una festa unica, oltre 100 birrifici presenti, musica popolare bavarese e specialità locali.
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Non c’è pace per il Marsala. Prima l’addio di Renato De Bartoli, figlio di Marco De Bartoli, il profeta del marsala, che ha deciso di lasciare l’azienda di famiglia per passare a Baglio di Pianetto, l’azienda siciliana della famiglia del conte Marzotto. De Bartoli, produttore del Vecchio Samperi, ha preso il posto di Alberto Buratto, amministratore delegato da una dozzina di anni, deciso ad accettare una nuova scommessa professionale. Ora la notizia delle Cantine Florio che abbandonano il Consorzio di tutela del vino Marsala fondato nel 1963 da produttori locali per promuovere la Doc Marsala e proteggerne l’identità dopo gli anni di calo del gradimento sul mercato.
L’azienda Duca di Salaparuta Spa, con i suoi tre brand Florio, Duca di Salaparuta e Corvo, di proprietà dell’Illva di Saronno, ha deciso di lasciare il Consorzio a causa dei «numerosi impegni italiani». «Stare nel Consorzio – hanno riferito i responsabili della Duca di Salaparuta – è un’attività che richiede tempo e non riuscivamo più a seguire questo compito nel modo giusto. Continuiamo a pensare che il Marsala sia un prodotto moderno, versatile, che sia vivo e che abbia un futuro. Siamo azienda leader del Marsala e andremo avanti».
«Noi crediamo in questo prodotto – aggiunge la società -. La nostra cantina di Marsala ha lavorato moltissimo, in questi anni abbiamo allargato la gamma di prodotti liquorosi e passiti e stiamo puntando molto sull’enoturismo. Con 50 mila visitatori all’anno in cantina siamo una tra le più grandi mete enoturistiche della Sicilia». Oltre all’uscita dal Consorzio da parte della Florio, si registrano anche le conseguenti dimissioni di Giuseppe Ingargiola, dipendente della stessa Florio e presidente del Consorzio.
Una dipartita, quella delle Cantine Florio, che ha destato preoccupazione alle Cantine Pellegrino. L’amministratore delegato, Benedetto Renda, anche vice presidente del Consorzio, spera in un dietro front e ha manifestato la disponibilità a discutere con la famiglia Reina, proprietaria della Florio, per comprendere meglio le ragioni dell’uscita che forse non convincono del tutto. Una decisione che segna la fine di un’epoca fallimentare secondo l’ex assessore alle Politiche Agricole del Comune di Marsala, il produttore Nino Barraco: «Il Consorzio, a maggior ragione con l’addio delle cantine Florio, non rappresenta più il bene del territorio e del brand Marsala».
«La politica del Consorzio – ha aggiunto il vignaiolo marsalese – non è riuscita nell’intento di far decollare il Marsala ma ha portato alla condanna del lavoro svolto dalle aziende che ne facevano parte. Bisogna adesso ripartire da zero con un consorzio che sia rappresentativo del territorio e in cui facciano ingresso anche i produttori di uva, senza i quali la Comunità europea non riconosce il ruolo dei consorzi. E con la riproposizione di un disciplinare che punti tutto sulla qualità dell’uva».
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Dire che era già tutto scritto, diciott’anni fa, sarebbe troppo. Ma che nel Dna di Ciao Darwin, uno dei programmi Mediaset più seguiti in prima serata, ci sia il vino: beh, forse non è del tutto sbagliato.
Da una saga nata “in una sera di chiacchiere da ubriachi, davanti a una bottiglia di Barolo”, tra Bonolis e l’autore Stefano Magnaghi, ci si poteva aspettare – prima o poi – la partecipazione di un vignaiolo vero. In carne e ossa. Ecco allora spuntare tra i concorrenti Francesco Patrignani, il re della Passerina “50 Sfumature“.
Uno che, addosso, ha più carne che ossa. Scelto infatti per partecipare alla puntata andata in onda ieri sera: “Integratori contro Bucatini”. I palestrati da creatina e amidi ramificati per colazione.
Contro quelli che, per colazione, non disdegnerebbero un palestrato. Scherzi a parte, ecco l’intervista concessa in esclusiva al nostro wine blog.
Francesco (nella foto, a sinistra), dì la verità: meglio il vino o i bucatini?
Direi che sono fatti l’uno per gli altri. Un buon piatto di bucatini s’abbina a un buon calice di vino. E un buon calice di vino lo si può affiancare a un buon piatto di bucatini.
Ma allora ti senti davvero “Bucatino”!
Certo, un bucatino allegro e simpatico!
Come è nata l’idea di partecipare a Ciao Darwin?
E’ nata per gioco. Sono andato al casting con la mia fidanzata Stefania Nocella e la mattina stessa ho partecipato alle selezioni
Eri un fan di Ciao Darwin?
Ho seguito tutte le edizioni precedenti, da spettatore televisivo. E penso sia uno dei migliori programmi, in cui ci si fanno grosse risate!
Come è stato l’impatto iniziale con gli studi televisivi Elios?
L’impatto con gli studi davvero emozionante, tanta gente e riflettori addosso a cui non si è abituati. Un ambiente davvero caloroso e piacevole. Ero il numero 49, potete ancora votarmi!
Il mondo della televisione potrebbe fare per te?
Mi sono trovato molto bene nella puntata, senza paura e vergogna: la cosa mi piace!
Su Paolo Bonolis e Luca Laurenti, cosa ci racconti?
Bonolis: grande persona, umile, sorridente e dalla battuta sempre pronta. Una persona grande. Laurenti, inaspettatamente, l’ho sentito parlare solo in registrazione televisiva. Una persona molto riservata.
E sulle madrine di Integratori e Bucatini, Maddalena Corvaglia e Francesca Cipriani?
Maddalena Corvaglia è troppo “asciutta”, le donne devono avere le curve! Quanto a Francesca Cipriani: beh, qui abbiamo tutte le curve! Una bella signorina dal seno accentuato, grazie alla mano artistica del chirurgo. Ma, oltre a questo, ha quei chili in più che la rendono armoniosa e molto femminile.
Ammettilo: hai promosso anche a Roma la tua Passerina 50 Sfumature?
Beh certo! Fra i partecipanti della categoria sì. Abbiamo un gruppo Whatsapp e anche lì ho potuto inviare qualche foto di questa nuova etichetta che sta facendo impazzire il web e i consumatori. Inoltre la qualità, insieme all’accattivante grafica, sta producendo i risultati sperati.
Cosa ti lascia questa esperienza da ‘portare a casa’, nelle tue Marche?
Mi lascia delle note positive e anche dei piccoli accorgimenti a cui prestare attenzione. Le note positive sono l’ottimismo e la voglia di vivere che dominava fra tutti noi.
Ci siamo fatti grandi risate lasciando i problemi di tutti giorni alle spalle. Abbiamo pensato a staccare la spina e vivere questa esperienza nel migliore dei modi.
Gli accorgimenti sono quelli di non farsi trasportare troppo dal cibo e da tutto ciò che ci tenta, rischiando di compromettere fortemente la nostra salute.
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Dopo il clamoroso successo di pubblico e stampa delle edizioni passate, con oltre 4 mila partecipanti unici alle singole degustazioni, il Progetto Vino di Collisioni torna anche quest’anno con una formula potenziata, portando da 15 a 50 i critici internazionali, gli importatori, i buyer, e i produttori stranieri impegnati nei gemellaggi che prenderanno parte all’edizione di quest’anno. Collisioni 2016 si conferma così il festival agri-rock di letteratura e musica più atteso in Italia: l’appuntamento è dal 15 al 18 luglio a Barolo, mecca del vino italiano, nel magnifico paesaggio delle Langhe piemontesi, patrimonio Unesco e palcoscenico naturale per ospitare nelle sue piazze musica, incontri, dialoghi con premi Nobel. Ma anche star della musica italiana e internazionale, in un’atmosfera informale di confronto e crossover tra le arti in dialoghi che vedono protagonisti scrittori, filosofi ma anche musicisti che normalmente siamo abituati ad ascoltare allo stadio. E che a Barolo prenderanno la parola in veste di narratori e di poeti, per indagare insieme la genesi e le influenze letterarie che hanno contribuito alla creazione delle grandi canzoni. Interverranno così artisti del calibro di Marco Mengoni, Mika, Negramaro e molti altri (+39.389.29.85.454, prevendita su Ticketone, Piemonteticket, Ciaoticket e nei punti vendita di Collisioni).
IL PROGETTO VINO DI COLLISIONI
Sono tre le anime che hanno decretato il successo internazionale di Collisioni, primo festival agri rock d’Europa: i grandi mostri sacri della musica mondiale come Elton John, i premi Nobel e le leggende viventi della letteratura, del giornalismo e del cinema, ma anche le grandi star del mondo del vino. La centralità dei grandi prodotti dell’enogastronomia italiana è un elemento essenziale dell’anima e dello spirito di Collisioni e si rinnova a ogni edizione grazie al Progetto Vino. Una serie di convegni, interviste, degustazioni e visite in azienda con i più importanti professionisti del vino a livello internazionale. Un programma di incontri, seminari e tasting che da un lato avvicina i grandi vini italiani e stranieri alle decine di migliaia di wine lovers presenti ogni anno all’evento, dall’altro permette ai produttori di presentare le proprie eccellenze agli esperti di tutto il mondo in degustazioni professionali private. Un panel di ospiti che raggiungeranno il Piemonte da tutto il mondo nei giorni del festival: oltre 80 esperti, sommelier di grandissimi ristoranti stellati italiani e internazionali, giornalisti, opinion leader, responsabili di catene di hotel di importanti mercati esteri, grandi collezionisti, esperti di marketing enogastronomico e di enoturismo. La scelta degli invitati rappresenta la vera cifra stilistica di Collisioni e del Progetto, perché caratterizza in modo inequivocabile la qualità e lo stile della manifestazione. Una rosa di esperti di esclusivo e di assoluto prestigio che nasce su espresso invito di Ian D’Agata, direttore creativo del Progetto Vino, che insieme a Filippo Taricco, direttore artistico di Collisioni, ha voluto realizzare fin dagli esordi un appuntamento caratterizzato da esperti di grande richiamo conosciuti in tutto il mondo.
D’Agata, premiato in autunno con il Louis Roederer International Wine Awards Book of the Year 2015 per il suo Native Wine Grapes of Italy – mai assegnato prima a un Italiano – Contributing Editor di Decanter e Staff Writer di Vinous, nonché direttore scientifico della Vinitaly International Academy, interrogato in merito alla nuova edizione di Collisioni, lascia trapelare sul sito ufficiale della manifestazione alcune indiscrezioni. Confermata la presenza a Collisioni 2016, fra gli altri, di Jeffrey Porter (USA), Wine Director dei circa 20 ristoranti Batali& Bastianich negli Stati Uniti e Keith Goldston (USA), Master Sommelier e Wine Director del Capella Hotel a Washington, DC., Anna Rönngren (Svezia),sommelière stellata del ristorante Frantzén e docente presso la Restaurangakademien. Bryant Mao (Canada), Chief Sommelier del ristorante Hawksworth, miglior Sommelier in British Columbia nel 2015. Leonid Sternik (Russia), miglior sommelier russo nel 2006 e proprietario del ristorante Vincent a San Pietroburgo e Elin McCoy (USA), responsabile della rubrica dedicata a wine&spirits per Bloomberg Markets, il cui proprietario sta decidendo se candidarsi o meno alla presidenza USA. E ancora, Jay Hutchinson (USA), sommelier del ristorante Ai Fiori, New York, Roberto Dante Martella (Canada),proprietario del ristorante Grano a Toronto, Beatriz Machado (Portogallo), sommèliere presso The Yeatman, Relais & Chateaux a Porto, “Best of Award of Excellence” wine list di Wine Spectator. Bernardo Silveira M. Pinto (Brasile),importatore di vino, Chris Horn (USA), Wine Director del Purple Café di Seattle, Madeleine Stenwreth (Svezia), Master of Wine. Anche quest’anno, inoltre, è confermata la presenza di esperti dall’estremo Oriente, tra cui, Dorian Tang (Cina), National Education Manager, ASC Fine Wines e Ying Guo (Cina), capo sommelier del Four Seasons a Shanghai.
LE DEGUSTAZIONI
“Sono tanti i giornalisti e i sommelier che mi chiedono ogni anno di intervenire – ammette D’Agata – naturalmente devo operare un’attenta selezione. Quello che mi preme maggiormente è portare nel parterre di Collisioni solo chi realmente decide ogni giorno le sorti dei vini italiani nei mercati consolidati e in quelli emergenti. Soltanto così questo progetto rappresenta un’opportunità di crescita concreta e contribuisce a diffondere nel mondo il meglio dei nostri prodotti”. Ecco dunque critici, esperti del mercato, sommelier che potranno interagire direttamente nelle degustazioni guidate con i partner del festival, nei quattro spazi dedicati all’approfondimento della cultura enogastronomica: il Tempio dell’Enoturista di Barolo, l’Enoteca Regionale, la Tasting Room.
Degustazioni e incontri dedicati alle etichette e le denominazioni, brevi seminari aperti al pubblico nazionale e internazionale di Collisioni per imparare a degustare e a riconoscere i grandi vini con la guida di produttori ed esperti internazionali, incontri promossi nei mesi precedenti al festival sui canali media e social di Collisioni, che lo scorso anno hanno registrato il sold out di prenotazioni prima ancora dell’inizio dell’evento. “Sono felice di aver contribuito a creare un progetto culturale sul vino che punta ad essere di assoluto prestigio e di ampio respiro internazionale – commenta ancora Ian D’Agata -. Collisioni è un festival eccezionale che riesce come nient’altro in Italia a mettere insieme artisti di valore unico conosciuti in tutto il mondo quali Sting, Mark Knopfler e premi Nobel per la letteratura, come Herta Muller o Vidia Naipaul utilizzando la cultura e lo spettacolo come strumenti per la promozione dei prodotti enogastronomici di tutte le regioni italiane in patria e all’estero. Nel pensare e costruire il programma – reso possibile grazie alla collaborazione delle tante realtà regionali e consorzi di tutela italiani che da anni sostengono il festival – ho cercato di rispondere a una doppia esigenza: da un lato invitare alcuni dei più autorevoli critici vinicoli e giornalisti al mondo, per creare una consuetudine tra la scena internazionale della critica vinicola, i produttori, i consorzi di tutta Italia e i loro vini. Dall’altra – conclude D’Agata – creare panel di degustazioni e incontri di carattere didattico che fossero comprensibili a un vasto pubblico. Incontri dinamici e accattivanti per non deludere le migliaia di appassionati che ogni anno da tutta Italia e dall’estero vengono a Collisioni anche per scoprire i grandi vini italiani e imparare a degustarli”.
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