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Sicurezza agroalimentare: proseguono controlli, sequestri e denunce

Sequestrati circa 5 quintali di liquori e succhi a base di limone ed agrumi, 13 quintali di prodotti vari, 112.420 uva prive di rintracciabilità, denunciate 2 persone e riscontrate varie infrazioni amministrative. Proseguono in controlli ad ampio raggio da parte del Comando Carabinieri per la Tutela Agroalimentare.

A seguito del controllo di 30 aziende dislocate sul territorio nazionale, l’attività ha portato alla contestazione di svariate anomalie amministrative nell’ambito dell’etichettatura e della rintracciabilità giungendo al sequestro di 109.000 uova per carenza di elementi utili per risalire alla provenienza del prodotto in provincia di Campobasso e 3 quintali di latte di bufala privi di rintracciabilità e denunciata 1 persona per irregolare esercizio dell’attività produttiva in provincia di Avellino.

In provincia di Napoli sono state sequestrate 95 bottiglie contenenti limoncello poiché mancanti degli elementi essenziali per risalire alla provenienza del prodotto; a Sorrento (NA) 1 quintale circa di succo di limone congelato sprovvisto di elementi relativi alla rintracciabilità, ed in provincia di Salerno 4 quintali di limoncello e liquori a base di limone evocanti prodotto DOP/IGP.

Prodotti ortofrutticoli privi di rintracciabilità per 6 quintali sequestrati in provincia di Brindisi ed in provincia di Catania e Reggio Calabria, 3.420 uova, 224 vasetti di marmellata, 37 scatole contenenti un totale di 555 kg d’arance a falso marchio di tutela, 2.160 cartoni con logo IGP e 11.000 sacchetti di succo di limone e arancia rosse congelati con marchio DOP riportato in etichetta. Denunciata 1 persona per frode in commercio.

Il tutto ha portato a rilevate sanzioni per un totale di 36.342,67 euro. L’attività preventiva dell’Arma a salvaguardia della sicurezza degli italiani, nei primi mesi del 2018, ha portato al sequestro di oltre 45 tonnellate di prodotti agroalimentari (conserve, confetture, polpa di pomodoro, caffè , dolciumi, succhi e altro), 6.770 litri di bevande alcoliche e circa 166 quintali di alimenti evocanti DOP e/o IGP (sughi, salumi, formaggi, paste ripiene e agrumi) e sanzioni per oltre 123.000 euro.

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The Glenlivet: sei assaggi esclusivi al Milano Whisky Festival

Correva l’anno 1822 quando Re Giorgio IV chiese, durante una visita ufficiale in Scozia, un bicchiere di Glenlivet. Il whisky scozzese allora era ancora illegale, ma il fatto che il Re stesso d’Inghilterra ammettesse di berlo (ed apprezzarlo) fu la scintilla che spinse verso la legalizzazione del distillato delle Highlands. Nel 1824 Glenlivet fu, storicamente, la prima distilleria scozzese legalmente registrata.

Il tempo è passato e la distilleria ha continuato a crescere in volume e qualità, anche attraverso le battaglie legali negli anni ’60 per la registrazione del marchio (da cui l’aggiunta dell’articolo “The” nel nome ufficiale della distilleria), arrivando oggi ad essere un’incona nel mondo del Single Malt Scotch Whisky ed a contendersi il primato di distilleria più grande di Scozia coi suoi 12 milioni di litri di alcool prodotti ogni anno.

Milano Whisky Festival ha dato la possibilità ad esperti ed appassionati, lo scorso 28 febbraio, di degustare ben sei diversi prodotti della distilleria, alcuni non più in commercio.

LA DEGUSTAZIONE
15 y.o. French Oak Reserve
, 40%. Strutturato e ricco. Invecchia per ben 15 anni in botte di rovere francese nuove, arricchendosi in morbidezza e note fruttate. Ed eccole le note fruttate emergere già al primo naso, frutta fresca a polpa bianca e gialla, note vagamente esotiche di mango ed una leggera speziatura (cannella). Chiude una piacevole nota agrumata. Morbido in bocca, libera al palato gli stessi profumi del naso.

18 y.o., 40%. Botti ex-sherry ed ex-bourbon per questo prodotto, simbolo stesso della distilleria. Soli 3 anni di differenza dal precedente eppure i due whisky non potrebbero essere più diversi. Ricchezza e finezza per il 18 y.o.; se le botti da sherry donano spezie e complessità, il legno americano dona larghezza e dolcezza. Ecco quindi emergere cannella, pepe nero, cuoio, tabacco a fianco di pere, arancia, vaniglia e miele.

Nadurra First Fill, 63,1%. “Nadurra” in gaelico significa “Naturale”, è la parola con cui The Glenlivet identifica i propri prodotti imbottigliati “Cask Strength” (a forza di botte), cioè a gradazione piena.

Questo batch è un Ex Bourbon First Fill, vale a dire che è ottenuto usando botti americane ex bourbon al loro primo riempimento in Scozia. Grande alcolicità sia al naso che al palato, occorre adeguare un poco i sensi per poterlo capire ed esplorare.

Bouquet intrigante ricco di vaniglia e frutta fresca supportate da una fresca nota citrica, ben presente la nota dolce del malto. Con l’aggiunta di una goccia d’acqua emergono più marcate le note dolci fruttate ed i sentori di legno.

Nadurra Peated, 61,8%. Stessa distillazione del precedente ma con un finishing (si vocifera di un anno, ma non vi sono informazioni ufficiali da parte della distilleria) in botti che hanno precedentemente contenuto whisky torbato. Al naso ricorda il precedente, ma in bocca esplode la torba con sentori fumosi e salmastri.

Single Cask Meiklour, 58%. Un 17 anni, non filtrato, che prende il nome da un paesino vicino Perth importante snodo per il contrabbando nell’epoca del whisky illegale. Un modo per The Glenlivet di rendere omaggio alla propria storia.

Morbidezza da vendere, frutta a non finire con mela e pera in prima evidenza. Tipiche dolcezze delle botti americane come vaniglia e cannella. Un whisky corposo e pieno che non smette mai di sorprendere.

Single Cask Uisge Beatha, 60,2%. Imbottigliato, non filtrato, nel 2012 dopo 16 anni in botte ex sherry. Un prodotto ormai non più in commercio, che regala sensazioni uniche. Un solo anno di differenza nell’invecchiamento rispetto al barile precedente, ma anche quì le differenze sono enormi.

Ricchissimo di sentori speziati. Cuoio, tabacco da pipa, cannella, pepe bianco e nero. Note di frutta disidratata come albicocca o prugna. Secco, quasi tannico al palato. Complesso, elegante. Persistenza infinita.

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Tre Irish Whiskey per celebrare San Patrizio

“Il Whiskey Irlandese è un blended whiskey a tripla distillazione a colonna, non torbato, semplice fruttato e leggero, di facile beva”.

Parola più parola meno è questa le definizione che di solito si sente dire relativamente al whiskey “made in Ireland”.

Ma oggi, giorno di San Patrizio, per rendere omaggio alla Verde Erin, Vinialsuper vuole raccontarvi un’altra storia.

La storia vera di un prodotto interessante, vario, complesso e che sta ricevendo continua stima dal mercato. Eccovi quindi tre prodotti simbolo di questa rinacita.

Connemara Distillers Edition, 43%. Un single malt, torbato a doppia distillazione ad alambicco. Complesso al naso stupisce per la nota torbata in stile “Scotch” sotto cui emergono le note fruttate e floreali tipiche dell’irlandese. Uno schiaffo in faccia alla definizione, ormai consolidata, di Irish Whiskey.

Teeling Single Malt, 46%. Un single malt invecchiato in ben 5 tipi botti diverse: Sherry, Porto, Madeira, Chardonnay di Borgogna e Cabernet Sauvignon. Ne risulta un whiskey morbido ricco di note fruttate ed agrumate. Dolcezza di miele e vaniglia in bocca, con una leggera speziatura. Incredibilmente equilibrato.

The Quiet Man Blended Whiskey, 40%. Un tradizionale Irish Blended. Blend di whiskey di grano e di malto ottenuti solo per distillazione tradizionale pot still maturato in botti ex-bourbon di primo passaggio. Naso dolce di miele, frutta (banana) e vaniglia. In bocca è morbido con note di malto tostato, mela e cannella. alcolicità ben integrata, nulla a che vedere col calore pungente di molti Irish industriali.

IL WHISKEY IRLANDESE
Prodotto di lunga tradizione l’Irish Whiskey subì un’importante battuta d’arresto nei primi anni ’20 per via di sue fatti storici che letteralmente uccisero il mercato: il proibizionismo americano che tagliò quasi completamente il mercato d’oltreoceano e l’indipendenza della Repubblica d’Irlanda che la escluse l’intera area del Commonwealth.

Restò solo il mercato interno ed i produttori iniziarono a chiudere uno ad uno. Nel 1966 sul suolo dell’EIRE restavano solo 3 distillerie (Jameson, Power e Cork) che presero la decisione di fondersi insieme e fondare la Irish Distillers Ltd.

Un colosso industriale in grado di reggere al mercato grazie alle economie di scala. Da lì la precisa volontà commerciale di produrre un blended whiskey semplice facile ed immediato. Quello che molti di noi conoscono.

Fu John Teeling che nel 1989 prese l’ardita decisione di riaprire una distilleria per poter riproporre al mercato il “vero” Irish Whiskey. Vi risparmiamo le vicende finanziarie e le politiche commerciali adottate da John, ma fatto sta che negli anni ’90 sul mercato prima interno e poi mondiale del whisky si affaccia un prodotto nuovo: Connemara. Un whiskey in totale controtendenza rispetto ad ogni altro irlandese.

Il successo di Connemara è così potente da portate non solo ad una crescita esponenziale della distilleria, ma anche ad un interessamento al fenomeno da parte delle multinazionale del beverage.

Nel 2011 è Beam Global a spuntarla, acquistando da John Teeling la distilleria (la Cooley Distillery) per la “modica” cifra di 95 milioni di dollari. Grazie a Beam, e poi al gigante giapponese Suntory che ha a sua volta acquistato Beam, Connemara ha accesso ai più svariati canali commerciali. Ecco perchè è così facilmente reperibile anche in GdO.

John Teeling ed i suoi figli Jack e Stephen decidono di non fermarsi, di non limitarsi a godere del capitale appena guadagnato.

Con i soldi ottenuti dalla vendita di Cooley aprono a Dublino una nuova distilleria, la Teeling Disitilley. La prima nuova distilleria ad aprire Dublino in oltre 125 anni.

Tripla distillazione e nessun blending, pura interpretazione della tradizione irlandese.

Quello iniziato da Teeling negli anni ’90 non è però un caso isolato, ma un vero e proprio fenomeno.

Molte le distillerie che da allora hanno aperto, come la già citata The Quiet Man.

Il coraggio di aprire una Irish Whiskey Distillery su suolo tecnicamente inglese, in Irlanda nel Nord.

The Quiet Man sorge infatti a Derry, cittadina storicamente luogo di scontri per l’indipendenza irlandese e teatro della tristemente nota “Bloody Sunday“.

Il Whiskey Irlandese oggi continua a crescere, entusiasmando sempre più consumatori e convincendo anche i più scettici grazie alla grande qualità espressa dai suoi prodotti.

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Di additivi e di altri mostri: un altro linguaggio è possibile (sul vino naturale)

La grande bellezza dello stare nel vino è la sua interdisciplinarità, occorre conoscere di chimica, fisica, botanica,biologia,meccanica, economia, è importante mantenere sempre una mente aperta ed una visione d’insieme.

Cosi’ per rimanere sempre con la mente aperta, non rimanere chiusa nel mio ghetto. Avevo una giornata libera e sono andata a Live Wine a Milano.

Ho assaggiato, parlato con produttori, incontrato amici e colleghi e si mi sono divertita molto. Come tutte le volte in cui sono nel vino con leggerezza. “Leggerezza di linguaggio naturale”, vorrei leggere.

Basta focalizzare l’attenzione sui lieviti selezionati!

Si limita il racconto del vino ad un unico elemento, mentre il cammino dall’uva alla bottiglia è molto più lungo e complesso.

Basta addentrarsi in diatribe fra industriali vs artigianali!

Correte due campionati diversi, inutile sprecare fiato.

Il terrorismo sugli additivi e sui coadiuvanti non ha portato a nulla. La casalinga di Voghera e la sua amica di Voghiera non conoscono la differenza fra queste due famiglie di prodotti.

E poi vi ricordo che la gomma arabica è un principale componente delle caramelle.

Raccontate del vino naturale figlio del tempo e non delle logiche commerciali. Raccontate del vino fatto da viticoltori che sono custodi del territorio.

Non parlate di vino fatto con le ricette!

Il vino è un lavoro di squadra, un racconto corale, non un susseguirsi di fredde operazioni di fabbrica.

Amici naturali, non correte dietro – in etichetta – ad api, coccinelle, farfalle, foglie con le stelline… Siate minimalisti ed essenziali, il vino parlerà da sé.

I giornalisti e le guide non vi hanno fatto nulla, non sono faziosi. Sono solo dei curiosi del vino che vogliono capire e conoscere il vostro mondo. Un nuovo linguaggio è possibile. Basta volerlo.

Claudia Donegaglia – enologa

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Vinitaly 2018: boom di Tenute Storiche con Cantina

VERONA – Sono 64 le Tenute Storiche con cantina che parteciperanno a Vinitaly 2018. L’Associazione Dimore Storiche Italiane (Adsi) vede così crescere il numero di adesioni alla più importante Fiera enologica italiana (lo scorso anno erano 55).

Tutte assieme, le cantine rappresentano una produzione annua di 35 milioni di bottiglie, provenienti da circa 30 mila ettari di proprietà.

I soci Adsi – alcuni dei quali operano anche nella Grande distribuzione organizzata – sono proprietari di beni culturali vincolati come “monumento nazionale” che, nel caso delle tenute viticole, comprendono giardini, vigneti, oliveti e boschi, oltre alle cantine. In un insieme di straordinaria bellezza al tempo stesso architettonica e paesaggistica.

“Una visita alle cantine storiche dei soci Adsi – sottolinea Gaddo della Gherardesca, presidente dell’Associazione Dimore Storiche Italiane – costituisce un vero e proprio Grand Tour. Un’opportunità unica di turismo esperienziale, in cui la scoperta di molti vitigni autoctoni nel loro ambiente naturale si combina all’offerta di eccellenze gastronomiche del territorio”.

Tutte le cantine storiche sono visitabili su prenotazione, e fra le partecipanti a Vinitaly 2018, oltre 50 sono anche agriturismi, con un’offerta complessiva di 800 camere. Paradisi dell’enogastronomia e dell’ospitalità che spaziano dal Trentino Alto Adige alla Sicilia.

“La partecipazione a Vinitaly – evidenzia Gaddo della Gherardesca – dimostra ancora una volta che i proprietari di dimore storiche dedicano un impegno costante non solo alla conservazione e tutela di una parte rilevante del nostro patrimonio culturale, ma anche, ove possibile, allo sviluppo e promozione di attività che hanno un impatto diretto sull’economia dei territori, in particolare all’interno delle comunità rurali”.

Il Grand Tour delle Cantine storiche diventa ancora più suggestivo se unito alla visita di affascinanti ville, castelli, palazzi, cascine e masserie aperti all’ospitalità e listati nel sito www.dimorestoricheitaliane.it. Sul sito, gli oltre 300 associati incontrano ogni mese 15-20 mila appassionati, italiani e stranieri.

LE AZIENDE ADSI PRESENTI A VINITALY 2018
Agricola Borgoluce, Agricola Colognole, Agricola Conti Bossi Fedrigotti, Agricola Foffani, Agricola Guerrieri Rizzardi (nella foto di copertina), Agricola La Collina, Agricola La Rocchetta, Agricola Marcello del Majno, Agricola Marcello del Mayno, Agricola Marina Danieli, Agricola Nesci, Agricola Perusini, Azienda Contucci, Azienda Leone de Castris.

Poi ancora: Azienda San Leonardo, Badia a Coltibuono, Badia di Morrona, Baglio di Pianetto, Banfi srl, Barone Ricasoli, Cantina Montevecchio Isolani, Castel di Salve, Castello di Cacchiano, Castello di Gabiano, Castello di Montegiove, Castello di Ripa d’Orcia, Castello di Roncade, Castello di Torre in Pietra, Castello di Verrazzano, Castello di Volpaia, Castello Sonnino, Castello Vicchiomaggio, Conte Emo Capodilista, Duca Carlo Guarini, Guicciardini Strozzi, Il Mosnel di E. Bardoglio.

E infine: Il Pollenza srl (nella foto a destra), La Barchessa di Villa Pisani, Le Corti Spa, Marchesi Alfieri, Marchesi Ginori Lisci, Marchesi Gondi, Marchesi Mazzei, Massimago S.S., Possessioni di Serego Alighieri, Principi di Porcia e Brugnera, Tasca d’Almerita, Tenuta Bellafonte, Tenuta di Bibbiano, Tenuta di Fiorano, Tenuta di Ghizzano, Tenuta di Montegiove, Tenuta di Pietraporzia, Tenuta il Corno, Tenuta la Marchesa, Terre dei Pallavicini, Vicara srl, Villa Angarano, Villa Calcinaia, Villa del Cigliano, Villa di Maser, Villa Vitas.

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L’8 Marzo della vignaiola Marilena Barbera: “Le Donne del Vino meritano rispetto”

Otto Marzo, Festa della Donna. Un paio di tette con una bella etichetta di vino in secondo piano, da pubblicizzare ben bene, avrebbe fatto contenti in molti. Ma noi siamo differenti. E chi ci segue lo sa.

Oggi, 8 Marzo, Festa della Donna, vogliamo raccontarvi il ruolo della Donna nel mondo del vino moderno.

E quando pensiamo a “donna” e “vino”, ci viene in mente un nome su tutti: Marilena Barbera. Per i pochi che non la conoscessero, Marilena è una donna del vino che ha saputo imporsi, come poche, nel panorama della viticoltura italiana di qualità.

Lo ha fatto senza scendere mai a compromessi. Con nessuno. Per di più in una regione difficile come la Sicilia. Marilena Barbera è una di quelle che si fanno fotografare in vigna, in canottiera. Senza trucco. Con in mano una cesoia. Mica l’ombretto.

Non produce vini per i supermercati, ma fa vini da Gdo: che – almeno per oggi, consentitecelo – sta per Grande Donna Orgogliosa. Della sua Sicilia. Dei suoi vini e dei suoi vigneti. Della sua Terra, nelle sue mille sfumature. E – lo diciamo noi –  anche di sé stessa. Auguri a tutte le Donne del Vino come Marilena.


Non è semplice parlare del ruolo della donna nel mondo del vino di oggi. Almeno, non è semplice senza cadere nei clichés che accompagnano [quasi] ogni tentativo di analizzare le questioni di genere.

Chiedo venia per le generalizzazioni che sarò costretta a fare, ché sarebbero necessari volumi per affrontare un tema così delicato, e certamente sarebbero necessarie competenze in ambiti in cui non sono ferrata: sociologia, psicologia, macroeconomia ed altro ancora.

Vi offrirò, dunque, un punto di vista parziale ma sincero: quello di vignaiola, e di vignaiola del Sud.

Il mondo del vino è un settore economico e sociale in evoluzione continua, e probabilmente è anche uno di quelli che negli ultimi vent’anni ha vissuto cambiamenti epocali grazie all’ingresso di generazioni nuove che hanno profondamente trasformato il modo di produrre e di comunicare.

Guardiamo, ad esempio, all’impatto che i “nuovi” media (social, blog, le dinamiche della rete nel loro complesso) hanno avuto – e sicuramente continueranno ad avere – sulle abitudini di consumo del vino, al loro ruolo fondamentale nell’azzeramento della distanza fra i produttori, vignaioli o grandi aziende che siano, e le persone che il vino lo acquistano (mescitori, ristoratori e consumatori).

Una vera rivoluzione che si è consumata in pochissimi anni e che ha generato la necessità di profonde mutazioni nelle professioni che ruotano intorno al vino e nelle relazioni fra gli attori di questo mondo.

Le donne, di sicuro, questa trasformazione la stanno cavalcando: vedo intorno a me colleghe vignaiole che senza paura mostrano le mani segnate dal lavoro.

Vi sembra una trovata di marketing? Nemmeno per sogno: se pensate a come veniva dipinta la classica rassicurante “donna del vino” vent’anni fa, con il rossetto in ordine e la messimpiega fresca di parrucchiere, siamo ad anni luce di distanza.

Vedo enologhe che affermano con forza le proprie capacità direzionali in squadre di cantina composte da decine di uomini, vedo giornaliste che si infilano gli scarponi e vanno a raccontare il vino dove il vino si fa, in vigna.

Eppure, di fronte a questa radicale (e necessaria) trasformazione della professionalità femminile, che sempre più donne rivendicano con orgoglio e senza vezzi, il mondo del vino reagisce, spesso, come sempre ha fatto: con malcelata diffidenza, con sufficienza, con un atteggiamento (a volte insopportabile) di mera tolleranza.

I motivi sono tanti e – credo – siano per la maggior parte culturali. Perché questa rivoluzione di cui vi ho parlato poco fa è, in effetti, una rivoluzione incompleta. Non è solo il mondo del vino ad essere stato prevalentemente “maschile” fino a qualche anno fa, ma la gran parte del mondo del lavoro in Italia. E vorrei utilizzare, perché ritengo sia più appropriato, il termine “maschilista” o, ancor meglio, “sessista”.

Il mondo del lavoro in Italia è sessista, e il mondo del vino non fa eccezione.

Fatte salve alcune professioni che per tradizione sono state riservate alle donne da quando le donne sono entrate nel mondo del lavoro – pensiamo alla maestra dell’asilo o delle elementari, la commessa del negozio di articoli femminili, l’aiuto domestico, l’ostetrica, la baby sitter e poche altre – in nessuna professione le donne vengono trattate alla pari dei colleghi uomini: né per quanto riguarda le opportunità di accesso, né in relazione alla retribuzione, né per le reali possibilità di carriera. Questa condizione è comune alla maggior parte delle professioni e, dunque, esiste anche nel mondo del vino.

Nel mio caso specifico – perché un punto di vista parziale vi sto offrendo, e mi scuserete – le problematiche maggiori hanno riguardato il riconoscimento del mio potere decisionale nel settore della produzione.

Non sono entrata in questo mondo per scelta, ci sono entrata per necessità, alla morte di mio padre. La scelta è arrivata dopo, quando mi sono innamorata di questo lavoro.

Dunque, morto mio padre, ho ereditato una vigna, un mutuo, e una squadra di persone che faceva il vino. Riuscire a trasformare tutto questo in un’azienda che oggi riconosce, apprezza e trova [finalmente!] fondamentale il mio apporto è stato un percorso a ostacoli.

Per trasformare la vigna da convenzionale a biologica, e certificarla, ci sono voluti 10 anni; per utilizzare un sesto di impianto differente da quello che l’agronomo titolare aveva deliberato essere necessario ce ne sono voluti altrettanti; per smetterla con i lieviti selezionati in vinificazione ci sono voluti 4 anni, per abbandonare le chiarifiche 5, gli enzimi 7.

In tutti questi anni ho dovuto svolgere un lavoro di coinvolgimento, convincimento, blandimento (si dice? Beh, quello), dimostrazione dei risultati anno dopo anno. Non me ne pento affatto, ma nessuno mi toglie dalla testa che se fossi stata uomo ci avrei messo molto, ma molto di meno.

Non starò qui ad elencarvi tutte le alzate di sopracciglia durante le presentazioni commerciali, quando si tratta di firmare i contratti. Vi prego di credermi, in fiducia: nel mondo del vino per una donna è ancora molto difficile veder riconosciuti i propri meriti quale lavoratrice e professionista.

Vi faccio solo un ultimo esempio, per me illuminante: qualche tempo fa leggevo l’intervista di una enologa che lavora presso un’azienda toscana, che raccontava di come il titolare (uomo) fosse molto felice del fatto di averla assunta perché “l’ambiente si è ingentilito: in sala degustazione c’è sempre un fiore“. Ecco, questa è la forma mentis che le donne subiscono ancora oggi, e non è accettabile, non più.

Ci sono, per fortuna, fulgidi esempi del contrario, e ciascuna di noi – vignaiola, enologa, giornalista, sommelier, ricercatrice eccetera – ne può raccontare, ci mancherebbe. C’è la solidarietà di tanti colleghi uomini, l’apprezzamento dei clienti, la considerazione di molti, moltissimi professionisti che lavorano nel mondo del vino a diverso titolo.

Ma io sogno un mondo in cui le persone vengano apprezzate per il lavoro che svolgono, per i risultati che conseguono, per l’intelligenza, la flessibilità, la creatività, la visione, l’umanità, la generosità, al di là del genere che la natura, casualmente, ha loro assegnato.

Sogno un mondo che non abbia bisogno delle quote rosa. Oggi, festa della donna, brinderò a questo.

Marilena Barbera – vignaiola in Menfi (AG)

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Consorzio Vini di Romagna: al via il tour europeo di promozione

Dopo le positive esperienze degli anni passati, anche in questo 2018 il Consorzio Vini di Romagna e diverse cantine associate saranno impegnati in un tour europeo di promozione dei vini. “Rispetto agli scorsi anni sono aumentate le tappe del nostro viaggio, a testimonianza che la formula della promozione direttamente nei Paesi interessati/interessanti per l’export dei nostri vini funziona ed è apprezzata dai nostri soci”, sottolinea Giordano Zinzani, Presidente del Consorzio.

LE TAPPE DEL TOUR
Si parte dalla Germania, Francoforte, il 13 marzo, poi tappe successive in Olanda, ad Amsterdam il 15, in Belgio, ad Anversa il 16, per poi tornare in Germania a Düsseldorf per partecipare al ProWein in programma dal 18 al 20 marzo.

A Francoforte, Amsterdam e Anversa – dove parteciperanno rispettivamente 9, 13 e 11 aziende – i produttori avranno la possibilità d’incontrare importatori, distributori, esponenti del mondo Ho.Re.Ca, giornalisti chiamati a partecipare a seminari di presentazione della Romagna e dei suoi vini tipici DOP e IGP, per poi degustare i vini e dialogare direttamente con le aziende.

A Francoforte, inoltre, il noto sommelier Helmut Knall terrà una degustazione guidata per gli invitati.

A Düsseldorf, come anticipato, il Consorzio Vini di Romagna parteciperà al ProWein, una delle fiere enologiche più importanti a livello mondiale, assieme a 16 aziende romagnole.

LE AZIENDE PARTECIPANTI
Non tutte le aziende impegnate in questo tour europeo parteciperanno a tutte e quattro le tappe. Nel complesso sono comunque 23 le aziende che rappresenteranno la Romagna enologica fra Francoforte, Amsterdam, Anversa e Düsseldorf: San Valentino di Rimini e Tenuta Sant’Aquilina di Coriano (RN); Tenuta Casali, Cantina Braschi di Enoica e Tenuta Santa Lucia di Mercato Saraceno (FC); Cantina Sociale Cesena e Tenuta Colombarda di Cesena (FC); Tenuta La Viola e Celli di Bertinoro (FC); Cantina Forlì-Predappio e Condè di Predappio (FC); Piccolo Brunelli di Galeata (FC); Poderi dal Nespoli di Civitella di Romagna (FC); Fiorentini vini di Castrocaro Terme (FC); Drei Donà di Forlì (FC); Torre San Martino di Modigliana (FC); Poderi Morini, Fattoria Zerbina, La Sabbiona e Trerè di Faenza (RA); Randi di Fusignano (RA); Tenuta Uccellina di Russi (RA); Poderi delle Rocche di Dozza (BO).

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Professione Eno Artigiano: Stefano Milanesi e il suo Oltrepò pavese

SANTA GIULETTA – Eno Artigiano. Stefano Milanesi ama definirsi proprio così. E lo mette anche sull’etichetta dei suoi vini. Di un Oltrepò pavese “alternativo”.

Te ne accorgi da come t’accoglie per la visita programmata per un sabato mattina uggioso di fine febbraio: affettando salame e coppa. Siamo a Santa Giuletta, in provincia di Pavia. Sui primi dislivelli che si incontrano venendo dalla piatta metropoli Milanese.

Una passione, quella per il vino, che Stefano Milanesi ha ereditato dalla sua famiglia di viticoltori da molte generazioni. Certificato Bioagricert già da 10 anni, quando ancora del tanto modaiolo termine “Vini Naturali” e “Biologici” non si sentiva quasi parlare.

Qui la filosofia è chiara: niente diserbo chimico, solo rame e zolfo contro Oidio e Peronospora. Poi, tanta cura sulla pianta. “Perché non è vero che l’intervento dell’uomo deve essere il minor possibile”. Ci sediamo al tavolo per iniziare la degustazione.

Partiamo con il Pinot Nero Metodo classico. Non c’è un limite di permanenza sulle proprie fecce di fermentazione. E’ l’annata che decide. E poi è Stefano a spingersi oltre. La sboccatura non avviene mai prima dei 36 mesi.

In degustazione le vendemmie 2013 e 2010 ma in cantina c’è anche la 2007, sboccata a novembre 2017. I colori ovviamente solo diversi. Si va dal giallo paglierino intenso al dorato. Tutti vini che non subiscono chiarifiche, filtrazioni e acidificazioni.

LA DEGUSTAZIONE
I sentori al naso sono comuni e incredibili. Si va dal biancospino (aroma per Stefano che meglio rappresenta il Vesna Nature) ai sentori di fiori di campo e di frutta a polpa bianca. E poi uva spina, mela. Ma anche agrumi e pasticceria.

A un certo punto, dopo più di 2 ore, a bicchiere ormai vuoto, il naso rimanda note da Sauvignon Blanc, nello stupore generale del tavolo. Perlage di buona persistenza e finezza, complesso e fresco, sapido e minerale . Nel complesso una gran bella bollicina.

Si prosegue con Poltre bianco da uvaggio misto locale: Cortese, Riesling italico, Pinot nero, Trebbiano e Sauvignon. Un bianco da pasto, caratterizzato da una macerazione di 5 giorni che lo rende di un giallo dorato.

Il corredo olfattivo, tutto tranne che banale. Frutta matura a polpa gialla, frutta secca, qualche richiamo al miele millefiori. Freschezza da vendere. Sorso piacevole.

Poltre rosso è invece ottenuto da uve Croatina, Barbera e Uva Rara in percentuali maggiori. Macerazione un po’ più spinta del bianco e vino da complessità aromatica anche qui interessante. Forse qualche nota surmatura ad inizio bicchiere. Ma poi il vino si distende e il corredo aromatico si ingentilisce.

Si passa poi a quella che rimane la miglior espressione di casa Milanesi: il Neroir, Pinot nero in purezza di eleganza e finezza poco comuni. E’ un vino timido, si scopre piano. Pressatura soffice, macerazione di qualche ora, poi il cemento.

Il colore è scarico, da Pinot nero d’Oltralpe. E l’aroma spazia dalla piccola frutta rossa, come la visciola, ai fiori, come la violetta. Sul lungo dà il meglio di sé. Un vino fatto per stupire.

I CRU
Si assaggia anche la Croatina OPpure e la Barbera Elisa. Annata 2009. Monovitigni per questi due cru, che dopo una macerazione di qualche giorno vanno in affinamento in legno, barrique e tonneaux di rovere francese e bulgaro.

L’acidità della Barbera e il tannino della Croatina rappresentano la base di questi due ottimi cru aziendali.

Ma il corredo aromatico e gustativo è complesso, armonico, forse più bilanciato sulla Croatina dove il frutto maturo, le note boisé e la spezia si fondono meravigliosamente.

Qui siamo sui 2 grappoli per pianta: rese bassissime, spinte alla maturazione perfetta. Vini da invecchiamento , con tanto corpo e tanta materia, da permetterne splendide evoluzioni.

La prova la abbiamo quando Stefano mette a tavola una bottiglia nuda , senza etichetta. Una bordolese, quindi capiamo che siamo andati indietro negli anni. E’ un blind taste questo. E Stefano ci invita a provare a scoprire cosa degustiamo.

Il naso non tradisce. E’ lo stesso di qualche bicchiere fa: è Barbera. Acidità e tanto corpo, ma ancora note calde in bocca, a prevalere sul terziario. Azzardiamo un’annata calda: la 2003. Bingo!

Ci alziamo soddisfatti dal tavolo: Stefano Milanesi vuole mostrarci la cantina, dove sono custodite le bottiglie e le barrique. Quello che colpisce di più, però, solo le pupitres in cui il giorno prima Stefano ha posizionato il suo Pinot nero atto a divenire Vesna. Il colpo d’occhio è ipnotizzante. Non ci si staccherebbe mai.

L’Eno Artigiano Stefano Milanesi è un vignaiolo a 360 gradi. La conduzione “familiare” della cantina è l’impronta tangibile del suo Dna. Il rispetto per la pianta e per il suo frutto, la sua impronta personale. Il resto, lo fa il suo istinto. Il suo azzardo. Il suo naso. E il suo palato.

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Il Nebbiolo del vulcano: alla scoperta di Boca con i vini Le Piane

BOCA – E’ il Piemonte meno raccontato e, forse, meno noto. Ma non per questo il Piemonte di “serie B”. A pochi chilometri da Novara, la Denominazione incastonata più a nord e più a est dell’intera regione: Boca. La fotografiamo grazie a una degustazione di quattro vini dell’Azienda Agricola Le Piane.

Boca è un borgo di poco più di mille anime, storicamente vocato alla viticoltura. Un’areale che comprende anche parte dei Comuni di Maggiora, Cavallirio, Prato Sesia e Grignasco. La depressione economica sta portando a una riscoperta della viticoltura nella zona: una delle pochissime forme di agricoltura praticabile tra queste colline di origine vulcanica.

Alle chiusure di grandi superfici commerciali e industriali lungo le vie che collegano i borghi del novarese, tra Omegna e il fiume Sesia, rispondono nuovi vigneti strappati ai boschi. Le Piane, di fatto, è un’azienda che cresce. Assestandosi oggi a 9 ettari vitati (7 a Boca Doc) e 50 mila bottiglie prodotte.

I vigneti allevati col sistema tradizionale del Quadrato alla Maggiorina hanno un’età media di 100 anni. Sono state impiantate quasi un secolo fa anche le vigne a filare. Nuova linfa è stata data tra 1995 e il 1998 e di nuovo nel 2014, con gli impianti più giovani.

Proprio agli inizi degli anni Novanta Christoph Kuenzli e Alexander Trolf acquistarono le proprietà del produttore locale Antonio Cerri. Avviando quella che oggi è una delle più stimate realtà della viticoltura piemontese e italiana: Le Piane.

LA DEGUSTAZIONE
1) Vino Rosso Maggiorina 2016 (12,5%). E’ il vino d’entrée della cantina di Boca. Quello destinato ad essere consumato nell’annata.

Ma soprattutto è uno di quei vini “base” in grado di dare la tara all’intera produzione di una cantina: un ingresso con le scarpe di velluto nell’elegante mondo dei Nebbioli di Le Piane.

Qui la percentuale scende volutamente al 50% del blend. Non a caso. Se l’obiettivo è quello del vino “pronto subito”, occorrono altri uvaggi oltre al Nebbiolo. La Croatina, per esempio, con un bel 30%.

Il 20% restante è costituito da altri 10 uvaggi vinificati assieme, due dei quali a bacca bianca: Vespolina, Uva Rara, Tinturiè, Dolcetto di Boca, Barbera, Slarina, Freisa, Turasa, Erbaluce (Greco Novarese) e Malvasia di Boca.

Il calice si tinge di un rubino trasparente, mentre al naso affiorano le attese note di frutti rossi. La breve macerazione si traduce, in bocca, in freschezza e fragranza.

Ingresso fruttato elegante per un “base”, impreziosito da un allungo scandito da rintocchi salini, su un tannino flebile ma comunque presente.

E’ il muscolo del Nebbiolo, che graffia la terra dell’antico vulcano, tramutatosi in collina. Quattordici euro non sono pochi, ma ogni singolo centesimo è speso alla grande per Maggiorina.

2) Vino Rosso Mimmo 2015 (12,5%). Nebbiolo 70%, completato da un 30% di Croatina prima dell’imbottigliamento. Due anni in legno grande da 25-28 ettolitri e immissione diretta sul mercato, senza ulteriore affinamento in bottiglia.

Rubino con sfumature granate. Frutto rosso più maturo al naso e maggiore complessità generale, rispetto a Maggiorina. La Croatina apporta al Nebbiolo una speziatura che non si tramuta esclusivamente in pepe nero, ma anche (e soprattutto) in liquirizia. Sorso al contempo minerale salino, carico e pieno, instancabile.

3) Boca Doc 2012 (13,5%). Sale ancora la percentuale di Nebbiolo, che col Boca Doc 2012 Le Piane raggiunge l’85%. Completa il blend un 15% di Vespolina.

La selezione delle uve, in questo caso, è ancora più serrata. Se l’annata lo consente (cosa sin ora avvenuta nella maggior parte dei casi) la raccolta dei due uvaggi avviene contemporaneamente.

La macerazione è lunga e può variare da un minimo di 25 a un massimo di 35 giorni, in base alle condizioni della vendemmia. L’affinamento è di 4 anni in botte grande, più 6 mesi (minimo) in bottiglia.

Il naso del Boca Doc 2012 Le Piane si rivela complesso e di elaborata finezza. L’aggiunta di Vespolina contribuisce a colore e speziatura.

Un calice che rivela, oltre ai classici frutti rossi del Nebbiolo, anche chiari sentori di arancia rossa, sino a richiami balsamici, freschi. In bocca il tannino spinge, ma è ben integrato. Un vino pronto, con ampi margini di ulteriore evoluzione in bottiglia.

4) Boca Doc 2009 (13,5%). La tecnica di vinificazione è identica alla 2012, per un’annata in bottiglia da settembre 2013. Naso fine e ammaliante, dominato da note di frutti rossi maturi, con una punta di mora.

Non manca il solito apporto speziato: liquirizia, ma anche zenzero e tabacco dolce. In bocca frutta croccante, tannino perfettamente integrato ma ancora più che mai vivo.

Lungo il retro olfattivo, che rivela una sorprendente pennellata morbida di vaniglia bourbon. Un motivo in più di richiamo per un sorso fruttato e balsamico, connotato dalla solita vena salina. Gran vino.

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Milano Coffee Festival all’insegna dello Slow Coffee: il nuovo modo di concepire il caffè

MILANO – Contiene più caffeina un caffè lungo o un espresso? Che sapore ha la caffeina? Quante varietà di caffè esistono, oltre alle note Arabica e Robusta?

Dubbi che si potranno chiarire in un sorso al Milano Coffee Festival, in programma il 19, 20 e 21 maggio. Appuntamento al Base di via Tortona, 54.

Un’occasione per scoprire come la concezione stessa di caffè stia cambiando, anche in Italia. Avvicinandosi al concetto di “slow coffee”. Avete letto bene. Quello che all’apparenza può sembrare un ossimoro, in realtà è l’espressione più moderna della “pausa caffè”. La versione 2.0.

Ad assicurarlo è Francesco Masciullo, campione italiano Baristi 2017 ospitato ieri da Zodio, a Rescaldina (MI). “Città come Londra e Melbourne – evidenzia il 26enne di origini salentine – sono avanti anni luce rispetto all’Italia su un’idea diversa del caffè. Le caffetterie specializzate sono moltissime, nel mondo. Qui da noi se se contano solo una decina”.

Si può trovare Masciullo dietro al bancone di Ditta Artigianale, a Firenze. A Milano i punti di riferimento sono due: Cofficina e Orso Nero. A Brescia c’è Tostato. Il sud è ancora più restio al “cambiamento”. Ma Quarta Caffè di Lecce sta provando a portare vento nuovo, dopo anni di produzione intensiva di caffè base Robusta (meno qualitativa rispetto all’Arabica e dai sentori meno fini, anche se apprezzabilissimi).

“Esistono 150 specialità botaniche di caffè – ricorda Francesco Masciullo – eppure quella che più si adatta per caratteristiche e qualità alla concezione di ‘slow coffee’ è l’Arabica.  Quando parliamo di slow coffee ci riferiamo a un modo nuovo di concepire il caffè: quello che tecnicamente viene definito ‘caffè filtro’ e che, nel gergo comune, è noto come ‘infuso di caffè'”.

Per ottenerlo esistono almeno due metodi: il V 60 e la french press. A differenza dell’espresso classico, che finisce in tazza per pressione, il caffè si ottiene per “macerazione” o, meglio, per “infusione”.

Un procedimento simile a quello del the o del vino, se si pensa al contatto – più o meno prolungato – del filtro con l’acqua calda, o del mosto con le bucce, per favorire l’estrazione di sostanze come polifenoli e antociani.

In realtà, c’è una sostanziale differenza anche tra V 60 e french press. Il V 60 è tecnicamente definito “drip”: il caffè si ottiene per percolazione. La “V” ricorda la forma di questo semplice marchingegno, nel quale si poggia il filtro e si versa l’acqua calda. Il numero 60 rappresenta l’ampiezza dell’angolo di questa sorta di piramide rovesciata.

I METODI SLOW
A differenza del V 60, il metodo per ottenere un buon caffè attraverso la french press prevede due passaggi: infusione ed estrazione. Cambia dunque il gusto. “L’esame visivo non basta per definire la qualità di un caffè – spiega il campione italiano Francesco Masciullo – occorre infatti assaggiarlo, per definirne l’equilibrio e il corretto bilanciamento”.

Dalla french press possiamo aspettarci un corpo maggiore rispetto al V 60. Prevede infatti una fase di pressione (come l’espresso classico, ma ben più delicata e prolungata) operata dallo stantuffo, definito tecnicamente plunger. In particolare sono tre i passaggi necessari per concedersi un caffè con la french press:

1) Blooming: la pre infusione, che serve a eliminare buona parte della Co2 e dei gas volatili contenuti naturalmente nei chicchi di caffè
2) Infusione
3) Estrazione

Fondamentale il giusto tipo di macinatura. In una scala da uno a dieci:

1) La macinatura 1 è quella del’espresso da bar
2) La macinatura 4 è quella della Moka
3) La macinatura 6 è adatta al V 60
4) La macinatura 8 è perfetta per french press e syphon

Perché è importante la macinatura? “Tra un metodo di estrazione e l’altro – spiega Masciullo – il fattore determinante è il ‘tempo di contatto’ del caffè macinato con l’acqua, all’interno del filtro. Più il metodo richiede tempi lunghi di estrazione, più la grana del caffè dev’essere grande”.

Basti pensare che il tempo di estrazione di un caffè espresso classico è di circa 30 secondi (macinatura fine). Occorrono 2-3 minuti per ottenere un caffè da V 60 (macinatura media). Con il syphon, il tempo di estrazione aumenta, toccando soglia 3-3½ minuti (macinatura media-grossa). Il metodo french press prevede infine 4-5 minuti di contatto (grana grossa).

La prima fase di estrazione è la più delicata, in quanto determina i fattori alla base di un buon caffè:

1) Acidità
2) Dolcezza
3) Amarezza

Anche le dosi di caffè ed acqua sono parte di una vera e propria “ricetta”, utile a ottenere un perfetto slow coffee. Il parametro standard è di 60 grammi di caffè per un litro d’acqua.

Quale metodo privilegiare? “Per una tazza delicata e a suo modo corposa – risponde Masciullo – consiglio di usare il metodo V 60, che trasforma il caffè in un vero e proprio rito. Per una tazza standard, quotidiana e più facile da preparare, sceglierei la french press, che potrebbe tranquillamente prendere il posto della moka, se solo iniziassimo a pensare al caffè in maniera innovativa”.

LA TAZZINA GIUSTA
Fa bene Masciullo a parlare di “tazze”. C’è forse un materiale o una forma migliore per godere appieno degli aromi di un caffè? “Per l’espresso classico – assicura il campione italiano Baristi – fidatevi di tazze con la base convessa, più stretta rispetto alla parte alta”.

“Per quanto riguarda il materiale – conclude Masciullo – consiglio la ceramica, che trattiene più calore del vetro. Lo spessore della tazza è invece legata più a un fattore di estetica che alle capacità di garantire una perfetta degustazione”. Già, “degustazione”. Altro che le veloci “pause caffè”. Alzi la mano, allora, chi è pronto per per la slow coffee revolution.

 

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Milano Rum Festival 2018: fascino, scoperte e conferme sul distillato dei Caraibi

MILANO – Basta uno sguardo social sul mondo del rum per capire che è in atto una sorta di rinascita di questo distillato.

Personaggi come Richard Seale (proprietario e master distiller di Foursquare) e Luca “Ruruki” Gargano (patron di Velier) hanno ingaggiato una lotta senza quartiere in difesa della qualità e della chiarezza nella comunicazione dello spirito dei Caraibi.

Troppa è la confusione, tra stili i cui confini si mescolano, colori improbabili e che poco raccontano, aggiunte più o meno mascherate, più o meno lecite, ed etichette che riportano numeri credibili quanto quelli dei sondaggi elettorali.

Il Milano Rum Festival, come già nell’edizione dello scorso anno, è una candela quando manca la corrente, per fare luce e smettere di andare a tentoni, vista anche la presenza di personaggi illustri e disponibili che lì si possono incontrare, ovviamente sempre con il bicchiere pieno.

L’organizzazione in loco è buona, il desk per la registrazione funziona bene a ritmi sostenuti, gli spazi sono sufficientemente accoglienti e nella hall dedicata alla manifestazione troviamo anche un banco che vende appetizer di buona qualità.

Purtroppo non possiamo dire altrettanto del sito, nel quale fino all’ultimo non siamo riusciti a trovare informazioni circa le masterclass organizzate. L’unica fonte di informazione era un cartello scritto frettolosamente posto accanto al desk. Peccato. Gli assaggi sono iniziati con tre bianchi molto diversi tra loro (si diceva del colore che da solo poco racconta).

LA DEGUSTAZIONE
Trois Rivieres Cuvèe de l’Ocean. Il color blu Tiffany che caratterizza tutta la produzione Trois Rivieres è stato un richiamo irresistibile. 42abv per questo rum AOC Martinique, prodotto da canna da zucchero coltivata vicino all’oceano, che dona freschezza e sapidità.

Grande equilibrio tra note dolci di canna da zucchero e frutti tropicali e più fresche e sapide di agrume, iodio ed erba fresca. Ritroviamo il tutto intatto anche in bocca, in perfetta corrispondenza. Lunghissimo.

Lo stile inconfondibile di una distilleria che non delude mai, tantomeno al Milano Rum Festival 2018.

Elements Eight Platinum. La melassa proviene dalla Guyana, la distillazione avviene in St. Lucia in colonna tradizionale. Blend di 8 rum invecchiati almeno 4 anni in botti ex bourbon viene poi filtrato fino a renderlo quasi bianco e completamente trasparente.

Al naso è fresco, con note agrumate e balsamiche, mentolate e di pino. In bocca è cremoso e piacevole anche se l’alcool spinge un po’ troppo per essere solo a 40abv. Buona la persistenza. La sua vocazione è nei cocktail.

Rum Fire Velvet. Siamo in Jamaica, dove il rum da 40 gradi finisce nei biberon. La distilleria è la storica Hampden, la materia prima la melassa e l’alambicco è discontinuo.

Terzo rum bianco, terzo stile, simile ai due precedenti nel bicchiere, totalmente diverso al naso, dove i suoi 63 gradi si percepiscono a distanza di un paio di spanne.

Le lunghe fermentazioni con presenza di dunder (residui di distillazioni precedenti) conferiscono una grande quantità di esteri, che si traducono in profumi e sapori complessi, pungenti e ricchi.

Frutta tropicale molto matura, spezie (anice), resina, salamoia, barbeque. In bocca stupisce per l’ingresso dolce e sorprendentemente morbido, ma bisogna essere veloci a coglierlo, perché poco dopo i 63 esplodono stordendo per un po’ le povere papille.

Niente paura però, come per il peperoncino occorre solo un po’ di pazienza. Serve che la tempesta si plachi quel tanto che basta per riuscire a riprendere in mano il timone della barca, per tornare a solcare i mari del Milano Rum Festival. Ed è un tripudio! Non è un rum per tutti, ma è un rum che tutti prima o poi dovrebbero assaggiare.

Foursquare 2004 cask strenght. Non poteva mancare una visita alLa (la L maiuscola è voluta, n.d.r.) distilleria di Barbados. La cosa che stupisce ad ogni incontro con la distillleria Foursquare è il perfetto equilibrio tra morbidezza e potenza, tra finezza e gusto.

Ci sono i pirati irsuti e senza paura, i nobili ammiccanti avvolti in sete preziose, e poi c’è Barbados. Per una volta la descrizione inizia dalla bottiglia. L’etichetta è il manuale di come dovrebbe essere. Si legge chiaramente l’anno di messa in botte (2004), l’anno di imbottigliamento (2011), il tipo di distillazione (blend di pot e column) e il legno in cui è stato invecchiato (ex bourbon).

Tutto chiaro e semplice, non serve scomodare Google al Milano Rum Festival per sapere tutto quello che c’è da sapere su questo rum. Ogni bottiglia dovrebbe avere un’etichetta così.

Al naso emerge chiaramente l’impronta di Barbados: frutta disidratata, spezie dolci, fumo e tabacco, vaniglia e caramello, finissimo. L’assaggio rappresenta il manifesto di Richard Seale: morbidezza senza dolcezza. I suoi rum sono sempre deliziosi e godibilissimi (fosse un vino si direbbe “di grande beva”) senza mai cadere nella ruffianeria. Dave Broom, descriveva un altro rum di Foursquare in due parole: “da meditazione”. Definizione azzeccatissima.

Abuelo Centuria. L’approccio ai rum latini, soprattutto dopo essere passati per la Jamaica o Martinica, può essere problematico. Occorre ricordare che il rum può anche essere leggero, esile e suadente.

È il caso del top di gamma della distilleria panamense, non presente nel listino della degustazione, ma che ci è stato comunque offerto in degustazione (grazie mille!).

Blend di rum invecchiati fino a 30 anni facenti parte della riserva di famiglia, è stato prodotto per la prima volta nel 2008 per festeggiare i 100 anni di Casa Varela, sede storica della distilleria.

Di un bel colore ambra con riflessi rossastri e di grande consistenza, alla prima olfazione mi ha stupito.

La tipica morbidezza latina, che spesso sfocia in dolcezza, qui si trasforma in eleganza assoluta. Albicocca, anice stellato, vernice, tabacco, macis, tutto sussurrato, tanto che vorrei ci fosse silenzio attorno.

Col passare dei minuti (a volte capita di voler assaporare ogni istante e di non decidersi a bere) le note eteree si attenuano ed emergono quelle più calde, burrose, e piccanti.

Anche in bocca risulta estremamente fine, coerente, in perfetto equilibrio tra morbidezza cremosa e dolce di miele, e sentori leggermente piccanti e speziati, persino balsamici. Una leggera nota tannica completa il quadro di un rum in abito da sera, che ti resta appiccicato in testa e non se ne va più, senza strafare, senza prepotenza e senza arroganza. Classe pura.

Oliver’s Exquisido Solera Vintage 1985. Ultimo nato in casa Oliver è un Solera di lungo invecchiamento che parte dall’alcool base ottenuto da 5 distillatori differenti ed affinato con un lungo, lunghissimo, processo Solera.

Ne risulta un Rum elegante e complesso. Austero al primo impatto, ce lo si aspetterebbe forse più morbido e “dolcione”, rivela grande armonia ed equilibrio.

Profondo al naso con note di spezie e di legni pregiati. In bocca rivela tutta la sua morbidezza ma anche la sua potenza. Lunga la persistenza. Fra i Single Cask presenti al Milano Rum Festival 2018 segnaliamo due Demerara.

Diamond 2003 e Port Mourant 2005. Il primo, intenso al naso, apre su sentori vegetali e fruttati di uvetta e frutta matura. In bocca è caldo e rotondo ed a fianco alla frutta si percepiscono note di cacao e spezie mentre la nota vegetale tende a ricordare la luppolatura da birra.

Il secondo ha profumi più legati alla frutta tropicale all’eucalipto ed al balsamico. Meno rotondo e più sapido al palato. Entrambi molto persistenti. Due prodotti diversi, ugualmente affascinanti.

Chiudiamo il nostro viaggio con un “fuori zona”. Rum Naga, dall’Indonesia. La canna da zucchero è coltivata sull’isola di Java, durante la lenta fermentazione la melassa viene arricchita dall’aggiunta di lievito di riso rosso giavanese, parte dell’invecchiamento avviene in botti di legno locale.

Un prodotto decisamente “locale”. Colore dorato che introduce un naso esotico. Note di mango, banana matura, spezie dolci e cacao accompagnate da una fondo vegetale di canna da zucchero che ricorda quella di molti agricole. In bocca è morbido e fresco grazie all’alcolicità che, seppur non elevata, si fa sentire.

Servizio a cura di Denis Mazzucato e Giacomo Merlotti

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Il Gallo Nero sfida il tempo: verticale di Chianti Classico Riserva Castello di Monsanto, Il Poggio

Non solo uno dei vini italiani più famosi al mondo, ma anche uno di quelli storicamente più importanti. Troviamo tracce storiche del Chianti già nel XVI secolo, passando poi per la prima definizione dei confini della zona di produzione nel 1716 e attraverso la prima forma di definizione dell’uvaggio, grazie al Barone Bettino Ricasoli nella prima metà del 1800.

Una lunga storia che giunge a noi attraverso la costituzione del consorzio del Gallo Nero nel 1924 e dall’introduzione della specifica “classico” nel 1932, e un disciplinare modificato l’ultima volta nel 2013.

È il tempo, quindi, a consegnarci il Chianti Classico. Ma, all’atto pratico, come si comporta il vino alla sfida col tempo? È stata la sezione di Varese dell’Onav a tentare di dare una risposta. Organizzando una splendida verticale di Chianti Classico Riserva “Il Poggio” di Castello di Monsanto, lo scorso 26 gennaio. Cinque vini, uno per decennio. Per assaporare lo scorrere del tempo.

LA VERTICALE
Riserva Il Poggio 2013. 14,2% per un vino nato in un’annata fresca ed equilibrata. Vinificazione in tonneaux sia di primo che di secondo passaggio, delestage per una estrazione dolce. Uvaggio 90% Sangiovese e 10% Colorino.

Colore rubino non particolarmente inteso, unghia lievemente aranciata. Molto intenso al naso, pulito. Quasi non avvertiamo sentori terziari, ma grandi note fruttate. Ciliegio, viola, una leggera nota terrosa. Solo dopo un po’ avvertiamo un leggero sentore tostato o di legna da camino. In bocca è piacevole con un tannino leggermente aggressivo ed amaricante. Molto fresco grazie alla viva acidità.


Riserva Il Poggio 2006. 14% figli di un’annata altalenante con stagione di raccolta ottimale. 18 mesi in tonneaux.

Più colorato del precedente, più carico, più coprente. Anche al naso è più intenso e regala sensazioni diverse. Marmellata di lamponi, vaniglia, fiori appassiti, marasca. Iniziamo a percepire una maggiore presenza di note terziarie come pepe, chiodi di garofano, cacao, terra. Chiude una nota mentolata.

In bocca il tannino è vivo, deve ancora evolvere. Meno amaro del 2013 il sorso è pulito e chiude con una lunga persistenza.


Riserva Il Poggio 1999. 13,8%. il 40% del vino fa barrique per 8 mesi, 60% botti di slavonia da 50hl. Vent’anni iniziano a farsi sentire e il vino cambia registro. Colore integro, al naso si avvertono subito sentori di rabarbaro e radici ed agrume (chinotto).

I terziari si spendono in note di pepe, terra, ruggine, tamarindo e legni balsamici. Profumi molto diversi rispetto ai due fratelli minori assaggiati in precedenza. All’assaggio è integro, nessuna ossidazione, fresco ed armonico accompagna la persistenza con un retro olfattivo ricco di caffè e marasca.

Riserva Il Poggio 1982. 13,9%. Tre anni e mezzo in botti Slavonia da 50hl. Un’annata che già all’epoca fu considerata “di allungo”, capace di dare vini longevi.

Nobile color aranciato al naso somiglia più al 2006 anche al 1999. Marmellata di frutti rossi, terra, grafite, cacao, caffè, tabacco ed una nota balsamica. Agile in bocca, di buona acidità e tannino vellutato. Persistente. Stupisce per la sua gioventù e per la sua schiettezza.


Riserva Il Poggio 1977. 13,8%. Tre anni e mezzo in botti Slavonia da 50hl. Annata regolare. Colore che tende al bruno. Al naso è difficile e contrastante. Radici, tamarindo, liquirizia, rabarbaro. Una nota dolciastra che può ricordare l’assenzio o il vermuoth ma sempre in contrasto con le note secco/amare.

Pulito, senza “danni”, fa sentire i suoi anni. In bocca è meno integro del precedente ma l’acidità ancora supporta il sorso. Equilibrato ed armonico il tannino ancora “asciuga” la bocca.


CASTELLO DI MONSANTO, “CRU” IL POGGIO

Il Castello di Monsanto risale alla metà del 1700, ma è molto più recentemente che il suo nome diventa iconico nel mondo del Chianti.

Nel 1961 viene acquistato da Aldo Bianchi, incantato dalla vista che si gode dal suo terrazzo, e lo donò al figlio Fabrizio in occasione del suo matrimonio.

Stregato dai vini della tenuta Fabrizio iniziò a dedicarsi ad essi. Nel 1968, in controtendenza con quanto era in uso allora, decise di eliminare le uve a bacca bianca dall’uvaggio.

Il messaggio era chiaro: è il Sangiovese la vera ricchezza di questa terra. Nello stesso anno la scelta di eliminare i raspi per ottenere un vino più complesso ed equilibrato.

Tutto questo applicato alle uve provenienti dal vigneto Il Poggi. 5,5 Ha, il primo “cru” di Chianti Classico.

Vigneto collinare che insiste su galestro, un terreno scistoso argilloso che tende a sfaldarsi naturalmente e che dono al vino i suoi particolarissimi sentori.

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Vino naturale: 160 produttori a VinNatur Villa Favorita 2018

VICENZA – Scalda i calici la quindicesima edizione di Villa Favorita. L’appuntamento, per gli amanti dei vini naturali, è da sabato 14 a lunedì 16 aprile a Villa Da Porto detta “La Favorita” a Monticello di Fara di Sarego, in provincia di Vicenza.

Saranno presenti 160 aziende aderenti a Vinnatur, associazione di viticoltori naturali, provenienti non solo dall’Italia ma anche da Francia, Spagna, Portogallo, Austria, Germania e Slovenia. Per l’esattezza, dieci adesioni in meno rispetto all’edizione 2017.

Si tratta, comunque, di una delle più importanti manifestazioni di vini naturali in Italia per numero di aziende partecipanti, un evento unico nel suo genere perché permette di approfondire la conoscenza dei vini naturali, incontrando e conoscendo i produttori stessi, dai quali sarà possibile anche acquistare i vini in degustazione.

“Dopo l’ultima bella esperienza a Genova in gennaio – dichiara Angiolino Maule, presidente di Vinnatur, qui intervistato in esclusiva da vinialsuper – dove c’è stata un’ottima risposta di pubblico, sia di professionisti sia di amanti del vino, ci prepariamo ora all’evento per noi più significativo, per numero di edizioni e per aziende partecipanti”.

“In questi anni – continua Maule – Villa Favorita è stata testimone della crescita della nostra associazione, segnata da importanti traguardi come l’approvazione del Disciplinare nel luglio 2016, ma anche della presa di coscienza di molti consumatori che si sono avvicinati a noi magari solo per curiosità, ma che hanno imparato in questi anni a conoscere e ad apprezzare il nostro lavoro”.

COS’E’ VINNATUR?
L’associazione VinNatur riunisce viticoltori europei che hanno il comune obiettivo di condividere le tecniche e le esperienze per produrre vino in maniera naturale, sia in vigna che in cantina, e di divulgare la cultura del terroir.

“Nel 2017 – prosegue Maule – siamo arrivati ad avere 190 aziende iscritte all’associazione, per un totale di 1500 ettari di vigna coltivati in modo naturale che producono 6 milioni e 500 mila bottiglie di vino naturale, di cui circa 5 milioni in Italia. Se pensiamo che alla nascita le aziende aderenti erano solo 65 possiamo solo essere fieri del lavoro svolto finora”.

Durante la manifestazione all’interno della villa e nell’area attrezzata nel parco circostante si potranno gustare diverse specialità gastronomiche provenienti da varie parti d’Italia con un’offerta ampliata rispetto all’anno scorso.


Info in breve | VILLA FAVORITA 2018
Data: dal 14 al 16 aprile 2018
Orari di apertura: dalle 10 alle 18
Luogo: Villa da Porto detta “La Favorita”, via Della Favorita – Monticello di Fara, Sarego (Vicenza)
Ingresso: € 25 al giorno (acquistabile solamente all’ingresso dell’evento) comprensivi di guida della manifestazione e calice da degustazione.
I minorenni non pagano l’ingresso e non possono effettuare degustazioni.
Parcheggio: riservato ai visitatori del salone
Per chi arriva in treno: è prevista una navetta dalla stazione di Montebello Vicentino
Area sosta Camper: Camping Park La Fracanzana, Via Fracanzana 3, 36054 Montebello Vic.no (2,1km da Villa Favorita)
Cani: sono ammessi cani di piccola taglia
Info: www.vinnatur.org

L’ELENCO DEI PRODUTTORI A VINNATUR VILLA FAVORITA 2018

Germania Weingut Schmitt
Spagna Priorat Gratavinum
Francia Alsazia Domaine Geschickt
Bordeaux Chateau Pascaud Villefranche
Champagne Champagne Tarlant
Herault Mas Zenitude
Languedoc Domaine de Courbissac
Rhône Eric Texier
Roussillon Domaine Vinci
Italia Abruzzo Ausonia
Fiore Podere San Biagio
Marina Palusci az. Agr.
Rabasco
Tenuta Terraviva
Alto Adige Radoar az. Agr
Reyter
Weingut In Der Eben
Basilicata Musto Carmelitano az. Agr.
Calabria Casale Cinque Camini
Campania Giovanni Iannucci
Il Cancelliere
Masseria Starnali
Podere Veneri Vecchio
Emilia Romagna Cà de noci Az. Agr.
Cà dei Quattro Archi
Casè soc. agricola
Cinque Campi Az. Agr.
Donati Camillo Az. Agr.
Il Farneto soc. agr
Il Maiolo Az. Agr.
Lusenti Az. Agr.
Quarticello Az. Agr.
Storchi Az. Agr.
Podere Cervarola
Friuli Terpin Franco
Lazio Cantina Ribelà
Mario Macciocca Az. Agr.
Podere Orto
Riccardi Reale soc. agr.
Lombardia Cà del Vent
Fattoria Mondo Antico Soc. Agr.
Martilde Az. Agr.
Piccolo Bacco dei Quaroni
Tenuta Belvedere
Vercesi del Castellazo Az. Agr.
Castello di Stefanago Soc. Agr.
Pietro Torti Az. Agr.
Mario Gatta
Marche Il Gelso Moro
Molise Vi.Ni.Ca
Piemonte Andrea Scovero
Borgatta Az. Agr.
Carussin di Bruna Ferro
Cascina ‘Tavijn Az. Agr.
Cascina Roera
Lo Zerbone Az. Agr.
Rocco di Carpeneto
Valli Unite Soc. Coop. Agr.
Barale f.li
Cascina Zerbetta
Forti del Vento
La Morella Az. Agr.
Puglia Cantina Supersanum
Natalino Del Prete
Valentina Passalacqua
Pantun
Tenuta Macchiarola
Sardegna Meigamma soc. agr.
Sicilia BISCARIS Az. Vinicola
Bruno Ferrara Sardo
Etnella Soc. Agr. Presa
Gueli az. Agr
Il Mortellito
Lamoresca di Rizzo Filippo
Marabino
Marco De Bartoli & C SRL
Valdibella C.A.
Vini Scirto
Toscana Casa Raia Az. Agr.
Casale Az. Agr.
Incontri az. Agr.
Pacina Az. Agr.
Podere Casaccia
Podere della Bruciata
Podere Giocoli
Santa10
Tunia Soc. Agr.
Carlo Tanganelli
Castello Poggiarello
La Ginestra
La Torre alle Tolfe sas
Santa Maria Soc. Agr.
Sequerciani
Terre del Ving
Pian del Pino Az. Agr.
Podere Erica
Podere Anima Mundi
La Ranchelle
Tenuta Canto alla Moraia
Trentino Giuliano Micheletti Az. Agr.
Salvetta az. Agr.
Furlani
Umbria Cantina Marco Merli
Carlo Tabarrini, Cantina Margò
Collecapretta
Fattoria Mani di Luna
Fongoli Soc. Agr.
La Piccola Cantina dei Rossi
Piccolo Podere del Ceppaiolo
Tiberi az. Agr.
Vigneti Campanino
Vini Conestabile della Staffa
Veneto Alla Costiera
Ca’ Lustra Az. Agr.
Casa Belfi
Corte Sant’Alda
Davide Spillare Az. Agr.
Elvira Soc. Agr.
Filippi
Il Cavallino di Maule Sauro
Il Moralizzatore
La Biancara Soc. Agr
Marco Sambin Az. Agr.
Masiero Soc. Agr.
Pialli az agr.
Piccinin Daniele Az. Agr.
Portinari Daniele
Tessère
Vigne San Lorenzo – Tamie
VINI DI LUCE di Alessandro Filippi
Del Rebene
Meggiolaro Vini
Santa Colomba
Siemàn
Tenuta Dalle Ore
Il CEO
Davide Vignato
Az. Agr. Stana di Rebuli Renzo
Terre di Pietra
Nevio Scala
Monte Brècale
Slovenia Brda Kmetija Štekar
Carso Rencel
Sežana Stemberger vini
Trenta Ducal az. agr.
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Prontuario delle Langhe: vino, gastronomia e degustazione da Gaja e Cavallotto

Il nome Piemonte deriva dal latino Pedemontium, cioè la regione situata “ai piedi dei monti”. In origine tale nome era limitato a un territorio molto più ristretto dell’attuale, compreso tra il corso superiore del Po e il Sangone.

In seguito si estese sempre più, seguendo le fortune dei Savoia, fino a comprendere il Canavese, il Monferrato, le Langhe, le valli alpine, il Vercellese e il Novarese.

Proprio le Langhe e il suo vitigno principe, il Nebbiolo, sono l’oggetto del nostro wine tour. L’etimo del nome “Langa”, che in piemontese indica proprio la collina, è incerto. L’ipotesi più accreditata è quella di “lanka” con il significato di “conca, avvallamento”.

Le Langhe sono una regione del Piemonte situata a cavallo delle provincie di Cuneo e di Asti, confinante con altre regioni storiche del Piemonte, quali il Monferrato ed il Roero ed è costituita da un esteso sistema collinare delimitato dai fiumi Tanaro, Belbo, Bormida di Millesimo e Bormida di Spigno.

IL NEBBIOLO
L’origine del nome, un tempo scritto “Nebiolo”, pare derivare dal latino “nebia”, probabilmente dovuto al fatto che il periodo di raccolta è quello in cui le prime nebbie iniziano a salire dal fiume Tanaro verso la sommità delle colline.

Un’alternativa a tale ipotesi è collegata alla pruina biancastra che ricopre gli acini: la “pruina”, una cera secreta che produce un rivestimento biancastro sugli acini, concentrando sulla loro superficie i lieviti.

Il termine Nebbiolo apparve per la prima volta nelle Langhe il primo dicembre 1431, ed era riferito ad una varietà di vitis vinifera che qui aveva trovato il suo habitat naturale, e dai cui grappoli si otteneva un vino già allora lodato ed apprezzato.

In tutto il territorio delle Langhe il Nebbiolo viene considerato il re dei vitigni: ad esso vengono riservati i terreni migliori, vale a dire i versanti collinari esposti a mezzogiorno, con altitudine compresa tra i 200 e i 400 m slm.

Si tratta di una varietà molto vigorosa che richiede potatura lunga con 10-12 gemme, il cui bisogno di spazi si accentua grazie alla sterilità delle prime 2-3 gemme, che impediscono un infittimento d’impianto sul singolo filare; a tale scopo è possibile ridurre la distanza tra i filari.

Le Langhe si sono formate durante il Miocene (da 15 a 7 milioni di anni fa), per sedimentazioni successive di rocce prevalentemente terrigene (conglomerati, arenarie, argille).

I terreni delle zone del Barolo e del Barbaresco, formatisi in età Elveziana (era geologica che va da 15,97 a 13,82 milioni di anni fa, e Tortoniana, che va tra 7, 24 e 11,60 milioni di anni fa) sono composti da marne argillo- calcaree sedimentarie intervallati da strati di sabbia più o meno compatta e da arenarie di colore grigio- bruno.

BAROLO E BARBARESCO
I terreni delle zone del Barolo e del Barbaresco si sono venuti a formare in Età Elveziana e Tortoniana e sono prevalentemente composti da marne argillo- calcaree sedimentarie, intercalate in strati di marne più o meno importanti di colore grigio- azzurro (dette Marne di Sant’Agata) e da strati di sabbia o arenarie di colore grigio- bruno e giallastro ( le così dette Arenarie di Diano).

Le Marne di Sant’ Agata che troviamo nei comuni di La Morra e Barolo danno origine a vini eleganti, profumati dalla maturazione un po’ più veloce, mentre le Arenarie di Diano (presenti nelle zone di Castiglione Falletto e in parte in quelle di Monforte) danno origine a vini più alcolici, più robusti e più longevi. Nella zona del Barbaresco predominano le Marne di Sant’Agata di origine tortoniana.

Nell’ambito di una zona completamente caratterizzata dal clima continentale temperato, i dati termici dimostrano che il comprensorio del Barbaresco gode di temperature lievemente superiori, rispetto ai comuni di Barolo con conseguente anticipazione della maturazione delle uve e della vendemmia di circa una settimana.

Nelle Langhe il mese più piovoso è maggio che registra precipitazioni medie vicine ai 100 millimetri, seguito da aprile (circa 80) e settembre (vicino ai 70). È evidente che l’influenza della pioggia può essere notevole sia in fase di fioritura (dove è in grado di determinare riduzioni produttive anche consistenti) sia in fase di raccolta (dove periodi di pioggia prolungata possono comportare problemi di muffe o marciumi).

Più in generale, modificando sensibilmente la qualità del prodotto finale. L’eccesso di pioggia nel periodo pre vendemmiale può, provocare una caduta di acidità non supportata da un incremento di zuccheri. Il Nebbiolo è  senza dubbio un vitigno resistente, la zona è caratterizzata da una luminosità decisamente alta, che garantisce l’ottimale svolgimento della fotosintesi clorofilliana.

Altro fenomeno meteorologico di particolare rilievo è costituito dalla grandine, che può avere conseguenze sia sulla quantità dell’uva:  in annate particolarmente flagellate si può arrivare a riduzioni complessive del 20-30%, con alcune zone in cui l’uva viene completamente rovinata, come è avvenuto nei raccolti del 1986 e del 1995. Per fortuna, la grandine non si avverte mai in modo generalizzato su tutta la zona, limitandosi a qualche fascia collinare.

GASTRONOMIA NELLE LANGHE: GLI ABBINAMENTI CIBO-VINO
“Non di solo pane vive l’uomo”, Matteo 4,4 e Luca 4,4. Ma resistere, in Langa, è quasi impossibile. La cucina piemontese ha sicuramente risentito, nel corso dei secoli della vicinanza di quella francese, ma pur subendone l’influsso, ha conservato una sua inconfondibile fisionomia di schiettezza ed originalità.

Il Piemonte è una regione che offre ai visitatori una vastissima gamma di antipasti caldi e freddi, come i crostini di tartufo d’ Alba, il carpaccio di carne cruda condita con olio extra vergine d’oliva e una spolverata di pepe nero, i salumi crudi e cotti nel cui impasto viene messo spesso del vino nobile maturo come Barolo, Barbaresco, e Barbera d’Alba. Per gli antipasti sarebbe opportuno stappare un buon Barbera.

Tra i primi piatti, i più importanti e ricercati sono gli agnolotti del plin, nome che deriva dal gesto fatto per chiudere la pasta, ripiena in più versioni con carne magra, arrosto o al tartufo.

Da non dimenticare i tajarin al tartufo, pasta fatta in casa con 30 tuorli d’ uovo per chilo di farina, tagliata molto fine, condita con abbondante burro, parmigiano reggiano e sottili scaglie di tartufo. Da abbinare un Barbaresco.

Passando alle pietanze più ricercate dagli amanti della buona cucina, ricordiamo il brasato al Barolo, manzo marinato e stufato lentamente nel vino omonimo da abbinarsi con lo stesso Barolo con cui si è marinata la carne.

GAJA: LA STORIA
La famiglia Gaja si stabilì in Piemonte a metà del diciassettesimo secolo. Cinque generazioni si sono alternate nella produzione di vino da quando Giovanni Gaja, nel 1859, fondò la cantina a Barbaresco, nelle Langhe.

Il bisnonno di Angelo, Giovanni, titolare di una fiorente attività di trasporti che sa far rendere il duro lavoro suo e dei suoi figli, cinque maschi e due femmine. tanto da lasciare in eredità una cascina ad ognuno di loro. Tre dei suoi figli la dilapideranno al gioco.

Fu nonna Tildin, vedova dal 1944, a reggere le redini della cantina che allora  vendeva vino soltanto a privati. Privati illustri, come i Somaini di Milano, gli Zegna, i Nasi: famiglie con lo chef in cucina e la cantina colma di grandi vini francesi, che ordinavano le damigiane di Barbaresco per il consumo “da pasto”.

Il vino si vendeva, dunque, con cadenze tranquille, senza affanni: poteva restare anche dieci anni in vasca, in attesa che arrivassero i compratori. Già da allora, per volere di nonna Tildin si seguiva una politica di rigore di produzione, votata all’alta qualità.

Quando Angelo Gaja entra in azienda, nel 1961, trova una situazione economica invidiabile, un nome già famoso in Italia, oltre a 33 ettari di splendide vigne nell’areale di Barbaresco. Quando nel 1965-66 sente l’esigenza di entrare nella grande ristorazione, ha già a disposizione un’eccellente gamma di vini.

Poi nascono i cru: il primo, Sorì San Lorenzo, è del 1967. Nel 1970 entra in azienda l’enotecnico Rivella; nasce nello stesso anno Sorì Tildin, seguito nel 1978 da Costa Russi. Nel territorio delle Langhe vi sono terreni ed esposizioni dalla vocazione straordinaria, non soltanto atti a produrre grandi vini, da varietà autoctone, ma anche in grado di esprimere vini di qualità superiore anche da varietà non tradizionali, quali: Chardonnay e Sauvignon blanc.

LA DEGUSTAZIONE
1) BARBARESCO 2011 DOCG
Uve: Nebbiolo 100%  Titolo alc. Vol. 14,5%. Barrique e botte grande. Prezzo: 135 euro
Nel calice si presenta di colore rosso rubino, i suoi profumi sono di note scure, eleganti e profondi. Si percepiscono nettamente sentori di humus, funghi, sottobosco, foglie, in successione si presentano note fruttate di giuggiole, e note floreali di violetta oltre ad una leggera volatile.

Alla gustativa non delude rispecchiando alla perfezione tutto ciò che si è percepito all’olfattiva: il tannino è presente, ma non invadente, la freschezza e l’acidità si sorreggono e spalleggiano formando in degustazione  due binari paralleli e ben distinti.

2) SORI’ SAN LORENZO 2011 LANGHE NEBBIOLO DOC
Uve: Nebbiolo 95% Barbera 5%  Titolo alc. Vol 14,5% Barrique e botte grande. Prezzo: 300 euro
Granato non impenetrabile. Forte presenza di note scure di humus foglia di tabacco, legno di cedro; in seconda battuta sentori di erbe aromatiche. Le componenti olfattive sono di notevole spessore ed eleganza.

Anche all’assaggio a farla da padrona sono queste note scure: sapido e piacevolmente tannico, chiude con un finale di bocca pulito.

3) SORI’ SAN LORENZO 2004 LANGHE NEBBIOLO DOC
Uve: Nebbiolo 95% Barbera 5%  Titolo alc. Vol 14,5% Barrique e botte grande. Prezzo: 220 euro
Granato luminoso. Impianto olfattivo molto generoso e complesso con note di arancia rossa, bouquet salino-salmastro con sentori di conchiglia, salamoia. Alla gustativa vi è una buona interazione tra parte acida, sapidità e tannino. La parte acida si percepisce in maniere preponderante sorreggendo l’intero vino.

4) GAYA&REY 1993 MAGNUM
Uve: Chardonnay 100%  Titolo alc.Vol 13,5% Botte grande.
Colore oro-verde brillante. Naso burroso, fumè, minerale con sentori riconoscibili nella frutta secca, frutta esotica, canna di fucile. Alla gustativa si percepisce una buona tridimensionalità, con freschezza centrale che racchiude una buona morbidezza e sapidità con una nota lunga burrosa in chiusura.

CANTINA CAVALLOTTO, TENUTA VITIVINICOLA BRICCO BOSCHIS
La Tenuta Cavallotto si trova alle porte di Castiglione Falletto, nel cuore della zona del Barolo, sul Bricco Boschis, ed occupa una superficie di 23 ettari vitati.

I Cavallotto sono proprietari e produttori da generazioni: Giacomo ed i figli Giuseppe e Marcello acquistano nel 1928 la tenuta Bricco Boschis ed insieme continuarono a lavorare come viticoltori nei vigneti attorno alla cantina.

A quel tempo, gran parte delle uve era venduta alle cantine commerciali e solo una parte di essa vinificata nella proprietà per la vendita in bottiglia e in damigiana.

Nel 1944, Giuseppe e i figli Olivio e Gildo decisero di vinificare interamente le uve prodotte e nel 1948 nacque, ufficialmente, la Cantina Cavallotto con la commercializzazione delle proprie bottiglie etichettate. Ad oggi i figli di Olivio, Laura e i fratelli Giuseppe ed Alfio, entrambi enologi continuano a vinificare esclusivamente le uve prodotte nella tenuta e da loro dipende l’impostazione tecnica dell’azienda e la produzione dei vini.

Il pregio di questi vini deriva da un’interessante combinazione di svariati fenomeni: l’uomo con il suo attaccamento alla terra e a una civiltà contadina che dalla terra ha tratto le sue origini più remote; la lunga esperienza sul vino maturata negli anni; gli sviluppi costanti e la crescita della tecnica enologica e agronomica; e soprattutto, le condizioni pedoclimatiche di cui gode questa zona di Langa.

LA DEGUSTAZIONE
1) BARBERA D’ALBA SUPERIORE 2011 Vigna del Cuculo
Uve: Barbera 100%  Titolo alc. Vol. 14,5% Maturazioni in botte di Slavonia per 2 anni. Prezzo: 24 euro
Rosso granato. Al naso si percepisce nettamente un frutto croccante molto accentuato (ciliegia, fragola, marasca), ma anche sentori di terziarizzazione quali cuoio, pellame, spezie dolci (ginepro). Alla gustativa si percepisce un tannino lieve e vellutato ed una marcata acidità. Un vino di gran classe.

LANGHE NEBBIOLO 2011
Uve: Nebbiolo 100%  Titolo alc Vol. 14,5%  Botte grande per 18 mesi. Prezzo:17 euro
Colore granato. All’olfattiva si percepiscono sentori scuri e che escono con difficoltà dopo una lunga areazione nel bicchiere, di china, spezie, liquirizia, frutti maturi di prugna, ciliegia, pera. Alla gustativa si percepisce un calore leggermente cadente sull’acidità. Sfuma con  erbe mediterranee. Lascia in bocca una sensazione alcolica troppo presente.

BAROLO RISERVA VIGNOLO 2008
Uve: Nebbiolo 100%  Titolo alc. Vol. 14,5%. Quattro anni in grandi botti di rovere di Slavonia da 50 hl. Prezzo: 75 euro
Rosso granato. Bouquet fruttato floreale si percepiscono note delicate e gradevoli di rosa, miele, prugna matura, giuggiole. Al gusto è “monocorde” esclusivamente fruttato con un tannino presente, ma levigato e piacevole. Uno splendido vino, un Barolo di assoluto riferimento.

CONCLUSIONI
Il 22 giugno 2014 durante la trentottesima sessione di comitato Unesco a Doha, le Langhe sono state ufficialmente incluse, insieme a Roero e Monferrato nella lista dei beni Patrimonio Mondiale dell’Unesco.

Svegliandosi a La Morra, spostando le tende oscuranti per far entrare la luce del giorno, ti si palesa davanti uno spettacolo mozzafiato, con vigneti a perdita d’occhio. Ricoperti da una nebbia fitta, ma sottile.ù

A rendere emozionante questa visuale è stata proprio la nebbia. Nebbia che nei giorni successivi riesce a farsi odiare, restandoti incollata addosso. Un po’ come il sole delle Puglie, che ti entra nelle ossa, ma con effetti differenti.

Che il Barolo sia il re dei vini è ormai noto a tutti. Ma quello che non sanno tutti è che anche la cucina langarola non è da meno. E si sposa magnificamente con un qualsiasi vino ottenuto da Nebbiolo. Che sia Barolo, Barbaresco, giovane o invecchiato.

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I vini naturali esistono. Parola di Angiolino Maule

Millenovecentottantotto, duemiladiciotto. Trent’anni di sacrifici e battaglie. Trent’anni di strade in salita, costellate da pozzanghere e buche grosse come crateri. Di quelle capaci di trasformarti da solista a capo del coro. Oppure da sognatore a fallito.

Chi dice che i vini naturali non esistono, forse, semplicemente, non hai mai incontrato in vita sua Angiolino Maule. Uno capace di metamorfosi kafkiane. Pazzo scatenato e ignorante (per molti) negli anni Novanta. Oggi, definitivamente, un pioniere.

Un “estremista”, fino a ieri. Poi diventato un “equilibrato del naturale” (parole sue). Eppure Maule non è cambiato mai. Qualche capello bianco in più, certo. Qualche ruga sul volto, dovuta ai troppi vaffanculi sottaciuti da un carattere pacato e meditativo, più che agli anni sul groppone. Roba rara da trovare tra i veneti.

Mentre l’Italia lo prendeva per scemo, Angiolino Maule e la moglie Rosamaria, sul finire degli anni Novanta, cominciavano a raccogliere i primi successi della loro azienda agricola: La Biancara di Montebello Vicentino.

Oggi Maule è presidente di VinNatur, l’Associazione Vini Naturali da lui fondata nel 2006, che dal luglio 2016 ha stilato un vero e proprio disciplinare per i propri associati (scaricabile integralmente qui).

Non sono troll le migliaia di visitatori che ogni anno, tra Genova e Vicenza, affollano gli stand degli oltre 170 produttori di vini naturali (italiani ma non solo, alcuni dei quali mappati da Decanter) che si riconoscono nei principi dell’associazione. E non è un troll neppure Angiolino Maule, che concede a vinialsuper questa intervista in esclusiva.

Che cos’è il vino naturale?
E’ il vino prodotto senza utilizzo di prodotti di sintesi, né in vigna né in cantina. E con il minor impatto possibile sull’ecosistema

Quali sono gli strumenti a garanzia del consumatore, circa l’effettiva “naturalità” del vino? Quali strumenti ha messo in campo, in questo senso, VinNatur?
VinNatur da 10 anni effettua analisi a tutti gli associati su residui di pesticidi e solforosa totale all’interno dei vini. I produttori che hanno vini con residui e con livelli di anidride solforosa superiori ai 50 mg/l vengono allontanati dall’associazione in un percorso di due anni al massimo.

Ora abbiamo sviluppato anche un disciplinare interno e ci stiamo attrezzando per farlo rispettare in ogni sua parte, tramite controlli alle aziende associate che saranno eseguiti da enti certificatori esterni. Per quanto riguarda altri vini naturali non sono a conoscenza delle eventuali garanzie.

Quante bottiglie produce all’anno il “vigneto naturale” italiano? Su quanti ettari?
Proprio per il fatto che non esiste una normativa è difficile stabilirlo. VinNatur in Italia “produce” nel suo insieme circa 5 milioni di bottiglie suddivise su 150 produttori, che in media posseggono 10 ettari vitati.

In Italia, lei è un precursore dei vini naturali: come ha visto evolversi il mercato, in Italia e all’estero?
Per quanto riguarda la mia azienda, fino al 2010 lavoravo prevalentemente all’estero, dove tutt’ora ci sono ottime prospettive anche per aziende piccole o sconosciute. Oggi vedo anche in Italia una bella evoluzione.

Si è passati dal parlarne tanto con pochi consumi, al parlarne e fare economia. Vedo sempre più ristoranti di alto livello proporre vini naturali anche non blasonati e questo mi rende felice.

Esistono vini naturali del tutto privi di quelli che, in una degustazione professionale, sarebbero considerati difetti? Direi proprio di si!

In percentuale, quanti vini naturali “difettati” riscontra ogni 10 assaggi? E in passato?
Potrei dire 1 su 10, mentre in passato erano sicuramente di più.

Spesso la critica che viene mossa ai produttori di vini naturali è che facciano passare per “pregi” i difetti del vino: cosa risponde?
Purtroppo ci sono ancora colleghi che la pensano così e quindi la critica è più che giusta. I difetti nascondono il vero terroir e la vera espressività del vino, non dobbiamo mai dimenticarlo. Io e molti altri che hanno l’umiltà delle proprie azioni abbiamo sempre ammesso i nostri errori.

Per primi ce ne scusiamo e ci impegniamo ad affrontarli e capire come non ripeterli. Quando presento i miei vini sono il primo a dire “buono, però ora che lo assaggio, lo avrei fatto diversamente e forse migliore!”.

I vini naturali attirano sempre più l’interesse del pubblico, ma sembrano destinati a restare comunque un fenomeno di nicchia, per pochi eletti: perché? Pensa che qualcuno sbagli a comunicarli? Qual è, secondo lei, il modo migliore per avvicinare al mondo dei naturali chi non li conosce?
Non credo rimarranno fenomeni di nicchia. Già il Bio sta arrivando alle grandi cooperative vinicole più intraprendenti. Il “naturale” si sta allargando lentamente ma ritengo sia meglio così! Dobbiamo presentarci con umiltà, dicendo quello che facciamo, senza denigrare l’altro.

Sottolineare le differenze tra naturali e convenzionali come ha fatto di recente Live Wine è positivo, oppure ostacola il graduale avvicinamento dei due “mondi”?
L’idea del confronto tra diversi approcci non è nuova, è un’idea già utilizzata in passato da altri. Ad una prima vista è fuorviante e per questo non mi è mai piaciuta particolarmente.

Lei beve vini “convenzionali” / “biologici”?
Raramente bevo convenzionali e non mi voglio esprimere. Troppi “biologici / tradizionali” che mi capita di bere hanno un gusto per me simile al convenzionale, quindi senza personalità. Credo sia un vero peccato.

Gli additivi presenti nel “vino convenzionale/biologico/biodinamico” possono essere considerati pericolosi per la salute?
Ad eccezione di solforosa in eccesso e pesticidi (soprattutto se ci sono più principi attivi) gli altri non sono pericolosi.

Qual è il prezzo di un vino naturale?
Dipende dalla qualità. Ci sono vini naturali entry level da 10 euro, ma anche top di gamma da 100 euro in enoteca.

Cosa risponde a chi, provocatoriamente, sostiene che i vini naturali “non esistono”?
Siamo costantemente “sotto l’attacco” di esperti ed enologi che sostengono l’inesistenza del vino naturale e l’inadeguatezza di questa definizione. Siamo anche circondati da altri enologi e studiosi che ci danno una mano o che ci osservano con curiosità e voglia di confronto. Per questo vado avanti per la mia strada senza guardare ad inutili polemiche. Ormai è una parola di uso comune, se ne faranno una ragione spero.

Qualche anticipazione sulla prossima edizione di VinNatur a Villa Favorita
Verrà dato più spazio agli importatori e ai giornalisti dall’estero che vogliono scoprire le nuove aziende associate. Sarà inoltre strutturata un’area food più efficiente e con produttori di alto livello.

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Agricoltura bio in UE: avanzata da record

Con un’avanzata da 400mila ettari l’anno e con un incremento di superfici dedicate all’agricoltura bio del 18,7%, il settore più dinamico dell’agricoltura europea è quello biologico. I dati rilevati da Eurostat fotografano un settore che, dal 2012 al 2016, è in costante crescita con risultati da record relativi all’incremento delle superifici coltivate e al sempre più consistente numero di produttori che decidono di lasciare l’agricoltura tradizionale per abbracciare il metodo biologico.

I DATI DEL BIO
11,9 milioni di ettari certificati bio o in via conversione pari al 6,7% della superficie agricola totale utilizzata (Sau)  sono gestiti da 295.600 produttori biologici registrati, che operano in un solido mercato comunitario dal valore di 27 miliardi di euro: il 125% in più rispetto a 10 anni fa.  Un settore florido che ha trovato nell’Italia uno dei Paesi più ricettivi ad accogliere le innovazioni del biologico. Il Bel Paese si posiziona ai primi posti della classifica europea per le maggiori estensioni coltivate, il maggior numero di produttori e per la quota più elevata di aree a biologico sul totale delle superfici coltivate.

Secondo le elaborazioni effettuate dal Sinab, il comparto biologico italiano ha mostrato una crescita senza precedenti: dal 2015 al 2016 le superfici e gli operatori bio sono aumentati del 20% arrivando a coprire 1,8 milioni di ettari e circa il 14,5% della superficie agricola utilizzata, mentre si registrano oltre 70mila aziende bio, vale a dire il 4,4% del totale nazionale. Una crescita che trova la sua giustificazione nei risultati di mercato: nel 2016 le vendite dei prodotti
biologici hanno toccato quota 3 miliardi di euro, registrando dal 2015 un +14% sul mercato interno e un +15% sul mercato esterno, con un aumento dell’export per circa 2 miliardi di euro.

UN’ALTERNATIVA SOSTENIBILE
L’Unione Europea riconosce il valore dell’agricoltura biologica come alternativa per un modello agricolo comunitario più sostenibile e competitivo e lo fa attraverso fondi specifici previsti nei programmi di sviluppo e nuove regole su produzione e commercializzazione dei prodotti bio.
Queste novità si pongono l’obiettivo di garantire ai prodotti importati gli stessi standard di qualità di quelli europei, di ridurre i costi per le piccole aziende attraverso l’introduzione di certificazioni di gruppo e, infine, di estendere i controlli a tutta la filiera riducendone la frequenza ai produttori che si sono dimostrati in regola dopo diverse ispezioni.

“A questi dati eclatanti della crescita delle superfici coltivate a biologico in UE va aggiunto il fatto che il biologico è l’unico settore che sta contrastando la perdita di occupazione e imprese nell’agricoltura europea, dunque è necessario che la discussione in corso sulla riforma della politica agricola comune (PAC) tenga conto del ruolo strategico della conversione al biologico per l’agricoltura e i territori rurali di tutta Europa” ha commentato Paolo Carnemolla, presidente di FederBio.

FEDERBIO
Federazione di rilevanza nazionale nata nel 1992, per iniziativa di organizzazioni di tutta la filiera dell’agricoltura biologica e biodinamica, ha l’obiettivo di tutelarne e favorirne lo sviluppo. FederBio è riconosciuta quale rappresentanza istituzionale di settore nell’ambito di tavoli nazionali e regionali. È socia di IFOAM e ACCREDIA, l’ente italiano per l’accreditamento degli Organismi di certificazione. Attraverso le organizzazioni attualmente associate, FederBio raggruppa la quasi totalità della rappresentanza del settore biologico, in cui si riconoscono le principali realtà attive in Italia nei settori della produzione, trasformazione, distribuzione, certificazione, normazione e tutela degli interessi degli operatori e dei tecnici bio.

La Federazione è strutturata in sezioni soci tematiche e professionali: produttori, organismi di certificazione, trasformatori e distributori, operatori dei servizi e tecnici, associazioni culturali. FederBio è dunque un’entità multiprofessionale, tesa a migliorare e ad estendere la qualità e la
quantità del prodotto alimentare ottenuto con tecniche di agricoltura biologica e biodinamica, attraverso regole deontologiche e professionali, in linea con le norme cogenti e con le direttive IFOAM. In particolare, FederBio intende garantire la rigorosità e la correttezza dei comportamenti degli associati, vincolati in questo senso da un Codice Etico e si preoccupa di verificare l’applicazione degli standard comuni.

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Grappa del Trentino: l’unica territoriale

TRENTO – La Grappa del Trentino è l’unica in Italia e nel mondo ad avere l’Indicazione geografica territoriale.

Una realtà, ormai da due anni a livello europeo, ma anche un risultato importante raggiunto dall’intero sistema produttivo che dagli anni Sessanta si è dotato in maniera autonoma (primo in Italia), di un sistema di controlli rigidi al fine di garantire il consumatore da un lato e la qualità del prodotto dall’altro.

“L’indicazione geografica Trentino rappresenta per noi il segno di distinzione a livello internazionale da tutte le altre grappe prodotte in Italia – spiega il Presidente dell’Istituto Tutela Grappa del Trentino, Beppe Bertagnolli (nella foto) – ed è il frutto di anni di concertazioni prima nei tavoli provinciali, poi in sede ministeriale, il tutto per garantire standard produttivi di altissimo livello sia per i mercati, ma soprattutto per venire incontro al benessere del consumatore”.

IL DISCIPLINARE DI PRODUZIONE
Rispetto al disciplinare della grappa generica, quello del Trentino è da sempre stato più rigido. Oggi, a maggior ragione, continua ad esserlo sulle carte europee.

A partire dalla zona di produzione, che è identificata in quella della Provincia autonoma di Trento e dai tempi di distillazione fissati entro e non oltre il 31 dicembre dell’anno della raccolta delle vinacce (in genere entro novembre le distillerie vengono chiuse) mentre a livello nazionale non è imposto il limite.

Nella preparazione della Grappa del Trentino IG o Grappa Trentina IG è consentita l’aggiunta di zuccheri, nel limite massimo di 20 grammi per litro, espressi in zucchero invertito. La Grappa del Trentino IG o Grappa Trentina IG può essere sottoposta a invecchiamento in botti, tini e altri recipienti di legno.

Nella presentazione e nella promozione è consentito l’uso dei termini Vecchia o Invecchiata per la grappa sottoposta a invecchiamento in recipienti di legno non verniciati né rivestiti, per un periodo non inferiore a 12 mesi in regime di sorveglianza fiscale, in impianti ubicati nel Trentino. I termini Riserva o Stravecchia sono consentiti per la grappa invecchiata almeno 18 mesi.

IL MARCHIO DEL TRIDENTE: QUALITA’ E SICUREZZA
E’ il marchio che contraddistingue la Grappa del Trentino IG, una sorta di sigillo sotto forma di “fascetta” identificativa. Viene apposto su tutte le bottiglie di Grappa del Trentino a garanzia della qualità e della salubrità indiscusse del prodotto finale.

Una commissione composta da tecnici e assaggiatori specializzati si riunisce periodicamente per esaminare i singoli campioni di grappa e solo dopo analisi chimiche e degustative quel prodotto potrà essere immesso nel commercio con il marchio di tutela, una fascetta contrassegnata da un numero di serie che è poi il percorso della tracciabilità del prodotto finale.

IL SETTORE GRAPPA
Quello della grappa in Trentino è un settore di non piccolo conto, soprattutto se calato nell’economia locale. Ogni anno vengono prodotti in Trentino circa diecimila ettanidri (100 litri) di grappa (circa il 10% del totale nazionale) vale a dire circa 4 milioni di bottiglie equivalenti (da 70 centilitri) distillando quindicimila tonnellate di vinaccia.

Tre le tipologie principali di grappa prodotta: quella da uve aromatiche (40% del totale), quella destinata all’invecchiamento (circa il 35%) e quella da vinacce miste (circa il 25% della produzione). Il fatturato medio annuo che la grappa genera in Trentino è calcolato intorno ai quindici milioni di euro per l’imbottigliato e due milioni di euro per quanto riguarda la materia prima.

L’ISTITUTO DI TUTELA GRAPPA DEL TRENTINO
Nato nel 1960 con l’obiettivo di tutelare e promuovere il prodotto oggi conta ventinove soci dei quali ventuno sono distillatori e rappresentano la quasi totalità della produzione trentina. Ha il compito di valorizzare la produzione tipica della grappa ottenuta esclusivamente da vinacce prodotte in Trentino e di qualificarla con un apposito marchio d’origine: il tridente con la scritta “Trentino Grappa”.

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Vino italiano: presentata nuova edizione “Vino in cifre”

“Soddisfacenti, ma non vincenti. Definirei così i numeri del vino italiano di questo 2017, fotografati da “Vino in Cifre 2018″, l’annuario del Corriere Vinicolo, edito da Unione Italiana Vini in partnership con l’Osservatorio del Vino. I dati ci consegnano un anno complesso per il settore che ha ritrovato un’ottima spinta nel mercato interno, con la ripresa dei consumi confermata durante le festività natalizie, ma ha sofferto in competitività sul fronte export, dove siamo stati rallentati da un sistema burocratico e amministrativo che ha causato la nostra perdita di leadership in Usa. Il 2018 rappresenta quindi una nuova sfida, che siamo pronti ad accogliere per un nuovo salto di qualità del nostro comparto”.

Con queste parole Ernesto Abbona, presidente di Unione Italiana Vini, commenta i numeri del settore vitivinicolo nazionale, fotografati dai dati statistici elaborati dal Corriere Vinicolo nell’ottava edizione dell’annuario “Vino in Cifre”. Nelle 72 pagine di tabelle, grafici ed elaborazioni esclusive, viene presentata l’evoluzione del settore vitivinicolo a livello mondiale, europeo e italiano: dal potenziale produttivo ai consumi, dal commercio ai prezzi e, novità quest’anno, la sezione “Vino in Cifre Bio”, dedicata al segmento dei vini biologici.

“Se la scarsa produzione del 2017 sta facendo sentire i suoi effetti sul fronte prezzi, con ripercussioni potenzialmente negative sui mercati internazionali – aggiunge Paolo Castelletti, segretario generale UIV – il settore sta però assistendo ad un risveglio della fase produttiva, con richieste di nuovi impianti che stanno contribuendo a compensare l’erosione strutturale delle superfici. Infatti, pur con un sistema autorizzativo che ha mostrato diverse problematiche nei primi anni di applicazione, abbiamo finalmente un “vigneto Italia” che si sta stabilizzando attorno ai 640.000 ettari. Un dato che ci fa ben sperare per il futuro, soprattutto se i correttivi che abbiamo richiesto al Ministero saranno implementati nel bando 2018, consentendo alle imprese di ottenere le superfici necessarie a realizzare i propri progetti”.

“La messa in sicurezza del potenziale in vigna va però difesa puntando su una migliore qualità delle nostre vendite – precisa Ernesto Abbona. Se possiamo, infatti, dirci soddisfatti delle prestazioni del comparto spumanti – a settembre in Gran Bretagna abbiamo per la prima volta superato i francesi anche in termini valoriali, a quota 179 milioni di sterline (+24%) – e delle prestazioni dei vini in bottiglia italiani in Cina e in Russia, c’è molto invece da fare per tornare ad essere leader in mercati strategici come gli Usa, dove stiamo patendo il ritorno dei vini francesi e il successo di quelli neozelandesi. E’ quindi importante – conclude il presidente Abbona – tornare ad investire come Sistema Paese sul vino italiano, avendo il supporto delle Istituzioni in una logica di sinergia, e a riflettere come filiera unita, attuando strategie di lungo termine che valorizzino tutti i soggetti coinvolti”.

VINO IN CIFRE 2018. NUMERI IN PILLOLE
Il consumo di vino nel mondo: 281 milioni di ettolitri su un totale alcolici di 2,5 miliardi (11%)
Il primo Paese per consumi di rosso: La Cina (16 milioni di ettolitri)
Il primo Paese per consumi di bianco: Gli Usa (13 milioni di ettolitri)
Il primo Paese per consumi di spumanti: La Germania (3 milioni di ettolitri)
Primo esportatore a valore di spumanti: Francia (3,2 miliardi di dollari). Ma l’Italia è quella con i tassi di crescita più alti: +13%
Il primo fornitore di vino in bottiglia nell’UE: Il Cile (1,6 milioni di hl)
La regione più vitata in Italia. Sicilia: 99.000 ettari su un totale di 646.000
La regione che è cresciuta di più negli ultimi 15 anni. Veneto: 87.000 ettari (+13.200)
La superficie del vigneto biologico in Italia:104.000 ettari, il 16% sul totale, di cui 39.000 in Sicilia.
La varietà più prodotta nel 2017: Glera (19 milioni di barbatelle)
Numero di bottiglie di vino Dop prodotte nel 2016: 1,1 miliardi
La Dop più imbottigliata in assoluto: Prosecco Doc (410 milioni di bottiglie nel 2016)
Il peso delle prime 5 Dop sul totale imbottigliato a denominazione di origine: 44% (Prosecco Doc, Chianti,Montepulciano d’Abruzzo, Prosecco Superiore CV, Asti/Moscato)
Prime 5 destinazioni vini fermi bottiglia italiani: Usa, Germania, UK, Canada, Svizzera
Prime 5 destinazioni spumanti: UK, Usa, Germania, Svizzera, Francia
Prime 5 destinazioni frizzanti: Germania, Usa, Austria, Messico, UK
Prime 3 destinazioni vini bag-in- box: Svezia, Norvegia, UK
La quota valore del Prosecco sull’export Italia: 60% su totale spumanti, 13% su totale export Paese (dato settembre 2017, 550 milioni di euro)
Primo fornitore di vini in bottiglia e spumanti in Italia: Francia. Prezzo medio 21 euro/litro spumante, 4,90 vini in bottiglia
Primo fornitore di vino sfuso in Italia: Spagna. Prezzo medio 0,39 euro/litro
Il consumo pro capite di vino in Italia: 36 litri (31 la birra)
Quota dei consumatori di vino sul totale popolazione: 52% (28 milioni di persone)
Consumatori quotidiani: 13 milioni contro 15 di saltuari
Spesa annua in vino delle famiglie italiane: 4 miliardi di euro

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Nero di Troia Nature Rosè, Mille Ceppi e Parco Marano: assaggi di Puglia

Pensi alla Puglia del vino e si materializzano Primitivo e Negroamaro. In realtà, nel Tacco d’Italia, c’è un altro vitigno che merita grande attenzione: il Nero di Troia. Ne abbiamo assaggiati tre, in vendita in enoteca.

Lo spumante metodo classico Brut Nature Rosè 2013 di Alberto Longo, il Puglia Igt 2014 “Mille Ceppi” di Michele Biancardi e il Castel del Monte Doc 2014 “Parco Marano” di Giancarlo Ceci.

Autoctono pugliese, il Nero di Troia deve il suo nome alla cospicua presenza di polifenoli, composti che determinano il colore del vino. Talmente presenti da colorare di “nero” il vino ottenuto dall’uva di Troia. Tante, però, le differenze nei tre assaggi. Ecco i dettagli.

Spumante metodo classico Brut Nature Rosè 2013, Alberto Longo
Il colore invitante è il primo elemento che colpisce chi si accinge alla degustazione di questo spumante. Un rosa intenso, luminoso, spezzato come un fulmine da un perlage fine e persistente. Un ricordo tutt’altro che malinconico della vividezza cromatica dell’Uva di Troia.

Al naso, immediata la croccantezza del ribes, del melograno e della ciliegia. Sentori che ritroviamo anche in un palato fin da subito gustoso, tattile. Sembra di masticarla quella frutta, che s’impreziosisce nel finale di percezioni minerali, iodiche.

Il risultato è il perfetto equilibrio in uno spumante dal sorso mai troppo morbido o troppo acido. Il Rosè del compromesso. Quello che in pochi, in Puglia, sanno fare così bene. Un Bru Nature dritto, conciso, autentico. Bravo Longo, vero e proprio vanto enologico della città di Lucera (Foggia).

Nero di Troia Puglia Igt 2014 “Mille Ceppi”, Michele Biancardi
Ci spostiamo più a sud, a Cerignola. Restiamo dunque in Daunia. Il produttore consiglia un consumo precoce di questa etichetta: “Berla subito”. Noi arriviamo tardi (vendemmia 2014). E sarà forse per questo che “Mille Ceppi” non ci entusiasma appieno.

Intendiamoci: nessun difetto, il vino ha retto benissimo la guerra col tempo, è perfetto, privo di qualsivoglia difetto. Michele Biancardi lo produce da una selezione accurata dei migliori ceppi del suo Nero di Troia, affinati 8 mesi in anfore di terracotta.

L’effetto ricercato non è quello delle ossidazioni alla “georgiana”, anzi. Biancardi punta tutto sulla freschezza del “frutto”, tipica del vitigno.

L’anfora serve dunque a non snaturare il vino e a favorire una perfetta elevazione del varietale. Di fatto, a quattro anni dalla vendemmia, è “solo” il frutto che resta.

Oltre a una percezione zuccherina degna dei vini “commerciali”. Un prodotto che, certo, accontenta appieno chi cerca palati “morbidi” e facilità di beva. Ma bisogna poterselo permettere (costo attorno ai 20 euro).

Castel del Monte Doc 2014 “Parco Marano”, Giancarlo Ceci
Cambiamo provincia, rotta verso Sud. Ci fermiamo ad Andria, più esattamente in Contrada Sant’Agostino, per il racconto del Nero di Troia di Giancarlo Ceci.

Piccola premessa: questa cantina, all’ottava generazione, ci ha già convinto ampiamente al Merano Wine Festival 2017 (pur non risultando tra i migliori assaggi assoluti).

L’azienda di Giancarlo Ceci è Agrinatura e opera in regime biologico dal 1988. Nel 2011 il grande passo verso il biodinamico. Braccio destro di Ceci è l’affermato enologo Lorenzo Landi.

“Parco Marano”, a differenza dei precedenti, compie un passaggio in barrique di rovere francese (14 mesi), prima di un ulteriore affinamento in acciaio e in bottiglia. Il risultato è un Nero di Troia complesso ma sottile.

Il legno, utilizzato in maniera magistrale, non “uccide” il varietale. Anzi. Al naso si esaltano i sentori “terrosi” che costituiscono il fil rouge dell’intera produzione di Giancarlo Ceci. Un altro “vino vero” questo “Parco Marano”, frutto di una Puglia che ha tantissimo da dare all’enologia italiana. Anche in genuina purezza.

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Enoturismo: approvato il primo quadro normativo

L’enoturismo conquista il suo primo storico quadro normativo dopo 25 anni di attività grazie all’approvazione della manovra di bilancio in Senato. Il settore che ad oggi genera un indotto turistico di quasi 3 miliardi di euro l’anno potrà finalmente attuare un ulteriore cambio di marcia a favore dei territori rurali e del vigneto Italia.

IL TESTO IN BREVE
Il capitolo “enoturismo” prevede la possibilità di fatturare degustazioni, visite in cantina, pacchetti enoturistici e vendemmie esperienziali equiparando la disciplina fiscale di queste pratiche a quella delle attività agrituristiche per gli imprenditori agricoli.  Una rampa di lancio, la più avanzata in Europa,  fondamentale per il futuro del comparto che andrà meglio definita attraverso le relative modalità attuative e con l’iter parlamentare del ddl Stefàno che aggiungerà altri elementi a quelli già approvati come la certificazione e la formazione degli operatori enoturistici, la cartellonistica stradale e la creazione di un osservatorio sull’enoturismo.

LE REAZIONI DELLA FILIERA
“Abbiamo ottenuto il riconoscimento giuridico e normativo di un’attività strategica della vitivinicoltura italiana che ha dato e continuerà a dare grandi opportunità ai produttori e per lo sviluppo socio-economico dei territori. Confido anche che si possa costituire a breve un tavolo di lavoro che coinvolga tutti i soggetti in grado di dare un contributo costruttivo alla definizione dei decreti attuativi previsti dalla norma. Un particolare ringraziamento – ha concluso – va al senatore Stefàno, al ministro Martina, allo staff del Mipaaf” ha dichiarato il Presidente dell’Unione Italiana Vini (Uiv), Ernesto Abbona.

“Che l’enoturismo sia un complesso di attività riconosciuto dalla legge italiana è un grande passo, il coronamento di 25 anni di attività del nostro Movimento e di questo dobbiamo ringraziare in primis il senatore Stefàno che ha investito tempo e lavoro, e che ci ha ascoltato, così come ha fatto il Mipaaf nella definizione di alcuni aspetti della norma. Da oggi l’enoturismo è adulto e si apre un nuovo grande lavoro da fare coinvolgendo il più possibile tutta la filiera per i decreti attuativi, per spiegare alle cantine come utilizzare questa grande leva in ottica di sviluppo in favore dei nostri territori vitivinicoli”, parole del presidente del Movimento turismo del vino (Mtv), Carlo Pietrasanta.

Grande soddisfazione per il Presidente di Città del vino Floriano Zambon che si è così espresso: “Siamo soddisfatti per la nascita di una normativa che presenta molti pregi e che l’associazione ha sostenuto. L’enoturismo, come patrimonio territoriale, qualità del servizio e accessibilità, permette infatti al comparto di coltivare una visione ampia e condivisa in termini economici, di occupazione, di capacità di restituire un’immagine positiva dei nostri territori. Ora l’auspicio è che si arrivi in tempi brevi alle norme attuative e quindi alle competenze specifiche, oltre ovviamente alla definizione delle capacità applicative. Non possiamo che ringraziare il convinto interessamento del senatore Dario Stefàno”.

Una legge che riempie un vuoto normativo regolamentando ciò che i vignaioli indipendenti fanno da tempo aprendo le porte delle loro cantine a chi desidera conocere le loro storie, visitare le vigne e degustare i vini secondo il presidente della Fivi (Federazione italiana vignaioli indipendenti) Matilde Poggi.

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Se il vino va di moda: Vegea e il nuovo filato da vite

MILANO – Produrre un filato innovativo che potrà essere usato per i settori moda, arredo e auto. E’ la nuova sfida dell’azienda milanese Vegea. Vino e moda, del resto, vanno da sempre a braccetto.

“In collaborazione con le cantine vinicole – spiega Francesco Merlino, fondatore e direttore tecnico di Vegea – stiamo lavorando ad un altro importante progetto per la valorizzazione dei residui di potatura delle viti, oltre che dei semi e delle bucce dell’uva. Questi contengono composti polifunzionali utili al nostro scopo”.

La nuova ricerca di Vegea è incentrata sullo sviluppo di filati per la creazione di nuovi “tessuti dal vino”, materiale totalmente vegetale e rinnovabile. Ogni anno dalla potatura delle vigne con le quali Vegea collabora si ricavano 1200 kg di tralci per ettaro. “Per rendersi conto della grande scalabilità del progetto – continua Merlino – basta pensare che solo in Italia sono presenti circa 650 mila ettari di vigne e, nel mondo, 7,5 milioni di ettari”.

“Il nostro obiettivo nel 2018 sarà stabilire importanti collaborazioni con i più grandi brand di moda, arredo, automobile e trasporti – evidenzia Gianpiero Tessitore, fondatore e Ceo di Vegea – con i quali valutare le modalità ed i tempi per il lancio sul mercato di Vegea”. Un primo passo è stato compiuto lo scorso 5 ottobre.

“Abbiamo presentato a Milano una prima collezione di abiti, scarpe e borse – sottolinea Merlino – per mostrare la versatilità e lavorabilità del materiale. Siamo molto soddisfatti degli interessamenti ricevuti da parte degli addetti al settore. Alcuni outfit ci sono già stati richiesti per essere esibiti nei più importanti musei ed eventi sulla moda ecosostenibile nel mondo”.

Non a caso, il 28 novembre Vegea è stata premiata al Parlamento Europeo di Bruxelles nell’ambito della “European Top 50 competition“, una competizione che ogni anno seleziona le 50 migliori idee d’impresa del nuovo millennio, tra migliaia presentate da tutto il Continente.

LA STORIA DI VEGEA
Vegea nasce nel 2016 a Milano come azienda produttrice di biomateriali da utilizzare nei settori moda, arredo, automobile e trasporti. I due fondatori sono Gianpiero Tessitore, architetto, e Francesco Merlino, chimico industriale. Da gennaio 2017 l’azienda è insediata presso Progetto Manifattura, incubatore clean tech di Trentino Sviluppo e polo dell’economia circolare.

Un esempio di Made in Italy, quello di Vegea, capace di unire due grandi eccellenze italiane: moda e vino, conosciute in tutto il mondo come icone di stile, per l’alta qualità dei prodotti e la grande tradizione artistica e manifatturiera.

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Enrico Baldin, alias Champagne Encry: un italiano alla corte di Francia

“Il n’est Champagne que de la champagne” ovvero “Non è Champagne se non è della Champagne”. Verissimo, ma non è detto che a fare lo Champagne debba essere per forza un francese.

Ed in effetti un’eccezione c’è. Si chiama Enrico Baldin, italiano quanto il tricolore, produttore di Champagne. E che Champagne!

La storia di Enrico e di Encry, la sua cantina, la si potrebbe riassumere semplicemente citando Eleanor Roosevelt: “Il futuro appartiene a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni”. È infatti una storia di sogni e di caparbietà quella che l’ha portato ad essere ciò che è oggi.

Abbiamo avuto modo di ascoltarla proprio dalla sua viva voce, grazie ad un’interessante serata organizzata dalla sezione Onav di Varese. Serata che ha visto Enrico Baldin e i suo vini protagonisti sotto l’occhio (ed il naso!) attento dei presenti. Cinque le proposte di Enrico per sorprendere i suoi ospiti, tutte provenienti dal Grand Cru, 100% Chardonnay, di Mesnil sur Oger.

LA DEGUSTAZIONE
Apre la serata il Blanc de Blancs Brut. Base annata 2012 più il 20% di vini di riserva 2004 e 2006. Niente malolattica e utilizzo di estratto di vinaccioli per bloccare le fermentazioni (Enrico è molto attento a limitare l’utilizzo di solforosa). Quarantadue mesi sui lieviti e 4,5 g/l di dosaggio.

Colore paglierino carico con riflessi dorati, perlage fine e persistente. Note spiccate di mela verde, poi pesca e pera, un sentore erbaceo di fieno che si sposa con le note tostate e mandorlate.

Freschezza d’agrume e dolcezza di miele. In bocca pieno ed equilibrato, di grande sapidità e lunga persistenza.

Segue il Zero Dosage. Stesso vino del precedente ma non dosato. lo avevamo già incontrato durante “Mare di Champagne” ad Alassio e confermiamo il nostro parere.

Al naso è graffiante e molto minerale, inizialmente sembra quasi chiuso. Si apre poi sulla sua grande verticalità con note di agrume (pompelmo, lime) e frutta a polpa bianca. In bocca spiccano la sapidità e la finezza del perlage. La lunga persistenza è ben supportata dalla morbidezza.

Grand Rosé. 95% Chardonnay e 5% di Pinot Noir vinificato rosso proveniente da un altro Grand Cru: Bouzy. 36 mesi sui lieviti, 3 g/l di dosaggio. Accattivante nel colore, più tenue seppur intenso rispetto a molti altri Champagne.

Al naso è intenso e pulito. Frutti rossi come lampone e fragolina di bosco che si mescolano ai sentori tipici dello Chardonnay, un rosé non-rosé. In bocca la sapidità è appena smorzata dalla rotondità del Pinot.

La quarta proposta è Blanche Estelle, uno champagne nato dall’unione di 4 produttori divisi su 3 villaggi Grand Cru. 36 mesi di affinamento e 6 g/l di dosaggio.

L’idea è quella di creare in cooperativa con altri vigneron uno Champagne più morbido ed immediato che possa essere commercializzato in mescita a prezzi più contenuti.

Il risultato è un prodotto di grande bevibilità, diverso dal resto della gamma Encry. Al naso profumi di cipria e confetto con note fruttate. Morbido in bocca seppur supportato da una buona acidità. Persistenza più breve rispetto ai precedenti assaggi.

Chiude la carrellata il Millésime 2009. Racconta Enrico che in prima fermentazione si è dovuto abbassare la temperatura per via dell’esuberanza delle uve. 72 mesi, 4,5 g/l il dosaggio. Colore dorato e perlage finissimo. Molto evoluto al naso, sembra anche più vecchio del 2009.

Note di torrefazione, nocciola, terziario di caffè e liquirizia. Molto fine al naso con una nota di dolcezza burrosa pur senza aver fatto legno. Grande acidità e sapidità al palato. Lunga persistenza.

LA STORIA DI VEUVE BLACHE ESTELLE – ENCRY
La storia di Encry comincia quando Enrico, pur grande amante delle bollicine, non apparteneva per cultura professionale al mondo vinicolo. Lui si occupava all’epoca di ingegneria naturale e ripristino ambientale con particolare attenzione alle tecniche di idrosemina.

Tecniche che possono essere applicate anche in vigna per rinfoltire l’erba fra i filari. Quelle tipologie di erba che non entrano in competizione con la vigna ma al contrario favoriscono una buona ossigenazione del terreno e agevolano il proliferare di quegli insetti che favoriscono le azioni antiparassitarie.

Proprio questa sua specializzazione ha portato, 17 anni fa, Baldin in contatto con un vigneron che necessitava del suo aiuto per migliorare le proprie colture. Colture di Chardonnay a Mesnil sur Oger, in piena Côte de Blancs, Grand cru posto proprio fra le vigne di alcune grandi Maison. Il vigneron in realtà non produce vino, si limita a conferire uve o mosti proprio a quelle Maison.

È di Enrico l’idea, nel 2004, di mettersi a produrre Champagne in collaborazione col vigneron, rilevando da lui 3,5 ettari di vigna ed investendo nella costruzione di una cantina. Coltivazione biologica e biodinamica “non estrema”, pressa tradizionale da 4000 kg, vinificazione in solo acciaio. Estrema attenzione alla qualità in ogni fase.

Nel 2007 le prime bottiglie sono pronte e ben etichettate col neonato marchio Encry (dal soprannome di Enrico, Enry, con in più la C di Champagne) quando il CIVC (Comité interprofessionnel du vin de Champagne) blocca la vendita. Perché? Perché ad Encry manca la “fondatezza”, vale a dire una storia alle spalle che possa in qualche modo “garantire” la serietà e la tradizione della Maison.

Dopo quattro mesi è il socio-vigneron di Baldin a trovare la soluzione: suo nonno aveva in fatti registrato relativamente a quel terreno un marchio di Champagne, Veuve Blache Estelle, nel 1917. Mai prodotto un solo litro di vino, ma tant’è, il marchio esiste ormai da un secolo e tanto basta a garantire una “fondatezza”. Enrico rileva il marchio e rinomina i propri vini come “veuve Blache Estelle – Encry”. Il gioco è fatto!

Ed invece no. Il CIVC si mette ancora di traverso. Il Comité non accetta che un francese possa cedere il blasone ad un non-francese. La soluzione questa volta arriva da Nadia, la compagna di Enrico. Lei ha una zia francese, basta far nominalmente figurare lei come depositaria del marchio ed anche questo ostacolo è superato. Dopo l’ennesimo tira e molla il CIVC è costretto a riconoscere Vue Blache Estelle Encry (anche se con un escamotage non viene concesso di utilizzare da dicitura RM, Récoltant Manipulnat, in etichetta).

Volontà, caparbietà, intelligenza, grande qualità in vigna e nel bicchiere. Ingredienti che sembrano la trama di un romanzo. Il romanzo dell’italiano che andò in terra di Francia a produrre il più prestigioso dei vini francesi.

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Milano Whisky Festival 2017: sempre più (in) grande

Il Milano Whisky Festival (lo scorso 11 e 12 novembre, presso l’Hotel Marriott di via Washington) si conferma essere il vero punto di riferimento per operatori ed appassionati del settore. Cresciuto negli anni, l’evento ha raggiunto nell’edizione 2017 la sua massima estensione tanto per “superficie” quanto per numero e tipologia di etichette rappresentate. Da quest’anno, infatti, l’evento non è più solo dedicato ai whisky (con una comparsata dei Rum, nelle ultime due edizioni) ma anche a molti altri Spirits: Cognac, Armagnac, Calvados, Applejack, Brandy etc.

La disposizione della sala, la presenza di produttori distributori e imbottigliatori indipendenti e la grande offerta di assaggi disponibili ha permesso a chiunque di organizzarsi il proprio percorso tematico per esplorare il mondo dei distillati secondo il proprio gusto, le proprie esigenze, desideri e curiosità. Tanti spunti di riflessione, dunque. Tra conferme e novità.

IL TOUR
Partiamo quindi dal classico dei classici, Macallan, che a fianco dei “soliti” Amber e Sienna ripropone qui la versione Fine Oak, linea di single malt (lanciata nel 2004) invecchiati in tre tipi di legno diversi (ex-sharry di rovere europeo, ex-sharry di rovere americano ed ex-bourbon). 12yo e 15yo in un crescendo di sensazioni fino al 18yo che col suo colore ambrato, i suoi profumi dolci di frutta (mela ed ananas), d’agrume e di spezie, il suo ingresso in bocca morbido ed il suo corpo con note di cioccolato e vaniglia ci ricorda perché Macallan, è Macallan.

Glenfiddich propone la verticale del proprio single malt (da 12yo a 26yo, tutti puliti e distintivi della distilleria), ma a cogliere la nostra attenzione è IPA Experiment.

Si tratta di un single malt no age che ha trascorso gli ultimi 3 mesi in affinamento in botti che hanno contenuto una birra IPA (Indian Pale Ale). Al naso dolcezza di malto, mela verde e pera con una nota erbacea di erba tagliata.

In bocca è vivace, con note di agrumi e vaniglia ed una nota verde forse dovuta ai luppoli della birra. Buona la persistenza.

Dalmore si conferma un riferimento per le Highlands centrali; tutti e tre i drum presentati (12yo, 15yo, 18yo) mostrano grande equilibrio olfattivo e gustativo. Stessa conferma per i 5 drum di Glenrothes.

Jura, a fianco del delicato Orign, dei torbati Superstition e Prophecy e del fruttato Elixir, presenta Diurach Own un 16yo che fra 14 anni dotti ex bourbon e 2 in botti ex sharry oloroso. Il risultato è un bicchiere dal profumo di agrumi, di mela e di cioccolato, un corpo dolce e resinoso con note speziate di chiodo di garofano ed un finale secco.

Presenti all’evento tutte e tre le distillerie di Campbeltown: Springbank, Kilkerran e Hazelburn. Tre distillerie vicine di casa, in un territorio difficile e dalle vicende alterne, con tre diverse filosofie produttive.

Se Springbank fa della torba “dolce” il suo marchio di fabbrica, Kilkerran alleggerisce le note di torba aprendo su sentori di frutta secca e caramello, mentre Hazelburn non fa uso di torba ed è una delle rare realtà scozzesi ad usare la tripla distillazione. Il risultato è uno scotch molto fruttato con una punta di spezie.

Conferme e certezze anche Balvenie e Tomatin, che presenta qui sia i classici spayside che il lievemente torbato Cù Bòcan. Ma lo scettro di Re della torba spetta anche quest’anno alla distilleria Bruichladdich col suo Octomore: 5 anni di invecchiamento e 208ppm di torba, è come mettere un caminetto che brucia legni aromatici dentro un bicchiere.

Buona anche la prova di Glenfarclas, verticale dai 10yo ai 25yo. Il 23yo ed il 25yo risultano rotondi e strutturati ma è il 15yo a sorprendere. Forse più “piacione”, più immediato e facile, dei fratelli maggiori ma dotato di grande equilibrio e di una nota cioccolatosa tanto al naso quanto in bocca che piacerà a buona parte dei consumatori, siano essi neofiti o esperti.

Sul fronte dei blended spicca Johnnie Walker che qui presenta i due nuovi Blenders Batch, Espresso Roast e Rum Cask Finish: note più tostate per il primo, maggiore dolcezza per il secondo.

Interessante anche la limited editon di Douglas Laing’s “Big Peat”, un blended Islay Malt ricco di note aromatiche.

L’Irish Whiskey si conferma un prodotto in crescita. Immancabile la presenza di Connemara, l’unico peated a doppia distillazione dell’isola, diventato ormai un’icona. Bushmills da un panorama completo dell’Irlanda del nord coi due blended, 1608 e Black Bush, e coi Single Malt da 10yo a 16yo.

Ma è Teeling a segnare il passo dell’Irish Whiskey. Single Malt (ormai un riferimento), Single Grain, Small Batch, Single Cask ed un interessantissimo Single Malt maturato in Stout Cask, botti che hanno contenuto la famosa birra scura irlandese. Se in bocca è pulito e non tradisce il suo essere un whiskey morbido, al naso e nel retronasale rivela tutte le note di tostatura tipiche della birra. Una pinta fatta whiskey.

A tenere alta la bandiera dei whiskey d’oltre oceano ci pensano la distilleria Harven Hill, con il suo Rittehouse, e la distilleria Elijah Craig. Rittenhouse è un Rye Bottled in Bond dal naso fresco, fruttato e poco speziato, scorrevole e leggero in bocca con un finale abbastanza persistente di pepe bianco.

Elijah Craig (nella foto, sotto) affianca al famoso 12yo, un Bourbon barrel proof da 68% (136 proof) che a dispetto della gradazione non è esageratamente forte al naso e quindi perfettamente godibile. Sentori di sciroppo d’acero e note legnose di vaniglia presenti tanato al naso quanto in bocca. Al palato rivela inoltre una piacevole nota di frutta secca ed un corpo pieno e vellutato. Lunga la persistenza.

Fra i paesi che solo recentemente si sono affacciati alla produzione di whisky restano in prima fila Taiwan ed India. La prima con la distilleria Kavalan che conferma la grande pulizia ed eleganza dei suoi prodotti, differenti per invecchiamento ma accomunati da piacevoli sentori floreali.

Dall’India ecco invece la distilleria Paul John, con tre prodotti fra cui spicca Edited un single malt figlio dell’elevato angle share della regione che presenta colore ambrato, naso di cereali, agrumi e spezie, palato caldo altrettanto agrumato ed una speziatura quasi piccante.

L’Italia è ben rappresentata da Puni, l’unica distilleria di whisky del bel paese. Quattro le proposte fra cui poniamo l’accento su Nero, un 3yo limited edition invecchiato esclusivamente in botti ex Pinot Nero dell’Alto Adige. Ambra chiaro con profumi di frutti rossi, sottobosco ed una nota di rovere. Palato caldo e giovane con note leggermente agrumate. Finale mediamente persistente con richiamo alla mora ed all’uva passa.

Si potrebbe continuare a lungo a parlare di tutti i prodotti presenti alla manifestazione, ma il modo migliore di esplorare il mondo degli spirits resta quello di munirsi di un bicchiere e trovare la propria strada, ricordando lo slogan che Dalmore ha scelto per l’evento: “Sometimes just raising a glass is a priviledge”. “A volte anche solo alzare un bicchiere è un privilegio”.

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Vini italiani all’Onu: una “selezione” che valorizza (solo) i grandi nomi

Chi lo avrebbe mai detto? Il meglio del vino italiano è rappresentato da case vinicole che collaborano attivamente con la Grande distribuzione organizzata, ovvero il mondo dei supermercati.

E’ quanto emerge dal Consiglio di Sicurezza del’Onu. Nessun intrigo internazionale, tranquilli. Dopo dieci anni, la presidenza del Consiglio è tornata all’Italia.

E l’ambasciatore Sebastiano Cardi ha pensato bene di celebrare l’investitura consegnando ai membri del Consiglio di Sicurezza una selezione dei migliori vini italiani.

Grandi bottiglie, delle migliori annate, sono finite così nelle mani dei rappresentanti delle maggiori potenze (politico-finanziarie) del mondo: dalla Francia alla Cina, dal Regno Unito al Giappone. Passando ovviamente per gli Stati Uniti. La consegna della speciale “bag enoica” è avvenuta all’inizio del mese, proprio a New York.

La selezione dei vini è stata curata da Lucio Caputo (nella foto sotto), presidente dell’Italian Wine & Food Institute.  Mentre tentiamo di metterci contatto con lui per capire quali siano stati i criteri guida delle scelte, non possiamo che notare come, nella lista, figurino numerosissime aziende operanti nel mondo della Grande distribuzione organizzata italiana (e in alcuni casi internazionale).

I VINI, LE CANTINE
Il massimo esponente del Wine & Food Insitute ha fatto la spesa con Argiolas (Igt Isola dei Nuraghi Turriga 2013), Bertani (Amarone Della Valpolicella Classico Doc 2007), Jacopo Biondi Santi (Igt Toscana Schidione 2010), Castello di Querceto (Igt La Corte 2007), Col d’Orcia (Brunello di Montalcino Docg 2012), Donnafugata (Mille e Una Notte 2012), Fontanafredda (Serralunga d’Alba Barolo Docg 2013), Gaja (Barbaresco Docg 2013).

Poi ancora: Lungarotti (Vigna Monticchio Rubesco Riserva Docg 2009), Marchesi Antinori (Tignanello 2014), Mastroberardino (Naturalis Historia Taurasi Docg 2009), Planeta (Santa Cecilia Noto Doc 2010), Rocca delle Macie (Riserva di Fizzano Gran Selezione Chianti Classico Riserva Docg 2013), Sella & Mosca (Marchese di Villamarina Doc 2010), Tasca d’Almerita (Rosso del Conte Doc 2012), Travaglini (Gattinara Riserva Docg 2011), per finire con Vespa Vignaioli (Raccontami Primitivo di Manduria Doc 2014).

Una selezione, a prima vista, quasi scontata. Grandi nomi per grandi vini, già noti a livello internazionale e già in vendita nei principali mercati del mondo. Una (facile) scommessa che giova all’immagine della Gdo italiana, sempre più in grado di fungere da vetrina, anche per produttori blasonati.

Ma fa pensare la poca “fatica” compiuta dall’Italian Wine & Food Institute. Che così, forse, ha perso un’occasione unica per valorizzare il tessuto dei piccoli-medi produttori del Belpaese. Quelli che contribuiscono a fare grande l’Italia del vino, nel mondo, ognuno col suo modesto pezzo di puzzle. Vini che al Consiglio di Sicurezza dell’Onu non si bevono. Non si sono mai bevuti. E forse, così, non si berranno mai.

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Ecco Miolo Cuvée Tradition: il primo spumante brasiliano affinato in mare

Da oggi, “Abissi” di Bisson ha un fratello. Miolo Wine Group ha annunciato lo storico recupero della prima partita di spumante brasiliano affinato in mare. La cantina di Bento Gonçalves, nello Stato del Rio Grande do Sul, non lontano da Porto Alegre, è la prima ad ever utilizzato questo metodo in Brasile.

L’operazione di recupero delle bottiglie è avvenuta lo scorso 12 ottobre, a un anno dall’immersione del “Miolo
Cuvée tradition Brut” nel mare della Bretagna, nell’estremo nord-ovest della Francia. Lo spumante sarà distribuito entro fine anno nel mercato locale, ma anche in America e in Europa. In edizione “speciale e limitata”.

“Ci sono grandi aspettative in seguito al recupero delle bottiglie del nostro spumante dal mare – dichiara Adriano Miolo, amministratore delegato del gruppo -. Le festività natalizie di avvicinano. Siamo dunque in un momento speciale dell’anno per la vendita dei vini spumanti. Siamo sicuri che i nostri clienti e collezionisti vogliano avere nelle loro cantine il primo spumante brasiliano affinato in mare, per brindare alle vacanze”.

Strategicamente affondate nell’isola di Ouessant, in una regione nota come Baie du Stiff, le bottiglie di Miolo Cuvée Tradition sono rimaste per una anno a diretto contatto con l’acqua del mare, a una temperatura compresa tra gli 11 e i 13 gradi. Cullate da correnti morbide e costanti.

“Una grotta marina – evidenzia Adriano Miolo – dalle condizioni ideali per l’invecchiamento del vino: oscurità, umidità, costante temperatura e pressione. Potremo osservare gli effetti dell’invecchiamento dell’acqua attraverso prove di laboratorio e degustazioni. Un vino affinato in mare può avere 10 volte più composti molecolari di un vino invecchiato in modo tradizionale”.

Per questo, la Miolo Cuvée Tradition Brut avrebbe “più aromi e complessità”. “Nelle degustazioni alla cieca – continua Miolo – i risultati parlano chiaro sulla qualità di questo metodo. Gli spumanti affinati in mare presentano sapori più ricchi e floreali, complessità e freschezza, eccellenti note di burro e di mandorle”.

Nel 2018 sarà possibile apprezzare i risultati dell’affinamento di nuovi lotti di spumante nelle cave subacquee dell’isola di Ouessant. Il prossimo anno sarà infatti prelevato lo spumante Miolo Cuvée Tradition Brut Rosé, in prodotto in quantità ancora più limitata rispetto al primo esperimento.

Lo spumante rosato si trova nel mare francese dal mese di giugno 2017, accanto a un altro lotto di Miolo Cuvée Traditon Brut che non sarà prelevato prima di un anno. Entrambi i prodotti Miolo sono ottenuti dalla vinificazione col metodo classico di uve Pinot Noir e Chardonnay allevate nella Vale dos Vinhedos (DO).

Miolo Wine, che ha per claim “vinhos brasileiros, vinhos do mundo“, opera in quattro diverse regioni del Brasile con vigneti di proprietà. Centoventi ettari nella Vale dos Vinhedos, 200 ettari nella Seival Estate della Campanha meridionale, 600 ettari nella Almadén Winery (Campanha centrale) e ulteriori 200 ettari nella Terranova Winery, nella Vale do São Francisco.

AL PRINCIPIO FU “ABISSI”
Molte le affinità degli spumanti marini di Miolo con quelli dell’italiana Bisson. Da 8 anni, la cantina di Chiavari affonda uno spumante metodo classico a base Bianchetta (60%), Vermentino Ligure (30%) e Cimixià (10%) al largo della Baia del Silenzio di Sestri Levante, in provincia di Genova.

Un progetto che ha avuto avvio nel maggio 2009, quando le prime 6500 bottiglie hanno iniziato a maturare nel fondale marino. Lo spumante viene prelevato solo in seguito a 18 mesi di permanenza in acqua. Anche per Bisson, l’immissione sul mercato è prevista nel periodo delle festività natalizie. Un’idea di Pierluigi Lugano, che conduce l’azienda ligure con la figlia Marta.

“Guardandomi attorno e pensando agli antichi relitti dei galeoni in fondo al mare che più volte hanno restituito prodotti alimentari dalle caratteristiche organolettiche intatte – spiega il produttore – ho deciso di coniugare la mia passione per il vino e il mare, pensando che l’ambiente ideale per l’affinamento di uno spumante potesse essere proprio il fondale marino. Profondità 60 metri, temperatura costante di 15 gradi, penombra, contropressione e una serie di fattori favorevoli per ottenere in questo contesto ideale la bollicina più esclusiva”.

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Torna a Roma “A Tutta Torba”: il festival dei whisky torbati

A Roma domenica 3 dicembre 2017, presso il Chorus Cafè (via della Conciliazione, 4), si terrà la seconda edizione di “A Tutta Torba!”. Una giornata dedicata interamente ai whisky torbati; centinaia di etichette per tutti i palati. L’evento è organizzato dalla direzione artistica di Spirit of Scotland – Rome Whisky Festival. L’ingresso è gratuito con gettoni a consumazione.

All’interno dell’evento grande risalto sarà dato al Laphroaig Cocktail Bar, partner esclusivo della manifestazione, con cocktail inediti preparati a base Laphroaig da 4 bartender d’eccezione: Federico Tomasselli del Porto Fluviale, Ercoli e Sant’Alberto al Pigneto, Gianluca Melfa dell’Argot, Solomya Grystychyn del Chorus Cafè e Camilla Di Felice del Jerry Thomas Speakeasy.

Spazio anche al cibo, con le eccellenze de Il Trapizzino, street food romano per eccellenza, da abbinare ai propri torbati preferiti. Sarà inoltre possibile, grazie alla collaborazione con lo shop Whisky & Co, acquistare numerose bottiglie presenti e, novità di questa edizione, vi sarà il collector’s corner con una trentina di bottiglie rare di whisky tra cui spiccano un Bowmore Delux Bot. 1970s 43%, un Port Ellen del 1978 6th Release 54.3% e un Ardbeg del 1974 26yo Silver Seal 40%. Non mancherà l’area dedicata ai viaggi in Scozia per distillerie grazie alla presenza di Tiuk Travel.

“A Tutta Torba – sottolineano i direttori artistici di Spirit of Scotland – alla sua seconda edizione dopo il successo del 2016 evidenzia quanto siano sempre più apprezzati, in Italia, i whiskies torbati. Quali promotori del bere di qualità vogliamo offrire al pubblico romano un’altra giornata dove poter assaporare centinaia di etichette e avere la possibilità di sentirsi raccontare aneddoti e curiosità su questo particolare prodotto caratteristico di Islay, isola della Scozia larga poco più di 40Km e lunga appena 25 e con 8 distillerie…una vera e propria distilleria galleggiante! Qui tutti affumicano, chi più chi meno, chicchi di malto d’orzo bruciando la torba di cui l’isola ne è molto ricca…insomma tanto da scoprire con un bel dram in mano!”.

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Lo Champagne secondo Louis Roederer

Louis Roederer è una delle poche Maison de Champagne ancora gestita dalla famiglia fondatrice. Una storia che affonda le radici nel lontano 1776, a Reims. La cantina ottiene il nome attuale nel 1833, quando viene ereditata da Louis Roederer, che intraprende un percorso di crescita e ristrutturazione in controtendenza rispetto alle altre realtà della regione.

A differenza di altre Maison (i cosiddetti Négociant Manipulant) che acquistano uve da altri vignaioli, Louis è convinto che il segreto di un grande vino risieda nella terra. Inizia così a investire nell’acquisto di vigne nei territori dei Grand Cru e Premier Cru. Un approccio da piccolo vignaiolo (Récoltant Manipulnat, come si dice Oltralpe) ma su larga scala.

Nel 1850, la Maison Roederer può contare su 100 ettari di proprietà. Oggi su oltre 240 ettari, suddivisi in 410 appezzamenti fra la Montagne de Reims, la Cote de Blancs e la Vallée de la Marne. Unica nel suo genere, la cantina coniuga in sé tanto l’abilità enologica propria delle grandi Maison quanto l’attenzione alla viticoltura tipica dei Vigneron.

Per dar modo di conoscere ed approfondire gli Champagne di Louis Roederer lo scorso 20 ottobre la sezione Onav di Varese ha organizzato un’interessante degustazione.

LA DEGUSTAZIONE
Sette le proposte. Apre la serata il Brut Premier, il “base” di casa Roederer, lo champagne pensato per dare continuità alla Maison dopo la prima guerra mondiale.

Vinificazione in fusti di rovere per la cuvée composta dal 40% di Pinot Noir, 40% di Chardonnay e 20% di Pinot Meunier. Tre anni di affinamento sui lieviti, 6 mesi di riposo in bottiglia dopo la sboccatura, 9 g/l di dosaggio.

Giallo paglierino brillante, perlage piuttosto fine. Molto pulito al naso con note fruttate di mela, di agrume, vegetali di fieno ed una dolcezza di crema pasticcera. In bocca il perlage è un poco aggressivo. Grande acidità e buona sapidità. Evidente la presenza del Meunier. Equilibrato con una dolcezza di miele e camomilla che accompagna la breve persistenza.

Brut Rosè Vintage 2011. Annata difficile con inverno secco, primavera calda ed estate fresca e piovosa che costrinse a vendemmia anticipata. 63% Pinot Noir, 37% Chardonnay. Il 22% dello Chardonnay è vinificato fusti di rovere mentre il 13% fa fermentazione malolattica. Quattro anni di affinamento e 6 mesi di riposo in bottiglia dopo sboccatura. 9 g/l il dosaggio zuccherino.

Color buccia di cipolla brillante, il perlage è piuttosto fine e persistente. Al naso è più timido del brut con note di melograno, gesso e salmastre di ostrica seguite da una speziatura di pepe bianco.
Un poco aggressivo il perlage, di buona acidità, chiude su di una nota amarognola forse dovuta al residuo zuccherino.

Blanc de Blanc Vintage 2008. Annata con primavera molto piovosa ed estate secca che hanno dato una maturazione lenta e progressiva delle uve. 100% Chardonnay, il 15-20% vinificato in botti di rovere con battonage settimanale e nessuna fermentazione malolattica, 5 anni di affinamento sui lieviti ed un dosaggio zuccherino di 8-10 g/l.

Paglierino con riflessi dorati al naso è molto fine, delicato. Uno champagne che non urla i propri sentori ma che sussurra note floreali e fruttate contornate da un profumo di erba tagliata. Molto elegante in bocca non rivela il proprio dosaggio zuccherino forte di una grande mineralità. Lunga la persistenza.

Brut Nature 2009 e Brut Nature 2006. Una mini verticale. Il Brut Nature 2009 nasce in un’annata ricordata come una delle migliori in Champagne, con inverno rigido e secco ed estate soleggiata ed asciutta. 70% di Pinot Noir e Pinot Meunier, 30% Chardonnay. 25% della vinificazione in rovere, nessuna malolattica, nessun dosaggio zuccherino.

Colore paglierino con riflessi dorati. Naso molto espressivo ove si riconoscono note floreali di ginestra, frutta bianca, agrumi, mandorla e marzapane ed una nota di tabacco da pipa. Al palato il perlage è molto piacevole in contraltare con la schietta acidità del pas dosé.

Il 2006 è l’anno che suggella le varie prove della Maison, iniziate nel 2003, per la realizzazione del primo Brut Nature. 70% di Pinot Noir e Pinto Meunier, 30% Chardonnay. Fermentazione spontanea del 100% dei vini in botti di legno. Nessun dosaggio.

Colore più carico rispetto al 2009 al naso è più chiuso con sentori simili a quelli del 2009 contornati da una nota dolce di confetto. In bocca è teso e pulito con una grande mineralità.

Vintage 2009. 70% Pinot Noir, 30% Chardonnay. 30% circa dei vini vinificati in legno. 9 g/l di dosaggio. Color giallo dorato con perlage molto fine e persistente. Estremamente pulito al naso con note di cera d’api, di frutta disidratata, note di spezie, di tostatura e di pasticceria.

Finissimo in bocca col perlage che accarezza il palato, uno champagne rotondo con acidità e mineralità perfettamente bilanciate. Lunga la persistenza.

Chiude la degustazione Cristal 2007. Annata con primavera calda ed estate fresca chiusa da una vendemmia in condizioni ideali. La cuvée, ottenuta da vecchie viti, si compone del 58% Pinot Noir e 48% Chardonnay con il 15% dei vini vinificati in rovere. 9,5 g/l il dosaggio.

Colore dorato con perlage finissimo. Pulizia assoluta al naso con agrume maturo, tostatura che vira al fumé e note minerali di pietra focaia. Bocca equilibrata ed estremamente armonica. Finale lungo.

LA STORIA DEL CRISTAL
Correva l’anno 1867 quando la Maison Roederer confezionò una versione speciale della propria Cuvée de Prestige per lo Zar di Russia Alessandro II.

A causa di tensioni nazionali ed internazionali si temevano attentati alla vita dello Zar e così, in occasione della “Cena dei tre imperatori” cui Alessandro II avrebbe partecipato (insieme a Guglielmo I di Prussia ed al principe Otto von Bismarck) venne realizzata una bottiglia particolare.

La bottiglia era in cristallo trasparente (da cui il nome) per garantire che al suo interno vi fosse champagne e non qualche liquido infiammabile o esplosivo.

Allo stesso modo il fondo della bottiglia era piatto per evitare che vi si potessero nascondere altre minacce. La bottiglia così nata, adornata da una etichetta dorata che ne esalta l’eleganza, divenne un’icona a tal punto da essere oggi considerata dagli economisti un “bene di Veblen”.

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Etichettatura nutrizionale vino, Fivi: “Spiragli dalla Commissione europea”

La Commissione europea lascia aperto uno spiraglio per i piccoli produttori nei confronti dell’etichettatura nutrizionale del vino.

È questo quanto emerso dall’audizione pubblica del 18 ottobre a Bruxelles organizzata dai due parlamentari europei Renate Sommer e Herbert Dorfmann sul tema dell’etichettatura delle bevande alcoliche.

Alexandra Nikolakopoulou (nella foto) ha dichiarato che “la commissione è disposta a valutare se ci potranno essere eventuali esenzioni o deroghe”.

L’importanza dell’affermazione deriva dal fatto che la Nikolakopoulou è stata responsabile del rapporto CE rilasciato lo scorso marzo, in cui veniva ribadito l’obbligo dell’etichettatura e veniva lasciato un anno alle associazioni di categoria per elaborare una proposta di normativa.

In rappresentanza della CEVI (Confederazione Europea Vignaioli Indipendenti) era presente la Vicepresidente Matilde Poggi, che in Italia è anche Presidente FIVI (Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti).

Tanti gli intervenuti all’incontro: i rappresentanti della Commissione europea (DG AGRI e DG Salute), deputati, rappresentanti delle organizzazioni europee di vino, birra e liquori, nonché organizzazioni non governative (Eurocare, BEUC).

Poggi ha ribadito la posizione FIVI e CEVI che ritiene l’etichettatura dei vini un inutile aggravio per i produttori, in particolare per quelli di piccole dimensioni. Le stesse perplessità sono state sollevate dai rappresentanti dei piccoli distillatori e dei piccoli birrifici artigianali.

“Il rischio – dichiara Matilde Poggi – è quello di mettere fuori mercato le produzioni dei piccoli vignaioli, soffocati da un incremento dei costi dovuti all’obbligo dell’etichettatura. Questo porterebbe a una standardizzazione della produzione del vino in Europa, tutta a favore dei grandi produttori. Cosa che è già successa a tanti piccoli macelli o caseifici artigianali che hanno dovuto chiudere perché schiacciati da norme e regolamenti troppo onerosi da adempiere per chi ha piccole dimensioni”.

“Non riteniamo – prosegue Poggi – che il modello industriale sia quello che il pubblico vuole in questo momento. La gente oggi preferisce sapere da dove arriva quel che mangia o beve e acquistare i prodotti di chi ci mette personalmente la faccia, come i Vignaioli Indipendenti”. La CEVI ha quindi richiesto che sia prevista una legislazione diversa per i Vignaioli.

L’approccio pragmatico del CEVI, arricchito da esempi concreti, è stato particolarmente ascoltato dai deputati europei e dalla Commissione. Quest’ultima, è stata anche molto attenta e più flessibile del solito in materia.

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