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MILANO – Produrre un filato innovativo che potrà essere usato per i settori moda, arredo e auto. E’ la nuova sfida dell’azienda milanese Vegea. Vino e moda, del resto, vanno da sempre a braccetto.
“In collaborazione con le cantine vinicole – spiega Francesco Merlino, fondatore e direttore tecnico di Vegea – stiamo lavorando ad un altro importante progetto per la valorizzazione dei residui di potatura delle viti, oltre che dei semi e delle bucce dell’uva. Questi contengono composti polifunzionali utili al nostro scopo”.
La nuova ricerca di Vegea è incentrata sullo sviluppo di filati per la creazione di nuovi “tessuti dal vino”, materiale totalmente vegetale e rinnovabile. Ogni anno dalla potatura delle vigne con le quali Vegea collabora si ricavano 1200 kg di tralci per ettaro. “Per rendersi conto della grande scalabilità del progetto – continua Merlino – basta pensare che solo in Italia sono presenti circa 650 mila ettari di vigne e, nel mondo, 7,5 milioni di ettari”.
“Il nostro obiettivo nel 2018 sarà stabilire importanti collaborazioni con i più grandi brand di moda, arredo, automobile e trasporti – evidenzia Gianpiero Tessitore, fondatore e Ceo di Vegea – con i quali valutare le modalità ed i tempi per il lancio sul mercato di Vegea”. Un primo passo è stato compiuto lo scorso 5 ottobre.
“Abbiamo presentato a Milano una prima collezione di abiti, scarpe e borse – sottolinea Merlino – per mostrare la versatilità e lavorabilità del materiale. Siamo molto soddisfatti degli interessamenti ricevuti da parte degli addetti al settore. Alcuni outfit ci sono già stati richiesti per essere esibiti nei più importanti musei ed eventi sulla moda ecosostenibile nel mondo”.
Non a caso, il 28 novembre Vegea è stata premiata al Parlamento Europeo di Bruxelles nell’ambito della “European Top 50 competition“, una competizione che ogni anno seleziona le 50 migliori idee d’impresa del nuovo millennio, tra migliaia presentate da tutto il Continente.
LA STORIA DI VEGEA Vegea nasce nel 2016 a Milano come azienda produttrice di biomateriali da utilizzare nei settori moda, arredo, automobile e trasporti. I due fondatori sono Gianpiero Tessitore, architetto, e Francesco Merlino, chimico industriale. Da gennaio 2017 l’azienda è insediata presso Progetto Manifattura, incubatore clean tech di Trentino Sviluppo e polo dell’economia circolare.
Un esempio di Made in Italy, quello di Vegea, capace di unire due grandi eccellenze italiane: moda e vino, conosciute in tutto il mondo come icone di stile, per l’alta qualità dei prodotti e la grande tradizione artistica e manifatturiera.
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Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
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“Il n’est Champagne que de la champagne” ovvero “Non è Champagne se non è della Champagne”. Verissimo, ma non è detto che a fare lo Champagne debba essere per forza un francese.
Ed in effetti un’eccezione c’è. Si chiama Enrico Baldin, italiano quanto il tricolore, produttore di Champagne. E che Champagne!
La storia di Enrico e di Encry, la sua cantina, la si potrebbe riassumere semplicemente citando Eleanor Roosevelt: “Il futuro appartiene a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni”. È infatti una storia di sogni e di caparbietà quella che l’ha portato ad essere ciò che è oggi.
Abbiamo avuto modo di ascoltarla proprio dalla sua viva voce, grazie ad un’interessante serata organizzata dalla sezione Onav di Varese. Serata che ha visto Enrico Baldin e i suo vini protagonisti sotto l’occhio (ed il naso!) attento dei presenti. Cinque le proposte di Enrico per sorprendere i suoi ospiti, tutte provenienti dal Grand Cru, 100% Chardonnay, di Mesnil sur Oger.
LA DEGUSTAZIONE Apre la serata il Blanc de Blancs Brut. Base annata 2012 più il 20% di vini di riserva 2004 e 2006. Niente malolattica e utilizzo di estratto di vinaccioli per bloccare le fermentazioni (Enrico è molto attento a limitare l’utilizzo di solforosa). Quarantadue mesi sui lieviti e 4,5 g/l di dosaggio.
Colore paglierino carico con riflessi dorati, perlage fine e persistente. Note spiccate di mela verde, poi pesca e pera, un sentore erbaceo di fieno che si sposa con le note tostate e mandorlate.
Freschezza d’agrume e dolcezza di miele. In bocca pieno ed equilibrato, di grande sapidità e lunga persistenza.
Segue il Zero Dosage. Stesso vino del precedente ma non dosato. lo avevamo già incontrato durante “Mare di Champagne” ad Alassio e confermiamo il nostro parere.
Al naso è graffiante e molto minerale, inizialmente sembra quasi chiuso. Si apre poi sulla sua grande verticalità con note di agrume (pompelmo, lime) e frutta a polpa bianca. In bocca spiccano la sapidità e la finezza del perlage. La lunga persistenza è ben supportata dalla morbidezza.
Grand Rosé. 95% Chardonnay e 5% di Pinot Noir vinificato rosso proveniente da un altro Grand Cru: Bouzy. 36 mesi sui lieviti, 3 g/l di dosaggio. Accattivante nel colore, più tenue seppur intenso rispetto a molti altri Champagne.
Al naso è intenso e pulito. Frutti rossi come lampone e fragolina di bosco che si mescolano ai sentori tipici dello Chardonnay, un rosé non-rosé. In bocca la sapidità è appena smorzata dalla rotondità del Pinot.
La quarta proposta è Blanche Estelle, uno champagne nato dall’unione di 4 produttori divisi su 3 villaggi Grand Cru. 36 mesi di affinamento e 6 g/l di dosaggio.
L’idea è quella di creare in cooperativa con altri vigneron uno Champagne più morbido ed immediato che possa essere commercializzato in mescita a prezzi più contenuti.
Il risultato è un prodotto di grande bevibilità, diverso dal resto della gamma Encry. Al naso profumi di cipria e confetto con note fruttate. Morbido in bocca seppur supportato da una buona acidità. Persistenza più breve rispetto ai precedenti assaggi.
Chiude la carrellata il Millésime 2009. Racconta Enrico che in prima fermentazione si è dovuto abbassare la temperatura per via dell’esuberanza delle uve. 72 mesi, 4,5 g/l il dosaggio. Colore dorato e perlage finissimo. Molto evoluto al naso, sembra anche più vecchio del 2009.
Note di torrefazione, nocciola, terziario di caffè e liquirizia. Molto fine al naso con una nota di dolcezza burrosa pur senza aver fatto legno. Grande acidità e sapidità al palato. Lunga persistenza.
LA STORIA DI VEUVE BLACHE ESTELLE – ENCRY La storia di Encry comincia quando Enrico, pur grande amante delle bollicine, non apparteneva per cultura professionale al mondo vinicolo. Lui si occupava all’epoca di ingegneria naturale e ripristino ambientale con particolare attenzione alle tecniche di idrosemina.
Tecniche che possono essere applicate anche in vigna per rinfoltire l’erba fra i filari. Quelle tipologie di erba che non entrano in competizione con la vigna ma al contrario favoriscono una buona ossigenazione del terreno e agevolano il proliferare di quegli insetti che favoriscono le azioni antiparassitarie.
Proprio questa sua specializzazione ha portato, 17 anni fa, Baldin in contatto con un vigneron che necessitava del suo aiuto per migliorare le proprie colture. Colture di Chardonnay a Mesnil sur Oger, in piena Côte de Blancs, Grand cru posto proprio fra le vigne di alcune grandi Maison. Il vigneron in realtà non produce vino, si limita a conferire uve o mosti proprio a quelle Maison.
È di Enrico l’idea, nel 2004, di mettersi a produrre Champagne in collaborazione col vigneron, rilevando da lui 3,5 ettari di vigna ed investendo nella costruzione di una cantina. Coltivazione biologica e biodinamica “non estrema”, pressa tradizionale da 4000 kg, vinificazione in solo acciaio. Estrema attenzione alla qualità in ogni fase.
Nel 2007 le prime bottiglie sono pronte e ben etichettate col neonato marchio Encry (dal soprannome di Enrico, Enry, con in più la C di Champagne) quando il CIVC (Comité interprofessionnel du vin de Champagne) blocca la vendita. Perché? Perché ad Encry manca la “fondatezza”, vale a dire una storia alle spalle che possa in qualche modo “garantire” la serietà e la tradizione della Maison.
Dopo quattro mesi è il socio-vigneron di Baldin a trovare la soluzione: suo nonno aveva in fatti registrato relativamente a quel terreno un marchio di Champagne, Veuve Blache Estelle, nel 1917. Mai prodotto un solo litro di vino, ma tant’è, il marchio esiste ormai da un secolo e tanto basta a garantire una “fondatezza”. Enrico rileva il marchio e rinomina i propri vini come “veuve Blache Estelle – Encry”. Il gioco è fatto!
Ed invece no. Il CIVC si mette ancora di traverso. Il Comité non accetta che un francese possa cedere il blasone ad un non-francese. La soluzione questa volta arriva da Nadia, la compagna di Enrico. Lei ha una zia francese, basta far nominalmente figurare lei come depositaria del marchio ed anche questo ostacolo è superato. Dopo l’ennesimo tira e molla il CIVC è costretto a riconoscere Vue Blache Estelle Encry (anche se con un escamotage non viene concesso di utilizzare da dicitura RM, Récoltant Manipulnat, in etichetta).
Volontà, caparbietà, intelligenza, grande qualità in vigna e nel bicchiere. Ingredienti che sembrano la trama di un romanzo. Il romanzo dell’italiano che andò in terra di Francia a produrre il più prestigioso dei vini francesi.
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Il Milano Whisky Festival (lo scorso 11 e 12 novembre, presso l’Hotel Marriott di via Washington) si conferma essere il vero punto di riferimento per operatori ed appassionati del settore. Cresciuto negli anni, l’evento ha raggiunto nell’edizione 2017 la sua massima estensione tanto per “superficie” quanto per numero e tipologia di etichette rappresentate. Da quest’anno, infatti, l’evento non è più solo dedicato ai whisky (con una comparsata dei Rum, nelle ultime due edizioni) ma anche a molti altri Spirits: Cognac, Armagnac, Calvados, Applejack, Brandy etc.
La disposizione della sala, la presenza di produttori distributori e imbottigliatori indipendenti e la grande offerta di assaggi disponibili ha permesso a chiunque di organizzarsi il proprio percorso tematico per esplorare il mondo dei distillati secondo il proprio gusto, le proprie esigenze, desideri e curiosità. Tanti spunti di riflessione, dunque. Tra conferme e novità.
IL TOUR
Partiamo quindi dal classico dei classici, Macallan, che a fianco dei “soliti” Amber e Sienna ripropone qui la versione Fine Oak, linea di single malt (lanciata nel 2004) invecchiati in tre tipi di legno diversi (ex-sharry di rovere europeo, ex-sharry di rovere americano ed ex-bourbon). 12yo e 15yo in un crescendo di sensazioni fino al 18yo che col suo colore ambrato, i suoi profumi dolci di frutta (mela ed ananas), d’agrume e di spezie, il suo ingresso in bocca morbido ed il suo corpo con note di cioccolato e vaniglia ci ricorda perché Macallan, è Macallan.
Glenfiddich propone la verticale del proprio single malt (da 12yo a 26yo, tutti puliti e distintivi della distilleria), ma a cogliere la nostra attenzione è IPA Experiment.
Si tratta di un single malt no age che ha trascorso gli ultimi 3 mesi in affinamento in botti che hanno contenuto una birra IPA (Indian Pale Ale). Al naso dolcezza di malto, mela verde e pera con una nota erbacea di erba tagliata.
In bocca è vivace, con note di agrumi e vaniglia ed una nota verde forse dovuta ai luppoli della birra. Buona la persistenza.
Dalmore si conferma un riferimento per le Highlands centrali; tutti e tre i drum presentati (12yo, 15yo, 18yo) mostrano grande equilibrio olfattivo e gustativo. Stessa conferma per i 5 drum di Glenrothes.
Jura, a fianco del delicato Orign, dei torbati Superstition e Prophecy e del fruttato Elixir, presenta Diurach Own un 16yo che fra 14 anni dotti ex bourbon e 2 in botti ex sharry oloroso. Il risultato è un bicchiere dal profumo di agrumi, di mela e di cioccolato, un corpo dolce e resinoso con note speziate di chiodo di garofano ed un finale secco.
Presenti all’evento tutte e tre le distillerie di Campbeltown: Springbank, Kilkerran e Hazelburn. Tre distillerie vicine di casa, in un territorio difficile e dalle vicende alterne, con tre diverse filosofie produttive.
Se Springbank fa della torba “dolce” il suo marchio di fabbrica, Kilkerran alleggerisce le note di torba aprendo su sentori di frutta secca e caramello, mentre Hazelburn non fa uso di torba ed è una delle rare realtà scozzesi ad usare la tripla distillazione. Il risultato è uno scotch molto fruttato con una punta di spezie.
Conferme e certezze anche Balvenie e Tomatin, che presenta qui sia i classici spayside che il lievemente torbato Cù Bòcan. Ma lo scettro di Re della torba spetta anche quest’anno alla distilleria Bruichladdich col suo Octomore: 5 anni di invecchiamento e 208ppm di torba, è come mettere un caminetto che brucia legni aromatici dentro un bicchiere.
Buona anche la prova di Glenfarclas, verticale dai 10yo ai 25yo. Il 23yo ed il 25yo risultano rotondi e strutturati ma è il 15yo a sorprendere. Forse più “piacione”, più immediato e facile, dei fratelli maggiori ma dotato di grande equilibrio e di una nota cioccolatosa tanto al naso quanto in bocca che piacerà a buona parte dei consumatori, siano essi neofiti o esperti.
Sul fronte dei blended spicca Johnnie Walker che qui presenta i due nuovi Blenders Batch, Espresso Roast e Rum Cask Finish: note più tostate per il primo, maggiore dolcezza per il secondo.
Interessante anche la limited editon di Douglas Laing’s “Big Peat”, un blended Islay Malt ricco di note aromatiche.
L’Irish Whiskey si conferma un prodotto in crescita. Immancabile la presenza di Connemara, l’unico peated a doppia distillazione dell’isola, diventato ormai un’icona. Bushmills da un panorama completo dell’Irlanda del nord coi due blended, 1608 e Black Bush, e coi Single Malt da 10yo a 16yo.
Ma è Teeling a segnare il passo dell’Irish Whiskey. Single Malt (ormai un riferimento), Single Grain, Small Batch, Single Cask ed un interessantissimo Single Malt maturato in Stout Cask, botti che hanno contenuto la famosa birra scura irlandese. Se in bocca è pulito e non tradisce il suo essere un whiskey morbido, al naso e nel retronasale rivela tutte le note di tostatura tipiche della birra. Una pinta fatta whiskey.
A tenere alta la bandiera dei whiskey d’oltre oceano ci pensano la distilleria Harven Hill, con il suo Rittehouse, e la distilleria Elijah Craig. Rittenhouse è un Rye Bottled in Bond dal naso fresco, fruttato e poco speziato, scorrevole e leggero in bocca con un finale abbastanza persistente di pepe bianco.
Elijah Craig (nella foto, sotto) affianca al famoso 12yo, un Bourbon barrel proof da 68% (136 proof) che a dispetto della gradazione non è esageratamente forte al naso e quindi perfettamente godibile. Sentori di sciroppo d’acero e note legnose di vaniglia presenti tanato al naso quanto in bocca. Al palato rivela inoltre una piacevole nota di frutta secca ed un corpo pieno e vellutato. Lunga la persistenza.
Fra i paesi che solo recentemente si sono affacciati alla produzione di whisky restano in prima fila Taiwan ed India. La prima con la distilleria Kavalan che conferma la grande pulizia ed eleganza dei suoi prodotti, differenti per invecchiamento ma accomunati da piacevoli sentori floreali.
Dall’India ecco invece la distilleria Paul John, con tre prodotti fra cui spicca Edited un single malt figlio dell’elevato angle share della regione che presenta colore ambrato, naso di cereali, agrumi e spezie, palato caldo altrettanto agrumato ed una speziatura quasi piccante.
L’Italia è ben rappresentata da Puni, l’unica distilleria di whisky del bel paese. Quattro le proposte fra cui poniamo l’accento su Nero, un 3yo limited edition invecchiato esclusivamente in botti ex Pinot Nero dell’Alto Adige. Ambra chiaro con profumi di frutti rossi, sottobosco ed una nota di rovere. Palato caldo e giovane con note leggermente agrumate. Finale mediamente persistente con richiamo alla mora ed all’uva passa.
Si potrebbe continuare a lungo a parlare di tutti i prodotti presenti alla manifestazione, ma il modo migliore di esplorare il mondo degli spirits resta quello di munirsi di un bicchiere e trovare la propria strada, ricordando lo slogan che Dalmore ha scelto per l’evento: “Sometimes just raising a glass is a priviledge”. “A volte anche solo alzare un bicchiere è un privilegio”.
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Chi lo avrebbe mai detto? Il meglio del vino italiano è rappresentato da case vinicole che collaborano attivamente con la Grande distribuzione organizzata, ovvero il mondo dei supermercati.
E’ quanto emerge dal Consiglio di Sicurezza del’Onu. Nessun intrigo internazionale, tranquilli. Dopo dieci anni, la presidenza del Consiglio è tornata all’Italia.
E l’ambasciatore Sebastiano Cardi ha pensato bene di celebrare l’investitura consegnando ai membri del Consiglio di Sicurezza una selezione dei migliori vini italiani.
Grandi bottiglie, delle migliori annate, sono finite così nelle mani dei rappresentanti delle maggiori potenze (politico-finanziarie) del mondo: dalla Francia alla Cina, dal Regno Unito al Giappone. Passando ovviamente per gli Stati Uniti. La consegna della speciale “bag enoica” è avvenuta all’inizio del mese, proprio a New York.
La selezione dei vini è stata curata da Lucio Caputo (nella foto sotto), presidente dell’Italian Wine & Food Institute. Mentre tentiamo di metterci contatto con lui per capire quali siano stati i criteri guida delle scelte, non possiamo che notare come, nella lista, figurino numerosissime aziende operanti nel mondo della Grande distribuzione organizzata italiana (e in alcuni casi internazionale).
I VINI, LE CANTINE Il massimo esponente del Wine & Food Insitute ha fatto la spesa con Argiolas (Igt Isola dei Nuraghi Turriga 2013), Bertani (Amarone Della Valpolicella Classico Doc 2007), Jacopo Biondi Santi (Igt Toscana Schidione 2010), Castello di Querceto (Igt La Corte 2007), Col d’Orcia (Brunello di Montalcino Docg 2012), Donnafugata (Mille e Una Notte 2012), Fontanafredda (Serralunga d’Alba Barolo Docg 2013), Gaja (Barbaresco Docg 2013).
Poi ancora: Lungarotti (Vigna Monticchio Rubesco Riserva Docg 2009), Marchesi Antinori (Tignanello 2014), Mastroberardino (Naturalis Historia Taurasi Docg 2009), Planeta (Santa Cecilia Noto Doc 2010), Rocca delle Macie (Riserva di Fizzano Gran Selezione Chianti Classico Riserva Docg 2013), Sella & Mosca (Marchese di Villamarina Doc 2010), Tasca d’Almerita (Rosso del Conte Doc 2012), Travaglini (Gattinara Riserva Docg 2011), per finire con Vespa Vignaioli (Raccontami Primitivo di Manduria Doc 2014).
Una selezione, a prima vista, quasi scontata. Grandi nomi per grandi vini, già noti a livello internazionale e già in vendita nei principali mercati del mondo. Una (facile) scommessa che giova all’immagine della Gdo italiana, sempre più in grado di fungere da vetrina, anche per produttori blasonati.
Ma fa pensare la poca “fatica” compiuta dall’Italian Wine & Food Institute. Che così, forse, ha perso un’occasione unica per valorizzare il tessuto dei piccoli-medi produttori del Belpaese. Quelli che contribuiscono a fare grande l’Italia del vino, nel mondo, ognuno col suo modesto pezzo di puzzle. Vini che al Consiglio di Sicurezza dell’Onu non si bevono. Non si sono mai bevuti. E forse, così, non si berranno mai.
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Da oggi, “Abissi” di Bisson ha un fratello. Miolo Wine Group ha annunciato lo storico recupero della prima partita di spumante brasiliano affinato in mare. La cantina di Bento Gonçalves, nello Stato del Rio Grande do Sul, non lontano da Porto Alegre, è la prima ad ever utilizzato questo metodo in Brasile.
L’operazione di recupero delle bottiglie è avvenuta lo scorso 12 ottobre, a un anno dall’immersione del “Miolo
Cuvée tradition Brut” nel mare della Bretagna, nell’estremo nord-ovest della Francia. Lo spumante sarà distribuito entro fine anno nel mercato locale, ma anche in America e in Europa. In edizione “speciale e limitata”.
“Ci sono grandi aspettative in seguito al recupero delle bottiglie del nostro spumante dal mare – dichiara Adriano Miolo, amministratore delegato del gruppo -. Le festività natalizie di avvicinano. Siamo dunque in un momento speciale dell’anno per la vendita dei vini spumanti. Siamo sicuri che i nostri clienti e collezionisti vogliano avere nelle loro cantine il primo spumante brasiliano affinato in mare, per brindare alle vacanze”.
Strategicamente affondate nell’isola di Ouessant, in una regione nota come Baie du Stiff, le bottiglie di Miolo Cuvée Tradition sono rimaste per una anno a diretto contatto con l’acqua del mare, a una temperatura compresa tra gli 11 e i 13 gradi. Cullate da correnti morbide e costanti.
“Una grotta marina – evidenzia Adriano Miolo – dalle condizioni ideali per l’invecchiamento del vino: oscurità, umidità, costante temperatura e pressione. Potremo osservare gli effetti dell’invecchiamento dell’acqua attraverso prove di laboratorio e degustazioni. Un vino affinato in mare può avere 10 volte più composti molecolari di un vino invecchiato in modo tradizionale”.
Per questo, la Miolo Cuvée Tradition Brut avrebbe “più aromi e complessità”. “Nelle degustazioni alla cieca – continua Miolo – i risultati parlano chiaro sulla qualità di questo metodo. Gli spumanti affinati in mare presentano sapori più ricchi e floreali, complessità e freschezza, eccellenti note di burro e di mandorle”.
Nel 2018 sarà possibile apprezzare i risultati dell’affinamento di nuovi lotti di spumante nelle cave subacquee dell’isola di Ouessant. Il prossimo anno sarà infatti prelevato lo spumante Miolo Cuvée Tradition Brut Rosé, in prodotto in quantità ancora più limitata rispetto al primo esperimento.
Lo spumante rosato si trova nel mare francese dal mese di giugno 2017, accanto a un altro lotto di Miolo Cuvée Traditon Brut che non sarà prelevato prima di un anno. Entrambi i prodotti Miolo sono ottenuti dalla vinificazione col metodo classico di uve Pinot Noir e Chardonnay allevate nella Vale dos Vinhedos (DO).
Miolo Wine, che ha per claim “vinhos brasileiros, vinhos do mundo“, opera in quattro diverse regioni del Brasile con vigneti di proprietà. Centoventi ettari nella Vale dos Vinhedos, 200 ettari nella Seival Estate della Campanha meridionale, 600 ettari nella Almadén Winery (Campanha centrale) e ulteriori 200 ettari nella Terranova Winery, nella Vale do São Francisco.
AL PRINCIPIO FU “ABISSI” Molte le affinità degli spumanti marini di Miolo con quelli dell’italiana Bisson. Da 8 anni, la cantina di Chiavari affonda uno spumante metodo classico a base Bianchetta (60%), Vermentino Ligure (30%) e Cimixià (10%) al largo della Baia del Silenzio di Sestri Levante, in provincia di Genova.
Un progetto che ha avuto avvio nel maggio 2009, quando le prime 6500 bottiglie hanno iniziato a maturare nel fondale marino. Lo spumante viene prelevato solo in seguito a 18 mesi di permanenza in acqua. Anche per Bisson, l’immissione sul mercato è prevista nel periodo delle festività natalizie. Un’idea di Pierluigi Lugano, che conduce l’azienda ligure con la figlia Marta.
“Guardandomi attorno e pensando agli antichi relitti dei galeoni in fondo al mare che più volte hanno restituito prodotti alimentari dalle caratteristiche organolettiche intatte – spiega il produttore – ho deciso di coniugare la mia passione per il vino e il mare, pensando che l’ambiente ideale per l’affinamento di uno spumante potesse essere proprio il fondale marino. Profondità 60 metri, temperatura costante di 15 gradi, penombra, contropressione e una serie di fattori favorevoli per ottenere in questo contesto ideale la bollicina più esclusiva”.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
A Roma domenica 3 dicembre 2017, presso il Chorus Cafè (via della Conciliazione, 4), si terrà la seconda edizione di “A Tutta Torba!”. Una giornata dedicata interamente ai whisky torbati; centinaia di etichette per tutti i palati. L’evento è organizzato dalla direzione artistica di Spirit of Scotland – Rome Whisky Festival. L’ingresso è gratuito con gettoni a consumazione.
All’interno dell’evento grande risalto sarà dato al Laphroaig Cocktail Bar, partner esclusivo della manifestazione, con cocktail inediti preparati a base Laphroaig da 4 bartender d’eccezione: Federico Tomasselli del Porto Fluviale, Ercoli e Sant’Alberto al Pigneto, Gianluca Melfa dell’Argot, Solomya Grystychyn del Chorus Cafè e Camilla Di Felice del Jerry Thomas Speakeasy.
Spazio anche al cibo, con le eccellenze de Il Trapizzino, street food romano per eccellenza, da abbinare ai propri torbati preferiti. Sarà inoltre possibile, grazie alla collaborazione con lo shop Whisky & Co, acquistare numerose bottiglie presenti e, novità di questa edizione, vi sarà il collector’s corner con una trentina di bottiglie rare di whisky tra cui spiccano un Bowmore Delux Bot. 1970s 43%, un Port Ellen del 1978 6th Release 54.3% e un Ardbeg del 1974 26yo Silver Seal 40%. Non mancherà l’area dedicata ai viaggi in Scozia per distillerie grazie alla presenza di Tiuk Travel.
“A Tutta Torba – sottolineano i direttori artistici di Spirit of Scotland – alla sua seconda edizione dopo il successo del 2016 evidenzia quanto siano sempre più apprezzati, in Italia, i whiskies torbati. Quali promotori del bere di qualità vogliamo offrire al pubblico romano un’altra giornata dove poter assaporare centinaia di etichette e avere la possibilità di sentirsi raccontare aneddoti e curiosità su questo particolare prodotto caratteristico di Islay, isola della Scozia larga poco più di 40Km e lunga appena 25 e con 8 distillerie…una vera e propria distilleria galleggiante! Qui tutti affumicano, chi più chi meno, chicchi di malto d’orzo bruciando la torba di cui l’isola ne è molto ricca…insomma tanto da scoprire con un bel dram in mano!”.
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Louis Roederer è una delle poche Maison de Champagne ancora gestita dalla famiglia fondatrice. Una storia che affonda le radici nel lontano 1776, a Reims. La cantina ottiene il nome attuale nel 1833, quando viene ereditata da Louis Roederer, che intraprende un percorso di crescita e ristrutturazione in controtendenza rispetto alle altre realtà della regione.
A differenza di altre Maison (i cosiddetti Négociant Manipulant) che acquistano uve da altri vignaioli, Louis è convinto che il segreto di un grande vino risieda nella terra. Inizia così a investire nell’acquisto di vigne nei territori dei Grand Cru e Premier Cru. Un approccio da piccolo vignaiolo (Récoltant Manipulnat, come si dice Oltralpe) ma su larga scala.
Nel 1850, la Maison Roederer può contare su 100 ettari di proprietà. Oggi su oltre 240 ettari, suddivisi in 410 appezzamenti fra la Montagne de Reims, la Cote de Blancs e la Vallée de la Marne. Unica nel suo genere, la cantina coniuga in sé tanto l’abilità enologica propria delle grandi Maison quanto l’attenzione alla viticoltura tipica dei Vigneron.
Per dar modo di conoscere ed approfondire gli Champagne di Louis Roederer lo scorso 20 ottobre la sezione Onav di Varese ha organizzato un’interessante degustazione.
LA DEGUSTAZIONE Sette le proposte. Apre la serata il Brut Premier, il “base” di casa Roederer, lo champagne pensato per dare continuità alla Maison dopo la prima guerra mondiale.
Vinificazione in fusti di rovere per la cuvée composta dal 40% di Pinot Noir, 40% di Chardonnay e 20% di Pinot Meunier. Tre anni di affinamento sui lieviti, 6 mesi di riposo in bottiglia dopo la sboccatura, 9 g/l di dosaggio.
Giallo paglierino brillante, perlage piuttosto fine. Molto pulito al naso con note fruttate di mela, di agrume, vegetali di fieno ed una dolcezza di crema pasticcera. In bocca il perlage è un poco aggressivo. Grande acidità e buona sapidità. Evidente la presenza del Meunier. Equilibrato con una dolcezza di miele e camomilla che accompagna la breve persistenza.
Brut Rosè Vintage 2011. Annata difficile con inverno secco, primavera calda ed estate fresca e piovosa che costrinse a vendemmia anticipata. 63% Pinot Noir, 37% Chardonnay. Il 22% dello Chardonnay è vinificato fusti di rovere mentre il 13% fa fermentazione malolattica. Quattro anni di affinamento e 6 mesi di riposo in bottiglia dopo sboccatura. 9 g/l il dosaggio zuccherino.
Color buccia di cipolla brillante, il perlage è piuttosto fine e persistente. Al naso è più timido del brut con note di melograno, gesso e salmastre di ostrica seguite da una speziatura di pepe bianco.
Un poco aggressivo il perlage, di buona acidità, chiude su di una nota amarognola forse dovuta al residuo zuccherino.
Blanc de Blanc Vintage 2008. Annata con primavera molto piovosa ed estate secca che hanno dato una maturazione lenta e progressiva delle uve. 100% Chardonnay, il 15-20% vinificato in botti di rovere con battonage settimanale e nessuna fermentazione malolattica, 5 anni di affinamento sui lieviti ed un dosaggio zuccherino di 8-10 g/l.
Paglierino con riflessi dorati al naso è molto fine, delicato. Uno champagne che non urla i propri sentori ma che sussurra note floreali e fruttate contornate da un profumo di erba tagliata. Molto elegante in bocca non rivela il proprio dosaggio zuccherino forte di una grande mineralità. Lunga la persistenza.
Brut Nature 2009 e Brut Nature 2006. Una mini verticale. Il Brut Nature 2009 nasce in un’annata ricordata come una delle migliori in Champagne, con inverno rigido e secco ed estate soleggiata ed asciutta. 70% di Pinot Noir e Pinot Meunier, 30% Chardonnay. 25% della vinificazione in rovere, nessuna malolattica, nessun dosaggio zuccherino.
Colore paglierino con riflessi dorati. Naso molto espressivo ove si riconoscono note floreali di ginestra, frutta bianca, agrumi, mandorla e marzapane ed una nota di tabacco da pipa. Al palato il perlage è molto piacevole in contraltare con la schietta acidità del pas dosé.
Il 2006 è l’anno che suggella le varie prove della Maison, iniziate nel 2003, per la realizzazione del primo Brut Nature. 70% di Pinot Noir e Pinto Meunier, 30% Chardonnay. Fermentazione spontanea del 100% dei vini in botti di legno. Nessun dosaggio.
Colore più carico rispetto al 2009 al naso è più chiuso con sentori simili a quelli del 2009 contornati da una nota dolce di confetto. In bocca è teso e pulito con una grande mineralità.
Vintage 2009. 70% Pinot Noir, 30% Chardonnay. 30% circa dei vini vinificati in legno. 9 g/l di dosaggio. Color giallo dorato con perlage molto fine e persistente. Estremamente pulito al naso con note di cera d’api, di frutta disidratata, note di spezie, di tostatura e di pasticceria.
Finissimo in bocca col perlage che accarezza il palato, uno champagne rotondo con acidità e mineralità perfettamente bilanciate. Lunga la persistenza.
Chiude la degustazione Cristal 2007. Annata con primavera calda ed estate fresca chiusa da una vendemmia in condizioni ideali. La cuvée, ottenuta da vecchie viti, si compone del 58% Pinot Noir e 48% Chardonnay con il 15% dei vini vinificati in rovere. 9,5 g/l il dosaggio.
Colore dorato con perlage finissimo. Pulizia assoluta al naso con agrume maturo, tostatura che vira al fumé e note minerali di pietra focaia. Bocca equilibrata ed estremamente armonica. Finale lungo.
LA STORIA DEL CRISTAL Correva l’anno 1867 quando la Maison Roederer confezionò una versione speciale della propria Cuvée de Prestige per lo Zar di Russia Alessandro II.
A causa di tensioni nazionali ed internazionali si temevano attentati alla vita dello Zar e così, in occasione della “Cena dei tre imperatori” cui Alessandro II avrebbe partecipato (insieme a Guglielmo I di Prussia ed al principe Otto von Bismarck) venne realizzata una bottiglia particolare.
La bottiglia era in cristallo trasparente (da cui il nome) per garantire che al suo interno vi fosse champagne e non qualche liquido infiammabile o esplosivo.
Allo stesso modo il fondo della bottiglia era piatto per evitare che vi si potessero nascondere altre minacce. La bottiglia così nata, adornata da una etichetta dorata che ne esalta l’eleganza, divenne un’icona a tal punto da essere oggi considerata dagli economisti un “bene di Veblen”.
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La Commissione europea lascia aperto uno spiraglio per i piccoli produttori nei confronti dell’etichettatura nutrizionale del vino.
È questo quanto emerso dall’audizione pubblica del 18 ottobre a Bruxelles organizzata dai due parlamentari europei Renate Sommer e Herbert Dorfmann sul tema dell’etichettatura delle bevande alcoliche.
Alexandra Nikolakopoulou (nella foto) ha dichiarato che “la commissione è disposta a valutare se ci potranno essere eventuali esenzioni o deroghe”.
L’importanza dell’affermazione deriva dal fatto che la Nikolakopoulou è stata responsabile del rapporto CE rilasciato lo scorso marzo, in cui veniva ribadito l’obbligo dell’etichettatura e veniva lasciato un anno alle associazioni di categoria per elaborare una proposta di normativa.
In rappresentanza della CEVI (Confederazione Europea Vignaioli Indipendenti) era presente la Vicepresidente Matilde Poggi, che in Italia è anche Presidente FIVI (Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti).
Tanti gli intervenuti all’incontro: i rappresentanti della Commissione europea (DG AGRI e DG Salute), deputati, rappresentanti delle organizzazioni europee di vino, birra e liquori, nonché organizzazioni non governative (Eurocare, BEUC).
Poggi ha ribadito la posizione FIVI e CEVI che ritiene l’etichettatura dei vini un inutile aggravio per i produttori, in particolare per quelli di piccole dimensioni. Le stesse perplessità sono state sollevate dai rappresentanti dei piccoli distillatori e dei piccoli birrifici artigianali.
“Il rischio – dichiara Matilde Poggi – è quello di mettere fuori mercato le produzioni dei piccoli vignaioli, soffocati da un incremento dei costi dovuti all’obbligo dell’etichettatura. Questo porterebbe a una standardizzazione della produzione del vino in Europa, tutta a favore dei grandi produttori. Cosa che è già successa a tanti piccoli macelli o caseifici artigianali che hanno dovuto chiudere perché schiacciati da norme e regolamenti troppo onerosi da adempiere per chi ha piccole dimensioni”.
“Non riteniamo – prosegue Poggi – che il modello industriale sia quello che il pubblico vuole in questo momento. La gente oggi preferisce sapere da dove arriva quel che mangia o beve e acquistare i prodotti di chi ci mette personalmente la faccia, come i Vignaioli Indipendenti”. La CEVI ha quindi richiesto che sia prevista una legislazione diversa per i Vignaioli.
L’approccio pragmatico del CEVI, arricchito da esempi concreti, è stato particolarmente ascoltato dai deputati europei e dalla Commissione. Quest’ultima, è stata anche molto attenta e più flessibile del solito in materia.
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georges meekers emmanuel delicata winemaker head sales vini malta
Sei cantine per raccontare il vino di Malta. Dai due grandi gruppi che si contendono il primato commerciale sull’isola, Delicata e Marsovin. Passando per Meridiana – che ormai parla italiano – azienda di proprietà dei marchesi Antinori.
Proseguendo con Maria Rosa, il “giocattolino” di un milionario ultranovantenne del posto. E chiudendo, a Gozo, con Ta Mena Estate e Tal-Massar. Questo il percorso del wine tour.
Caccia agli autoctoni Gellewza, Girgentina e Serkuzan. Ma anche alle sfumature locali di varietà internazionali come Chardonnay e Sauvignon, tra i bianchi. Cabernet, Merlot e Syrah, tra i rossi. Una viticoltura, quella di Malta, che deve molto agli aiuti giunti dalla Comunità europea, a cui l’ex colonia britannica ha aderito il primo maggio 2004.
Un lasso di tempo che consente oggi all’isola di candidarsi a ruoli di tutto rispetto nel panorama enologico internazionale. Francia e Italia sono i modelli, seppur ancora lontani. Ancor di più se si considerano i 400 ettari liberi per investimenti nel settore, a fronte delle scelte di un governo distratto dai soldi facili delle compagnie assicurative internazionali e, soprattutto, del gaming e del gioco d’azzardo online.
Malta piace sempre di più agli investitori esteri in cravatta e ventiquattrore. Attirati dai vantaggi di una lingua ufficiale internazionalmente parlata, l’inglese. E dagli effetti della Brexit, che la stanno trasformando in una piccola cassaforte dei sudditi della regina.
Nel frattempo, le nuove generazioni maltesi abbandonano la campagna, preferendo i centri urbani disposti a raggio attorno alla capitale La Valletta. L’età media dei lavoratori impiegati nei 750 ettari vitati dell’isola, secondo dati forniti sul posto, si assesterebbe sui 50 anni.
Roba per vecchi, insomma, zappare la terra e godere dei frutti di Bacco, a Malta. D’altro canto, strade sempre più trafficate e in pessimo stato rallentano l’economia della piccola nazione del Mediterraneo.
E rimandano il countdown per l’Olimpo del vino, almeno di qualche anno. Mentre il turismo punta sempre più sui Millennial, la Generazione Y. Quella che si fa andar bene pure le spiagge sporche – oggi più di 10 anni fa – purché il deejay pompi musica a palla, che arrivi tra le onde.
Trovare manodopera qualificata, a Malta, è ormai un’impresa. Spesso sono aziende siciliane ad aggiudicarsi le aste per i lavori nel pubblico. E i privati, come le cantine, faticano addirittura a reperire elettricisti, idraulici, esperti nella catena del freddo e manovalanza in generale. Costi quintuplicati, dunque, per ogni singolo intervento necessario in un’ottica di modernizzazione delle strutture e delle attrezzature enologiche.
Se di mezzo ci si mette pure il cielo, con le ultime vendemmie stroncate da siccità e mancanza di reti idriche adeguate per l’irrigazione di soccorso, si comprende perché grandi gruppi come Delicata e Marsovin stiano tentando di raggiungere accordi col Palazzo del Gran Maestro, sede del nuovo parlamento progettata da Renzo Piano.
Alla viticoltura maltese occorrono denaro fresco, un programma che invogli i giovani a tornare a credere nella terra e investimenti sulla valorizzazione dei vitigni autoctoni, estirpati in massa nei due secoli di dominazione araba. Basti pensare che sull’isola cresce meno di un ettaro di Gellewza.
Completano il quadro incredibili rivalità commerciali tra l’isola madre, Malta, e la più grande delle due “isole satellite” dell’arcipelago: Gozo. Nella capitale La Valletta è impossibile reperire un vino gozitano al ristorante. Scarseggia l’offerta anche nella maggior parte delle enoteche. Mentre le catene di supermercati sembrano non curarsi dell’antagonismo.
TA MENA ESTATE Eppure è Gozo a offrire il miglior vino in circolazione a Malta. Un assortimento di etichette di ottimo livello dal produttore Joseph Spiteri, 58enne dagli occhi azzurri come la Blue Lagoon, che ha raccolto l’eredità dei bisnonni Carmela, detta “Mena”, e Frank: a loro si deve l’inizio di un’avventura chiamata Ta Mena Estate. La copertina del wine tour a Malta è tutta sua.
Joseph Spiteri è il guardiano dell’isola di Gozo. Dai 2 ettari del 1986, l’azienda di famiglia è passata negli anni a 25 ettari, quindici dei quali vitati. E Joseph ha ancora voglia comprare terre da convertire alla viticoltura e ad altri progetti in ambito agricolo. Mentre tutt’attorno i giovani sembrano aver perso il nesso con le origini.
A Ta Mena Estate lo staff è internazionale. In cantina anche un enologo italiano, Claudio De Bortoli. Ed è proprio all’Italia che si ispira Spiteri, che ha “imparato a fare il vino in Veneto, sui Colli Euganei, e poi in Toscana”. Un “allievo dell’università della strada”, come ama definirsi, che opera in regime naturale, pur senza alcuna certificazione.
Nel 2017 cade il decennale delle “vendemmie professionali” di Ta Mena, cantina con una capacità produttiva di 150 mila bottiglie. “Servizi finanziari, scommesse, assicurazioni – denuncia Spiteri – sono il nuovo male dell’economia maltese, in crescita di 6,5 punti ogni anno. Ma a che prezzo? Senza investimenti nell’agricoltura si gioca col destino”. Nel frattempo, Joseph, pensa a produrre vini che rappresentino appieno il terroir matese.
Il Vermentino Gozo Dok 2016 “Juel” si fa apprezzare per il naso salino e fruttato e per un palato morbido, pieno, piacevolmente disorientante per la mancata corrispondenza gusto-olfattiva. Il rosè “Grecal”, altro Gozo Dok, vendemmia 2015, è invece una delle chicche di Ta Mena Estate.
Ottenuto al 35% dall’autoctona Gellewza su una base di Merlot (50%) e con l’aggiunta geniale di un 15% di Tempranillo (colore e corpo), regala note floreali dolci al naso, tipiche del vitigno maltese a bacca rossa, e un vegetale prezioso offerto dal Merlot. Bella acidità e persistenza da campione. Incredibile si tratti di un rosato 2015, con altri 3-4 anni davanti, a ottimi livelli.
Sul gradino più alto del podio, però, c’è Gabillott 2009, blend di cinque uve: Merlot, Serkuzan (Nero d’Avola), Cabernet Sauvignon e Franc (15-20%) e Syrah.
Un vino capace di concentrare in bottiglia e riversare poi nel calice il clima di un’isola baciata dal sole 300 giorni l’anno (60 mm totali di pioggia), con venti per l’80% provenienti da Nord Ovest, secchi, e un suolo prettamente calcareo e limoso.
Naso generoso e intenso, dalla frutta alle spezie, con quella costante iodica che caratterizza tutti i vini di Ta Mena Estate. Al palato la mineralità è il tratto distintivo, assieme alle note fruttate, ancora croccanti come un biscotto. Chapeau.
Peccato che gli americani preferiscano la versione “barrique” (9 mesi / 1 anno) di Gabillott, con Carmenere al posto del Cabernet Franc.
Joseph Spiteri ha un’anima d’artista. Dipinge i paesaggi di Malta, la notte, al posto di dormire. Con le canzoni dei Pink Floyd o la musica classica di Beethoven a fare da sottofondo. Vere e proprie tele sono anche i suoi vini. Gli unici capaci di rappresentare davvero la verità del terroir di Malta, senza cercare di piacere per forza. Vini veri, insomma.
MASSAR WINERY Vini che avrebbe potuto fare “così” anche Anthony Hili di Massar Winery. Il vicino di casa, a Gozo, di Joe Spiteri. Peccato che Hili offra, con le sue etichette, la netta sensazione di non considerare Spiteri alla stregua di un genuino modello da imitare.
A Massar Winery l’obiettivo sembra più il consenso internazionale. E qualche premio (l’ultimo in Spagna) è effettivamente arrivato per la cantina di L-Għarb, Garbo in italiano, paesino situato nella parte Nord Ovest dell’isola satellite di Malta.
Vini come Tanit 2016, San Mitri 2014 e Garb 2013 paiono troppo “pensati” in cantina. Etichette che non riescono a nascondere l’abile mano di un enologo che ha l’intento di colpire il pubblico straniero. Non a caso, i residui zuccherini dei Sirkusian proposti in degustazione fanno impazzire le due turiste del Minnesota presenti al tavolo.
Abile intrattenitore, Anthony Hill racconta come “tutto, a Malta, è stato distrutto dalla politica che non crede nel ‘local’ e che non valorizza le imprese”. Come la sua, 6 ettari complessivi (3 di proprietà), e un record produttivo di 16 mila bottiglie.
A Massar Winery si allevano Vermentino, Sangiovese (importato dall’Emilia), utilizzato per la produzione di un rosso leggero e di un rosè, e l’autoctono Sircusian (anche detto Serkuzan e Sirakuzan il Nero d’Avola giunto proprio dalla Sicilia). A meritare una menzione è proprio quest’ultimo, nella versione simil “passito” di Garb 2013: vendemmia tardiva che sprigiona sentori di mela cotta, ciliegia, liquirizia, cioccolato e rabarbaro.
MERIDIANA WINE ESTATE
Tratti ancora più internazionali alla Meridiana Wine Estate, l’investimento su Malta della famiglia fiorentina dei Marchesi Antinori. Un’azienda vocata principalmente al mercato locale (export al 3%) soprattutto per lo scarso numero di bottiglie prodotte (circa 140 mila) da 17 ettari di terreni, con l’apporto di alcuni conferitori.
Un progetto nato nel 1997, che vede protagonisti vitigni francesi come lo Chardonnay (il più venduto), il Cabernet Sauvignon, il Merlot e il Syrah, accanto a Vermentino, Moscato, Viognier e piccole percentuali di Girgentina.
Vendemmia manuale e pratiche di cantina volte a preservare il “Maltese character” delle uve, non sempre con i risultati sperati – in termini di distintività – per l’utilizzo di un legno che tende a uniformare al gusto internazionale il singolo vitigno utilizzato.
Ma a colpire sono i prezzi di questi vini, letteralmente “regalati” per la qualità che riescono a esprimere (dai 9,20 ai 18,40 euro del Merlot top di gamma). A colpire, in modo particolare, sono i 15,90 euro del blend tra Cabernet Sauvignon (70%) e Merlot (30%). Il vino è Melquart 2014, 10-12 mesi di barrique. Naso splendido, ricco, balsamico, con richiami vegetali puliti, tipici dei due vitigni e in particolare del Merlot.
Grande corrispondenza al palato, dove alle note balsamiche fanno eco venature sapide che invitano la beva. Un calice e una bottiglia che rischia di finire in pochi minuti, davanti al giusto piatto. Più che soddisfacente anche il retro olfattivo, lungo. Il vino di Malta “fatto” meglio, in assoluto.
MARIA ROSA WINE ESTATE
Da Castrofilippo, paesino di 3 mila anime alle porte di Agrigento, passando per Saint-Émilion, vicino Bordeaux. Ha visto il mondo dalle vigne, dopo gli studi in Enologia e Viticoltura a Udine, la 31enne Lorena Molito. E’ atterrata a Malta due vendemmie fa. E la sua mano, a Maria Rosa Wine Estate, si sente eccome.
Poco più di 4 ettari, allevati per la maggior parte a Sirakuzan (Nero D’Avola), Cabernet Sauvignon (8%) e Syrah (2%). La tenuta, situata ad Attard, nel centro dell’isola di Malta, poco lontano dalla cittadina di Mdina, è dal 2006 il gioiellino di proprietà di Joseph Fenech. Un milionario maltese di 93 anni, imprenditore nel settore alberghiero, con la passione per il vino.
Ventimila bottiglie l’anno, zero export. Una piccola produzione di medio alto livello, cresciuta (qualitativamente) negli ultimi anni proprio grazie all’arrivo, in cantina, dell’enologa siciliana Lorena Molito.
“Questa – spiega – è una piccola realtà che punta a produrre vini di qualità. Quando sono arrivata qui, tre anni fa, mancavano però alcuni accorgimenti indispensabili, come il sistema di controllo della temperatura per le vasche in inox. Ho dovuto impormi per far comprendere che occorrevano investimenti senza i quali non si sarebbe mai raggiunto l’obiettivo”.
Nelle vasche riposa l’ultima annata, la 2017, che si preannuncia ottima. Sono pronti per essere imbottigliati il Sirakuzan Dok 2016 – grande facilità di beva, favorita da un bellissimo frutto rosso – e il Cabernet Dok 2016.
Il meglio riposa in barrique: da assaggiare le riserve di Sirakuzan, Syrah e, su tutte, quella di Cabernet Sauvignon. Peccato per il Sirakuzan vinificato in bianco, una chicca di Maria Rosa Wine Estate: non sarà prodotta quest’anno, per via della scarsità della vendemmia.
MARSOVIN WINERY Un elenco infinito di vini sulla “carta” di Marsovin, uno dei due maggiori gruppi del settore, a Malta. Ben 43 etichette, utili a spaziare dalla base alle linee di medio livello (vini destinati alla Gdo, tutti con un ottimo rapporto qualità prezzo) sino al top di gamma.
Un milione e mezzo le bottiglie prodotte dai 23 ettari di proprietà, cui vanno a sommarsi i 330 ettari dei selezionati e storici conferitori. Mercato locale al 96% e tante richieste dall’estero (per esempio dalla Cina) impossibili da soddisfare, per via dei numeri risicati e dell’andamento climatico delle ultime vendemmie.
I terreni di proprietà, in particolare, sono dislocati nelle aree a maggiore vocazione dell’isola e consentono a Marsovin di offrire un quadro completo dei terroir maltesi. A Marnisi Estate (8,5 ettari a Marsaxlokk, uno degli appezzamenti più grandi dell’isola) su producono vini in stile Bordeaux; a Ghajn Rihana (1.2 ettari a Burmarrad, nella zona di St. Paul Bay) grazie alla competizione radicale (120 centimetri tra una pianta e l’altra), si punta a rese più basse, in grado garantire una maggiore qualità per le varietà di Cabernet Sauvignon e Franc; a Wardjia Valley (1,5 ettari) sempre a nord, vicino a Ghajn, il vento è forte e le vigne sono disposte in suo favore, protette da alberi tra i filari di Chardonnay.
Marsovin, storica realtà maltese, fondata nel 1919 da Anthony Cassar, merita una menzione proprio per il coraggio: è l’unica cantina di Malta a produrre un Metodo Classico, il Cassar De Malte, un Brut ottenuto dal cru in Wardija Valley. Record produttivo di 5 mila bottiglie.
Perlage fine e persistente, naso tipico del vitigno, con richiami alla crosta di pane e al lievito dovuti ai 24 mesi di permanenza sui lieviti. Il bouquet è floreale e fruttato fresco, marcatamente agrumato e tendente all’esotico. Corrispondente al palato, dove il perlage si rivela cremoso. Lungo il retrolfattivo. Passare da Malta e non provarlo è un vero peccato.
Ma Marsovin non si limita alla produzione di un ottimo sparkling. Bernard Muscat, wine specilist che si occupa di PR ed Eventi per il gruppo Cassar Camilleri, guida la degustazioni delle migliori referenze della cantina, nel quartier generale della cittadina portuale di Paola (Pawla o Raħal Ġdid), a Sud della capitale La Valletta.
La famiglia Cassar ama l’Italia e, in particolare, l’Amarone. Per questo, dal 2009, ha pensato di produrre il Malta Dok “Primus”, ottenuto da Gellewza (65%) e Syrah (35%) da appassimento (“Imwadded” in etichetta). Nel calice la vendemmia 2015 presenta il tipico colore concentrato. Così come spessi sono i sentori che si liberano al naso: note di fico, prugna secca, confettura di frutti rossi.
E poi tabacco, miele d’acacia. Note bilanciate tra l’affumicato e il dolce che si ritroveranno anche al palato, dove a colpire è la presenza di una componente minerale salina e un tannino di velluto, coperto da cioccolato, che fa capolino nel retrolfattivo. Un vino perfetto davanti a un libro, oltre che con il giusto abbinamento a tavola.
Molto interessante anche il Passito “Guze” 2014, lanciato sul mercato da Marsovin in occasione del 16° anniversario dalla morte di “Sur Guzi”, “Signor Giusè(ppe)”, Joseph Cassar, uno dei discendenti del fondatore. Si tratta sempre di Syrah appassito, con un residuo zuccherino di 120 g/l tutt’altro che stucchevole. Naso intenso, come quello di “Primus”, con cui lotta in quanto a finezza dei sentori.
Marnisi Old Vines 2015 è invece un blend di Merlot (40%), Carbernet Sauvignon (30%) e Cabernet Franc (30%). Un taglio bordolese tout court, ottenuto dalle vecchie vigne di Marsaxlokk. Il passaggio in legno è evidente, sia al naso che al palato, ma non invasivo.
Rosso rubino poco trasparente, questo rosso di Marsovin Winery sfoggia un naso molto elegante, nonostante la prevalenza di note vegetali spinte: carruba, rosmarino, origano, ma anche frutta rossa come la ciliegia. I terziari sfiorano liquirizia, tabacco e incenso. Il palato completa il quadro con la consueta mineralità, ancora una volta ben bilanciata alle note fruttate. Particolare il gioco tra sale e frutta: componenti tra le quali mette il dito un tannino ancora vivo. Lunga vita davanti a questo taglio, degno di Bordeaux.
Non male, tra i bianchi, la Girgentina Igt Maltese Islands 2016 in purezza della linea “La Torre”, reperibile anche al supermercato. Giallo paglierino, naso tendente all’aromatico, ricorda per certi versi il Moscato secco. Un vino che aspira alla Dok, per la quale Marsovin sta riducendo sempre più le rese, che oggi si assestano sui 90-100 quintali/ettaro.
Un vino dal corpo leggero (10%) ma non banale, adatto all’aperitivo e alle calde estati maltesi. Naso e bocca corrispondenti, giocate soprattutto sulla freschezza acida di agrumi come limone, il lime e il bergamotto. Sorprendente la chiusura sulla nocciola.
EMMANUEL DELICATA WINEMAKER Sesta ed ultima tappa del wine tour a Malta, alla Emmanuel Delicata Winemaker. Restiamo a Paola, a poche centinaia di metri in linea d’aria da Marsovin. Con 1,2 milioni di bottiglie, Delicata è il secondo gruppo dell’isola.
Storia antica anche per questa grande azienda, fondata nel 1907 da Eduardo Delicata e passata nel 1937 nelle mani del figlio, Emmanuel, all’epoca appena diciannovenne.
Una politica aziendale completamente diversa rispetto a quella di Marsovin. “Non abbiamo nessun terreno di proprietà – spiega Georges Meekers, da 17 anni a capo dell’Ufficio vendite – sulla base del nostro progetto denominato ‘Vines for Wines’. Lavoriamo con oltre 300 viticoltori maltesi, che seguiamo attentamente con il nostro staff, a disposizione in ogni procedimento in vigna”.
Un progetto più unico che raro di “vigne in franchising”, quello della Emmanuel Delicata Winemaker. “Chiunque decida di diventare nostro conferitore – aggiunge Meekers – viene seguito dall’individuazione dei vigneti alla vendemmia. Siamo diventati così la prima cantina di Malta per quantità di uve e varietà allevate, più di 25 nel 2017. E a differenza dei competitor crediamo da oltre 20 anni nelle potenzialità degli autoctoni Girgentina e Gellewza”.
Cinquanta i vini prodotti da Delicata, “ma tutti in piccole quantità”, tiene a precisare Meekers: “I nostri sono boutique wines”. Export al 5% e grande concentrazione sul mercato maltese, specie in quello della Grande distribuzione, dove Delicata occupa un ruolo di grande rilievo a scaffale.
Nella linea non potevano mancare dei vini “mossi”. Ma non si tratta di Charmat o frizzanti. Delicata produce “aerated wines” con gli autoctoni Gellewza e Girgentina, perfetti per l’aperitivo. Peccato che le “bollicine” siano ottenute mediante aggiunta di anidride carbonica al vino. “Ma solo in piccole quantità – precisa Meekers – in quanto cerchiamo di conservare le bollicine che si creano naturalmente durante la fermentazione”.
Sono tutti vini “leggeri” quelli della Emmanuel Delicata Winemaker, pensati per un pubblico maltese non troppo esigente. A colpire è il solo Merlot Malta Dok Superior 2015 della linea Grand Cavalier, tra i vini più strutturati della casa di Paola. Frutto di un mix di barrique (Slavonia, Francia e Usa) che non sbilancia sui terziari naso e palato. Anzi, il Merlot risulta piuttosto caratteristico per la sua parte minerale-salina, che ben si amalgama alle note tostate di caffè e toffee conferite dal passaggio in legno.
Da provare anche il Moscato Malta Dok 2012 Grand Vin de Hauteville , vino liquoroso (15%) a base Moscato. Lievi e piacevoli note ossidative al naso e richiami all’idrocarburo per questo nettare di grande concentrazione gusto-olfattiva. Al palato per nulla stucchevole, sembra non stancare mai. Perfetto con formaggi e dolci come crostate alla frutta.
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Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
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Un’accoglienza genuina e spontanea quella di Davide Spillare, giovane classe ’87. Un vignaiolo vero, che t’accoglie dalla campagna, con le mani (pulite) di terra. Mentre s’avvicina, il panorama si apre alle sue spalle: vista mozzafiato dall’azienda agricola fondata 10 anni fa, frutto di una tradizione di famiglia.
Siamo a Gambellara, in provincia di Vicenza. A sinistra si ergono i Colli Berici, a destra si distende la Valchiampo e la Valpolicella. A Davide si deve la virata radicale dell’azienda, trasformata in una delle più fulgide realtà italiane della viticoltura biodinamica. Una svolta abissale: il bisnonno Cristiano, infatti, conferiva le uve alla cantina sociale del posto.
I vigneti di pianura, a 180 metri sul livello del mare, si nutrono di terreni argillosi, molto ricchi. Quelli in collina mangiano tufo, detto “togo” nel dialetto locale: forte componente rocciosa e vulcanica, che dà vita a vini con una spiccata mineralità. Le rese si aggirano sugli 80 quintali per ettaro in pianura e 30-40 quintali per ettaro in collina.
Dopo la scuola di Agraria, Davide Spillare si cimenta nel mondo del vino grazie agli insegnamenti del maestro Angiolino Maule, oggi patron di VinNatur, e parte per il suo viaggio sperimentale ricco di soddisfazioni, ma anche di alcune delusioni. Ad oggi può vantare rapporti commerciali ed esportazioni in Canada, Giappone, Danimarca, Svezia, USA, Londra e Parigi.
La sua filosofia segue i canoni dell’agricoltura biodinamica del ‘900, basata sulle teorie di Rudolf Steiner. “Una dottrina che dev’essere comunque rivisitata – spiega Spillare – poiché la terra di oggi non è la terra di cent’anni fa”. Davide lavora la terra in modo “non convenzionale”, ossia “naturale”. Evitando l’uso dei diserbanti chimici e limitandosi a trattamenti con rame e zolfo in basse concentrazioni, solo fino alla fioritura, per combattere il temuto oidio.
LA DEGUSTAZIONE La degustazione avviene in una piccola cantina, tra le barrique in legno di rovere usate, disposte sul perimetro. Al centro una botte su cui poggeranno i calici. Il primo vino è uno spumante, “L1“, dedicato alla vertebra fratturata durante un incidente in vigna su un trattore, dove Davide rischiò la vita.
“L1” è ottenuto al 95% da uva Garganega e al 5% da Durella, che conferisce acidità. Dopo la prima fermentazione, il mosto è posto in bottiglia a rifermentare per un anno. I lieviti sono ovviamente indigeni. La beva è semplice e scorrevole: un vino fresco, adatto a un aperitivo.
Si prosegue con un bianco fermo, “Crestan“, dal nome del bisnonno: Garganega in purezza da uve di pianura, pressatura diretta e fermentazione in acciaio, 11.31% vol. Nel calice si presenta di colore dorato, al naso intenso, con un bouquet che spazia da note speziate a note floreali. Al palato corrispondente, sulla linea di una semplicità non banale.
Il terzo calice è di “Rugoli” 2016, nome ispirato dalla strada del Rugolo: Garganega proveniente da collina, di cui il 70% effettua una fermentazione in acciaio e pressatura diretta.
Il restante 30% esegue una macerazione per 5 giorni a contatto con le bucce e affinamento in legno per circa 10 mesi (12.8% vol).
Al naso si presenta più complesso del precedente, mantenendo però una buona spalla acida e una spiccata mineralità.
Si prosegue con “Vecchie Vigne“, in onore della vigna più vecchia su cui può contare Davide Spillare: 60 anni di età. Macerazione di 5 giorni e poi un breve passaggio in legno. Affinamento in bottiglia per un anno. Naso complesso, sentori di caramello, note leggermente tostate.
Il “Rugoli 2007” è una chicca dell’azienda: al naso si percepisce intenso e complesso con sentori di castagna e uva passa, Pieno e avvolgente al palato. Una piacevole sorpresa.
Il rosso dell’azienda si chiama “Rosso Giaroni“, ottenuto da uve Merlot in purezza. Al naso si avvertono sentori erbacei e legnosi, al palato risulta fresco e sapido, ben equilibrato.
Concludiamo la degustazione didattica con la ciliegina sulla torta, il “Racrei”: deriva dall’anagramma di “Creari”, comune di Vicenza. Vino dolce, Garganega in purezza, 4 mesi di appassimento.
Tra un calice e l’altro, una riflessione di Davide Spillare sintetizza lo spirito della sua cantina: “La terra mi è stata prestata e io la dovrò restituire integra o migliore”. Il manifesto di un’azienda agricola divenuta uno dei punti di riferimento del panorama dei vini naturali italiani.
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Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Come ogni autunno arriva il vino Novello, disponibile dal 30 ottobre in tutti i supermercati e le enoteche italiane. Un vino che, con i suoi profumi intensi e fruttati, regala da una parte una sensazione di nostalgia per l’estate e dall’altra anticipa le caratteristiche dei futuri vini fatti e finiti. Dando un segnale chiaro di come sarà il vino del prossimo anno.
A partire dalle 00.01 del 30 ottobre sarà possibile stappare il Novello, da consumare entro i prossimi sei mesi. Termine ultimo consigliato per apprezzare questo vino con le proprie caratteristiche inalterate.
Con il Novello si iniziano a stappare le prime bottiglie della nuova annata, ma lungo lo stivale la vendemmia non è ancora finita nei vigneti più alti delle uve Nebbiolo in Valtellina, per le uve Aglianico per Taurasi in Campania e del Nerello Mascalese nella zona dell’Etna, in Sicilia.
Il primo vino dell’ultima vendemmia, un tempo, si consumava nelle case di campagna, da parte degli stessi contadini che lo producevano. Veniva spillato dalle botti tra la fine di ottobre e i primi giorni di novembre, per controllare lo stato di maturazione del vino prodotto.
LE REGOLE DEL NOVELLO
La legge del 6 ottobre 1989 ne regolamenta l’entrata sul mercato, con l’utilizzo di almeno il 40% di vino ottenuto con la tecnica di macerazione carbonica dell’uva intera. Il restante 60% può essere trattato con tecniche di vinificazione classiche, per cui da evento tradizionale e contadino per antonomasia, è diventato oggi un fenomeno di marketing intorno al quale ruotano business, sagre e tradizioni.
In Italia la produzione di Novello spazia su quasi tutto il territorio nazionale isole comprese, usando qualsiasi tipo di uva (preferibilmente rossa) dall’autoctono all’internazionale: le uve più comunemente usate sono Aglianico, Cannonau, Barbera, Merlot, Nero d’Avola, Corvina, Refosco, Cabernet Sauvignon, Sangiovese.
LA TECNICA DI PRODUZIONE
I Novelli sono vini realizzati tramite una particolare tecnica di vinificazione chiamata Macerazione Carbonica (MC). La MC consiste in un processo di macerazione delle uve che, ancora intere, vengono collocate in una vasca a tenuta stagna e saturate con anidride carbonica, insufflata tramite apposite bombole.
Quest’operazione, creando all’interno della vasca un ambiente totalmente asfittico, induce i lieviti indigeni presenti sulle bucce delle uve (organismi aerobici) a penetrare all’interno degli acini per ricavarne acqua ed ossigeno, innescando così un processo di fermentazione intracellulare.
A questo punto, dopo un intervallo di tempo che varia dai 5 ai 20 giorni, ad una temperatura di circa 30° le uve vengono convogliate in una pressa e pigiate, facendo così fuoriuscire un succo parzialmente dolce che concluderà la sua fermentazione in un nuovo contenitore. Al termine del ciclo si procede alla vinificazione, con una lieve pigiatura e un’ulteriore fermentazione (3/4 giorni).
COME SI PRESENTA IL VINO NOVELLO
Alla vista
Al naso
In Bocca
Il vino novello si presenta di un bel colore rosso brillante con tonalità che vanno dal rosso vivo al porpora intenso, con chiari ed evidenti riflessi violacei, percepibili soprattutto sull’unghia.
Caratteristica inconfondibile di un buon vino novello è il grandissimo aroma fruttato, intenso e persistente: sono chiaramente identificabili note di lampone e fragola, con sempre in sottofondo note vinose di vino fresco.
Si ritrovano le sensazioni di freschezza e gli aromi fruttati già percepiti al naso: il vino novello è solitamente un vino leggero, fresco e vivace, poco persitente e di facile beva, talvolta leggermente effervescente.
LE CARATTERISTICHE ORGANOLETTICHE 1) Assenza quasi totale di tannini, che li rende bevibili alla temperatura di servizio dei bianchi
2) Omogeneità aromatica fra novelli di diverse varietà di uva o appiattimento varietale
3) Presenza di alcuni descrittori aromatici tipici: note di banana, gomma americana e lampone
4) Il grado alcolico non supera quasi mai gli 11% vol
Queste caratteristiche sono dovute al mancato o ridotto contatto del succo con le bucce, situazione che determina una scarsa estrazione dei composti polifenolici e dei precursori aromatici in esse contenuti, tanto più che parte di queste sostanze (scarsamente idrosolubili) passa generalmente al succo solo in seguito allo sviluppo di alcool, che agisce come vero e proprio solvente durante la macerazione.
Per il loro scarso contenuto alcolico e polifenolico, oltre che per l’estrema semplicità del loro profilo aromatico, i Vini Novelli hanno una durata molto scarsa, una forte sensibilità all’ossidazione e una fragranza effimera, che tende ad esaurirsi nell’arco di un anno.
GLI ABBINAMENTI DEL VINO NOVELLO Ogni regione ha il suo abbinamento tradizionale per il vino Novello, ma in linea di massima si possono seguire le linee guida per un qualunque vino rosso leggero e profumato.
Abbinamento ideale sono le castagne, in qualunque modo le cuciniate (bollite, arrosto, a castagnaccio), ma il Novello si può tranquillamente abbinare anche ad un buon piatto di salumi misti od ad un secondo a base di carni bianche.
La corretta temperatura di servizio è di compresa tra i 14 ed i 16 gradi ed è indispensabile berlo giovane. Una commissione di esperti ha ideato un bicchiere appositamente per il Novello e fatto realizzare appositamente da Veronafiere, in edizione numerata.
La forma del calice richiama quella di un chicco d’uva, predisponendo il degustatore al gusto primigenio del frutto e lo stile è giovanile ed elegante allo stesso tempo, come il pubblico più appassionato del Novello.
BEAUJOLAIS, IL NOVELLO FRANCESE Il Beaujolais, invece, è come il nostro Chianti: un vino, ma anche un territorio che si trova a nord di Lione (Francia). Qui si pianta un solo tipo di uva a bacca rossa, il Gamay, con cui si produce l’omonimo vino, nonché il Novello francese. Il Beaujolais nouveau, per legge, può essere commercializzato solo dal terzo mercoledì di novembre.
I novelli italiani hanno rispetto agli altri una maggiore ricchezza di acido carbonico, si presentano di un bel colore rosso brillante con tonalità che vanno dal rosso vivo al porpora intenso con chiari ed evidenti riflessi violacei percepibili soprattutto sull’unghia, vivace e invitante e una rotondità vellutata ben rilevabile al palato, grazie a qualche traccia zuccherina.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
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Roberto Gatti esiste. Non è uno pseudonimo. Anzi. Gatti è il geniale ideatore di un portale a tema enogastronomico che frutta al suo “conduttore” campionatura gratuita di vino da parte delle cantine. Pubblichiamo integralmente la replica dell’esimio esponente del giornalismo enologico italiano, giunta alla nostra redazione in seguito all’articolo pubblicato in mattinata:
Generalmente quando trovo articoli interessanti, in alcuni casi li ripubblico sul mio portale, citando sempre la fonte. Ho interpellato le aziende interessate per avere alcune campionature e poterne scrivere gratuitamente in internet, non dichiarando di aver preso parte alla degustazione in oggetto; dopo solo due giorni ho chiarito espressamente e chiaramente , anche al Padroggi, di non avervi preso parte. Questa mattina lo stesso Padroggi, al telefono, mi ha comunicato di avere frainteso e probabilmente di non avere letto la mia seconda email a chiarimento”.
LA STRATEGIA Adesso vi spieghiamo perché Roberto Gatti mente di nuovo. Sapendo di mentire. Per non passare per “scroccone” o per uno che millanta partecipazioni a degustazioni in giro per l’Italia, Gatti ha pensato bene di scrivere a Padroggi una “seconda mail”. Era il giorno 26 settembre.
“In riferimento a mia precedente email – scrive Gatti a Padroggi – tengo a precisare che io non ho preso parte alla degustazione citata nell’articolo. Per questo ho chiesto alcune campionature. Cordiali saluti”.
Nel frattempo, evidentemente, i campioni erano già partiti. Il giovane produttore dell’Oltrepò Pavese, di fatto, era convinto di parlare con la redazione di vinialsuper. Gatti, però, non si è limitato a scrivere al solo Padroggi. Ha contattato anche altre cantine premiate alla cieca da vinialsupermercato.it. La mail con la richiesta di invio della campionatura (stesso testo, stesso giorno e ora di invio) è arrivata, per esempio, alla cantina di Alessio Brandolini e a Scuropasso di Fabio Marazzi.
Come nel caso di Padroggi, alla prima mail ha fatto seguito l’invio della seconda. Stesso testo: “In riferimento alla precedente email tengo a precisare che io non ho preso parte alla degustazione citata nell’articolo. Per questo ho chiesto alcune campionature. Cordiali saluti”.
Problema: Gatti scrive la seconda mail di precisazione ai vari produttori in giorni diversi. A Padroggi, come detto, martedì 26 settembre. A Brandolini giovedì 28 settembre. A Marazzi il 26 settembre. Come mai? Immaginatelo voi.
Si tratta, a nostro avviso, di una strategia pianificata ad hoc – nulla di illegale, per carità, qui si parla d’etica, mica di reati! – nella speranza di ricevere campioni da ignari produttori, attraverso l’invio della prima email.
Con la sicurezza (a posteriori) di sciacquarsi la coscienza con la seconda mail (inviata però in momenti diversi).
Lo schema è così sintetizzabile, almeno per quanto avvenuto in Oltrepò pavese.
1) Gatti gestisce un sito web che aggrega contenuti di carattere enogastronomico raccolti da altre testate 2) Copia testi e foto, senza citare la fonte con gli accorgimenti previsti dalla legge in tutela del diritto d’autore 3) I contenuti copiati generano traffico sul portale di Gatti, che utilizza i propri link per far credere, almeno in una prima fase, d’aver partecipato a degustazioni alle quali non è mai stato invitato 4) Gatti scrive ai produttori la prima mail, indicando il link al proprio portale al posto dei link originali, chiedendo di ricevere la campionatura gratuita e allegando in calce alla missiva il proprio smisurato curriculum 5) Attende qualche giorno, nella speranza che i campioni partano 6) Gatti scrive ai produttori, precisando di non aver partecipato alla degustazione in oggetto. Un genio, appunto. O quasi.
IL COINVOLGIMENTO DI AIS Alla nostra redazione, di fatto, stanno arrivando da questa mattina decine di segnalazioni da tutta Italia. A inviarcele sono cantine contattate da Gatti. Stesso schema, da anni.
Ci scrive una nota e prestigiosa cantina veneta: “Ho letto l’articolo che avete scritto sul ‘signor’ Roberto Gatti, che chiede alle cantine vino gratis. Siccome il nome non mi era nuovo, ho fatto una ricerca fra le nostre mail e ne ho trovata una risalente al giugno 2015 (di cui ti allego immagine) in cui si spacciava appunto per tutto quello che anche tu hai descritto. Noi, all’epoca, non gli avevamo neppure risposto! Tutto questo però per farvi capire che è proprio anni che continua con lo stesso sistema indisturbato”.
Nella mail citata, Roberto Gatti, oltre a chiedere “6-8 bottiglie di Amarone, annata che sceglierai tu” per l’organizzazione (questa volta) di una degustazione a Palermo “con Ais”, presentava alla cantina un conto salato: “Rimborso spese e competenze a mio favore fissate in euro 150“.
Per di più, Gatti si offre di “presentare” il vino del produttore in questione “insieme al collega ed amico delegato Ais (di Palermo, ndr)“. “Ma se vorrai essere presente personalmente all’evento – precisa il ‘giornalista free lance’, rivolgendosi al titolare della cantina veronese – ne sarò lieto”. Roberto Gatti. Quasi genio. Di professione.
Invitiamo chiunque abbia ulteriori segnalazioni a inviarcele all’indirizzo d.bortone@vinialsupermercato.it o redazione@vinialsupermercato.it.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Roberto Gatti: chi è davvero? Momento verità. Consentiteci una parentesi che non avremmo mai voluto aprire. E che speriamo di chiudere in fretta, con questo articolo. Ci tocca dedicare qualche riga a un fatto increscioso, che vede come malaugurata protagonista la nostra testata – un milione di letture in un anno non potevano che esporci (anche) ad inconvenienti come questo – e un produttore dell’Oltrepò pavese, caduto nella trappola di un sedicente “giornalista Free Lance, socio FLIP, presidente di Commissione Concours Mondial de Bruxelles, gestore di rubriche di degustazione vino/olio” e “collaboratore” di due portali online a tema enogastronomico: [omissis].
IL CASO ROBERTO GATTI Un curriculum da brividi quello di un tale che, sul web, si presenta come Roberto Gatti (sopra, probabilmente, una fotografia che lo ritrae). Brividi spessi come il pelo sullo stomaco di cui sembra essere dotato. Ecco il testo della mail ricevuta da Luca Padroggi dell’Azienda Agricola La Piotta, una delle realtà più giovani e promettenti della viticoltura dell’Oltrepò Pavese.
“Gentile produttore – scrive il sedicente Roberto Gatti a Luca Padroggi – ho pubblicato un articolo che vi riguarda e mi complimento per gli esiti della degustazione, consultabile al link: [omissis]. Mi farebbe piacere ricevere alcune campionature di questo spumante ed altre tipologie che lascio alla Vostra libera scelta. Ne scriverò gratuitamente in internet nel corso dei prossimi mesi. In calce il recapito per la spedizione. Grazie della collaborazione ed a presto”.
Il sedicente Roberto Gatti abita in provincia di Ferrara. Il suo indirizzo è in bella evidenza, assieme al suo presunto numero di cellulare (320/273XXXX), in calce alla mail inviata alla cantina La Piotta di Montalto Pavese. Qual è il problema? Ve lo spieghiamo subito.
Gatti ha pensato bene di copiare e incollare sul sito di cui dichiara di essere “conduttore” (non lo citiamo per non offrire ulteriore visibilità a questo personaggio dalla discutibilissima deontologia professionale) l’articolo di vinialsupermercato.it relativo alla degustazione alla cieca organizzata in esclusiva per la nostra testata dal Consorzio di Tutela Vini Oltrepò Pavese, lunedì 18 settembre (qui l’articolo).
Nella mail inviata alla cantina La Piotta dice di aver “pubblicato un articolo” che la riguarda, spacciandosi in qualche modo per l’autore e “complimentandosi per l’esito della degustazione”, al solo scopo di ricevere gratis, a casa sua, altri campioni dello spumante premiato in realtà da vinialsuper. E chiedendo, come se non bastasse, “altre tipologie che lascio a Vostra libera scelta”.
In calce viene indicata la fonte, “vinialsupermercato”, ma senza alcun link che rimandi alla nostra testata. Siamo venuti a conoscenza di questo “magheggio” grazie allo stesso Luca Padroggi, incontrato quest’oggi tra i produttori presenti al Giro d’Italia in 80 vini, all’Iper Portello di Milano. Dallo stesso Padroggi abbiamo appreso che la campionatura è ormai giunta a casa del furbissimo destinatario, scambiato per l’autore dell’articolo quale protagonista della degustazione alla cieca.
La redazione di vinialsuper, nel dichiararsi pronta ad azioni legali nei confronti del sedicente giornalista, augura a Roberto Gatti una lunga e contorta digestione intestinale delle bottiglie omaggiate dal produttore oltrepadano. Auguri, ovviamente, gratuiti.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Marsala visita alle Cantine Florio storia modernità 6 1
Marsala val bene un viaggio. Anche solo per scoprire che l’omonimo “vino dolce”, utilizzato da migliaia di casalinghe per sfumare le scaloppine, è molto più di quello che siamo abituati a pensare.
Le cantine Florio sono lì anche per questo. Sin dall’ingresso, l’azienda manifesta tutta la sua imponenza. Siamo in un luogo strategico, a separarla dal mare vi è solo la strada principale.
Non è difficile immaginare il trambusto del passato, quando venivano caricati sulle navi i barili contenenti il Marsala, in viaggio verso l’Inghilterra. L’azienda è stata fondata nel 1832 da Vincenzo Florio. Eppure, per la prestigiosa cantina di Marsala, ancora oggi protagonista di importanti pagine di storia e di grandi vini, non è stato facile imporsi.
Si è dovuto attendere fino al 1832 per vedere entrare un italiano nella scena del Marsala. Quell’italiano è proprio Vincenzo Florio – abile commerciante originario di Bagnara Calabra, già affermato mercante di spezie e discendente di una delle famiglie più prestigiose e ricche dell’Italia di quei tempi – che decide di fondare il proprio “baglio” proprio in mezzo a quelli di due inglesi: John Woodhouse e Benjamin Ingham.
Cosa ci facevano due inglesi a Marsala? Semplice. Furono proprio loro a “scoprire” il Marsala come vino “fortificato” con acquavite, portandolo dalla città siciliana sino in Inghilterra, dove piacque (e piace ancora, persino a Buckingham Palace) molto.
Il contributo di Vincenzo Florio per lo sviluppo e l’immagine del Marsala fu notevole. Ben presto, da vino destinato ai marinai delle flotte inglesi, divenne un vino apprezzato e ricercato dalle corti nobili di tutta Europa. L’abilità e il successo dei Florio e dei loro vini sembrano inarrestabili e nel 1904 fondano, insieme ad altri imprenditori di Marsala, la S.A.V.I (Società Anonima Vinicola Italiana) che in pochi anni acquisisce gli stabilimenti di Woodhouse e di Ingham-Whitaker.
Nel 1924, a causa della mancanza di eredi maschi, i Florio decidono di vendere la cantina di Marsala alla Cinzano, altra importante famiglia nella storia del vino italiano. Nel corso dell’ultimo conflitto mondiale, a causa dei bombardamenti delle aviazioni alleate, le cantine Florio furono gravemente danneggiate, tanto che la ricostruzione dello stabilimento richiese un lunghissimo periodo. La ristrutturazione sarà completata solo nel 1984.
Nel gennaio 1998 il controllo delle cantine Florio passa alla ILLVA Saronno Holding, che già nel 1987 possedeva il 50% della società, iniziando quindi un nuovo e importante capitolo di questa storica azienda vinicola.
Si introducono infatti importanti e fondamentali cambiamenti nella gestione aziendale e commerciale, affidando la direzione della produzione all’enologo Carlo Casavecchia.
Grazie alle sue competenze e capacità, Casavecchia contribuirà in modo fondamentale alla rinascita del Marsala Florio – e all’immagine qualitativa del Marsala in generale – operando scrupolose selezioni in ogni fase della produzione e introducendo criteri produttivi di indiscussa qualità.
Il risultato del lavoro di Carlo Casavecchia e della Florio sono oggi incontestabili: il Marsala è tornato a splendere come ai gloriosi fasti di un tempo e il nome Florio è ovunque nel mondo sinonimo di Marsala di qualità.
LA DEGUSTAZIONE Tanti i vini in degustazione alla Florio, ma uno davvero spiazzante e capace di rubare il cuore. E’ il Marsala Terre Arse (Grillo 100%). Al colore si presenta ambrato, compatto.
Al naso cattura per i suo profumi freschi, agrumati, di limone, arancia candita, miele e vaniglia. In bocca i 19% di alcol in volume si integrano bene. E’ un vino secco, che invita a ripetere l’assaggio. Non stanca mai il palato.
I produttori consigliano di berlo ad 8-10°C, in un calice a tulipano, come aperitivo, accompagnato da un Parmiggiano Reggiano di media stagionatura.
LA STORIA DEL MARSALA
La storia del vino di Marsala è fra le più affascinanti che si conoscano, non solo perché si tratta di un vino nato come conseguenza di un episodio non programmato dal suo “inventore”, ma soprattutto per il fatto di essere uno dei più grandi vini italiani.
In tempi passati, il Marsala è stato capace di confrontarsi e vincere la sfida con quelli che erano considerati i migliori vini del mondo: Jerez e Madeira. Dopo vicende alterne di prestigio e decadenza, oggi il Marsala sta vivendo una nuova e sfolgorante esistenza, dove finalmente la qualità è tornata ad essere la protagonista principale, lasciando alle spalle – e si spera per sempre – gli errori e le leggerezze commesse dai tanti produttori per troppi anni.
Nel corso degli ultimi venti anni, lo sforzo dei produttori è stato considerevole per restituire, finalmente, la dignità che questo grande vino merita, ponendo maggiore attenzione sulle pratiche di produzione e sulla qualità.
Oggi si può infatti affermare che il celebre “Victory wine”, così caro all’ammiraglio Orazio Nelson, è finalmente tornato.
La storia racconta che nel 1773, a causa di una tempesta, il mercante inglese John Woodhouse fu costretto ad approdare nel porto di Marsala anziché in quello di Mazara del Vallo, dove era diretto per affari.
Sceso a terra, entrò in una bettola per cercare ristoro e qui ebbe l’opportunità di assaggiare il vino locale. Gli fu infatti servito il “Perpetuum”, il vino che tradizionalmente si produceva a Marsala.
Il “Perpetuum” – o “Perpetuo” – si produceva riempendo la botte con il vino dell’ultima vendemmia e quindi prelevato quando necessario, per poi riempire nuovamente la botte (che contiene ancora il vino delle annate precedenti) con vino nuovo. Un vino che, pertanto, subisce una naturale ossidazione con il progressivo svuotamento e riprende “nuova vita” con l’aggiunta del vino della nuova vendemmia.
Woodhouse trovò particolarmente buono quel vino, anche perché gli ricordava i celebri vini di Madeira e Jerez, tanto apprezzati nella sua patria. Da bravo commerciante quale egli era, decise di spedire una partita di quel vino in Inghilterra sperando di avviare un florido commercio. Poiché Woodhouse era consapevole delle avverse condizioni alle quali il vino era sottoposto nelle stive delle navi, decise di aggiungere dell’alcol ad ogni botte così da assicurare una migliore conservazione.
Woodhouse tornò quindi in Inghilterra con il suo prezioso carico e, giunto a destinazione, si accorse che quel vino rinforzato era diventato migliore di quando era partito: fu un grande successo. Il mercante inglese tornò quindi in Sicilia e fondò il suo stabilimento per la produzione di vino.
In pochi anni il suo Marsala si affermò in Inghilterra e divenne presto il vino principalmente consumato nelle navi della flotta di Sua Maestà Britannica. Si dice che Orazio Nelson – grande appassionato di Marsala – fosse solito festeggiare le vittorie delle sue battaglie con questo vino. Così il Marsala diventa il “Victory wine”, il “Vino della vittoria”.
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Ieri, 2 ottbre 2017, Hibu Società Agricola Srl, dal 2007 produttore artigianale di birra e Dibevit Import Srl, società del Gruppo Heineken dedicata all’importazione di birre premium e speciali, hanno firmato l’accordo di acquisizione.
Le birre Hibu saranno commercializzate dalla rete dei 400 distributori Ho.Re.Ca. di Dibevit che offriranno al mercato l’intera gamma Hibu.
Un portfolio di oltre 30 etichette, sia in fusti sia in bottiglia. Il birrificio Hibu, con sede a Burago di Molgora (MB), conta una decina di collaboratori e oltre 30 etichette tra Birre Perenni, Stagionali, Fugaci e Speciali.
L’OPERAZIONE
L’acquisizione da parte di Dibevit Import consentirà un quadro di sviluppo di sinergie tra le due aziende. Hibu, che sarà totalmente autonoma nella gestione delle attività, potrà avere una distribuzione capillare sul territorio nazionale grazie alla rete di distributori Dibevit che è, ad oggi, una delle più capillari in Italia. Dibevit arricchirà il proprio portfolio di birre premium e speciali con uno dei marchi più prestigiosi del panorama birrario Italiano.
“Con l’ingresso di Hibu – commenta Davide Daturi, amministratore delegato di Dibevit Import Srlinserisce – la nostra azienda aggiunge un marchio di eccellenza Made in Italy al proprio grande portfolio di brand premium e speciali. La nostra esperienza nella selezione e nella distribuzione Ho.Re.Ca di birra in Italia consentirà ai prodotti Hibu di raggiungere capillarmente tutto il mercato italiano”.
CHI E’ HIBU Nata ufficialmente nel 2007, la storia di Hibu ha inizio dalla volontà di tre giovani amici imprenditori tra cui Raimondo Cetani, il mastro birraio che ha avviato la produzione di birra artigianale nel lontano 1999 nel garage di casa. Negli ultimi 4 anni Hibu ha sviluppato coltivazioni di orzo in circa 40 ettari in Lombardia e Basilicata.
Il fondatore e mastro birraio di Hibu, Raimondo Cetani, ha così commentato: “Era giunto il momento di crescere. L’incontro con Dibevit, realtà specializzata nella distribuzione di birre di alta qualità, ci offre l’opportunità di non rinunciare a ciò che siamo stati fino ad oggi, ingranando però una marcia in più. Non cambierà niente: andremo avanti con la stessa identità e filosofia, puntando come sempre sulla passione che ci caratterizza, in libertà, mai rinunciando alla qualità e alla creatività, verso prodotti sempre migliori”.
L’ANALISI Alle soglie dell’estate appena trascorsa avevamo affrontato il tema: da alcuni anni i grandi gruppi industriali stanno dimostrando interesse per le birre “diverse”, artigianali, nate dallo spirito di territorialità e dalla voglia di fare di giovani mastri birrai.
E così, se prima sia assisteva ad un proliferare, sugli scaffali GdO, di birre industriali che imitano (o tentano di imitare) il gusto delle nostrane birre artigianali, ora siamo al “next level”: l’acquisizione da parte di grandi gruppi multinazionali di piccole realtà brassicole.
Nella primavera 2016 fu Birra del Borgo a capitolare sotto le lusinghe di AB Inbev (la più grande multinazionale della birra con oltre 50 miliardi di fatturato e più di 400 marchi proprietari). Ora Hibu entra nell’orbita del gruppo Heineken.
L’anno scorso non bastarono le rassicurazioni di Inbev/Birra del Borgo sul mantenimento dell’autonomia produttiva, e si ebbe una vera e propria levata di scudi dei più importanti operatori italiani ed europei della birra artigianale.
Fra essi Teo Musso (Baladin), Manuele Colonna (publican di “Ma che siete venuti a fà”), Jean Hummler (Moeder Lambic, tempio della birra artigianale di Bruxelles), Diego Vitucci (Luppolo12) e Jean Van Roy (Cantillon), compatti contro le multinazionali. Una forma di resistenza tutta europea, fatta di pub, locali e piccoli birrifici ostinatamente indipendenti “per dire no alla corsa all’acquisizione che dopo gli Stati Uniti si abbatterà presto su di noi”.
Succederà anche ora per Hibu? Come si evolverà il mercato italiano della birra? Delle 1.409 realtà artigianali della birra (dati microbirrifici.org) quante sopravviveranno al mercato ed alla “golosità” dei grandi gruppi multinazionali mantenendo un legame autentico con la propria territorialità?
Sono domande che troveranno risposta nei prossimi anni. Artefici delle risposte siamo tutti noi: birrai, publican, multinazionali e consumatori. Consumatori che, auspichiamo, siano sempre più attenti, informati e consapevoli di come anche la birra possa essere autentica espressione del territorio.
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Baffo bianco all’insù, alla Salvador Dalí. Camicia slacciata sul petto che, a 61 anni, puoi permetterti solo se hai girato mezzo pianeta. Un bulldog inglese di 10 anni, Matok, come inseparabile compagno. Maurizio Galimberti, di Saronno (Varese) come il famoso “Amaretto”, è un ambasciatore del vino e della buona cucina italiana in Sud America.
Madre svizzera, padre di Monza. Un cittadino del mondo, già in fasce. Oggi, con la sua società, porta Oltreoceano alcune tra le eccellenze del vino Made in Italy. Duecentomila bottiglie in Centro e Sud America, in Paesi come Colombia, Ecuador, El Salvador, Panama e Nicaragua. Nazioni dove il vino italiano è molto apprezzato, anche se non alla portata di tutti.
Un business reso possibile da un’attenta selezione di Franciacorta, Supertuscan e Prosecchi di fascia medio-alta. Nel portafoglio di Maurizio Galimberti, sommelier Ais prima e degustatore Onav poi, alcune tra le etichette icona del Made in Italy del vino. Una rete di distributori locali le piazza poi in grandi hotel e catene alberghiere di lusso, come le Trump Tower.
A favorire il business, una fiscalità che invoglia le imprese a operare in Sud America. Basti pensare che, in alcuni Paesi, la pressione fiscale si ferma al 27% dell’utile. Una soglia nettamente inferiore al 64,8% dell’Italia. Ma non è tutto oro quello che luccica.
“Le spedizioni sono molto costose – evidenzia Galimberti – perché occorre attrezzarsi con container refrigerati. Occorrono 4-5 mila euro per la spedizione di un singolo container da 6 pallet, per un totale di 2.700 bottiglie. Il container grande conviene: costa 6-7 mila dollari, ma ci stanno il doppio dei bancali. Le consegne, tra navigazione, soste in dogana e rallentamenti di una burocrazia asfissiante, avvengono in 30 giorni circa dalla data di spedizione. E sul posto vanno poi calcolate le tasse, che si pagano in base al grado alcolico, con balzelli da mezzo grado”.
LO SFUSO DAL CILE
Ecco che una bottiglia pagata in Italia 10 euro può costare oltre 40 dollari in Centro Sud America. “Ovviamente – evidenzia Galimberti – si tratta di Paesi dove c’è un grande divario tra le classi sociali. In pochi possono permettersi le eccellenze del vino italiano. Il ceto medio e soprattutto quello basso, in America del Sud, ha l’abitudine di bere per ubriacarsi. E ci riesce pure bene con i prodotti locali: vini a basso o bassissimo costo provenienti dal continente”.
A farla da padrona, in questo mercato del “primo prezzo”, sono nazioni come Cile. Vero e proprio serbatoio dell’intera area per il vino sfuso e di bassa qualità. Se ne sono resi conto già da un pezzo in Argentina, nazione invasa dalla cifra record di 526 mila ettolitri di vino sfuso cileno, nei primi 6 mesi dell’anno corrente.
Quello del saronnese Maurizio Galimberti è invece (anche) un progetto culturale. “Chi esporta vini del proprio Paese non può perdere l’opportunità di fare cultura del buon bere e della buona cucina nei luoghi di destinazione”.
“Anche per me è stata una sorpresa scoprire che bevono molto vino rosso – sottolinea l’imprenditore – con gradazioni abbastanza sostenute, ma freddo. Impazziscono per il Cabernet e il Pinot Noir. Amano anche i nostri Brunello e i nostri Amarone, sempre dunque vini con una certa concentrazione e presenza d’alcol non indifferente”.
LA CUCINA COME CHIAVE “Importo anche Chianti e Morellino leggeri – precisa il 61enne Saronno – che sono riuscito a far conoscere e apprezzare grazie al lavoro fatto con la comunicazione dell’abbinamento corretto del vino in cucina. Spesso i piatti locali sono poveri e dunque necessitano di vini semplici, giovani. Con ancora più fatica cerco di comunicare che il vino bianco, come Prosecco e bollicine più strutturate come quelle franciacortine, possono dare grandi soddisfazioni in abbinamento alla tradizione gastronomica Centro-Sud Americana”.
E non parla a caso Galimberti, che ha iniziato il suo percorso professionale proprio come chef. In questa veste lo si può incontrare a Rescaldina (MI), nel secondo dei tre punti vendita del retailerZodio.
“Purtroppo – aggiunge Galimberti – non riesco a evitare che da quelle parti annacquino tutto col ghiaccio. Colpa delle campagne pubblicitarie di mostri sacri come Moet & Chandon, per i quali tutti nutrono vera e propria venerazione. Gli spot in cui si invita a mettere il ghiaccio nello Champagne non aiutano certo chi tenta di offrire upgrade qualitativi e professionali”.
A quattro anni dall’avvio dell’import, Galimberti ha le idee chiare sulle dinamiche d’acquisto di vino da parte dei sudamericani. “Dimmi dove fai la spesa e ti dirò tutto sul tuo portafogli”. A Panama sembra funzioni così. Con la popolazione che si suddivide per status sociale nella scelta delle insegne di supermercati in cui fare la spesa.
“Riba Smith è la catena dei ricchi – spiega Galimberti – dotata di store bellissimi, moderni, dalla chiara impronta internazionale. C’è poi Super99, la catena dell’ex presidente Ricardo Alberto Martinelli Berrocal, fino a qualche mese fa in esilio a Miami. Un concept che, come Rey, punta su prezzi alla portata di tutti, senza disdegnare la qualità”.
I negozi “bene” si trovano nel centro della capitale Panama, dove un singolo ceppo di lattuga può costare 6 dollari. Allontanandosi dal cuore della città, i prezzi si sgonfiano. I quartieri diventano sempre più popolari. E l’insalata si compra a cassette. Nei mercati rionali.
“Il costo della vita scende a meno di un terzo”, spiega l’imprenditore. Anche perché a Panama c’è chi ringrazia il cielo con uno stipendio di appena 400 euro.
“La manodopera è un altro problema – evidenzia Galimberti – perché trovare personale qualificato in Paesi dove la ricchezza è così mal distribuita è cosa davvero rara. Se dai la mancia al cameriere di un ristorante di medio-basso livello, questo non si presenterà per un po’ sul posto di lavoro. Con 10 dollari ci vive tre giorni. Chi glielo fa fare di andare pure a lavorare?”.
E allora meglio pensare alla Trump Tower, dove il vino italiano scorre a fiumi e i soldi non mancano mai. Clienti facoltosi, auto di lusso a specchiarsi nelle ampie vetrate di quella che sembra una zanna, conficcata nel golfo del Pacifico Settentrionale. Qui il vino si paga alla consegna. Un paradiso del lusso dove i Franciacorta italiani sono molto apprezzati e tra le etichette più in voga.
Per gli amanti dei dettagli, qualche altra cifra. Quattrocentomila euro l’investimento necessario per avviare un business come quello di Galimberti, in Centro Sud America. Qualcuno ci vuole provare?
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Miglior vino bianco, miglior spumante, miglior rosato e miglior rosso dell’edizione Radici 2017: ecco le quattro categorie che saranno votate dalla giuria di esperti di settore convocata il 19 ed il 20 Settembre presso il centro di ricerca CRFSA di Locorotondo.
Due sessioni di degustazione per designare i migliori vini tra le 66 etichette finaliste su 350 in concorso e pre-selezionate a giugno, dalla giuria allora composta da buyer, giornalisti, enologi di Assoenologi e membri del circuito Vinarius presieduta da Daniele Cernilli e Alfonso Cevola.
Per la scelta dei best i campioni saranno contrassegnati solo da un numero per evitare qualsiasi tipo di collegamento alla lista dei vincitori diffusa già da Giugno.
Le etichette premiate saranno celebrate il 27 novembre al Castello di Sannicandro di Bari durante il Gran Galà conclusivo delle manifestazione.
Qui, invece, i migliori assaggi decretati da vinialsuper in occasione della nostra visita al Salone dei vini e degli oli meridionali 2017.
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Ci sono diversi modi per approcciare i vini e le cantine. Fiere, guide, degustazioni, blog o siti specializzati fra cui ovviamente vinialsuper, passaparola, supermercati, enoteche.
Stavolta il contatto passa da un regalo. Una bottiglia “sconosciuta’’ acquistata in Gdo omaggiata in un cesto di benvenuto nelle Marche: Ribona Le Grane annata 2015, dell’azienda agricola Boccadigabbia.
L’idea iniziale è di recensirla nella categoria Recensioni Supermercatodel sito. Contattiamo la cantina per avere informazioni sul vino, sulla vinificazione, sulla distribuzione.
Pochi giorni dopo, Elvidio Alessandri, istrionico titolare di Boccadigabbia, telefona incuriosito e ci invita direttamente in cantina per spiegarci la sua Ribona (e non solo).
Lo raggiungiamo nella sua tenuta. Siamo a Civitanova Marche, in contrada Castelletta di Fontespina, a poche centinaia di metri dal mare. Elvidio ci attende e ci apre le porte della cantina invasa dai gas di fermentazione. “Non sto a spiegarvi come funziona perché sicuramente lo sapete”, esordisce mostrando subito il suo piglio pragmatico.
Un rapido giro alla bottaia, anche per prendere un po’ di fresco. Il soffitto è tutto in rame. Elvidio ci confessa di averlo scelto come materiale per la sua bellezza. Pragmatico ed esteta. Ci piace.
LA STORIA DI BOCCADIGABBIA Di proprietà di un discendente di Napoleone Bonaparte, Boccadigabbia è stata acquistata dal padre di Elvidio nel 1956. Per i primi anni di attività, espiantati tutti i vitigni internazionali, l’azienda si dedica a produzioni massive di uva destinata a vini da tavola, con rese per ettaro che, a detta di Elvidio, oggi non fanno la sommatoria delle rese di tutti i singoli vini.
Negli anni Ottanta lo scettro passa di padre in figlio. Elvidio decide di reimpiantare i vitigni francesi coltivati nel passato come Cabernet Sauvignon, Merlot, Pinot Nero, Chardonnay, oltre a vitigni locali. Negli anni novanta arrivano le prime grandi soddisfazioni.
Akronte, Cabernet Sauvignon in purezza in gamma ancora oggi, tra il 1992 e il 1998 guadagna ben sei volte gli ambiti Tre Bicchieri del Gambero Rosso. Le vendite decollano all’estero, dove i vini di Boccadigabbia sono presenti nei menù di grandi nomi della ristorazione newyorkese. Nel 1996 la famiglia Alessandri acquista anche la Tenuta Villamagna Floriani, vicino a Macerata, dove oggi si coltivano Montepulciano, Sangiovese e Ribona.
Un ciclo di anni positivi cui segue un capitolo discendente, per vari motivi. Un mercato dei vini “drogato” dai premi e dalle guide. A farne le spese anche aziende che, pensando di essere “arrivate” si sovraespongono in termini di investimenti.
“Del vino – continua Elvidio – si è cominciato a parlare troppo e questo è stato un fattore determinante: l’inizio della fine”. Ma nei primi anni Duemila il mercato proiettato su vini rossi strutturati, pane quotidiano di Boccadigabbia, vira improvvisamente.
“Facevo un Chardonnay barricato, il Lamperti. Allora ti picchiavano se dicevi che facevi il vino in barrique: io non bevo il vino del falegname, dicevano’’.
“C’è stato un calo clamoroso dei vini barricati, però il mio enologo Emiliano Falsini, l’anno scorso mi ha proposto di rifarlo. E così abbiamo fatto”. In legno sta tre o quattro mesi, fa tutta la fermentazione e poi rimane ad affinare per un po’ di tempo, senza assorbire troppo il sentore di legno grazie alle barrique nuove piegate a bagno in acqua calda”.
La fase calante di Boccadigabbia passa tra le nuove tendenze dei consumi e i meccanismi del nascente ‘”sistema vino”. “Ho fatto un passo indietro quando ho visto che cominciavano ad arrivare i falchi. Non mi è piaciuto più. Non ho seguito più la produzione, non avevo più un pr, non andavo più alle degustazioni. Era diventato un giro un po’ particolare. Tra il 2000 e il 2010 sono cresciute le guide, gli eno-giornalisti di tutti i tipi, ti chiedevano, ti promettevano, non si capiva…e allora mi sono scansato da una parte”, racconta Elvidio con amarezza.
Come scriveva Antoine de Saint-Exupéry, per ogni fine c’è un nuovo inizio. Elvidio è il pilota e il Piccolo Principe al tempo stesso. La rosa da curare è Boccadigabbia. Elvidio capisce che inizia la riscoperta dei vitigni autoctoni. E lui i vitigni autoctoni li alleva. E’ l’incipit di un nuovo capitolo, scritto anche grazie all’ingresso di Lorenzo, suo figlio, e di nuovi preziosi collaboratori. Da qualche tempo è cominciata una nuova era.
LA DEGUSTAZIONE
Partiamo naturalmente dalla Ribona, il vino del “risorgimento” di Boccadigabbia. Precursore del Verdicchio, qualcuno la definisce la sorella maggiore. In passato veniva chiamata Verdicchio marino. Le Grane 2015, ha ricevuto i 91 punti da Ian D’Agata e le “5 Star Vinitaly”. Sul tavolo del salone degustazione però ce ne sono due diverse, entrambe annata 2016: Ribona dei Colli Maceratesi e Le Grane 2016.
La Ribona Colli Maceratesi Doc è una Ribona tout court, vinificata in acciaio con un po’ di macerazione a freddo fatta inizialmente col ghiaccio. La Ribona Le Grane, invece, proviene da uve selezionate sottoposte a doppia fermentazione per aggiungere corpo a un vitigno che non dà molta consistenza.
“Idea nata da un dialogo con un contadino, tra il 2006 ed il 2007”, spiega Elvidio Alessandri. Gli acini diraspari, leggermente surmaturi, vengono aggiunti al mosto per far rifermentare il vino. Al naso entrambi i vini hanno sentori vegetali come il Sauvignon. La salvia, su tutti. Al palato sono estremamente minerali, freschi e con una sapidità marcata. Degustati in sequenza, la differenza di corpo non è così netta.
A Elvidio Alessandri, uomo di cultura sopraffina, il bouquet della Ribona ricorda un profumo degli anni 70, di Paco Rabanne. Un profumo da donna, incredibilmente elegante, che in giro non si sente più. “Ma io lo riconoscerei tra mille”, ammette.
Il secondo assaggio è il Rosso Piceno Doc, bestseller a livello internazionale. Un blend di Montepulciano e Sangiovese in proporzione 60-40, la cui caratteristica è una fermentazione un po’ più corta, per via della delicatezza del Montepulciano che è un po’ greve.
Il Rosso Piceno Doc Boccadigabbia riposa per circa 14 mesi in barrique usate per Merlot, Sangiovese e Cabernet. Qualcuno lo chiama “il vino del furgoncino”, per la raffigurazione in etichetta. Il mezzo esiste, è di proprietà dell’azienda e orgoglio di Elvidio.
Immatricolato nel 1939, Pupi Avati lo ha voluto nel suo film del 2011 Il cuore grande delle ragazze”, insieme ad Elvidio che ha fatto la comparsa. Rosso rubino scurissimo, al naso le note di mora e ribes si mescolano a vaniglia e accenni di cuoio e tabacco. Al palato il tannino è graffiante, ma integrato da una buona acidità altrettanto presente. Un Rosso Piceno di grande personalità.
L’ultimo assaggio non può che essere l’Akronte. Un peccato non averlo aperto in tempo per dargli modo di esprimersi in tutta la sua complessità. Ma siamo fortunati: Elvidio è una persona loquace, ma anche un ottimo ascoltatore e la conversazione diventa variegata tra i suoi tantissimi aneddoti da raccontare e la sua curiosità.
L’annata è la 2012. Si tratta di un 100% Cabernet Sauvignon con un naso davvero potente. Un vino di una finezza ed eleganza memorabili. Inizialmente è un po’ chiuso, poi col passare del tempo, tra lo scorrere della parole, fiorisce e prende vita.
Le note vegetali iniziali danno spazio a intense note di frutta matura, vaniglia, chiodi di garofano e rabarbaro. Il palato è altrettanto possente: il tannino è molto presente, ma non spigoloso. Un gran vino, una sorpresa nelle Marche. Poesia pura.
Il RAPPORTO CON LA GRANDE DISTRIBUZIONE Boccadigabbia produce 100-150 mila bottiglie all’anno, che vengono convogliate (con la medesima etichetta) sugli scaffali dei supermercati (Do-Gdo) e nella ristorazione (Horeca).
“Abbiamo una gamma abbastanza diversificata – spiega Elvidio Alessandri – perché come tutte le aziende piccole facciamo un sacco di vini, un po’ per divertimento, un po’ perché bisogna fare vedere cosa sappiamo fare anche su certi prodotti che internazionalmente ti qualificano. Ad esempio, trent’anni fa ho cominciato a produrre il Cabernet Sauvignon. All’estero nessuno conosceva il Rosso Piceno e dovevo far vedere cosa sapevo fare’”. Il Rosso Piceno di Boccadigabbia oggi è invece un bestseller, sia nella grande distribuzione marchigiana che all’estero: negli Stati Uniti, in Giappone, nel Nord Europa.
Distribuire i propri vini (anche) al supermercato ha creato “qualche difficoltà”, ma Elvidio è “favorevole a questo canale”. Ma gli affari non vanno benissimo. “La Gdo si è un po’ fermata, non si capisce perché, forse per via delle vendite online, ma fino un paio di anni fa era il canale distributivo migliore, ricompravano sempre. E poi hanno una grande caratteristica: pagano! A differenza della ristorazione. Anche se lavori con i grossisti – confessa – loro non riescono a prendere i soldi e devi dargli respiro”.
Le Marche sono una regione emergente nel panorama del vino. Come mai le vendite hanno una battuta di arresto? “E’ vero – replica il produttore – ma oggi è conosciuto il Verdicchio e se non hai il Verdicchio è meglio che non ti presenti. Qui siamo in una zona in cui il Verdicchio non c’è. Qui abbiamo la Ribona”.
IL PALCOSCENICO DEL VINO Sulla tavola di Elvidio i protagonisti sono i suoi vini, ma anche quelli piemontesi, per evidenti ragioni di eleganza e finezza. Tra i suoi preferiti il Barolo Bussia 90 Riserva di Giacomo Fenocchio. Di Toscana beve poco, nonostante il suo enologo sia toscano e il fatto che si tratti di una regione storicamente piena di contadini marchigiani. Elvidio Alessandri beve anche spumanti. “Di bollicine bevo solo Champagne, al massimo Franciacorta. Posso dirlo che io non sopporto il Prosecco?”.
Elvidio va a ruota libera. “Sta diventando sinonimo di spumante – denuncia – addirittura al matrimonio di mia figlia, per il quale avevo previsto un Franciacorta importante, c’era un cameriere che andava in giro a chiedere ‘Chi vuole un prosecco?'”. Un duro colpo al suo cuore assimilare il Prosecco al Franciacorta. “Il vino italiano si sta identificando con il prosecco. Magari ti offrono una Passerina spumante dicendo ‘vuole un po’ di Prosecco?”. Abbiamo trovato casualmente un sostenitore della nostra campagna #nonsoloprosecco.
Dal Prosecco primo attore ai vini macerati, altrettanto interpreti principali degli ultimi anni, il passo è breve. Il punto di vista di Elvidio è chiarissimo. “E’ un fenomeno che passerà, ne ho visti tanti…”.
PROGETTI PER IL FUTURO Elvidio sta scrivendo un libro. Lo vuole intitolare “Memorie di un vignaiolo pentito”. Ci stupisce l’uso di questo aggettivo, proprio oggi che il mestiere del vignaiolo sta subendo una rivalutazione.
Il pentimento si riferisce non a un mutamento di opinione rispetto alla sua scelta professionale (al di là degli studi classici prima di avvicendarsi al padre) quanto a una sorta di autocondanna morale: per aver fatto parte di un sistema, un girone dell’inferno che oggi non gli appartiene più.
“Quello delle guide, dei premi, dei peana del vino”. Oggi Elvidio è guarito e il vino lo fa soprattutto per divertirsi. Non si sa se e quando sarà pubblicato il libro. Lo scrive a pezzi. Poi forse lo metterà insieme.
Il “Piccolo Principe” di Boccadigabbia ha troppe avventure cui dedicarsi. Prima di salutare gli chiediamo una foto. Si vergogna, è timido. ”Prendete quella del mio profilo Facebook tratta dal film, lì sono meglio”, ci saluta sorridente.
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La birra artigianale di qualità avrà anche quest’anno un’importante vetrina su Roma. Si terrà nei gironi 6, 7 ed 8 ottobre la quinta edizione di “EurHop! Roma Beer Festival”, il salone della birra artigianale divenuto ormai un importante riferimento internazionale.
Oltre 50 birrifici artigianali italiani ed internazionali, due banchi di 45 metri con più di 300 spine (virtualmente il pub più lungo d’Europa), più di 350 birre in degustazione. Questi i numeri dell’evento allestito nei 2000 metri quadrati del Salone delle Fontane dell’Eur, il noto quartiere a sud della capitale.
EurHop! Roma Beer Festival è un evento a invito. La selezione dei birrifici partecipanti è stata effettuata da “Ma Che Siete Venuti a Fà”, storico pub attivo dal 2001, e “Publigiovane”, editrice della rivista di settore “Fermento Birra Magazine”. Spazio sia alle eccellenze ed ai birrifici storici d’Italia e del mondo (Birrificio Italiano, Baladin, Cantillon, Bruxton, solo per citarne alcuni) che alle novità ed alle piacevoli riconferme.
Momenti di incontro, didattica, cibo, musica e degustazioni guidate “live” (sarà presente anche Lorenzo Dabove, detto “Kuaska”, famoso beer taster internazionale), nonché mappa dell’evento e descrizione di tutte le birre presenti completano il quadro di un evento in cui addetti ai lavori, appassionati e semplici curiosi possono affrontare un viaggio consapevole nel mondo brassicolo.
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Tutto fa brodo nell’industria del Prosecco che diventa – per ragioni di marketing – sinonimo di “spumante”. E allora ecco spuntare sugli scaffali di diversi retailer le confezioni di “6 calici Champagne Prosecco”.
L’ennesimo utilizzo errato di una parola che indica, in realtà, solo quel preciso vino veneto e non tutti i vini bianchi “con le bollicine”.
Nel mirino della campagna #nonsoloprosecco di vinialsuper finisce così un colosso del vetro Made in Italy, la Luigi Bormioli di Parma. Confezione nera ed elegante per l’intera linea “Atelier”, di cui fa parte il pack di 6 calici da 27 cl (9½ oz) su cui la parola “Prosecco” campeggia al posto di “spumante”.
Solo su uno dei quattro lati della scatola compare la dicitura “Sparkling wine“, dall’inglese “spumante”. Seguita però, anche in questo caso, dalla coppia “Champagne Prosecco”.
Una “svista” presente anche sul sito web della Luigi Bormioli: stesso riferimento al Prosecco, accostato genericamente allo Champagne nella sezione dedicata alla collezione “Atelier – Superior Aroma Diffusion”.
In un’altra pagina del portale aziendale della Bormioli appare invece la corretta dicitura “Spumante e Champagne”. Insomma: tanta confusione anche tra i produttori di calici, oltre che tra ristoratori e addetti ai lavori del Food and beverage. Un altro motivo per ribadire (e condividere!) l’hashtag della campagna di vinialsuper #nonsoloprosecco.
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“Categorie di pensiero più radicate nella psicologia che nella scienza alimentare e frutto di temporaneità modaiola, che ritengo non saranno proiettate credibilmente e in modo duraturo nel futuro”.
Dichiarazioni che lasciano il segno quelle rivolte “ai crudisti, ai vegani, ai freegan e ai fruttariani” da Stefano Berni, direttore generale Consorzio Grana Padano.
Parole forti sul palco di Rimini, che il 21 agosto ha ospitato il convegno ”Cibo e salute: dai superfood ai vegani, dal biologico allo street food”.
LE DICHIARAZIONI “Oggi – ha dichiarato Berni – al cibo non si chiede solo di essere buono, ma di essere soprattutto sano e sostenibile. Il consumatore deve essere informato con lealtà e trasparenza rispetto a cosa mette nel carrello della spesa, o a ciò che ordina al ristorante. Ecco perché risulta indispensabile accelerare il percorso che porta alla trasparenza assoluta sulle etichette dei prodotti e sui materiali o sugli strumenti di comunicazione utilizzati per descriverli”.
“In un certo senso – ha continuato Berni – il biologico, quando non frutto di millanterie importate, ha da tempo intrapreso questo percorso. Una strada certamente più costosa ma solida e credibile, che è percepita come completa ed equilibrata. Credo però non sia la stessa cosa per tutte quelle tendenze radicali e assai meno equilibrate di cui si sente parlare in questo tempo”.
“L’EMERGENZA FAST FOOD”
“C’è inoltre una nuova emergenza – ha aggiunto Berni – legata alla velocità e alla riduzione del tempo da dedicare all’alimentazione, oltreché alla sempre minor preparazione casalinga dei pasti . Infatti, nel 2016 il 35% della spesa dedicata all’alimentazione è avvenuta fuori casa presso la ristorazione di ogni livello dove, inevitabilmente, la scelta degli ingredienti è molto subita dagli avventori. Questo comporta, purtroppo, che spesso siano proposti prodotti similari a quelli DOP o IGP che svolgono lo stesso servizio, non si vedono e costano molto meno”.
Sempre secondo Berni, “esiste un solo denominatore comune condivisibile dai consumatori, che parla la lingua della genuinità, della salubrità e della qualità”. “Tutto il resto – ha concluso il direttore generale del Consorzio Grana Padano – è finto e non porta vantaggi né al mercato né soprattutto a chi quotidianamente da fiducia ai produttori italiani acquistando prodotti che crede originali ma che invece sono camuffati ad arte”.
Al meeting sono intervenuti anche Enrico Corali (presidente Ismea), Pompeo Farchioni (presidente e amministratore di Farchioni Olii Spa), Roberto Moncalvo (presidente di Coldiretti), Giancarlo Paola (amministratore Delegato di Gmf – Gruppo Unicomm).
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
cesanese del piglio visita cantina giovanni armando terenzi
Su la mano chi ricorda le Doc del Lazio. Sono pochi i winelover che saprebbero rispondere senza pensarci almeno un po’ su. La Doc “Est! Est!! Est!!! di Montefiascone”, i Castelli romani, certo.
Ma quanti ricordano che nel Lazio c’è una Doc(g) molto ben organizzata e radicata nel tempo? E’ quella del Cesanese del Piglio.
Divenuta “garantita” – Docg, appunto – nel 2011, comprende cinque comuni (Piglio, Serrone, Acuto, Anagni, Paliano) con una zona produttiva areale di 190 ettari. Ben organizzato il Consorzio, con attività frequenti di sensibilizzazione e promozione della Denominazione.
LA VISITA Tra le aziende storiche della zona, certamente quella di Giovanni Terenzi. Centocinquanta mila bottiglie prodotte in 10 ettari di vigneti sparsi tra i vari comuni della Docg, in provincia di Frosinone, le garantiscono di servire anche parte del supermercati della Ciociaria.
L’azienda di famiglia, nata negli anni 60, ha vissuto un periodo di ammodernamento negli anni ’90, fino agli inizi del 2000. Scelte coraggiose per puntare su uve del territorio. Giovanni Terenzi può contare sulla collaborazione della moglie per la parte agronomica- Le pratiche di cantina sono invece affidate si suoi tre figli. Un bel quadretto familiare, dalla vigna alla bottiglia.
Iniziamo la nostra visita guidati da Armando Terenzi, vicepresidente del Consorzio di tutela del Cesanese del Piglio Docg, figlio di Giovanni. Siamo nella vigna del Piglio, la più vocata, dove nascono il Cesanese superiore riserva Docg Vajoscuro, cavallo di battaglia dell’azienda: solo Cesanese di Affile, su un terreno argilloso ed estremamente calcareo, a circa 500 metri sul livello del mare. Vino estremamente longevo, con note speziate e una piacevolezza di beva difficile da trovare in un vino da 14%.
Sempre nella stessa vigna vengono prodotti Colleforma, Cesanese del Piglio Docg Superiore, che affina in bottiglia di 12 mesi (24 mesi per il “fratello maggiore” Vajoscuro), con una gradazione alcolica di 13,5%.
Una piccola produzione di 14 filari di Sangiovese viene dedicata al Quercia Rossa: una porzione reimpiantata, da vecchie viti trovate all’interno del vigneto.
Dopo la vigna di Piglio ci spostiamo nella zona di Serrone, dove è collocata l’azienda e una seconda parte del vigneto. Nascono qui parte dei bianchi, con la Passerina del frusinate Igt Villa Santa a tenere alta la bandiera. Un un vino molto diverso da quello prodotto dai cugini marchigiani, molto più minerale, con una concentrazione di profumi più intensa e complessa.
Sempre a Serrone prende vita un prodotto storico della Giovanni Terenzi, da piante di età superiore ai 50 anni . Parliamo del Cesanese del Piglio Docg Velobra, blend composto al 90% da Cesanese d’Affile, più un 10% di Sangiovese grosso. Da una piccoli vigneto nel Comune di Olevano romano viene prodotto il Cesanese di Olevano romano Doc Colle San Quirico, questa volta con un taglio di Cesanese d’Affile e Cesanese comune.
TRADIZIONE E MODERNITÀ Se la raccolta delle uve viene effettuata per tutti i vini solo manualmente, l’azienda Terenzi si presenta ben avvezza alle tecnologie in cantina. Tutti i serbatoi sono a temperatura controllata e di recente produzione, con un impianto totalmente meccanizzato per la vinificazione.
Le temperature controllate vengono usate per la produzione sia dei bianchi sia dei rossi. L’uso sapiente del legno, presente in quasi tutti i rossi dell’azienda, leviga bene alcune spigolature, senza risultare una componente invasiva nella degustazione. I vini dell’azienda Giovanni Terenzi si caratterizzano infatti con pregevoli note di freschezza e buona acidità. Nel segno di una regione, il Lazio, che si fa spazio tra le grandi del vino italiano.
cesanese del piglio visita cantina giovanni armando terenzi 1
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Quante volte vi è capitato di ordinare al bar “un Prosecco”? Ma vi siete mai chiesti se in quel calice c’era davvero del “Prosecco”?
Con il termine “Prosecco”, infatti, non si definisce un qualsiasi “spumante” o vino “con le bollicine”. Bensì quel determinato spumante – Doc o Docg – prodotto in Veneto e in Friuli Venezia Giulia.
Vi sognereste mai di chiamare “Chianti” qualsiasi vino rosso? Crediamo (speriamo) di no. Ecco perché occorre fare un po’ d’ordine: mentale, innanzitutto. E poi culturale.
Vinialsuper lancia quindi la campagna “Prosecco non è sinonimo di spumante” e l’hashtag #nonsoloprosecco, che vi invitiamo a utilizzare. Lo facciamo per voi. Perché vogliamo esser certi che, quando ordinate un “Prosecco”, intendiate proprio quel vino. Condividete l’articolo, ditelo agli amici, fatevi un selfie con la scritta “Prosecco non è sinonimo di spumante”! Insomma: inventatevi qualcosa per diffondere la cultura del vino.
I TRE PROSECCO: DOC E DUE DOCG
Sono tre le “versioni” di Prosecco, prodotte in base a disciplinari ben precisi: una a Denominazione di origine controllata (Doc) e due a Denominazione di origine controllata e garantita (Docg). Per tutti vale il metodo di spumantizzazione delle uve denominato Martinotti o Charmat, che prevede la rifermentazione del mosto in autoclave.
E’ questa la differenza principale con il Metodo Classico, che prevede una seconda fermentazione in bottiglia. Con il Metodo Classico (altrimenti noto come Champenoise) viene infatti prodotto lo Champagne, così come gli spumanti italiani più pregiati: Trento Doc, Franciacorta Docg, Alta Langa Docg e Oltrepò Pavese Docg, per citarne alcuni.
IL PROSECCO “MILLESIMATO”
Anche la definizione “Millesimato” è oggetto di grande confusione: di fatto, tutti i “prosecchi” sono “millesimati”. Questo termine, che non ha nessuna valenza relativa alla qualità della bottiglia, serve a evidenziare che tutte le uve con il quale è stato prodotto lo spumante sono state raccolte nella medesima annata. Frutto, dunque, dello stesso anno di vendemmia.
Ovvio, dunque, che un Prosecco sia “Millesimato”. Non sarebbe invece così scontato di fronte a un Metodo Classico italiano o a uno Champagne, che possono essere prodotti con assemblaggi di più annate.
La scritta “Millesimato” su un Prosecco è dunque un escamotage di marketing (pur consentito dalla legge italiana) con il quale il produttore – giocando sull’ignoranza del consumatore – tenta di dare inutile lustro alla propria etichetta, scimmiottando il Metodo Classico e gli Champagne. Anche se è vero che qualche casa vinicola usa miscelare annate differenti di Glera, per uniformare anno di anno in anno il gusto “di cantina”. Vediamo dunque le varie tipologie dello spumante Prosecco.
Prosecco Doc
Citando il disciplinare: “Il vino a denominazione di origine controllata ‘Prosecco’ deve essere ottenuto da uve provenienti da vigneti costituiti dal vitigno Glera; possono concorrere, in ambito aziendale, da soli o congiuntamente fino ad un massimo del 15%, i seguenti vitigni: Verdiso, Bianchetta trevigiana, Perera, Glera lunga, Chardonnay, Pinot bianco, Pinot grigio e Pinot nero (vinificato in bianco), idonei alla coltivazione per la zona di produzione delle uve (province di Belluno, Gorizia, Padova, Pordenone, Treviso, Trieste, Udine, Venezia e Vicenza”.
Conegliano Valdobbiadene Prosecco Docg Sempre citando il disciplinare: “La denominazione d’origine controllata e garantita ‘Conegliano Valdobbiadene – Prosecco’, o ‘Conegliano – Prosecco’ o ‘Valdobbiadene – Prosecco’, è riservata ai vini che rispondono alle condizioni e ai requisiti stabiliti per le seguenti tipologie: ‘Conegliano Valdobbiadene – Prosecco’, ‘Conegliano Valdobbiadene – Prosecco” frizzante’, ‘Conegliano Valdobbiadene – Prosecco’ spumante, accompagnato dalla menzione ‘Superiore di Cartizze’ se ottenuto nella tradizionale sottozona, nei limiti e alle condizioni stabilite”.
La zona di produzione delle uve atte ad ottenere i vini ‘Conegliano Valdobbiadene – Prosecco’ comprende il territorio collinare dei Comuni di Conegliano, San Vendemiano, Colle Umberto, Vittorio Veneto, Tarzo, Cison di Valmarino, San Pietro di Feletto, Refrontolo – Susegana, Pieve di Soligo, Farra di Soligo, Follina, Miane, Vidor e Valdobbiadene.
Il vino spumante denominato “Cartizze”, ottenuto da uve raccolte nel territorio della frazione di San Pietro di Barbozza del Comune di Valdobbiadene (dove deve avvenire l’intero processo di vinificazione), ha diritto alla sottospecificazione “Superiore di Cartizze” (107 ettari totali di vigneto, il “Cru” del Prosecco).
I vini “Conegliano Valdobbiadene – Prosecco” devono essere ottenuti dalle uve provenienti dai vigneti costituiti dal vitigno Glera. Possono concorrere, in ambito aziendale, fino ad un massimo del 15%, le uve delle seguenti varietà, utilizzate da sole o congiuntamente: Verdiso, Bianchetta trevigiana, Perera e Glera lunga.
Colli Asolani Prosecco (oggi Asolo Prosecco) Secondo il disciplinare, “la denominazione di origine controllata e garantita ‘Colli Asolani – Prosecco’ o ‘Asolo – Prosecco’ è riservata ai vini che rispondono alle condizioni e ai requisiti stabiliti dal presente disciplinare di produzione, per le seguenti tipologie: ‘Colli Asolani – Prosecco’ o ‘Asolo – Prosecco’, ‘Colli Asolani – Prosecco’ o ‘Asolo – Prosecco’ spumante, accompagnato dalla menzione superiore e ‘Colli Asolani – Prosecco’ o ‘Asolo – Prosecco’ frizzante”.
“La zona di produzione delle uve atte alla produzione dei vini a Docg ‘Colli Asolani – Prosecco’ o ‘Asolo – Prosecco’ comprende l’intero territorio dei comuni di Castelcucco, Cornuda e Monfumo e parte del territorio dei comuni di Asolo, Caerano San Marco, Cavaso del Tomba, Crocetta del Montello, Fonte, Giavera del Montello, Maser, Montebelluna, Nervesa della Battaglia, Paderno del Grappa, Pederobba, Possagno, San Zenone degli Ezzelini e Volpago del Montello”, con ulteriori delimitazioni geografiche specifiche.
IL PROSECCO ROSÉ? NON ESISTE Le norme che disciplinano la produzione del Prosecco sono chiare e non lasciano spazio a interpretazione. Ma la comune richiesta di “Prosecco” come sinonimo di “spumante” porta con sé un altro equivoco: quello del “Prosecco rosé”. Semplice smontarlo: non esiste.
La tecnica di vinificazione delle varie tipologie di Prosecco, infatti, vieta l’utilizzo di uve rosse vinificate in rosa, ovvero con breve contatto delle bucce a contatto con il mosto.
Le uve a bacca rossa come il Pinot Nero (per un massimo del 15%) adatte alla produzione del Prosecco, infatti, devono essere vinificate senza buccia, responsabile del rilascio del colore rosso (o rosato), in base alla durata del contatto con il mosto.
La vinificazione in bianco prevede dunque la fermentazione del solo succo d’uva, senza la parte solida costituita dalla buccia.
Se sulla carta dei vini di un ristorante doveste mai leggere “Prosecco Rosé”, come nel caso clamoroso denunciato da vinialsuper che vede come protagonista il Ricci di Milano (ristorante di Belen e Bastianich) sappiate che si tratta di un (patetico) escamotage per vendere qualcosa che non esiste, approfittandosi della riconoscibilità e notorietà, ormai internazionale del “Prosecco”.
In quel caso: rimbalzate la proposta e chiedete lumi al ristoratore. Oppure, meglio: alzatevi e cambiate ristorante. Magari consigliando di leggere questo articolo. #nonsoloprosecco
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Il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali rende noto che il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto sulle modalità attuative dell’OCM Vino. L’approvazione è avvenuta con deliberazione motivata per la mancata intesa raggiunta in Conferenza Stato Regioni, dove la sola Lombardia aveva votato contro.
Il decreto, che riguarda l’assegnazione dei fondi comunitari per la promozione del vino nei Paesi terzi per il 2017/2018, riguarda un budget complessivo di risorse gestite a livello nazionale e regionale di circa 102 milioni di euro.
”Diamo così un quadro normativo più chiaro ai produttori che vogliono investire nella promozione sui mercati extraeuropei – ha commentato il ministro Maurizio Martina-. È uno strumento importante per rilanciare le esportazioni dei nostri vini, in un contesto che vede una concorrenza sempre più agguerrita. Dobbiamo riuscire a comunicare sempre meglio il patrimonio di varietà e qualità che rende uniche e distintive le nostre esperienze vitivinicole”.
LE AZIONI PREVISTE NEL DECRETO
Sono ammissibili le seguenti azioni di comunicazione e promozione da attuare in uno o più Paesi terzi:
– azioni in materia di relazioni pubbliche, promozione e pubblicità;
– partecipazione a manifestazioni, fiere ed esposizioni di importanza internazionale;
– campagne di informazione, in particolare sui sistemi delle denominazioni di origine, delle indicazioni geografiche e della produzione biologica vigenti nell’Unione;
– studi per valutare i risultati delle azioni di informazione e promozione.
La promozione potrà riguardare:
– vini a denominazione di origine protetta;
– vini ad indicazione geografica protetta;
– vini spumanti di qualità;
– vini spumanti di qualità aromatici;
– vini con l’indicazione della varietà.
ENTITÀ DEL SOSTEGNO L’importo del sostegno a valere sui fondi europei è pari al massimo al 50% delle spese sostenute per svolgere le azioni promozionali. Questo sostegno europeo può essere integrato con fondi nazionali o regionali.
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Grande fermento nel mondo del vino. Dopo la notizia di Gagliardo che investe nel Nizza, altre notizie giungono dalle Langhe. C’è chi in estate programma una vacanza e chi programma acquisizioni aziendali.
E’ il caso del gruppo KrauseHoldings Inc. della Iowa che, secondo indiscrezioni raccolte da vinialsuper, avrebbe finalizzato nei giorni scorsi l’acquisizione dell’azienda agricola di Bruno Giacosa per circa 100 milioni di euro.
La Krause Holdings Inc., amministrata da Kyle J. Krause controlla la catena di negozi al dettaglio Kum & Go, la società Solar Transport, una serie di proprietà immobiliari e aziende agricole biologiche negli States. Famiglia di origine italiana si è sempre dichiarata appassionata di Barolo e del Piemonte.
“Quando ero piccolo, molti miei amici volevano diventare pompieri. Io volevo possedere un’azienda vinicola”, aveva dichiarato Krause durante un’intervista lo scorso anno. Un sogno nel cassetto coltivato per tanto tempo fino alla decisione di acquistare la Enrico Serafino e altri 12 ettari di vigneti cru di Barolo nel 2015. Desiderio raddoppiato con l’acquisizione nel 2016 della cantina Vietti e dei 28 ettari di proprietà.
Se la notizia dell’acquisto di Bruno Giacosa fosse confermata arriverebbero ad una sessantina gli ettari di proprietà del gruppo. E’ possibile che la Holding punti a raggiungere la meta dei 100 ettari di Barolo: secondo altri rumors Krause starebbe ”corteggiando” altre aziende, tra cui Rocche dei Manzoni, al quale sarebbe già stata formulata un’offerta a nove cifre.
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camerlengo vini antonio cascarano aglianico vulture rapolla 7
Da architetto a vignaiolo, il passo è breve. Chiedere per credere ad Antonio Cascarano, l’istrionico patron di Camerlengo. Siamo a Rapolla, in provincia di Potenza. Una corte eretta su pilastri solidi e profondi. Messi in bolla da uno che di “disegni”, evidentemente, se ne intende.
Rame e zolfo in piccole dosi per la vigna storica di Aglianico, ereditata dal nonno, a 600 metri sul livello del mare: niente inerbimento tra gli alti filari che affondano le radici nella terra vulcanica. Le varietà a bacca bianca Ciungoli, Malvasia e Santa Sofia più in basso, a 250 metri, assieme a un impianto più giovane d’Aglianico: pendenza molto accentuata e terreno più argilloso rendono necessario l’inerbimento, per evitare cedimenti dello strato limoso. Una ricetta, quella di Cascarano, raccontata con la semplicità di chi mastica vigna e ne conosce ogni millimetro.
La cantina si trova nel centro del paese di Rapolla, borgo di 4 mila anime, nel cuore enologico della Basilicata. Un edificio storico di proprietà della famiglia, recuperato da Cascarano e trasformato in una culla per i frutti dei vigneti, che qui sembrano diventare eterni.
E’ qui che il vigneron si dedica alla vinificazione, con una prima fermentazione in legno in tini troncoconici. Segue un passaggio in acciaio per almeno 2 anni, che precede la permanenza in barrique.
Una cantina d’altri tempi, semplice e silenziosa. Ben isolata dall’esterno, con un equilibrio climatico ideale per la conservazione dei nettari. Un ponte di pietra la divide come un vascello. Il trono dal quale capitan Antonio dirige la sua avventura enoica.
LA DEGUSTAZIONE Memorabile la verticale che è in grado di offrire Camerlengo, direttamente dalla botte. Si inizia da un 2016: una di quelle etichette capaci di sbugiardare i miti sull’Aglianico del Vulture, ritenuto da molti “imbevibile” nei suoi primi due anni di vita.
Invece no. Un vino caldo, con un tannino sì molto rustico, ma già molto ben addomesticato. La vendemmia 2015 mostra un’evoluzione diversa dell’Anthelio, l’Aglianico prodotto dalla vigna più giovane di Camerlengo.
Chiudiamo con un 2014, in un crescendo della percezione delle caratteristiche del suolo, unita a una percezione sulfurea e minerale. Un vino complesso, con richiami di pietra focaia.
Sul “ponte della nave”, Antonio Cascarano sfodera il jolly Accamilla, un bianco 2014 con macerazione sulle bucce di 18 giorni: blend di Malvasia, Ciunguli (varietà di Trebbiano toscano) e Santa Sofia. Tutte le varietà vendemmiate insieme, con la Malvasia a fare da indicatore per il periodo di miglior raccolta.
“Quando questa risulta pronta per la raccolta – spiega il produttore – il Ciungoli è ancora quasi acerbo, e la Santa Sofia e sovramatura. In questo vino si raggiunge un equilibrio eccellente di acidità e sentori caldi”. Una scelta enologica questa volta non sua, ma ereditata dal nonno.
Passiamo al rosato d’Agrlianico Juiell, molto piacevole. Un naso finissimo e una struttura da rosè importante. Poche bottiglie di questo prodotto unico, ottenuto dalla vigna più giovane del reame. Chiudiamo con un Aglianico Camerlengo 2001: un vino eterno, giovanissimo, nessun segno di cedimento visivo, nessun accenno al mattonato, ancora vivo e porpora.
E’ alla prova di calici come questo che l’Aglianico si attesta tra i vitigni più longevi d’italia. Un naso suadente che esprime caratteristiche vulcaniche. E una beva piacevole, asciutta, emozionale. Quella che sanno regalare solo i grandi vini.
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Questione d’accenti. Te ne accorgi provando a pronunciarlo alla francese: Fabiò Marassì. Suonerebbe così, forse un po’ d’antan, ma più che mai intonato, il nome di Fabio Marazzi tra le colline dello Champagne.
Non foss’altro che Cantina Scuropasso si adagi sulle colline dell’Oltrepò pavese. Frazione Scorzoletta di Pietra de’ Giorgi. Trentacinque minuti a Sud di Pavia. Un’ora abbondante da Milano.
Non esattamente nei pressi di Châlons-en-Champagne, Reims, Troyes o Charleville-Mézières. Eppure, nella casa-cantina di questo appassionato vignaiolo lombardo, sembra sin da subito che la geografia ti stia prendendo per il culo. Rouler dans la farine, se preferite un’espressione d’Oltralpe.
La “r” moscia. L’eleganza dei modi che fa dimenticare – subito – che a parlare è un contadino con la camicia blu a quadrettoni. Un’attaccamento viscerale alla terra e alle vigne. La cocciutaggine nel difendere storia e valori di un territorio sfracellato dagli scandali, maltrattato dai burattini (e dei burattinai) della politica e dei Consorzi. L’agire, sempre, nel nome di un vino che deve parlare, prima di tutto, di natura e di passione. Sin dal colore. Fabio Marazzi è il francese d’Oltrepò. Monsieur Scuropasso.
LA VISITA Un vignaiolo strappato agli studi (e alle cravatte) di Economia e commercio. Scuropasso, fondata nel 1962 dal padre Federico e dal prozio Primo, svolta con Fabio nel 1988. Da vero e proprio “serbatoio” per le basi spumanti da Pinot Nero destinate ai grandi nomi della Franciacorta e del Piemonte (Guido Berlucchi, Carlo Gancia, Cinzano e Fontanafredda), la cantina inizia a produrre una propria etichetta. E’ il 1991. Il Metodo Classico Brut Pinot Nero Scuropasso segna l’avvio di una nuova era.
“Star vicino a enologi del calibro di Franco Ziliani, Lorenzo Tablino e Livio Testa, tutti formatisi in Francia, imparando sul campo dai vigneron dello Champagne, ha fatto in modo che la mia passione si tramutasse in un vero e proprio amore per il Pinot Nero, per le basi spumante, per il Metodo Classico”, spiega Marazzi.
Nel 1998 prende vita “Roccapietra”, la linea di spumanti Metodo Classico di Cantina Scuropasso. Un modo per unire i nomi delle due località simbolo per la produzione di Pinot Nero nella Valle Scuropasso: Rocca e Pietra de’ Giorgi.
Oggi l’azienda può contare su quindici ettari di proprietà. Centomila, circa, le bottiglie prodotte all’anno, anche grazie al contributo di alcuni storici conferitori, tenuti lontano dalle cantine sociali. Parte da leone spetta al Bonarda: 30 mila bottiglie del “vino da tavola” che consente a Cantina Scuropasso di reinvestire utili nella produzione della vera eccellenza: le 15 mila bottiglie di Metodo Classico da uve Pinot Nero.
Sempre più spazio, nell’assortimento di casa Marazzi, anche per il Buttafuoco, il vino rosso da lungo affinamento dell’Oltrepò Pavese. La recente acquisizione di “Pian Long”, vigna di un ettaro confinante per tre lati con i terreni dell’Azienda Agricola Francesco Quaquarini, fa entrare di diritto Scuropasso nell’olimpo del Buttafuoco Storico.
LA DEGUSTAZIONE Roccapietra Brut 2010 (sboccatura ottobre 2015). Cinquantadue mesi sui lieviti. Giallo paglierino brillante, perlage finissimo Balsamico e assieme fruttato, con ricordi d’agrumi ben definiti. Quello che, all’estero, definirebbero senza giri di parole “vino gastronomico”. Lunghissimo nel retro olfattivo. Un 100% Pinot Nero oltrepadano in pieno stile Montagne di Reims.
Pas Dosè 2009 magnum (sboccatura novembre 2016). Settantotto mesi sui lieviti. Un Pas Dosè nudo e crudo, ottenuto colmando con lo stesso vino. Naso di limone, lime, arancia, su sfondo di miele. Uno splendido spunto erbaceo montano, che ricorda l’arnica, copre i tipici sentori Champenoise di crosta di pane e lieviti. Sempre al naso, in continua evoluzione su un perlage da ammirare per finezza, spruzzi di vaniglia Bourbon.
Un Pinot Nero che sfida il tempo e la logica: auguratevi di non trovarlo mai in batteria alla cieca, col rischio di ringiovanirlo almeno di 3 anni, scambiandolo addirittura per un rosso. Lunghissimo il finale, tutto giocato tra balsamico e agrumi. Un capolavoro da godersi, a tavola, con un bel Parmigiano 39 mesi (minimo). Chapeau, Marassì.
Cruasè 2011 (sboccatura marzo 2017). Sessanta mesi sui lieviti. Le uve Pinot Nero a contatto con le bucce 10-12 ore regalano un “rosato troppo rosato” per i disciplinari. “Ma a me piace così. E continuerò a farlo così, perché è una scelta che si basa sull’essenza del frutto”, assicura il produttore durante la degustazione.
Parole che raccontano il calice meglio di qualsiasi altra prosopopea. E disquisizioni inutili di fronte a un grande rosato che l’Oltrepò del vino rischia di perdere, formalizzandosi sull’aspetto più che sull’anima dell’ennesimo signor Pinot Nero di casa Scuropasso.
Buttafuoco Docg 2009. Meticolosa scelta delle uve per assicurare uniformità nel raccolto e nella vinificazione delle varietà Croatina, Barbera, Uva Rara e Ughetta di Canneto nei vigneti della Garivalda. Quindici giorni in vasche di cemento, poi passaggio in acciaio.
Un anno in botte grande, poi botte piccola. Altri 365 giorni di ulteriore affinamento in bottiglia, prima della commercializzazione. Un Buttafuoco dall’acidità spiccata, non retta da un tannino efficace, forse per via di un legno usato in maniera troppo invasiva. Ma se queste sono le prove per la prima vendemmia a Pian Long, la strada segnata è certamente quella giusta, anche per il rosso principe di Cantina Scuropasso.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Sabato 25 e domenica 26 novembre 2017 torna a Piacenza il Mercato dei Vini dei Vignaioli Indipendenti. L’appuntamento organizzato dalla FIVI in collaborazione con Piacenza Expo giunge quest’anno alla settima edizione e si preannuncia fin da ora come uno degli appuntamenti caldi dell’autunno enologico.
”Non abbiamo ancora aperto ufficialmente le iscrizioni per il Mercato, che ci troviamo già sommersi dalle richieste dei vignaioli per partecipare, sottolinea Leonildo Pieropan, vignaiolo in Soave e consigliere FIVI che ha da poco rinunciato alla carica di vicepresidente (per raggiunti limiti d’età, scherza lui) lasciando il posto a Gaetano Morella, vignaiolo in Puglia.
Quest’anno potremo arrivare addirittura a 500 postazioni, limite massimo che ci siamo imposti, anche se questo potrebbe non accontentare tutti. Il successo dell’edizione 2016 ha messo in luce il grande valore di questa manifestazione e ha dimostrato al pubblico che qui non si scoprono solo vini, ma soprattutto storie e persone. E poi il Mercato della FIVI è l’unico dove trovi 500 carrelli da riempire di bottiglie”.
L’immagine della locandina di quest’anno è stata realizzata dall’illustratrice vicentina CarlaManea e vuol rappresentare il legame imprescindibile che c’è tra uomo, lavoro e natura.
”Attraverso la mia illustrazione volevo trasmettere quella sana lentezza, la bellezza e la pace che ti colpiscono e ti sorprendono quando guidando in macchina attraversi colli e vigneti. Il borgo sullo sfondo vuole essere metafora di storie di vita, delle persone e del loro lavoro. Volevo inoltre che emergesse – prosegue l’artista – l’intima fusione che c’è tra il vignaiolo (in questo caso una figura femminile) e l’ambiente circostante. Ho rappresentato questa forma umana come una silhouette bianca dove chiunque possa riconoscersi”.
Mercato dei vini in breve
Quando: sabato 25 e domenica 26 novembre 2017
Dove: PiacenzaExpo
Orario di apertura al pubblico: dalle 11.00 alle 19.00
Ingresso: € 15.00 comprensivo di bicchiere per degustazioni
Ingresso ridotto: € 10.00 per soci AIS – FIS – FISAR – ONAV e SLOW FOOD (il socio deve mostrare tessera valida dell’anno in corso) e possessori del biglietto della manifestazione MareDivino 2017
Parcheggio: gratuito
Info utili: 500 i carrelli disponibili per gli acquisti
I minorenni non pagano l’ingresso e non possono effettuare degustazioni.
CHI E’ LA FIVI
La Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti (FIVI) è un’associazione nata nel 2008 con lo scopo di rappresentare la figura del viticoltore di fronte alle istituzioni, promuovendo la qualità e autenticità dei vini italiani. Per statuto, possono aderire alla FIVI solo i produttori che soddisfano alcuni precisi criteri: “Il Vignaiolo FIVI coltiva le sue vigne, imbottiglia il proprio vino, curando personalmente il proprio prodotto.
Vende tutto o parte del suo raccolto in bottiglia, sotto la sua responsabilità, con il suo nome e la sua etichetta”.
Attualmente sono poco più di 1100 i produttori associati, da tutte le regioni italiane, per un totale di circa 11.000 ettari di vigneto, per una media di circa 10 ettari vitati per azienda agricola.
Quasi 80 sono i milioni di bottiglie commercializzate e il fatturato totale si avvicina a 0,7 miliardi di euro, per un valore in termini di export di 280 milioni di euro. Gli 11.000 ettari di vigneto sono condotti per il 51% in regime biologico/biodinamico, per il 10 % secondo i principi della lotta integrata e per il 39% secondo la viticoltura convenzionale.
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Becks London Becks Berlin supermercato birra indurstria
Alle soglie dell’estate 2017 Beck’s, noto ed importante brand del gruppo Anheuser-Busch InBev, si presenta sul mercato con due nuovi prodotti: Beck’s London (Pale Ale) e Beck’s Berlin (Golden Bock). Come sono? Le abbiamo provate per voi.
Beck’s London è una Pale Ale, 6.3%, prodotta con tecnica Late Hopping, cioè una luppolatura a mosto caldo prima dell’inizio della fermentazione. Le Pale Ale, con la loro nota spiccatamente amara, stanno vivendo un periodo di splendore, oso dire “di moda”; quanti di noi hanno un amico che entrando al pub ordina una IPA!?! Scopo di Beck’s con la sua neonata London è probabilmente quello di entrare in questo segmento di mercato.
LA DEGUSTAZIONE
Nel bicchiere si presenta di un bel colore giallo carico con schiuma bianca fine e non troppo persistente. Al naso è poco intensa, fine, ed effettivamente ben luppolata con solo qualche accenno di profumi del malto. Ma ci delude una cosa: Beck’s in etichetta dichiara l’utilizzo di luppolo Cascade; gli appassionati lo sanno bene, il Cascade è un luppolo americano dalle forti note agrumate fra cui spicca il pompelmo che nella London non riusciamo a percepire. C’è una nota agrumata, è indubbio, ma è molto sottile, probabilmente per via del Late Hopping che regala sensazioni più delicate del Dry Hopping (luppolatura a freddo) normalmente usato in questo stile di birra. In bocca è scorrevole e di corpo leggero, tornano i sentori luppolati, pulita e con la carbonazione tipica della casa di Brema. Poco persistente.
Beck’s Berlin è una Golden Bock, 7.2%, cioè una birra a bassa fermentazione, più forte di una lager. Immaginiamo che scopo di Beck’s sia avvicinarsi a quei consumatori che cercano in una birra quella forza che spesso “la bionda”, per sua natura, non ha.
Di colore dorato carico, quasi tendente all’ambrato, ha schiuma bianca fine poco persistente. Al naso prevalgono le note del malto, dolciastre, appena smorzate dal luppolo che qui tende ad avere sentori erbacei come è giusto che sia. Beck’s infatti dichiara l’uso di luppolo Saphir, ed in questo caso si, la nota erbacea è tipica del Saphir. In bocca è scorrevole e di corpo fra il medio ed il leggero, pulita e poco persistente. A nostro avviso più riuscita della London.
Immaginiamo questi due prodotti pensati per un pubblico giovane, per quelle ragazze e ragazzi che con le loro uscite serali, più frequenti in estate a scuole finite, approcciano il mondo della birra per puro divertimento (bevete responsabilmente, mi raccomando!) ma anche alla prima ricerca di quelle sensazioni tipiche delle crafted beers. Ed è questo che ha colto la nostra attenzione.
L’EVOLUZIONE DEL MERCATO
All’inizio fu il Gruppo Carlsberg (terzo gruppo mondiale della birra) che col suo marchio Angelo Poretti, prodotta nell’italianissimo stabilimento di Induno Olona (VA), ha cercato di differenziare il portafoglio gustativo delle proprie birre affiancando alla tradizionale 3 Luppoli la 4 Luppoli e poi la 5, la 5 Bock Rossa, la 6, la 7 (in differenti versioni) e su attraverso la 8 e le 9 fino a presentare in occasione dell’EXPO 2015 la 10 Luppoli “le bollicine” (oggi presente anche in versione “Rosè”).
Poi fu la volta di Heineken (il secondo gruppo mondiale) che col marchio Birra Moretti ha da prima introdotto la linea “Grand Cru” e poi la linea “Le regionali”, sempre alla ricerca di sapori e sensazioni nuove e più articolate. L’anno scorso fu Ceres che presentò tre nuove birre col marchio Nørden, ispirate alle birre tradizionali del Nord Europa.
Ora è il turno di Anheuser-Busch InBev. AB InBev non solo è il primo gruppo mondiale, ma da quando ha acquisito l’ex seconda classificata, SAB-Miller, è diventato un vero e proprio colosso; 50 Miliardi di Euro di fatturato ed oltre 400 marchi fra cui Beck’s, Budweiser, Leffe, Lowenbrau, Spaten, Corona, Tennent’s, Stella Artois tanto per citarne alcuni. AB InBev “scomoda” per questa operazione commerciale Beck’s famosa per la sua Pilsner prodotta da 140 anni nello stabilimento di Brema seguendo rigorosamente il Reinheitsgebot, l’Editto di Purezza del 1516.
I DATI DI ASSOBIRRA
Ma perché tutto questo interessamento dei grandi gruppi industriali alle birre “diverse” sul mercato italiano Riflettiamo un secondo. I dati di Assobirra mostrano un consumo totale di birra in Italia pressoché costante fra il 2005 (17.340 Khl) ed il 2015 (18.726 Khl), così come constante il consumo pro capite passato da 29.9 litri nel 2005 a 30.8l nel 2015 (dati 2016 non ancora disponibili ma si stima non scostino molto).
I microbirrifici (quelli che chiamiamo “artigianali”) invece sono passati da 128 nel 2006 a 674 nel 2015 ed si stima che nel primo trimestre 2017 abbiano superato quota 900. Nel 2005 si stimava che il 4% del consumo di birra fosse appannaggio della birra artigianale (oggettivamente troppo poco per scomodare una multinazionale).
Ma se noi continuiamo a berci i nostri 30 litri a testa e nel frattempo i microbirrifici sono diventati sette volte tanto, vuol dire che quel 4% è aumentato, ed è aumentato rosicchiando quote di mercato alle birre industriali. E forse è proprio per questo che i grandi gruppi stanno proponendo sul mercato sempre più prodotti che imitano ed inseguono le crafted beers.
Il grosso del mercato è fatto dal consumo di prodotti basici ed economici. Ma la consapevolezza dei consumatori sta aumentando. Se è vero che in Italia non esista una vera e propria cultura della birra, è vero anche che il consumatore stia iniziando a cercare sapori diversi dalla solita “bionda per la vita”.
Beck’s London e Beck’s Berlin sono ancora lontane dal sapore delle Pale Ale e Bock artigianali. Sono due prodotti estivi adatti ad essere consumate nelle calde nottate estive nei locali all’aperto o bevute senza troppe paturnie in cortile all’ombra del gazebo mentre in nostro amico smanetta sulla griglia. Ma la tendenza ormai è chiara e ci fa piacere sapere che il consumatore è sempre più attento.
Prezzo: 2.99 euro (3x33cl)
Acquistato presso: Auchan
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Paolo Russo presidente Consorzio Moscato di Scanzo Docg e1495644046908
Ditegli di tutto. Tranne che è uno coi piedi per terra. Giacomo De Toma è la contraddizione fatta uomo. Fino a ieri capitano di Boeing su tratte internazionali. Oggi pilota privato, in giro soprattutto per l’Europa. Ma col cuore sempre tra le sue vigne di Moscato di Scanzo.
La destinazione più desiderata, quella che non scorre sui tabelloni aeroportuali, è Scanzorosciate. Il paesello che ospita la Docg più piccola d’Italia. Altro che New York, Hong Kong o Città del Capo. E come dargli torto.
Dalla casa-cantina disposta su tre piani nella frazione di Rosciate, tra filari decennali che sfidano la gravità ci si dimentica in un attimo di essere ad appena 6 chilometri dal centro della città di Bergamo. Un’oasi di pace e di silenzio. Dove crescono rigogliosi i grappoli di Moscato di Scanzo, trattati come figli da capitan De Toma e dalla moglie Stefania. Passione, professionalità, coraggio e dedizione contraddistinguono una cantina che, di anno in anno, raccoglie premi e riconoscimenti a livello internazionale.
Merito anche di un terroir unico, contraddistinto dalla presenza di una formazione calcareo-marnosa nota col nome di “Sasso della Luna”, che conferisce mineralità al calice fruttato di Moscato di Scanzo. Una terra arida, ciottolosa, con pendenze degne della “viticoltura eroica” italiana. Per le radici della vite significa naturale competizione idrica e altrettanto naturale controllo di una resa limitata per ceppo. Tradotto: poca quantità, tanta qualità.
“Un Comune, quello di Scanzorosciate, ben servito dalla rete viabilistica urbana che circonda la città di Bergamo – evidenzia Giacomo De Toma – ma che sembra appartenere a un’altra dimensione. Pare di essere in un piccolo angolo di Toscana, per la presenza di numerosi vigneti della Valcalepio, ma anche di ulivi ed uliveti”.
Chi si aspetta un Moscato tradizionale si sbaglia. Il Moscato di Scanzo è una varietà autoctona a bacca rossa, che dà vita a un vino passito (dunque dolce) eccezionale e unico nel suo genere.
“Mentre in casa si comincia ad accendere i caloriferi – sottolinea il viticoltore bergamasco – noi iniziamo la vendemmia tardiva del Moscato di Scanzo, nel mese di ottobre. Segue l’appassimento delle uve su graticci per almeno 35 giorni (ben oltre il disciplinare, ndr) e la vinificazione in vasche di cemento vetrificato, con inoculazione di lieviti selezionati”.
Ad assicurare le perfette condizioni per la fermentazione e la maturazione, una grotta comunicante con la stanza delle botti, scoperta in occasione di alcuni lavori di ristrutturazione della storica cantina. Uno spaccato perfetto del terreno dove affondano le radici le vigne.
La famiglia De Toma, giunta ormai alla quarta generazione (con la quinta già scalpitante ai box di partenza) possiede 2,5 dei 32 ettari vitati di Scanzorosciate e produce 4 delle 50 mila bottiglie da mezzo litro dell’intera Denominazione di origine controllata e garantita, su cui vigila un Consorzio a capo di 20 produttori.
Un vino dai numeri risicati, ma dalla storia antichissima. I primi cenni storici risalgono al 1300-1400. Notizie della fine del Settecento riguardano poi Giacomo Quarenghi, architetto bergamasco ai servigi della zarina Caterina II, abituato a portare in Russia il Moscato di Scanzo prodotto dalle sue vigne. Terreni che, proprio in quell’epoca, sono stati ereditati dalla famiglia De Toma, come prova lo storico atto notarile a firma dalla contessa vedova del Quarenghi. Si parla di questo straordinario vino anche in occasione delle battaglie tra Guelfi e Ghibellini, durante le quali si verificarono vere e proprie “razzie di carri di Moscatello di Scanzo”.
La svolta, per i De Toma, avviene negli anni Settanta. Il nonno di Giacomo acquista una superficie importante, che consente alla famiglia di passare dal consumo privato alla commercializzazione. E con Giacomo De Toma, lontano ormai da qualche anno dai cieli di mezzo mondo, la sterzata è definitiva. Il Moscato De Toma è sulla carta dei vini di prestigiosi ristoranti stellati italiani e internazionali.
E a Vinitaly lo stand della cantina è ormai preso dall’assalto da vip e intenditori che fanno a gara per aggiudicarsi i pochi posti alle degustazioni delle vecchie annate, praticamente introvabili e (giustamente) a peso d’oro: 2001, 2003, 2008, 2010. Verticali fino all’ultima vendemmia in commercio, la 2013, organizzate con Aspi Verona e il sommelier Fabrizio Franzoi.
In botte riposa la 2015, che già esprime tutte le sue potenzialità: un bouquet di grande eleganza al naso, su frutti di bosco, fragolina in primis, marasca e floreale di rosa. In bocca le medesime note fruttate, fini. L’acidità chiama un sorso dietro l’altro. E il retro olfattivo, lungo, ricorda di nuovo i piccoli frutti di bosco, impreziositi da una chiusura di rabarbaro.
UN BERGAMASCO IN FRANCIACORTA
Un vino per palati fini, insomma, il Moscato di Scanzo De Toma. Un passito da conservare per le grandi occasioni, o i momenti di festa. Oltre al vino, i De Toma offrono un panettone al Moscato di Scanzo e preziosi cioccolatini al Moscato e alla Grappa di Moscato di Scanzo.
“Un progetto – spiega Giacomo De Toma – cui ci siamo affacciati con lo stesso piglio, volto all’eccellenza. Il panettone è prodotto da una pasticceria di nostra fiducia attorno all’inizio del mese di dicembre, con ingredienti freschissimi e tecnica artigianale, tanto è vero che ha la scadenza di un mese. Per i cioccolatini ci siamo invece affidati a due professionisti assoluti come Cristian Beduschi e Claudio Bonezzi”. Ne è nato un bijoux ripieno di crema al passito bergamasco, ricoperta da una sfoglia sottilissima di cacao fondente all’80-85%. Roba da farfalle nello stomaco.
Ma è sulla vicina Franciacorta che Giacomo De Toma e famiglia hanno messo gli occhi, con un altro progetto all’insegna della qualità. “A fronte dell’insistenza di alcuni nostri clienti, che ci chiedevano di abbinare al Moscato di Scanzo una ‘bollicina’, due anni fa abbiamo deciso di acquistare 2 ettari di terreni tra Gussago e Provaglio d’Iseo, nel Bresciano, vitati a Chardonnay. Vigne di età compresa tra i 20 e i 25 anni, i cui frutti vengono lavorati in conto terzi da un’azienda del posto, che si occupa delle delicate fasi dell’imbottigliamento e affinamento del nostro Franciacorta Blanc de Blancs Extra Brut”.
Affinato sui lieviti per 32 mesi, è il frutto della collaborazione tra De Toma, il sommelier Aspi Fabrizio Franzoi – con cui è stata studiata la liqueur – e l’enotecnico freelance Andrea Gozzini. Un Franciacorta innovativo, più secco e minerale della media franciacortina. Perlage fine, naso di ananas, agrumi, mango maturo. Palato corrispondente, con bollicina non aggressiva, giocato all’insegna della delicatezza e della facilità di beva. Un Franciacorta a tutto pasto, di cui De Toma produce circa 5 mila appassionate bottiglie.
La produzione della bollicina si va ad affiancare a quella dei rossi tradizionali della cantina De Toma: il “quotidiano” Capriccio dell’Abate (12,5%) e il più complesso Cardinale, affinato in barrique (12,5%). Entrambi ottenuti dal blend tra uve Merlot (50%), Cabernet Sauvignon (30%) e Moscato di Scanzo (20%).
IL CONSORZIO “Il Moscato di Scanzo – dichiara Paolo Russo (nella foto), presidente del Consorzio della Docg bergamasca – è un vino unico sotto diversi aspetti. E’ l’unico vino passito Docg ottenuto da uve di Moscato a Bacca rossa, nonché l’unica Docg della bergamasca e la quinta della Lombardia. Inoltre è l’unico vino orobico ottenuto da un vitigno autoctono e costituisce la più piccola Docg d’Italia, in quanto producibile solo nella zona collinare del Comune di Scanzorosciate”.
“Il Consorzio, nato nel 1993 – continua Russo – ha come obiettivo quello di preservare l’unicità di questo vino e raggruppare i tanti piccoli produttori per creare ‘massa critica’. Ad oggi, tra i 20 associati, il più piccolo produce 600 bottiglie e il più grande (tra i piccoli) arriva a 5 mila bottiglie”.
Chiare le idee sul mercato. “Al momento lo sbocco principale del Moscato di Scanzo è il domestico, ma abbiamo dei soci che sono arrivati ad esportare il 30% della produzione all’estero, principalmente negli Stati Uniti, ma anche in Svizzera, Svezia, Cina e Taiwan”.
“Un’occasione unica per conoscere sempre di più questo passito straordinario – evidenzia Paolo Russo – è partecipare alla Festa del Moscato di Scanzo, un evento pensato dal Consorzio e dall’associazione Strada del Moscato di Scanzo e dei sapori scanzesi ormai 12 anni fa, che oggi ha raggiunto rilevanza regionale, raggiungendo una media di 40 mila presenze”. L’edizione 2017 si terrà come di consueto prima della metà di settembre, a Scanzorosciate.
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Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
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