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degustati da noi news vini#02

Vini Corsari 2018 a Barolo: ecco l’elenco delle aziende partecipanti

BAROLO –  Il 2-3 dicembre torna per il sesto anno consecutivo Vini Corsari, il Festival Europeo dedicato al vino artigianale, ospitato nel suggestivo Castello Comunale Falletti di Barolo.

Due giorni di degustazioni e vendita al pubblico, e la possibilità di conoscere trenta vignaioli provenienti da Italia, Portogallo, Spagna, Francia, Grecia, Germania, Austria e Repubblica Ceca.

 

LE AZIENDE PARTECIPANTI

Portogallo

COZ’s (Lisboa)

Humus – Encosta da Quinta (Lisboa)

Quinta da Vacariça (Bairrada)


Spagna

Matias i Torres (Canarias)

Iago Garrido (Ribeiro)

Quinta da Muradella (Monterrei)

Tentenublo (Rioja)


Francia

Les Maisons Rouges (Loire, Jasnières)

Pierre Péters (Champagne)

Domaine Kreydenweiss (Alsace)

Chandon de Briailles (Bourgogne)

Nicolas Maillet (Bourgogne, Mâcon)

Domaine Robert Denogent (Bourgogne, Mâcon Pouilly Fuissé)

Domaine Chamonard (Beaujolais)

Château Cambon (Beaujolais)

Eric Texier (Rhône)


Germania

Weingut Wasenhaus (Baden)

Stefan Vetter (Franconia)


Repubblica Ceca

Ota Sevcik (Boretice)


Austria

Zillinger (Weinviertel)


Grecia

Dalamara (Naoussa)


Italia

Azienda Vitivinicola Barbaglia (Piemonte)

Azienda Agricola Pizzo Coca (Lombardia – Valtellina)

Azienda Agricola Boffalora (Lombardia – Valtellina)

Azienda Vinicola Barbacan (Lombardia – Valtellina)

Weingut Pranzegg (Trentino Alto Adige)

Azienda Agricola Zidarich (Friuli Venezia Giulia)

Azienda Agricola Monte dall’Ora (Veneto – Valpolicella)

Casa Coste Piane (Veneto – Valdobbiadene)

Cantina De Fermo (Abruzzo)

Fonterenza (Toscana)

Azienda Agricola Natalino del Prete (Puglia)

Tenuta di Valgiano (Toscana)

Azienda Agricola Altura (Toscana – Isola del Giglio)

Enoteca Regionale del Barolo – Assagio Barolo Istituzionale 2014

Miele

Possibila Editore


VINI CORSARI
L’idea del festival nasce alla fine del 2013 con il desiderio di creare uno spazio comune per quei produttori che condividono un approccio artigianale al vino, che credono nel valore dei vitigni locali e dei terroir, che tutelano e valorizzano attraverso una viticoltura rispettosa dell’ambiente e volta ad esercitare e approfondire i saperi e le pratiche delle generazioni passate.

Vini Corsari si ispira inoltre all’opera Scritti Corsari di Pier Paolo Pasolini: un omaggio allo scrittore e alla raccolta dei suoi articoli che condannano l’omologazione culturale e la perdita di diversità e di individualità locali italiane a favore del consumismo e delle mode. L’ambizione pasoliniana di un approccio ancorato alle tradizioni e agli aspetti identitari dei territori è lo stesso che si rivendica quando ci si accosta al tema del vino.

Lungo questa rotta, Vini Corsari intende sorpassare il contesto nazionale, mettendo in luce il patrimonio vinicolo e culturale europeo che i vignaioli serbano e valorizzano.

Il Castello Comunale Falletti di Barolo ospiterà i vignaioli corsari con il loro spirito filibustiere e goliardico nei giorni di domenica e lunedì, così da permettere a tutti, appassionati di vino e lavoratori nel settore enogastronomico, di partecipare al Festival e conoscere le diverse aziende che cambiano di anno in anno.

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Approfondimenti news

Tenuta La Floriana: la Marche autoctone di Boccadigabbia

Poco più di un anno è passato da quando Vinialsupermercato ha visitato e parlato di Boccadigabbia, cantina Marchigiana che nella storia dei propri titolari può vantare anche un discendente di Napoleone Bonaparte.

Ma Boccadigabbia è anche Tenuta La Floriana, piccola proprietà di circa 30 ettari, di cui 24 vitati, acquisita dalla famiglia Alessandri nel 1996. Ed è Elvidio Alessandri, istrionico titolare dell’azienda, a parlarci di La Floriana tenuta maceratese che deve il suo nome a Pietro Paolo Floriani; storico personaggio del XVII secolo (è del 1626 il primo documento ove si menziona espressamente la messa a dimora di viti) che diete notorietà alla citta di Macerata grazie alle sue competenze di architettura militare.

Il progetto “La Floriana”, portato avanti in collaborazione con l’enologo Emiliano Falsini, punta sulla valorizzazione dei vitigni autoctoni in primis Verdicchio (anche se non è possibile la menzione in etichetta), Ribona e Montepulciano.

Uso controllato del legno, ricerca di longevità nei bianchi e di morbidezza nei rossi, utilizzo di fermentazioni spontanee. Queste le linee guida che danno vita alle 15.000 bottiglie di La Floriana, equamente divise fra mercato nazionale ed internazionale (in particolare Giappone e Stati Uniti).

LA DEGUSTAZIONE
Marche Bianco IGT 2016. Verdicchio 70%, Ribona 30%. Uso di barrique di secondo passaggio. Immediatamente floreale al naso, cui segue un leggero ma ben presente sentore minerale. Frutta bianca e gialla matura con un tocco di miele. L’utilizzo del legno è appena avvertibile ed occorre andarselo a cercare col naso. In bocca è morbido e di grande freschezza, sapido e dotato di buona persistenza. Chiude il sorso con una nota leggermente amaricante che ricorda la mandorla.

Marche Bianco IGT 2015. Verdicchio 85%, Ribona 15%. Uso di barrique nuove. Come per il 2015 il legno è appena percettibile al naso. Molto più marcata invece la vena minerale. Comunque florale con una piacevole nota di camomilla cui segue, appena il calice si apre, frutta gialla matura, un tocco di frutta esotica ed un leggero sentore di erbe aromatiche. Leggera nota agrumata che accompagna nel sorso la buona acidità e grande morbidezza ben bilancia la sapidità.

Marche Rosso IGT 2013. Montepulciano in purezza di cui una parte con appassimento di circa 40 giorni, 2 mesi di contatto con le bucce a cappello sommerso. Intenso al naso con evidenti note fruttate di mora, ciliegia ed arancia rossa. Terziario non invasivo fatto di spezie, radice di liquirizia ed un tocco mentolato. In bocca è morbido e pieno, dotato di un tannino setoso che accompagna la bella persistenza. Anche in questo caso un vino che non fa pesare il passaggio in legno e che non tradisci gli anni che ha, lasciando intuire una buona prospettiva.

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Approfondimenti news

Intervista a Marco Barbetti, miglior Sommelier FISAR d’Italia

Classe 1984, sommelier dal 26 maggio 2009. Marco Barbetti è il Miglior Sommelier FISAR d’Italia, nominato lo scorso 28 ottobre. Un vanto per la piccola delegazione del neo campione: Bareggio, 130 associati alle porte di Milano. Abbiamo avuto occasione di intervistarlo.

Sommelier dal 2009, poi dopo 9 anni ti è scattata la molla per partecipare al concorso.
Meno di 9 anni, diciamo 7 o 8 perché ho iniziato a prepararmi già da metà 2017.

Cosa ti ha spinto a provare il concorso come miglior sommelier?
Penso sia stato più per me stesso. Per riuscire a superare una sorta di blocco che ho nei confronti dei concorsi legata ad esperienze precedenti. È stato uno scatto per dire a me stesso di essere bravo, per dimostrarlo ufficialmente giudicato da altri. Questo il motivo principale …e poi non lo so.

Come ti sei preparato? Quale è stato il tuo approccio al concorso?
Mi ero fatto subito una scaletta. Gli argomenti del terzo livello (abbinamento cibo-vino) li ho iniziati ad approfondire già da metà 2017 perché mi sentivo zoppicante. Da ottobre a dicembre ho letto il libro di Luigi Moio “Il respiro del vino”, da cui ho capito meglio come affrontare la degustazione, e che spiega bene com’è la stratificazione dei profumi del vino.

Lì mi sono portato a casa sia questo che i vari componenti chimici che donano il profumo al vino, tant’è che una domanda del compito era “che cosa porta il sentore di banana?”, risposta “l’acetato di isoamile”, e quella la sapevo grazie al libro. Da dicembre a maggio ho ripassato tutto ciò che rientra nel primo livello.

Da giugno a settembre il secondo livello per quanto riguarda l’estero e poi la viticoltura italiana in ultimo. C’è da dire che essendo direttore di corso e quindi seguendo i corsi ripetutamente si parte avvantaggiati, il più è approfondire le tematiche.

Sei il Miglior Sommelier d’Italia. Sei sommelier da parecchio tempo. Sei direttore di una importante squadra di servizio e sei docente della lezione sulle funzioni del sommelier. Cosa vuol dire per te essere sommelier, in generale, e cosa vuol dire essere il Miglior Sommelier, quindi anche la “front page” di FISAR?
Innanzi tutto devo correggere gli errori che mi hanno fatto notare sul servizio, aspetto cui tengo molto. Sicuramente ci sarà tanta visibilità. Però secondo me non basta aver raggiunto l’obiettivo ma dovrò andare avanti a studiare per migliorarmi perché  bisogna dimostrare di essersi meritato la vittoria in tutte le occasioni che la FISAR metterà a disposizione. Mi sono riposato due giorni ma il terzo ho iniziato subito a ripassare perché avevo paura di dimenticarmi tutto.

Al di là del titolo. Fine 2018 inizio 2019: in questo periodo storico secondo te chi è il sommelier e che cosa deve fare, al di là dei canoni di un concorso. La sommelierie, oggi, cos’è per Marco Barbetti?
Domanda difficile. Sicuramente il sommelier deve essere un comunicatore, uno che riesca a capire il vino e metta in grado l’utente finale di capire quel vino. Se il sommelier si limitasse a capire il vino ma non riuscisse a capire chi ha davanti, e quindi a comunicare correttamente quel vino, non sarebbe altrettanto efficace. Inoltre dovrebbe, nella parte del servizio, dare il valore aggiunto al vino grazie alla proprio professionalità.

Dare il dettaglio, spesso gratuito, che fa la vera differenza fra “stappare una bottiglia” e “servire un vino”. È il sommelier che con la sua ritualità impreziosisce il vino qualunque sia il valore della bottiglia. E sicuramente non deve dare un giudizio personale.

Ti faccio la domanda politica. Sei stato nominato in concomitanza con l’elezione del nuovo Direttivo FISAR. Secondo te la FISAR in questo momento storico cosa deve fare e dove deve andare anche in un ottica allargata? Quali sono le sfide della FISAR 2.0?
Secondo me è importante che il direttivo vada d’accordo. Poi che scelgano di fare A o B io mi attengo alle direttive. Io non sono un politico e quindi non intervengo sul cosa si decida ai massimi livelli. Indubbiamente i nuovi soci che si iscrivono sono sempre più generazioni meno legate alla carta e più alla interattività, quindi per andare incontro alle nuove generazioni, che sono i soci del futuro, bisognerebbe anche andare verso questa direzione. Non è detto che sia la soluzione migliore, ci sono tanti pro e contro e non spetta a me valutarli.

Da quello che dici sembra che il sommelier doverebbe essere meno “in smoking” e più “in jeans”, un sommelier più smart.
No. Il sommelier deve fare il sommelier. Cioè comunicare il vino. Decidere invece come gestire le risorse, come gestire la didattica, la comunicazione e che tipo di supporti dare non è più competenza del sommelier ma è competenza di chi gestisce.

C’è qualcosa che vorresti dire per auto-commentare il risultato? Difficoltà particolari o cose che ti hanno reso particolarmente felice nell’affrontare la sfida?
Felice nell’affrontare la sfida, no! Perché è stata tosta! (ndr, sorride divertito) Tosta sia a livello pratico che a livello mentale, tant’è che dopo lo scritto in realtà pensavo di avere perso. Sicuramente la preparazione della prova ha dimostrato le persone che ci tengono davvero, persone (ndr. Marta, Valerio, Daniela, Giacomo, Raffaele, Micaela) che si sono strette intorno a me e mi hanno supportato e sopportato.

Ed è stato bello vedere tante persone che pur non essendo dovuto nulla hanno impiegato del loro tempo per me. Questa è stata sicuramente una bella dimostrazione di amicizia. Mi da noia, molta noia, aver sbagliato alcune cose sul servizio, ma non si finisce mai di imparare. È stata veramente tosta!

Ti stai godendo il successo?
No, perché ho già iniziato a ripassare! E poi c’è da studiare la nuova scheda che non avevo ancora iniziato ad affrontare.

Giusto. Perché al concorso siete stati valutati sulla vecchia scheda. Come vedi la scheda nuova in un’ottica di evoluzione della FISAR?
Bene, è più snella. È un miglioramento su tutta la linea, forse c’è qualcosa che inizialmente può sembrare leggermente più complicato, ma l’aver semplificato ed uniformato i descrittori facilita e rende meno difficoltoso memorizzarla.

Gli brillano gli occhi mentre parla della sfida che ha affrontato e del successo, ed ha un sorriso divertito ma velatamente amaro mentre parla degli errori in servizio che ha fatto. Sintomo della spinta al miglioramento continuo che contraddistingue solo i migliori sommelier.

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Whisky & Rum Day 2018: Milano capitale dei distillati

Si è tenuto lo scorso 28 e 29 ottobre a Milano presso il Megawatt Court The Whisky Day e The Rum Day 2018. Evento aperto ad appassionati e professionisti del settore che hanno potuto scoprire, confrontarsi e degustare tanto le novità del mercato quanto le grandi conferme. Proprio la trasversalità degli avventori è la chiave di lettura dell’evento.

Ecco quindi che fra i banchi d’assaggio non troviamo eccellenze assolute o rare bottiglie da collezione, ma prodotti di ottima fattura nati per soddisfare il consumatore, tanto l’esperto quanto il neofita, siano esse consumate “streight” o attraverso le sapienti mani di un “mixologist”. Ecco quindi far capolino fra whisky e rum anche altri distillati.

I MIGLIORI ASSAGGI
Al solito è impossibile raccontare l’intera manifestazione in poche righe, ci limitiamo quindi a raccontarvi gli assaggi che più hanno colpito la nostra attenzione.

Michter’s, dal Kentucky, porta una interessantissima selezione di Bourbon e Rye. Sette prodotti diversi per tipologia di legno utilizzata e durata di invecchiamento.

Fra tutti svettano il Bourbon 10yo ed il Rye 10yo, pieni morbidi e strutturati, con menzione d’onore al Streight Rye Toasted Barrel Finish che alterna all’acidità del Rye una spiccata nota di frutta secca netta e pulita anche nella breve persistenza.

Sempre dagli Stati Uniti Jack Daniel’s presenta Single Barrel Rye. Un Rye da singolo barile prodotto col tipico processo di mellowing. Un Rye dolce e vanigliato, perfetta declinazione della segale secondo lo stile JD.

Dall’Irlanda si fanno notare Redbreast 12yo, un pot still ben equilibrato pulito fresco e consistente, ed le due release di Mitchell & Son Green Spot, fresco e speziato, e Yellow Spot 12yo, più dolce e morbido.

Ancora l’Irlanda protagonista con Teeling che a fianco degli ormai noti imbottigliamenti (veri punti di riferimento per gli appassionati) presenta Brabazon, finissato in botti di Porto rotondo e vinoso, e Trois Rivières Small Batch.

Quest’ultimo attore di un gioco curioso: se Teeling ha usato botti ex rum agricole della distilleria Trois Rivières per il suo whisky al capo opposto della sala troviamo al bachetto di Trois Rivières un rum finito in botti ex Teeling. Un Whisky che profuma di Rum ed un Rum che profuma di Whisky che valgono la degustazione incrociata.

Fra i rum oltre alle grandi conferme di Damoiseau si distinguono le due release di Hampden, rum dalle forti note secondarie prima ancora che terziarie, e la bella verticale 12yo, 18yo e 25yo di Flor de Cana in un crescendo di rotondità e dolcezza.

Spicca l’idea di Roner, distilleria di Termeno in Alto Adige, di produrre due rum, uno bianco ed uno scuro. Quest’ultimo in particolare invecchiato nelle botti che hanno contenuto Caldiff il famoso distillato di mele di Roner.

Un rum dallo stile Alto Atesino. Ma ancor più Alto Atesino sono il gin, ottenuto con botaniche locali che profuma di bosco, e la grappa da Weissburgunder (pinot bianco) unica nel suo genere.

Sempre piacevoli e ben fatti Nikka Coffey Gin e Nikka Coffey Vodka della giapponese Nikka. Menzione d’onore per l’imbottigliamento 18yo di Longmorn dell’imbottigliatore indipendente Duglas Laing.

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degustati da noi news vini#02

Il Sangiovese “Poggio ai Chiari” di Fabio Cenni. Ovvero perché Chiusi vale bene una Doc

SIENA – Non chiamatelo profeta senza patria. Perché una patria, Fabio Cenni, ce l’ha. Si chiama Chiusi. Il patron dell’Azienda agricola Colle Santa Mustiola si presenta a Sangiovese Purosangue con una verticale 1997-2010 da far tremare i Brunelli.

E col sostegno del giornalista Andrea Gabbrielli chiede una Doc, ovvero una Denominazione di origine controllata, per una delle aree “meno considerate dalla critica enologica italiana”. Chiusi, per l’appunto. Molto più di una boutade goliardica.

Un “torto” che non ha ragione d’esistere, vista la forma strepitosa di tutte le annate in degustazione ieri pomeriggio al foyer del Teatro dei Rinnovati, presso il Palazzo comunale di piazza del Campo, a Siena.

“Chiusi – ha spiegato Davide Bonucci, one man company di Enoclub Siena e ideatore del format sul re dei vitigni toscani – è uno di quei territori non particolarmente mediatici che meritano invece di essere celebrati attraverso i vini lì prodotti. Un’area che non fa massa critica come altre e, forse per questo, non gode della considerazione che merita”:

LA DEGUSTAZIONE
Se non lo hai mai incontrato prima, il Sangiovese “Poggio ai Chiari” di Fabio Cenni (nella foto sopra) rischia di sembrarti piombato sul Pianeta Terra come Superman. Un meteorite nel calice. A maggior ragione dopo aver degustato – meno di 24 ore prima – oltre 200 sfumature del vitigno all’anteprima di Purosangue 2018, rinvenendo “solo” un 10% dei campioni sopra i 90 punti.

Già. Qui siamo di fronte a una delle migliori sublimazioni del Sangiovese in purezza. SI tratta, di fatto, del risultato di un lungo lavoro di selezione clonale che ha portato Cenni a selezionare 28 cloni “Superman” di Sangiovese. “Quelli che mi assicuravano longevità”, spiega il produttore con un filo d’orgoglio, mentre i calici cominciano a tingersi d’un rosso rubino lontano dalle tinte attese per le annate più vetuste.

E’ lì che si inizia a capire di che razza sono i vini di Chiusi. Dall’esame visivo. Zero “unghie aranciate” per dirla alla Treccani del sommelier. Tenuta perfetta. E quando al naso la vendemmia 1997 butta fuori richiami mielosi leggerissimi e garbati, ad accompagnare note di scorza d’arancia, ginger candito e cuoio, capisci di esser davanti a un supereroe di rosso. Un moikano toscano.

Peccato non alzi altrettanto la cresta al palato, che evidenzia solo reminiscenze della gloria che fu, neppure troppo tempo fa: bella concentrazione ma corredo monocorde, col sorso ormai troppo teso sulla sola freschezza. Resta comunque un assaggio da ricordare, pur non in termini di complessità.

Strepitosa, invece, la vendemmia 2002. Colore carico, naso che si accende come il semaforo verde della Formula Uno, alla griglia di partenza. Frutto rosso carnoso, succoso, ma anche toffee e macchia mediterranea, con alloro e salvia a conferire balsamicità, prima al naso e poi al sorso. Fresco e sapido, per tornare al forziere della linguistica sommelier. Col fiore che vira dalla rosa appassita alla viola, per azione di sua Provvidenza, l’Ossigeno. Miglior annata assoluta della verticale.

Una nota verde netta contraddistingue invece il naso della vendemmia 2003, unita alle ormai consuete tinte balsamiche e iodiche, che si mescolano a una speziatura sul filo del rasoio del “piccante”. Un tannino integrato, ma vivo, asciuga forse troppo presto il sorso su note di buccia di arancia disidratata.

La vendemmia 2004 è l’altra annata da ricordare. E pensare che parte chiusa, timida, impacciata. Poi, il Sangiovese inizia a fare il Sangiovese. Ti prende per mano il naso sulla macchia mediterranea, con un gioco d’alloro, rosmarino e mentuccia. Poi di liquirizia e di cuoio, che non coprono del tutto la carnosità del frutto rosso.

In bocca, quest’annata di “Poggio ai Chiari” di Fabio Cenni si rivela compatta, strong. Tattile. Chiusura splendida, sapida e fruttata. Il patron di Colle Santa Mustiola ci crede talmente tanto da averne conservate 2 mila bottiglie, pronte ad essere messe in commercio nei primi mesi del 2019: obbligatorio accaparrarsene almeno un paio.

Vendemmia 2005, quella del giro di boa. Naso tra i più “morbidi” della batteria, ma non è vaniglia: è frutto. Succo di frutto di cloni di Superman Sangiovese. Corrispondenza gusto olfattiva perfetta, su note tendenti al maturo garbato, dosato, centellinato.

Segno di una raccolta e di una selezione perfetta dei grappoli, in vigneto. Che goduria quando il naso vira sul tabacco, mentre in bocca la percezione del tannino pare perfetta per controbilanciare il frutto. Chapeau.

Bel palato fresco e sapido per le vendemmie successive (2006 / 2010), le più “giovani” presenti alla verticale, ancora non pronte ma già in grado di dire più di una parola sull’andamento delle annate e sulle prospettive future.

Di fatto, si distinguono bene l’una dall’altra. La 2009 ricorda per certi versi la 2005, con i suoi richiami di frutta matura: sorprende, addirittura, come una delle più godibili già oggi, potendo contare su una freschezza invidiabile e una chiusura di sale e spezie. La 2007 è certamente tra le espressioni più eleganti del “Poggio ai Chiari”, ma deve ancora assestarsi il tannino, che domina il finale.

Anche le vendemmie 2008 e 2010 paiono simili nel calice, per il loro timido affacciarsi al mondo esterno: è troppo presto per giudicarle, ma saranno sicuramente all’altezza di un nome, “Poggio ai Chiari”, che merita – se non una Doc – almeno la ribalta delle cronache enologiche.

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Ecco Troy, lo Chardonnay di montagna di Cantina Tramin


MILANO –
Metti nel calice 8 Chardonnay internazionali e prova a “beccare” quello di Tramin. Stile inconfondibile, impresa tutto sommato facile. Anche per chi di cognome non fa “Gardini”. E’ andata più o meno così, martedì pomeriggio, al Vun di Andrea Aprea.

Cantina Tramin ha scelto l’elegante ristorante di via Silvio Pellico, due stelle Michelin nel cuore di Milano, per presentare l’Alto Adige Doc Chardonnay Riserva 2015 “Troy“. L’ultimo gioiello dell’invidiabile collezione della cooperativa di Termeno (BZ), prodotto in 90 Magnum e 3120 bottiglie da 0,75, con un  prezzo medio in enoteca di circa 65 euro.

Carte, pardon “calici”, mescolati sul tavolo per mostrare l’identità montana dell’etichetta Tramin, oltre al suo valore. Alla cieca sono stati serviti Maltendinger Bienenberg Magnum 2015, Gaia & Rey Langhe Chardonnay Dop 2015, Troy Chardonnay Riserva Sudtirol Alto Adige Doc 2015, Cervaro della Sala Umbria Igt 2015, HdV Hyde Vineyard Chardonnay 2015, Chardonnay Mount Eden Vineyards 2013, Chassagne-Montrachet 1er Cru “Les Vergers” 2015, Croton-Charlemagne Grand Cru 2015.

Un’idea, appunto, di Luca Gardini. Che ha condotto i giochi, assieme al kellermaister di Tramin, Willi Stürz e al direttore commerciale Wolfgang Klotz. Se è vero che “Troy”, nell’antica lingua locale, significa “sentiero” – nome scelto da Tramin per evocare il lungo percorso compiuto dalla fondazione, avvenuta nel 1898 – dall’altro la nuova etichetta di Chardonnay è risultata il “cavallo di Troia” del tasting.

LA DEGUSTAZIONE
Giallo oro intenso, naso che spazia dagli agrumi ai fiori di vaniglia, fino al completo sbocciare del carattere alpino e minerale di “Troy”, giocato tra la menta e la liquirizia.

Consueta eleganza al palato, nel pieno stile Tramin: muscoli e cravatta per il rincorrersi di note agrumate ed esotiche mature, bilanciate da gran freschezza e percezioni iodiche eleganti che accompagnano il lungo finale.

Non a caso le uve Chardonnay utilizzate per Troy erano impiegate finora come importante componente della prestigiosa cuvée Stoan.

Le prove per una vinificazione in purezza della selezione sono iniziate nel 2002. Svolta decisiva nel 2014 e prima uscita ufficiale l’anno successivo. I vigneti si trovano in località Sella, sul versante orientale del massiccio della Mendola.

Si collocano tra 500 e 550 metri d’altezza, quindi in posizione più avanzata rispetto a quelli di Gewürztraminer con cui si produce Epokale, il primo vino bianco italiano premiato con 100/100 dalla guida Robert Parker Wine Advocate.

Hanno un’età media di 25 anni e sono allevati in parte a guyot e in parte attraverso la pergola semplice aperta, con pendenze che vanno anche oltre il 30%. L’’esposizione è a sud-est e gode di giornate calde e soleggiate, con forti escursioni termiche notturne e la presenza di correnti fredde provenienti dalle montagne. I terreni sono composti da ghiaia calcarea mista ad argilla.

“Nel nostro territorio – evidenzia Willi Stürz – per molti anni lo Chardonnay coltivato a quote elevate non era apprezzato, a causa della sua struttura esile. Con il passare del tempo abbiamo compreso come le piante potevano trovare il proprio equilibrio e ad avere basse rese in modo naturale, con un minimo intervento di regolazione delle quantità. Questo ci ha consentito di raggiungere i risultati odierni, di cui siamo molto soddisfatti”.

LA SFIDA INTERNAZIONALE

Per la prima edizione di Troy è stata scelta la vendemmia 2015, annata eccellente per i vini bianchi dell’Alto Adige. Durante la raccolta le uve sono state attentamente selezionate, con un controllo acino per acino.

La fermentazione è avvenuta in barrique, dove il vino ha sostato per undici mesi sui lieviti, compiendo anche la fermentazione malolattica. Troy è stato dunque travasato in contenitori di acciaio per un’ulteriore maturazione sui lieviti di 22 mesi. La chiarificazione è avvenuta quindi per precipitazione spontanea prima dell’imbottigliamento.

“Lo Chardonnay – aggiunge Wolfgang Klotz – è la varietà con cui si producono alcuni tra i più grandi vini bianchi del mondo, ma al tempo stesso è anche una tra le più diffuse ad ogni latitudine. Un vitigno che ci fornisce spettacolari esempi di versatilità e che noi vogliamo arricchire con la nostra interpretazione: un’inconfondibile espressione della terra alpina in cui viviamo”.

In tavola si abbina a carpaccio di pesce, salmone marinato o capesante. Troy è perfetto poi con primi piatti saporiti, come un risotto al limone o un tagliolino al tartufo, oppure piatti della tradizione alpina, come canederli ai funghi, Salmerino di Fontana al forno, tartara di vitello o formaggi di capra.

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Gin Agricolo, il figlio del terroir: Franco Cavallero in tre assaggi

Agricolo perché tutti gli elementi che lo compongono sono figli del territorio. Agricolo perché è una precisa scelta quella di coltivare le materie prime e monitorarne l’intera filiera. Agricolo perché è artigianale. È così che Franco Cavallero ha pensato, voluto e realizzato il suo gin.

L’idea è relativamente recente, l’esperienza di Franco no. Subentrato nella direzione dell’azienda di famiglia, Cantine Sant’Agata di Scurzolengo (Asti), insieme al fratello all’inizio degli anni ’90 Franco “si fa le ossa” nel mondo del vino scommettendo sul Ruchè, il vitigno locale.

Ma è durante i suoi viaggi volti a promuovei i propri vini che Cavallero scopre il mondo affascinante del gin, decidendo da prima di proporlo nella propria enoteca/cocktail bar di Asti, Il Cicchetto, ove ne propone più di 100 tipologie diverse e poi di cimentarsi con la produzione.

L’idea di fondo però non è quella di produrre semplicemente “un gin” ma di realizzare un distillato che sia figlio del territorio. Franco ha quindi iniziato a sfruttare i terreni non atti alla vite della propria azienda per coltivare in proprio le botaniche necessarie.

Sperimentazioni e prove che hanno portato all’identificazione delle corrette tecniche di coltivazione e del metodo di produzione più adatto al concept. Ecco quindi la scelta del “Distilled”, tecnica che da gin meno fini della “London Dry” ma che permette di meglio conservare le caratteristiche delle erbe utilizzate.

25.000 bottiglie/anno la maggior parte, oltre l’80%, destinate all’export soprattutto verso Asia, Canada e Finlandia. Tre i gin attualmente in gamma che andiamo a degustare, tutti con gradazione del 47%.

LA DEGUSTAZIONE
Gadan. Gin bianco, dall’aroma fine ed elegante anche se non particolarmente intenso. Al naso colpisce subito la spiccata nota di ginepro che la fa da padrone senza però coprire essenze floreali di rosa e lavanda.

L’ingresso in bocca è leggermente pungente ma la componente alcolica si smorza durante il sorso cedendo il passo ad un finale lungo e leggermente amaricante. Ottima base cocktail non disdegna di essere bevuto liscio.

Blagheur. Colore lievemente ambrato. Naso fine ricco di note erbacee di menta ed erba tagliata cui fa eco una piacevole nota speziata. Pepe bianco, rafano, coriandolo che giocano a nascondino col ginepro.

In bocca è morbido e secco. Retro olfattivo equilibrato, intenso e corrispondente al naso. Chiusura fresca e persistente. Al contrario di Gadan sembra più portato ad essere assaporato da solo, anche se può dire la sua nel bere mescolato.

Evra. Sorprendente colore rosso per il gin che non ti aspetti. Il ginepro c’è ma è quasi sovrastato da una incredibile nota fruttata di frutti rossi.

Lamponi e ciliegia che cedono il passo a note erbacee fresche di menta e salvia e ad un leggera spezia morbida. Avvolgente in bocca, con quella nota fruttata che lo rende quasi dolce. Un gin “femminile” direbbe qualcuno capace di coinvolgerti su quel lato che non ti aspetti, quello della morbidezza. Se stupisce bevuto liscio senza ombra di dubbio può donare profumi e sfumature particolari in qualunque preparazione.

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The Spirit gioca d’azzardo: nella nuova drink list un cocktail analcolico

MILANO – The Spirit Milano, giocando anche su un inatteso cocktail analcolico, apre le porte per presentare la nuova drink list.

Porte nere e pesanti, da cui fa capolino solo un timida luce attraverso degli oblò. Porte quasi anonime, nel caos della “Grande mela” italiana. Porte che rimandano agli Speakeasy americani dell’epoca proibizionista.

All’interno, il calore e la pacatezza di uno dei migliori cocktail bar di Milano. Scelta di materie prime d’eccellenza, sapienza nell’abbinarle e dosarle. Un fil rouge che lega le varie preparazioni. Così nasce la nuova lista di cocktail, pensati per stupire.

LE NOVITA’
È con vivo entusiasmo che Fabio Bacchi, bar manager di The Spirit, introduce il quarto cambio stagionale. Quattordici i cocktail che vanno ad affiancarsi alle 4 preparazioni fisse, per creare la Drink list Fall Winter 18 di The Spirit a tema “Il Gioco“. Il gioco in tutte le sue forme: gioco di società, gioco d’azzardo, gioco territoriale. Ecco quindi far capolino nomi che rimandano ai giochi da tavolo come Shanghai o Checkmate (scaccomatto).

Nomi che ricordano il gioco d’azzardo come The Joeker, Rien ne va plus (nelle due versioni Rosso e Nero) e Bluff. Il gioco rappresentato sul grande schermo con scene memorabili da cui traggono il nome Goldfinger e Russian Roulette. Il gioco raffigurato nell’arte con I Bari (noto quadro di Caravaggio) o il gioco come identità culturale in Pachinko (gioco tradizionale giapponese).

Una drink list con una precisa idea di fondo, non lunghissima (ed è un bene) e nella quale ognuno può trovare il bicchiere che incontra i propri gusti, se serve consigliato dai professionisti del The Spirit.

GLI ASSAGGI
Abbiamo avuto modo di degustare tre di questi “giochi”, primo fra tutti Bluff. Bluff perché ti inganna. Entra in bocca fruttato, fresco e speziato. Avvolge il palato e lascia una piacevole persistenza.

Ma, inaspettatamente, è analcolico. La base infatti è Memento (distillato di acqua aromatizzata alle erbe), cui si sommano shrub di agrumi, tè matcha, aloe vera, miele di melata e sciroppo di melagrano e pepe rosa.

Segue Not a Club Soda. Plymouth Gin, Falernum, lemongrass, habanero cordial, acqua e King’s Ginger gli ingredienti ma lo si capisce davvero solo assaggiandolo. Fresco, molto aromatico ma anche incredibilmente beverino e con una leggera ma decisa piccantezza che arriva solo a fine sorso. Equilibrato in tutte le sue note è terribilmente pericoloso nella sua facilità di beva.

Chiude Shanghai. Un drink inusuale. Servito caldo in una teiera. Ingredienti base sono infatti tè bianco (per l’appunto caldo) e Koval grain spirit (whisky di grano non passato in legno) cui seguono fiori di tè, pepe di Sichuan, Triplum Luxardo, Bitter Bianco, Luxardo, Chai Walla bitters ed olio di zagara.

Intenso al naso ha note balsamiche che rimandano la mente alle radici aromatiche (rabarbaro e liquirizia), alle erbe aromatiche ed alla macchia mediterranea. In bocca è morbido ed avvolgente con un finale amarognolo e vagamente agrumato.

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The Spirit Milano, nuova drink list. Un angolo di “spirito” nel caos della metropoli

*EDITORIALE*The Spirit Milano si nasconde. Non fa rumore. Capisci solo quando entri il senso di quel portone nero, schivo. Una nota muta, nel frastuono di una metropoli dove vince chi fa più rumore.

Pare l’ingresso di una cattedrale. La luce fluo traspare mistica e delicata, da tre oblò. Salire a bordo è come farsi prendere per mano da una persona di cui ti fidi, dopo aver chiuso gli occhi. Una persona che hai appena incontrato, ma che sembra conoscerti da una vita.

È il richiamo infallibile e minimal di un locale che mi ha completamente stregato. Fuori, dentro. E dietro al bancone. Da martedì 16 ottobre sarà disponibile la nuova drink list. Saprà “di inverno e azzardo”, anticipa il fondatore Fabio Bacchi.

Nell’attesa, ieri sera ho viaggiato su quella barca. Sono stato in Veneto, ad assaggiate la Grappa più delicata e avvolgente che io abbia mai provato (non a caso utilizzata dai migliori mixologist).

Sono stato in Spagna e da lì ho preso un altro volo, per il Messico del Mezcal. In sottofondo le parole dei preparatissimi barman, pronti a cullare i drink con le loro spiegazioni precise, comprensibili anche da un neofita dei distillati come me.

Ieri sera ho scoperto che per prendere l’aereo, a Milano, non serve fare il check-in. Ma solo sedersi al bancone del locale giusto. Chiedere ai comandanti la destinazione. E godersi il viaggio. Ovunque ti porti.

THE SPIRIT MILANO
VIA PIACENZA 15
MILANO

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Milano Wine Week 2018 : Uiv protagonista al Wine Business Forum

Milano – “Unione Italiana Vini interverrà da protagonista alla Milano Wine Week, un evento che potrà diventare una nuova interessante vetrina per il nostro settore, alla quale guardiamo con interesse e attenzione. Auspichiamo che durante questa settimana ricca di incontri e di confronti, venga favorita la ricerca di proficue sinergie tra i vari operatori del settore. Con questo obiettivo, domani, un importante team di imprenditori di aziende associate interverrà al Wine Business Forum. Le sintesi dei dibattiti saranno raccolte in un documento ufficiale che, in serata, verrà consegnato al Ministro Gian Marco Centinaio per condividere con Lui esigenze ed urgenze del nostro comparto, così rilevante per l’economia del Paese”.

Con queste parole Ernesto Abbona, presidente di Unione Italiana Vini è intervenuto  in occasione  dell’inaugurazione ufficiale della prima edizione della Milano Wine Week, in programma dal 7 al 14 ottobre 2018 a Milano.

Evento in cui la principale associazione di categoria del settore vitivinicolo italiano interverrà da protagonista.

L’AGENDE UIV
Martedì 9 ottobre 2018 alle ore 19.45, è previsto l’incontro con Gian Marco Centinaio, Ministro delle Politiche Agricole e del Turismo, al quale verrà consegnato il documento prodotto al termine del think thank “Milano Wine Business Forum”. Nel testo ufficiale confluiranno le riflessioni e le richieste dei leader del settore-vino, divisi in cinque tavoli di lavoro (Internazionale, Innovazione, Finanza e Credito, Comunicazione e Commercio), che si riuniranno durante la mattinata.

Dopo il dibattito politico, uno degli appuntamenti più attesi della settimana, sarà quello con la tavola rotonda “Il vino in Italia. C’era una volta…”, in programma il 12 ottobre alle ore 17.00 presso Palazzo Bovara (Corso Venezia 51, Milano), durante la quale sarà presentato in anteprima un estratto del volume ‘antologico’ per celebrare i 90 anni di storia del Corriere Vinicolo, realizzato in collaborazione con il Corriere della Sera, dal titolo: “Si pubblica il sabato. 90 anni di storia del Corriere Vinicolo”.

“Il momento più significativo per noi durante questa edizione della Milano Wine Week – ha continuato Ernesto Abbona – sarà la celebrazione dei 90anni del Corriere Vinicolo. Avremo occasione di riflettere sulla storia del vino e della nostra associazione ripercorrendo, dalle origini ad oggi, la vita del nostro giornale. Il Corriere Vinicolo è stato, e continua ad essere, il miglior testimone dei vari cambiamenti che il settore vitivinicolo ed il vino italiano hanno vissuto a partire dagli anni ‘30 del secolo scorso. Per rendere omaggio a questa lunga vicenda editoriale – ha concluso– stiamo realizzando un volume che ci aiuterà ad analizzare e comprendere le trasformazioni intervenute, nel corso di tanti anni, nel comparto enologico, a partire naturalmente dal vigneto per giungere alla cantina, ai mercati ed allo stile di raccontarne le esperienze e le vicende”.

Durante l’incontro di venerdì interverranno: Ernesto Abbona (presidente UIV), Giulio Somma (direttore de ‘Il Corriere Vinicolo’) Luciano Ferraro (caporedattore centrale de ‘Il Corriere della Sera’), Federico Gordini (presidente Milano Wine Week), Attilio Scienza (professore di Viticoltura Università degli Studi di Milano), Luigi Moio (professore di Enologia Università degli Studi di Napoli), Daniele Cernilli (giornalista e direttore di Doctor Wine) ed è previsto l’intervento di Giovanni Mantovani (direttore generale Veronafiere).

Seguirà una degustazione dedicata ai vini presentati dalle “aziende del novantesimo”. 14 imprese di lunga tradizione, protagoniste della storia del vino italiano: Marchesi di Barolo, Frescobaldi, Ruffino, Gruppo Italiano Vini, Zonin1821, Vinicola Decordi, Cavit, Mezzacorona, Schenk Italian Wineries, Rivera, Banfi, Botter, Mondo del vino, Vite Colte Terredavino.

WINE BUSINESS FORUM – PARTECIPANTI AI TAVOLI DI LAVORO PER UNIONE ITALIANA VINI

Tavolo Internazionalizzazione
Sandro Sartor – Ruffino srl
Enrico Zanoni – Cavit s.c.
Nicola Tinelli – Unione Italiana Vini, Policy Officer

Tavolo Innovazione
Domenico Zonin – Casa Vinicola Zonin spa
Luigi Bersano – Mgm Mondo del Vino
Stefano Ferrante – Casa Vinicola Zonin spa

Tavolo Comunicazione
Chiara Giannotti – Agivi
Giovanna Lazzari – Casa Vinicola Zonin spa
Sara Pascucci – Caviro sca
Julianne Clark – Mgm Mondo del Vino

Tavolo Commercio
Giuseppe Di Gioia – Casa Vinicola Zonin spa
Stefano Ricagno – Cuvage srl
Emilia Nardi – Tenute Silvio Nardi s.s.
Federico Castellucci – Azienda Agricola Federico Castellucci
Carlo Pietrasanta – Azienda Agricola Carlo Pietrasanta

Tavolo Finanza e Credito
Federico Terenzi – Società Agricola Terenzi srl
Giulio somma – Unione Italiana Vini, direttore de “Il Corriere Vinicolo”

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Whisky da record: un milione di euro per un Macallan

EDIMBURGO – È la bottiglia di whisky più costosa di sempre. Battuta all’asta per 848.750 sterline. Circa 958 mila euro, per intenderci. Si tratta di un rarissimo Macallan di 60 anni, prodotto in sole 24 bottiglie. Il precedente record di 857 mila euro apparteneva a un’altra bottiglia della stessa serie.

Il pezzo da guinness reca un’etichetta disegnata dall’artista pop italiano Valerio Adami, che ha firmato 12 delle 24 bottiglie. Le altre 12 sono state realizzate dal britannico Peter Blake.

Il whisky Macallan in questione è stato distillato nel 1926 e invecchiato in botte fino al suo imbottigliamento, avvenuto nel 1986.

È il terzo primato per la casa d’aste Bonhams, che già in altre due occasioni aveva battuto ogni record. “È un grande onore aver stabilito un nuovo record mondiale – ha dichiarato Martin Green, esperto di whisky per Bonhams – e particolarmente esaltante è il fatto che sia stato fatto qui in Scozia, la casa del whisky”.

L’acquirente, secondo quanto dichiara Bonhams, è un compratore dell’estremo Oriente, area nella quale è crescente l’interesse verso per gli Spirits.

UN WHISKY DI 60 ANNI
Dimentichiamoci per un momento il costo. Tralasciamo l’effetto “fashion” della bottiglia rara ed introvabile. Sorvoliamo sul glamour di un bene per pochi, anzi pochissimi, facoltosi miliardari. Riflettiamo invece su cosa davvero contiene quella bottiglia (augurandoci che chi ha potuto aggiudicarsela riesca a capirla fino in fondo!).

Macallan è famoso per il suo carattere, la sua eleganza, finezza e costanza qualitativa. Ma non è solo questo ad esser stato imbottigliato. Ciò che troviamo in quella bottiglia è una vera e propria macchina del tempo.

Distillato nel 1926, quel whisky nasce in un periodo storico in cui il single malt sostanzialmente non esisteva. Il whisky lo si beveva blended e le distillerie lavoravano esclusivamente per i blenders, veri protagonisti del mercato.

Imbottigliato del 1986 (e peraltro il primo record fu proprio di un Macallan 60 anni, venduto nel 1987 a 5.500 sterline) proprio all’inizio di quel fenomeno che porterà – di lì a poco – all’esplosione mondiale dei single malt (grossomodo fine anni ’80, primi ’90).

LA FOTOGRAFIA DI UN’EPOCA
Un prodotto che, coi suoi 60 anni, va oltre qualunque invecchiamento normalmente degustato. Consentendo di viaggiare nel tempo e osservare una “fotografia” del 1986, quando ciò che oggi chiamiamo “single malt scotch whisky” era sul punto di diventare famoso. Ma anche una fotografia del 1926 quando nessun Master Distiller lavorava pensando che quel suo spirit sarebbe stato bevuto in purezza.

A chiunque abbia avuto facoltà di acquistare questa rarità auguriamo di cuore di possedere non solo il potere d’acquisto per potersela permettere, ma soprattutto il background cultural-degustativo per poterla davvero “osservare” col naso e col palato. E se poi avesse voglia di raccontarcela saremo ben lieti di ascoltare le sue note di degustazione e dar voce alla sua recensione. Slàinte!

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news visite in cantina

Terraviva e De Fermo: l’Abruzzo del vino, al naturale

E’ una delle regioni dal maggior background storico in fatto di viticoltura, l’Abruzzo. Terra contadina e di uomini caparbi per eccellenza. Con la cultura dell’agricoltura e del “vino naturale”, quando ancora non era “di moda”. Basti pensare ad Edoardo Valentini ed Emidio Pepe, ma anche a Terraviva e De Fermo.

Oggi l’Abruzzo è una terra troppo spesso dimenticata quando si parla di grandi vini. Ma è il luogo dove tanti viticoltori hanno ripreso in mano l’umile lavoro dei propri avi, nobilitandolo. Allontanandosi dal mero commercio per riportare la terra e la pianta al centro del progetto.

Anche per questo l’Abruzzo può essere considerato la patria dei vini naturali. Abbiamo scelto due cantine per raccontarvelo. Due realtà animate dagli stessi principi, in due zone regionali opposte: una affacciata sul mare, l’altra sul Gran Sasso.

AZIENDA AGRICOLA TERRAVIVA
Tenuta Terraviva nasce nelle splendide colline di Tortoreto, in provincia di Teramo, in un fazzoletto di terra affacciato sull’Adriatico ad immagine e somiglianza dell’Abruzzo, dal carattere duro e dalle meravigliose sinuosità.

Siamo a due passi dal mare, in una accenno di collina confinante con un oasi naturale. I terreni qui sono sabbiosi e misti ad argilla. Azienda a carattere familiare, composta da una  squadra giovane, ricca di entusiasmo e passione, consapevole dell’importanza di portare avanti il lavoro e la filosofia dei padri e dei nonni.

Qui si coltiva a tendone e a spalliera Montepulciano d’Abruzzo, Trebbiano d’Abruzzo, Passerina e Pecorino,  tutti vitigni autoctoni. Filosofia biologica, naturale, poche contaminazioni in cantina, solforosa al minimo.

Nessuna filtrazione, rese basse e massimo rispetto per il terreno. Circa 24 ettari vitati, con vigne di quasi 50 anni d’età. Ad accoglierci è Federica, la figlia di Pietro che assieme alla moglie Annalisa ha intrapreso questa attività dal 2006. 

I MIGLIORI ASSAGGI
Petit 2014, Spumante Brut

11% vol. primo e unico esperimento aziendale di creare un Metodo classico da uve Trebbiano. La 2014 non è stata certo un’annata da ricordare. Molto fredda, con maturazioni tardive che hanno portato Pietro a pensare di fare una bolla. L’acidità del Trebbiano quell’anno poteva regalare una bottiglia inaspettata.

Un metodo classico 18 mesi sui lieviti, bassa C02 in bottiglia, dalle parti franciacortine si direbbe un saten. Vendemmia ad inizio Agosto , decantazione statica del mosto dopo pressatura soffice dei grappoli interi.

Fermentazione ed affinamento in acciaio con lieviti indigeni. Presa di spuma in bottiglia secondo il metodo classico. Una bella bollicina, fine e persistente, al naso note fragranti di fieno e pasticceria, in bocca richiami di fiori di campo, finale rotondo ma mai pesante.

Giusi 2017, Cerasuolo d’Abruzzo Doc
12.5% vol. Montepulciano 100%, 2500 bottiglie prodotte. La pigiatura non è molto energica per rispettare l’integrità degli acini. La separazione dei raspi avviene in questa fase. Le uve pigiate vengono sottoposte ad una pressatura soffice. Il mosto ottenuto viene messo a decantare.

La fermentazione alcolica, effettuata con lieviti indigeni, ha una durata di 8-10 giorni ed avviene ad una temperatura di 22°C. Il vino riposa per 6 mesi in acciaio e almeno 3 mesi in bottiglia. E’ un vino  come diciamo nel nostro gruppo di amici da bere a “secchiate” , specie in questa stagione. Colore ipnotico come il naso.

Rosa cerasuolo carico, naso di lampone, fragoline e melograno. In bocca freschezza e acidità ben bilanciate con la struttura . un sorso energico , vigoroso , per nulla scontato. La pulizia finale e il retro olfattivo  continuano a richiamare il sorso.

Mario’s 44 Trebbiano d’Abruzzo superiore Doc  2016
13% vol. Non ancora in vendita. Da un piccolo vigneto vocato. il numero nel nome indica il numero della vendemmia quindi la 44° per questo vigneto. Lo vediamo affacciandoci alla finestra della sala di degustazione, splendente nel suo tendone.

Vendemmia a metà settembre, un mese di macerazione sulle bucce poi 9 mesi in acciaio e 9 mesi in botte grande usata ad affinare. Giallo paglierino, naso con classici sentori di fieno, paglia, erbe officinali, fiori di campo, camomilla.

In bocca ha mineralità e sapidità portate dal mare e dal terreno, gran corpo, ottimo l’ingresso e il centro bocca. Finale pulito e lungo. Un vino completo in ogni sua parte, dalle potenzialità di invecchiamento. Da stoccare in cantina e riprovare magari una volta l’anno per scoprire ogni volta qualcosa di nuovo.

Tra la batteria dei rossi il nostro miglior assaggio è indiscutibilmente il CO2 Montepulciano d’Abruzzo Doc 2017. 13,5% vol. Vigne giovani di circa 15 anni. Una settimana di macerazione carbonica del grappolo intero. Successiva pigiatura con tutti i raspi, passaggio in acciaio dove rimane per qualche mese a decantare e poi in bottiglia senza filtrazioni.

E’ la versione “Beaujolais” del Montepulciano, che ne esalta il varietale, le note fruttate e dolci golose del vitigno. E’ un vino fresco e dal consumo immediato, caratterizzato da una beva piacevole. Colore rosso rubino. Al naso esprime aromi fragranti d’amarena e frutta rossa.

Al palato è piacevolmente fruttato, succoso, con freschezza e tannini delicati che non ne appesantiscono il sorso. Servitelo fresco a 12°, non ve ne pentirete e non potrete più farne a meno.


AZIENDA AGRICOLA DE FERMO

L’Azienda Agricola De Fermo si trova a Loreto Aprutino, località che ogni appassionato di vino che si rispetti conosce perfettamente. Siamo nell’entroterra pescarese, a due passi dal mare Adriatico e dai monti della Maiella e del Gran Sasso.

Troviamo Stefano Papetti Ceroni intento a dirigere i lavori di ristrutturazione al primo piano della zona sovrastante la cantina. Ci accoglie invitandoci subito a oltrepassare il vecchio portone che ci conduce proprio al suo interno, luogo fresco in questo periodo dell’anno.

La sua storia di viticoltore è molto strana. Bolognese di nascita incontra la sua futura moglie Nicoletta De Fermo durante gli studi Bolognesi.Una volta approdato a Loreto scopre che proprio dietro questo portone del vecchio casale di famiglia si trovano ancora tutte le attrezzature, botti e vasche di cemento comprese che il vecchio nonno di Nicoletta andato in pensione aveva deciso di non utilizzare più.

La famiglia De Fermo produceva vino da decenni, conferendolo alla cantina sociale e ad altri vinificatori. Ma Stefano non ha il minimo dubbio su quale sarà il suo futuro quando apre quel portone.

L’azienda è nata ufficialmente nel 2009 e attualmente dispone di 17 ettari di vigneto. Circa un ettaro Pecorino, quattro a Chardonnay, il resto Montepulciano d’Abruzzo. La coltivazione segue i principi della biodinamica ma l’azienda non si limita alla produzione di solo vino ma anche di olio, grano con cui si produce pasta, cereali e legumi.

La filosofia di Stefano è molto semplice: cercare di seguire la storia di questo territorio riportando tecniche di allevamento e vinificazione che da sempre si sono usate qui. Rispetto del luogo, del suolo e della tradizione contadina. Per fare questo ha studiato, si è documentato, ha sfogliato archivi, rintracciato testimonianze scritte e orali. L’amore e il rispetto sono la sua filosofia.

Non andiamo in vigna solo perché sono le 2 del pomeriggio e in questa giornata di fine luglio il caldo è veramente terribile. Ci accomodiamo subito in luoghi più freschi. In cantina troviamo sulla sinistra i caratelli dove affina il vino passito a base pecorino e, subito dopo sulla stessa fila, due tonneaux  (usati per il bianco) e due grandi botti di Garbellotto dove sta “riposando” il Prologo.

Più avanti le bellissime ed antiche vasche di cemento rimesse a nuovo. Niente acciaio. L’unico contenitore che vediamo viene usato al massimo per far transitare il vino durante i travasi. In un’altra zona più nuova ci sono altre vasche di cemento, 5 per l’esattezza di cui 2 di cemento grezzo con cui Stefano sta provando a sperimentare.

La fermentazione dei vini, ovviamente, segue la pratica naturale per cui niente uso di lieviti selezionati, nessuna aggiunta di coadiuvanti enologici, nessuna filtrazione, chiarifica e uso della solforosa al minimo indispensabile.

I MIGLIORI ASSAGGI
Launegild 2016 , Chardonnay Colline Pescaresi igt
12% vol. La prima domanda nasce spontanea. Perchè uno Chardonnay a Loreto? Perché qui lo Chardonnay c’è sempre stato. Questo clone ha origini antichissime ed è unico esemplare dello stivale. Non è il classico Chardonnay. La degustazione ce lo conferma.

Terreni calcarei, da un quintale di uva si ottengono circa 52 litri di vino. Altitudine sui 350 m s.l.m. Due note di vinificazione: torchiato coi raspi, quella che per Stefano è una vinificazione a grani tondi. Fermentazione in botte grande, a seguire un travaso per togliere le fecce grandi e rimettere il vino su quelle fini. Batonnage settimanale e poi 8/10 mesi  sempre in legno.

Nessuna filtrazione. Dalle botti di 2000 litri Stefano lascia sul fondo gli ultimi 50. Li tiene per se, imbottigliandoli come consumo interno e per la gioia dei suoi ospiti. Colore giallo paglierino con riflessi dorati. Naso elegante, per nulla carico dei toni classici dello Chardonnnay.

Legno impercettibile. Frutta gialla, fiori di campo, melone. Note balsamiche di eucalipto, di ananas e una fresca vena floreale. Berlo è stupefacente, la bocca è scossa da un bel nervo acido, lungo, cangiante, dal succo di pompelmo alla pesca, dal frutto giallo alla vena sapida e minerale poi ancora note floreali di cappero.

Richiama continuamente il sorso, perché ogni volta sembra un vino diverso e sempre più bello, complesso e completo quanto scorrevole. Assaggio avvincente, appagante.

Le Cince 2017 , Cerasuolo d’Abruzzo Superiore
13,5 % vol. Uve Montepulciano in purezza. Vinificazione in bianco, niente salassi. Uve torchiate morbidamente e messe a fermentare in botte grande da 20 HL per sei mesi per poi essere imbottigliato così com’è, senza filtrazioni e chiarifiche.

Fresco e delicato, profumatissimo di fragoline, lampone e rose, di grande eleganza e sapidità in bocca. Vino come mi piace definirlo da “h 24”. Lo puoi bere sempre in ogni occasione, da solo o accompagnandolo con ogni tipo di cibo. E’ un vino che ha freschezza, acidità, accenno di un corpo che è pur sempre del Montepulciano, quindi con nervo e persistenza. E’ minerale, è sapido, è lunghissimo.

Concrete 2017, Montepulciano d’Abruzzo Doc
13,5% vol. Montepulciano 100%. Stesso vigneto del Montepulciano top aziendale il Prologo, che segue vinificazione e affinamento classici. Vendemmia leggermente anticipata. Diraspato ma non pigiato.

Si lascia a fermentare l’acino intero, in una sorta di macerazione carbonica alla Beaujolais. Dopo 5/6 giorni di fermentazione, mentre ancora il processo è attivo, si svina e la fermentazione prosegue senza bucce. Da li in cemento per almeno 10 mesi.

Questo assaggio è una sorta di test perché il Concrete 17 è in bottiglia solo da poco più di un mese. Dal colore porpora con riflessi violacei al naso parte ridotto ma si pulisce rapidamente per sprigionare poi in aromi di fiori come peonie e viole e poi frutta rossa come fragolina e marasca.

Tutto il naso è un gioco di aromi primari e secondari spinti all’infinito. In bocca una sottilissima carbonica, a dimostrazione della giovinezza del vino. L’acidità tiene il sorso caratterizzato da un tannino appena accennato. Bella persistenza.

E’ un Montepulciano semplice, da merenda con pane e salame, niente surmaturazioni, niente complessità e robustezze di corpo, tannini soffici, sorso dissetante e allo stesso tempo appagante, non banale. Leggero ma presente, c’è e si sente, come una carezza che rassicura il palato.

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Grappa del Trentino: 2018 di quantità e qualità

TRENTO – Più quantità e buona qualità. A circa un mese dall’accensione degli alambicchi, l’Istituto di Tutela Grappa del Trentino fa il punto della situazione sull’annata 2018.

“Naturalmente è presto per tirare una somma complessiva – spiega il presidente Mirko Scarabello – ma da un sondaggio sulle nostre distillerie possiamo senz’altro dire che siamo di fronte a un’annata positiva sia dal punto di vista della qualità che della quantità, naturalmente legata alla produzione di uva e quindi di vinacce”.

“Come noto – precisa il numero uno dell’Istituto di Tutela Grappa del Trentino – il nostro disciplinare rispetto agli altri in Italia prevede la chiusura degli alambicchi entro il 31 dicembre, ma per novembre le vinacce trentine saranno già distillate”.

L’ANNATA 2018
Facile produrre più del 2017, vendemmia compromessa dalla siccità. Le prime stime parlando di un 20% in più di grappa alla fine della distillazione, per l’annata 2018.

Il lavoro del distillatore, che trasforma un’ottima materia prima in un ottimo distillato, produrrà risultati tangibili solo tra circa un mese e mezzo, quando la grappa si sarà “riarmonizzata”.

Sempre secondo l’Istituto di riferimento, “l’annata in Trentino è particolarmente favorevole per le uve a bacca rossa, visto l’andamento climatico e il buon grado di maturazione raggiunto”. Anche nelle valli a prevalenza di vitigni a bacca bianca “le rese sono buone e la qualità della vinaccia notevole, con profumi di grande livello”.

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Chianti in Cina: perché marchio Shiandi 基安蒂 è ottima trovata

Diciamocelo chiaramente. Ha suscitato qualche ilarità – cosa grave, anche tra una buona fetta di addetti ai lavori – la registrazione del marchio “Shiandi” (基安蒂) per il Chianti in Cina. Una mossa volta a favorire l’export, che ha riacceso facili ironie di caratura calcistica.

Passata la fase di autoindotto solletico ascellare italiota – pratica che investe tutte le “cose nuove” che si verificano in un Paese notoriamente allergico all’innovazione e alla presa di coscienza del reale Anno Domini – la trovata del Consorzio di Tutela fiorentino non può che essere giudicata positivamente.

PIZZA E COCA-COLA
Abbiamo infatti approfondito il discorso. Scoprendo che molte parole, in Cina, godono di “translitterazioni” simili a quelle utilizzate dal team toscano capitanato da Giovanni Busi. Tecnicamente si chiamano loanword, ovvero “parole in prestito”. A Pechino si comunica senza un vero e proprio alfabeto e con un complesso sistema di caratteri e fonemi.

E allora ecco che 披萨 si tradurrebbe “PY pīsà”: ovvero “pizza“. Due simboli: “PY”, ovvero “tagliare”, e “SA”, una parola senza significato particolare – come potrebbe essere un cognome – utilizzata solo per l’assonanza fonetica.

Ancora più chiaro l’esempio con la bevanda più famosa del mondo: la Coca-Cola可口可乐, ovvero “Kĕkŏu Kĕlè”. I caratteri usati per traslitterare il marchio sono interpretabili in diversi modi. Ma in mandarino, guarda caso, rappresentano una “deliziosa felicità”. Tutto tranne che burloni, quelli del Consorzio del Chianti. O no?

http://www.vinialsupermercato.it/chianti-registrato-in-cina-il-marchio-shianti-per-export/

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Franciacorta protagonista alla Milano Wine Week

MILANO – Franciacorta sotto i riflettori al debutto della prima settimana del vino milanese. La novità si chiama Milano Wine Week e dal 7 al 14 ottobre trasformerà Milano nel paradiso di tutti i winelover che tra palazzi, quartieri, ristoranti e bar potranno sbizzarrirsi in un palinsesto ricchissimo di avvenimenti dedicati al mondo del vino.

Per acquistare i biglietti in prevendita basta cliccare qui. Per gli iscritti alla newsletter del Consorzio, peraltro, è previsto uno sconto del 15%.

IL PROGRAMMA FRANCIACORTINO
Franciacorta Day – Giovedì 11 Ottobre
Due eventi, doppia soddisfazione! Nella stessa giornata Franciacorta propone l’appuntamento con la tappa milanese dei Festival itineranti Franciacorta e l’inedito Franciacorta Stories.

Il Festival Franciacorta, nel suo format consueto, riunisce nella location di Palazzo Bovara 40 produttori franciacortini per l’incontro con operatori, esperti del settore ed eno-appassionati attraverso banchi d’assaggio e degustazioni.

Dalle 15.00 alle 17.30 – Ingresso riservato a stampa e operatori
Dalle 17.30 alle 20.00 – Apertura al pubblico.

Franciacorta Stories: dalle 19.30 alle 22.30, a pochi metri di distanza nei piani del Brian & Barry Building, Franciacorta si racconta attraverso i diversi volti del territorio.

Tanti temi e tanti vini distribuiti sui diversi piani in un divertente saliscendi alla scoperta delle bollicine simbolo dell’eccellenza italiana. Per questo evento è obbligatoria la prevendita.

Franciacorta Wine District – Dal 7 al 14 Ottobre
I ristoranti ed i locali dell’affascinante e raffinato quartiere di Brera ospiteranno degustazioni di Franciacorta, creeranno ad hoc menù in abbinamento ed apriranno le porte a tutti coloro che vorranno scoprire la versatilità delle bollicine franciacortine.

Franciacorta Masterclass
Presso Palazzo Bovara, due diverse masterclass dedicate alla scoperta territorio e dei suoi segreti attraverso la degustazione di 6 Franciacorta.

– 9 OTTOBRE – Ore 19.00 “FRANCIACORTA DOSAGGIO ZERO” – Diverse interpretazioni della tipologia che meglio racconta il terroir Franciacorta
Biglietto d’ingresso unico € 15
– 13 OTTOBRE – Ore 17.00 “SATÈN, UNICITÀ IN FRANCIACORTA”

Degustazione della tipologia più elegante e morbida prodotta esclusivamente in Franciacorta. Biglietto d’ingresso unico € 15.

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Approfondimenti degustati da noi news vini#02

Basilicata vs Veneto: scontro (amichevole) fra tradizioni enologiche

Cosa succede se proviamo ad accostare l’Aglianico del Vulture a ai rossi del Veneto? Ha provato a rispondere alla domanda Cantina di Venosa con una sorta di sfida amichevole fra due dei propri vini e due vini, veneti per l’appunto, di cantina Balestri Valda.

La degustazione, guidata dal presidente Ais Basilicata Eugenio Tropeano, è stata una sorta di sfida amichevole fra due territori e due tradizioni distanti non solo geograficamente. Una sfida senza vincitori né vinti. Una comparata che ha dato modo di apprezzare le sfumature di due terroir.

LA DEGUSTAZIONE
Terre di Orazio Aglianico del Vulture, 2015. Cantina di Venosa. Vinificazione in acciaio ed affinamento in botte grande per 15 mesi. Un vino strutturato dal colore da colore rubino, quasi purpureo. Subito al naso di frutti rossi maturi, a tratti frutta macerata.

Poi pepe, caffè, fava di cacao. In bocca entra deciso, i 14% si fanno sentire ma sono immediatamente vestiti dalla piacevole morbidezza e freschezza. Scorre bene in bocca ed il tannino è perfettamente integrato nella struttura del vino.

Veneto Igt “Scaligero”. Cantina Balestri Valda. Uve Cabernet Sauvignon e Merlot. Fermentazione alcolica e malolattica in acciaio, affinamento per 24 mesi in barrique. Rosso rubino per nulla trasparente. Evidente nota vegatale al naso, erbacea e di peperone verde.

Fruttato evidente ed una nota speziata più marcata rispetto al vino precedente. Rotondo e morbido al palato ha un tannino ben integrato nel sorso. Meno persistente del Terre di Orazio.

Ex equo. Due vini troppo diversi per poter decretare un vincitore il primo round si chiude con un nulla di fatto: 1 a 1, palla al centro in attesa dei fuoriclasse.

Carato Venusio Aglianico del Vulture 2013. Il top di Cantina di Venosa. Vinificazione e fermentazioni alcolica e malolattica in acciaio, affinamento in piccole botti (carati, per l’appunto) di rovere francese per due anni e per minimo 12 mesi in bottiglia. Vino di grande spessore dal colore rosso rubino tendente al granato. Naso elegante. Frutti rossi maturi che giocano a nascondino con la ciliegia sotto spirito. Spezie a volontà, pepe, liquirizia, tabacco, cuoio.

Grande balsamicità ed una nota mentolata a chiudere uno spettro olfattivo di grande eleganza. Morbido, molto sapido e di grande freschezza. Tannino setoso. Un vino di grande prospettiva, ottimo servito a tavola, darà il meglio di sé dimenticato in cantina per un po’ di anni.

Amarone della Valpolicella 2012. Punta di diamante di Cantina Balestri Valda. Di colore più scarico dell’Aglianico è meno scorrevole nel bicchiere. Cacao, caffè, tabacco dolce. Frutta sotto spirito. In bocca è caratterizzato da grande freschezza e morbidezza. Il tannino è levigato ed accarezza il palato in modo vellutato. Anche in questo caso un vino dalle ottime prospettive.

Anche qui è impossibile decretare un vincitore. Due terroir, due tradizioni. Vitigni e metodi di vinificazione così diversi che è impossibile porli a paragone. Interessante però l’esperienza e la possibilità di giocare arricchendo la propria esperienza.

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La Puglia di Cantina Posta Pastorella: anfore, barrique e “naturalità”

Poco più di 2,5 ettari di vigna a 3 km dal mare del Gargano a Vieste (FG). Una produzione di circa 18 mila bottiglie per Cantina Posta Pastorella, una piccola realtà che lavora e produce in un territorio più votato a turismo, pesca ed olio che non alla viticoltura.

È Antonio Pastorella ad accoglierci. È lui che una ventina di anni fa ha deciso di andare oltre la sua laurea in ingegneria meccanica per dedicarsi a questo vigneto le cui prime informazioni risalgono al 1983. Un vecchio vigneto che Antonio ha recuperato, convertito a regime biologico dal 2000, e dalle cui pergole ricava le uve per i suoi vini.

Poco Bombino, Trebbiano e Malvasia Bianca da cui si ricava l’unico bianco della cantina. Il resto è Montepulciano che regala i rossi ed i rosati di Cantina Posta Pastorella.

“Posta” perché la sede della cantina era anticamente una stazione di cambio cavalli per il servizio postale. Siamo infatti a metà strada fra Vieste e Peschici lungo un tratto di costa di grande bellezza.

Mare e terreno sabbioso-argilloso che donano alle uve le loro caratteristiche. Nessun ausilio chimico in cantina, neppure l’azoto per le colmature. Il risultato lo abbiamo nei calici.

LA DEGUSTAZIONE
Bianco della Posta (2017). L’unico bianco della cantina accoglie con profumi fruttati e di macchia mediterranea. Sapido in bocca e di buona acidità, non eccessivamente persistente.

Tre i rosati a base Montepulciano. Rosa della Posta (2017) è vinificato in acciaio, 12 ore di macerazione. Cerasuolo intenso ricco di profumi di frutti rossi e ciliegia, fresco in bocca con un tannino appena avvertibile ed un finale breve ma piacevole.

Damanera Rosato (2015) soggiorna in anfora di terracotta per un anno. Colore leggermente ossidato, è molto pulito al naso. Sentori di ciliegia matura e frutta a polpa gialla matura. In bocca si rivela fresco e scorrevole sul palato. Ad una nota tannica leggermente amaricante risponde un finale morbido, quasi dolce.

Donna Elda ha la stessa base ma viene affinato un anno e mezzo in barrique di rovere francese. È un rosato che gioca a fare il rosso. Se il naso ha la balsamicità ed i terziari tipici di un rosso che fa legno in bocca rivela la freschezza e l’agilità tipica di un rosato. Sul finale arriva un piacevole tannino ben integrato.

Ampia la gamma dei rossi. Rosso della Posta (2012) è vinificato in solo acciaio. Entry level della gamma ha un naso molto ricco di frutti a bacca rossa e gialla ed una leggera nota verde. Il tannino è vivo. Un vino pronto ma che non disdegna di essere dimenticato in cantina per un po’.

Damanera Rosso (2012), come il gemello rosato affina in anfora. Appena versato è un po’ chiuso e timido al naso ma col tempo rivela un bouquet ampio che spazia dalla frutta al fieno finanche ad una nota di biscotti al burro. In bocca è fresco e morbido con una leggera nota di ossidazione sul finale che ben accompagna i sentori retro nasali.

Don Carlo è vinificato in acciaio ed ottenuto dalle vigne più vecchie del vigneto. Due le annate degustate, 2010 e 2008. Il primo ha naso ricco in cui alla frutta si accostano spezie morbide (pepe bianco, cannella), tannino morbido e buona acidità. Nel 2008 emergono di più i terziari, radice di rabarbaro e liquirizia. Altrettanto equilibrato in bocca.

Chiude la degustazione Tennika (2006). Rosso con 36 mesi di affinamento in barrique di rovere francese. confettura di frutti rossi, vaniglia, salvia, rosmarino, nota balsamica ed un sentore di brace per un naso complesso ed accattivante. In bocca il legno non è invasivo. Morbido e caldo non si scompone durante la lunga persistenza.

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degustati da noi news vini#02

Ferrari punta sul Pinot nero Trento Doc: Giulio Ferrari Rosé Riserva del Fondatore 2006

TRENTO – Cantine Ferrari punta sul Pinot Nero e annuncia la novità dell’anno per i Trento Doc: il Giulio Ferrari Rosé Riserva del Fondatore 2006.

Una tappa importante nella storia ultrasecolare della cantina, in un 2018 già ricco di novità, come l’acquisizione del marchio dell’amaro Re Laurino e i nuovi vini di Podernovo, la tenuta toscana della famiglia Lunelli.

“Una testimonia dell’ossessione per l’eccellenza e l’indissolubile legame con il territorio”, commentano dalla casa trentina.

Tiratura limitata per la novità di casa Ferrari: solo 5 mila bottiglie. E obiettivo chiaro: “Diventare l’icona delle bollicine italiane rosé”. Il prezzo? Circa 160 euro

LA NOVITA’
Il Giulio Ferrari Rosé è un Trento Doc dalla vibrante intensità, sintesi perfetta del carattere del Pinot Nero e dell’eleganza dello Chardonnay, frutto di un’attenta selezione nei vigneti di famiglia in alta quota alle pendici dei monti del Trentino.

Nasce solo negli anni degni di una grande Riserva. La prima annata è frutto della vendemmia 2006 ed è quindi rimasta per undici anni in affinamento sui lieviti, nel buio e nel silenzio della cantina, confermando la capacità dei vigneti di montagna di esprimere vini in grado di vincere la sfida del tempo.

LA STORIA
Ognuna delle 5 mila bottiglie sarà custodita in un raffinato cofanetto, destinato alla vendita nell’alta ristorazione e alle enoteche più esclusive in Italia e nel mondo. Era il 1902 quando Giulio Ferrari decise di dare forma al suo sogno: creare nel suo Trentino bollicine capaci di suscitare emozioni uniche.

Nel 1980 la famiglia Lunelli ha dedicato a lui e al suo sogno l’etichetta più prestigiosa della casa, il Giulio Ferrari Riserva del Fondatore. Visione, coraggio e passione rivivono ora nella versione rosé di quella che si è nel frattempo affermata come la bollicina più premiata d’Italia.

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Klet Brda, la cooperativa slovena che fa incetta di premi al Mondial des Vins Extrêmes

TORINO – Difficile da pronunciare, facilissima da bere. E’ Klet Brda, cooperativa vinicola della Slovenia che ha fatto incetta di premi al Mondial des Vins Extrêmes 2018. Sette le medaglie consegnate ieri dal Cervim al direttore Silvan Peršolja, in occasione della cerimonia di premiazione avvenuta a Palazzo Madama, in centro Torino.

Tra i riconoscimenti spicca la Gran Medaglia d’oro al Zgp Goriska Brda Merlot 2013 “Bagueri“. Medaglia d’oro per il Zgp Goriska Brda Cabernet Sauvignon 2016 “Quercus” e per un altro rosso, il Zgp Goriska Brda Pinot Nero 2016 “Krasno“.

Tra i bianchi di Klet Brda che hanno convinto a giura del Mondial des Vins Extrêmes 2018 c’è la Zgp Goriska Brda Rebula 2014 “Krasno”. Premiati anche due vini da dessert: Zgp Goriska Brda 2013 “Markiz” (blend 80% Rebula, 20% Chardonnay) e Zgp Goriska Brda Muskat 2017 “Peneci” (spumante base Moscato Giallo).

“Siamo una cooperativa di oltre 400 famiglie di viticoltori del Collio sloveno – ha spiegato il direttore direttore Silvan Peršolja alla consegna del premio – di cui solo 30 vivono esclusivamente di viticoltura. Per tutti gli altri si tratta di un’attività secondaria, portata avanti da generazioni”.

“Quello che ci preme sottolineare – ha aggiunto Peršolja – è che il nostro combustibile non è tanto l’economia generata dal vigneto, bensì la passione che ci guida ogni giorno. La viticoltura eroica, per noi, è una missione”.

La media si aggira attorno ai due o tre ettari di terreni per famiglia, situati perlopiù su versanti ripidi, lavorabili solo mano e senza l’ausilio di grandi macchinari. Difficoltà che non impediscono a Klet Brda di risultare il maggiore produttore ed esportatore di vino della Slovenia.

E convincono tutti i vini premiati al Mondial des Vins Extrêmes 2018. Il fil rouge che li lega è quello dell’eleganza e della centralità del frutto: vini croccanti e verticali che non stancano mai.

In particolare, tra i rossi, colpiscono il Cabernet Sauvignon 2016 “Quercus” e il Pinot Nero 2016 “Krasno”. Ottimo anche il vino da meditazione “Markiz”, blend Rebula-Chardonnay vendemmia 2013. Da provare.

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Tutti in Georgia, ma perché? Pregi e falsi miti del vino georgiano


TBILISI –
Alzi la mano chi ha un amico che è stato in Georgia, o che sta progettando un viaggio alla scoperta dei vini georgiani. La percentuale è alta se si considera che il vino, in Georgia, è una questione tutto sommato recente. Intendiamoci.

Se da un lato è vero che l’ex colonia zarista e sovietica ha avviato da tempo una massiccia operazione di comunicazione internazionale, dall’altro va considerato che non esiste ancora una mappa catastale completa del “vigneto Georgia“. La National Wine Agency ha iniziato questo lungo lavoro solamente nel 2014.

Il riconoscimento come patrimonio Unesco del metodo tradizionale di produzione del vino in anfore Qvevri e il ritrovamento delle più antiche tracce di viticoltura al mondo – risalenti a 8 mila anni fa – aiutano. Ma non bastano.

Il governo di Tbilisi si sta dando un gran da fare per non perdere il treno del vino e dell’enoturismo. E la Georgia sarà certamente uno dei Paesi emergenti che farà sentire la loro voce sul mercato internazionale, nei prossimi decenni.

Ad attirare tanti curiosi ed esperti in questo magnifico Paese del Caucaso – tutto da scoprire anche dal punto di vista naturalistico – è l’immagine da “Culla del vino” ormai legata alla Georgia, a livello internazionale.

GEORGIA, THE CRADLE OF WINE

Non a caso, il nome prescelto dall’agenzia nazionale del vino georgiano lo scorso anno, per l’allestimento di 4 mesi alla Cité Du Vin de Bordeaux, è stato “The cradle of wine“. Una metafora che rafforza ulteriormente l’altro caposaldo della comunicazione governativa: la grande varietà di vitigni autoctoni presenti sul territorio georgiano. Oltre 500.

Ma c’è addirittura chi parla di 800. Tra il 5 e l’8% dei vitigni mappati al mondo, circa 10 mila in totale, sarebbero dunque originari della Georgia. Meno di 400 quelli mappati in Italia. Il grande errore, a differenza di quanto capita nel nostro Paese, è aspettarsi di poterli trovare tutti, una volta sbarcati ai piedi del Caucaso. E magari degustarli. Quello che non si dice, infatti, è che di questa grande varietà di vitigni è rimasto ben poco.

La Georgia, negli anni del colonialismo russo, è stata letteralmente depredata dei suoi tesori enologici. La maggior parte degli autoctoni sono stati espiantati in favore delle varietà più vigorose e produttive. Per decenni, di fatto, la Georgia ha funto da “cantina” dei russi. O, meglio, da serbatoio. Il vino georgiano, sotto controllo della Russia, non godeva certo di buona fama. Si trattava di vino spesso adulterato, carico di pesticidi o “allungato” con acqua, in mano a poche compagnie controllate da uomini d’affari senza scrupoli.

LA SVOLTA

Le cose hanno iniziato a cambiare in seguito all’indipendenza della Georgia, ottenuta nel 1991. Ma a dare la vera e propria sferzata al settore è stato l’embargo operato dai russi nel 2006. Fino a quell’anno, Mosca ha continuato a servirsi della produzione vitivinicola georgiana, senza farsi troppe domande.
L’export verso la Russia, di fatto, si assestava su cifre imponenti, tra l’80 e il 90%. L’improvvisa attenzione dei russi per il mercato armeno – l’unico in zona in grado di supportare le richieste – in sfavore di quello georgiano e moldavo ha avuto effetti immediati devastanti per l’economia locale.

Sette compagnie nazionali hanno chiuso i battenti, accusate dal Cremlino di esportare in Russia vini adulterati e tossici. Ma, alla lunga, l’embargo è stato la vera chiave di volta per l’enologia della Georgia. Le grandi compagnie nazionali, sopravvissute alla ritorsione, hanno cominciato a rivolgersi a mercati più maturi di quello russo.

Finendo per confrontarsi con Paesi ben più alfabetizzati e, soprattutto, produttori di vino. In Georgia si comincia così a parlare di qualità. Fondamentale l’attività di scouting da parte delle più grandi aziende del Paese, a caccia di consensi anche nei Concorsi internazionali.

Diversi enologi di fama, tra cui molti italiani e francesi, finiscono per dare il loro contributo alla crescita qualitativa del settore. E ancora oggi sono molte le “firme” italiane presenti addirittura sulle etichette del vino Made in Georgia. Quasi come marchi di garanzia. Ma non è (ancora) tutto oro quel che luccica.

Tra le pratiche enologiche consentite c’è, per esempio, l’aggiunta di trucioli di legno nel vino in fermentazione o in affinamento in acciaio. Si tratta delle cosiddette “chips”, che consentono di dare al vino un “effetto legno” pressoché immediato, senza attendere i tempi di naturale estrazione in botte. Una pratica (purtroppo) legale in molti Paesi, ma non in Italia (almeno per i vini Doc).

Ad ammettere senza problemi l’utilizzo delle “pastiglie” di tannini sono grandi gruppi che operano a livello industriale. Come KTV (Kakhetian Traditional Winemaking), che di “traditional” – in verità – non ha più moltissimo. La compagnia è una delle più visitate dagli enocuriosi a caccia di chicche in Georgia e la qualità dei vini prodotti è alta, nonostante si tratti di una realtà da 600 ettari complessivi (di proprietà) distribuiti tra Askana ad Akhasheni, da ovest a est del Paese.

Giusto visitare KTV per comprendere le punte tecnologiche raggiunte dalla Georgia nel winemaking process. Non a caso, Kakhetian Traditional Winemaking non manca da diversi anni al Prowein Trade Fair. Ed è una delle flag company che stanno contribuendo maggiormente all’accrescimento della notorietà del vino georgiano nel mondo. Tra le aziende visitate durante il nostro tour ce ne solo altre da visitare a tutti i costi:

  1. Mildiani Winery
  2. Zangaura Georgian Wines
  3. Lapati Wines
  4. Winery Chelti
  5. Ruispiri Biodynamic Vineyard
  6. Iago’s Wine – Iago Bitarishvili
  7. Khareba Winery
  8. Vellino – Beka Jimsheladze
  9. Nika Vacheishvili’s Marani and Wine Guest House

LE DEGUSTAZIONI

Cantine, quelle citate sopra, di dimensioni diverse. Ma tutte reali interpreti dei valori del vino, considerato “sacro” in Georgia.
Tra queste, la più nota tra gli amanti degli “orange wine”, anche in Italia, è la cantina di Iago Bitarishvili (nella foto), vero e proprio interprete assoluto del Chinuri, il vitigno a bacca bianca più diffuso della regione del Kartli.

Meritevole di essere scoperta Lapati Wines, l’avventura georgiana di due giovani francesi che hanno iniziato a produrre spumanti metodo ancestrale con le uve locali Rkatsiteli, Chinuri, Avkveri e Gorula (linea Kidev Erti), oltre a un potente Saperavi.

Ottimo il lavoro che sta portando avanti, sempre nella nicchia dei Raw Wines, anche Beka Jimsheladze. La sua cantina è stata ultimata da poco e il brand Vellino inizia a imporsi sul mercato: già un anno fa i suoi vini ci sono sembrati pronti per poter affrontare le sfide internazionali, pur senza perdere il marchio di fabbrica territoriale.

LE CANTINE DA NON PERDERE IN GEORGIA

Vale lo stesso discorso per Ruispiri Biodynamic Vineyard, il gioiello biodinamico di Giorgi Aladashvili. Uno capace di dormire (letteralmente) accanto alle qvevri durante la fase di realizzazione del nuovo Marani, nel Kakheti. Menzione particolare, tra le cantine visitate, anche per il “giocattolino” dell’ex ministro della Cultura della Georgia, NikolozNika” Vacheishvili.

Nei suoi vini, in particolar modo i bianchi, tutti i profumi delle vallate che circondano il “Marani and Wine Guest House”, a Didi Ateni. Splendidi. E tra i locali da non perdere, nella capitale Tbilisi c’è il Bina N37: un vero e proprio appartamento in cima a un palazzo di 8 piani, dove poter ammirare le 43 qvevri in produzione sul terrazzo e gustare i piatti della tradizione georgiana.

Cosa aspettarsi, in generale, dal vino georgiano? Grandi profumi e complessità, anche per i bianchi. Una beva non banale, dovuta alla vinificazione e macerazione in qvevri. Nonché ossidazioni più o meno marcate che, se ben controllate dal produttore, regalano vini unici. Quel che è certo è che la Georgia non è il paradiso degli enofighetti, intesi come amanti dei vini “per forza” limpidi, “per forza” organoletticamente “puliti” e di immediata comprensione. Tutt’altro.

Così come non è stato da “fighetti” il nostro soggiorno di una settimana: ospiti del giovane Shotiko (futuro produttore di vino) e della sua famiglia a Kakabeti, un villaggio sperduto a 70 chilometri a est di Tbilisi. E’ lui che ci ha condotto in un viaggio di una settimana, a bordo di una Mercedes rossa del 2001. Ricordi indelebili di persone indelebili in un Paese indelebile. Come i sapori dei vini georgiani.

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Gli Editoriali news

Come si diventa influencer nel food & wine: (pessime) istruzioni dal Gambero Rosso

/// EDITORIALE /// “Gambero Rosso International ha iniziato a seguirti”. Wow. “Follow back” scontato, per me che sono da poco su Instagram col simpatico account @the.wine.traveller. Peccato duri poco. Due giorni, per l’esattezza. Dal 15 settembre ad oggi, 17 settembre, il Gambero ci ripensa. Zac. Passo dal (presunto) colpo di culo al doloroso (ma anche no) colpo di chela. Il crostaceo più educato d’Italia mi toglie il “follow”. Sperando che non me ne accorga.

Fanno tutti così, o quasi, gli ormai noti influencer del food & wine. Una pratica internazionale per alzare la “media” di uno degli elementi statistici fondamentali per giudicare la “social reputation”: il rapporto tra follower e account seguiti.

Il fatto è che molti di questi account sono gestiti da veri e propri professionisti dei social media. Che al posto di concentrarsi sulla proposizione di contenuti seri, originali, professionali, perdono tempo zigzagando come bisce a caccia di inutili fan sui social.

COME SI CUCINA IL GAMBERO
Il gioco, tutto sommato, è semplice. Non ci vuole una laurea in marketing. Per incrementare la reputazione social di un brand, gli espertoni delle agenzie specializzate iniziano a seguire tutti quegli account potenzialmente interessati agli argomenti e contenuti trattati dal cliente di turno.

Il “follow back” da parte del popolo dei social, specie su Instagram, è pratica ormai scontata. Il brand si ritrova così, in poche ore di follow compulsivi, con un gruzzolo di fan in più. Che non conteranno un cazzo, nella maggior parte dei casi, in termini di conversione del “like” in acquisti, visite. Ma che fanno figo, accanto all’immagine del profilo e alle ultime Instagram Stories.

Dopo qualche giorno – a volte addirittura dopo poche ore – quel brand smette però di seguirli. Che figura ci farebbe Gambero Rosso International, al di là della sua indubbia credibilità mediatica, se seguisse tutti gli account da cui è seguito? Un “giochino”, questo, che dovrebbe far ragionare le aziende del settore Food & Wine sulla loro scelte in campo di comunicazione.

I RIMEDI
Ma non tutto è perduto. Esistono delle app come Follow Cop – per chi come me ha Smartphone con sistema Android – che consentono di smascherare le centinaia di furbetti (cantine, aziende o singoli fenomeni) che ogni giorno provano a costruirsi un ruolo da influencer, ovviamente a scopo di lucro.

L’app consente di togliere il “follow” a chi non vi segue. Vi aiuta, insomma, a sgamare gli “Unfollowers“. Consentendo, così, di scegliere coscientemente se continuare a seguire qualcuno che ci ha aggiunto solo per sfoggiare un punto in più nel rapporto tra “follower” e “account seguiti”.

Non avendo mire da influencer, bensì da umile informatore del settore vino in Italia, uso Follow Cop ogni due giorni per scremare tra chi è realmente interessato ai contenuti che propongo su vinialsuper – e veicolo appunto attraverso i social – da chi, invece, vuole usare il mio “follow” per guadagnare credibilità e denaro.

Detto ciò, dopo queste rivelazioni apocalittiche e rivoluzionarie (!) siete tutti invitati a seguire il mio nuovo account Instagram. Senza che poi vi segua a mia volta. Ma questo era scontato.

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Roma capitale del Rum con la ShowRUM Cocktail Week

ROMA – Oltre 80 brand tra rum tradizionali, rum agricole, selezionatori e cachaca per degustazioni, la STC – ShowRUM Tasting Competition, i cocktail, masterclass e seminari, ma anche la ShowRUM Cocktail Week, il Premio dedicato a Silvano Samaroli e il Trade Day, il manuale sul rum, per la sesta edizione del festival diretto da Leonardo Pinto, uno dei più grandi eventi al mondo dedicati al rum e alla cachaca.

Si tiene a Roma, domenica 30 settembre e lunedì 1 ottobre 2018, presso il Centro Congressi dell’A.Roma – Lifestyle Hotel & Conference Center (via Giorgio Zoega, 59) la sesta edizione di ShowRUM – Italian Rum Festival, uno dei più importanti eventi al mondo e primo in Italia dedicato al Rum e alla Cachaca.

La rassegna, promossa da Isla de Rum in collaborazione con SDI Group, è diretta da Leonardo Pinto, riconosciuto a livello mondiale come uno dei migliori esperti di rum in Europa, trainer e consulente per le aziende. Il programma completo, il calendario delle attività e delle masterclass e la lista espositori e brand presenti al festival al link www.showrum.it.

IL FESTIVAL
Diecimila partecipanti, 50 Paesi coinvolti, 400 etichette e 9mila litri di rum versati: questi alcuni dei numeri del successo del festival che quest’anno presenta oltre 80 stand, rendendo ShowRUM una delle più grandi fiere al mondo con una crescita costante di anno in anno e una presenza sempre più importante di nuovi produttori di rum e cachaca.

Tra le iniziative dell’evento, il Premio ShowRUM Taster of the Year 2018, assegnato a Glenda Valenti e Ivan Castillo per essersi distinti nell’esame di degustazione del Rum Master di Isla de Rum, un percorso formativo completo sul rum in due livelli. Il premio è dedicato a Silvano Samaroli, ‘Signore degli Spiriti’, storico imbottigliatore di rum e whisky, scomparso nel febbraio 2017 e membro storico della giuria della STC – ShowRUM Tasting Competition.

Spazio ai libri, con la presentazione in anteprima de “Il Mondo del Rum”, manuale scritto dal direttore artistico Leonardo Pinto, con rivisitazioni di cocktail storici ad opera di Paolo Sanna e Gianni Zottola. Il volume è edito da Tecniche Nuove, con le foto di Marco Graziano e Alessandro Rossetti e la copertina a cura di Studio Futuroma.

Tra gli altri eventi dello ShowRUM 2018, la consueta STC – ShowRUM Tasting Competition, unica Blind Tasting Competition italiana dedicata a Rum e Cachaca, nella quale i due distillati vengono divisi per anni di invecchiamento e per alambicchi di provenienza, oltre che per tipologia di materia prima. Unica al mondo, inoltre, a premiare, grazie a una giuria di esperti nazionali e internazionali solo il best in class per ogni categoria.

Tra i premi, quello dedicato al Best Packaging. Saranno quindi protagoniste le degustazioni guidate delle più grandi etichette presenti sul mercato italiano e internazionale, alla presenza di master distiller, esperti, distributori e brand ambassador che permetteranno ai visitatori di compiere un affascinante viaggio nel variegato mondo del rum.

Quindi, i cocktails, con la presenza di uno spazio dedicato alle bottiglie rare e d’epoca e con masterclass dedicate. Il bar della rassegna, in pieno stile tropicale, sarà curato dal bar manager Paolo Sanna, in collaborazione con il Singita Miracle Beach.

Dai bartender ai grandi buyer, passando per gli importatori, i distributori, la stampa, oltre agli appassionati e ai neofiti del rum animeranno la rassegna che prevede il tradizionale Trade Day, lunedì 1 ottobre, giornata interamente dedicata agli operatori e professionisti del settore, focalizzata sulla formazione professionale, ricca di appuntamenti e seminari con ospiti d’eccezione.

LA COCKTAIL WEEK
La settimana di ShowRUM sarà accompagnata dalla ShowRUM Cocktail Week, nuovo format ideato da Cleide Bianca Strano e realizzato in collaborazione con Head to Head Bartender Competition.

La Cocktail Week si svolge da mercoledì 26 settembre a lunedì 1 ottobre in dodici tra i migliori locali di Roma: Baccano, Banana Republic, Chorus Cafè, Club Derriere, Freni e Frizioni, Marco Martini Cocktail Bar, Meccanismo, Pantaleo, Pimm’s Good, Romeo Chef & Baker, Tyler, La Zanzara.

Al termine della settimana, una giuria guidata da Fabio Bacchi della rivista Bartales proclamerà il Drink Ufficiale della ShowRUM Cocktail Week 2018 tra i signature proposti. ShowRUM sarà presentato alla stampa presso l’A.Roma Lifestyle Hotel (via G. Zoega, 59) a Roma, giovedì 27 settembre a partire dalle ore 18:00 con l’evento di rum Diplomatico che proporrà una verticale di tutti i suoi single vintage dal nuovo del 2004 a quello del 1998 e a seguire buffet e banco di assaggio con i cocktail.

“Siamo giunti – dichiara Leonardo Pinto, fondatore e direttore di ShowRUM – alla sesta edizione di un festival che è riuscito a posizionarsi negli anni come punto di riferimento nel settore a livello internazionale, anche grazie alla doppia anima”.

“Da un lato trade – spiega Pinto – con la presenza importante del mondo del bar, della ristorazione, delle enoteche, dei grossisti ed in generale di tutti gli operatori che ruotano intorno al circuito food and beverage, dall’altro la platea di appassionati e curiosi che, attraverso ShowRUM, riescono a comprendere e apprezzare un distillato che, per troppo tempo, è stato ‘relegato’ solo alla miscelazione”.


Orari e prezzi
Giornata per il pubblico – domenica 30 settembre 2018 – dalle ore 14:00 alle 21:00 (ingresso 10 euro in prevendita, 15 euro in loco)
Trade day – lunedì 1 ottobre 2018 – dalle ore 11:00 alle 19:00 (ingresso gratuito)

Location
A.Roma – Lifestyle Hotel & Conference Center
Centro Congressi
Via Giorgio Zoega, 59 – Roma

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Mondial des Vins Extrêmes: il 23 Settembre la premiazione a Torino

Foto di repertorio

TORINO – Si terrà il 23 Settembre a Torino, a Palazzo Madama, la Cerimonia di premiazione della 26esima edizione del Mondial des Vins Extrêmes organizzata dal Cervim.

La premiazione si svolgerà durante il Salone del Gusto-Terra madre in corso dal 22 al 24 Settembre.

Inaugurerà la giornata, alle ore 11, la tavola rotonda “Linguaggi e forme efficaci per promuovere la viticoltura eroica”.A seguire, alle 12.30, la Cerimonia di premiazione che vedrà coinvolti ben 227 vini.

I PREMI
Saranno assegnate 5 Gran Medaglie d’Oro, 130 Medaglie d’Oro, 92 Medaglie d’Argento ai finalisti del concorso selezionati dalla giuria internazionale del concorso internazionale dedicato ai vini eroici che si è tenuta a Sarre (Valle d’Aosta) dal 12 al 14 luglio.

Una selezione delle iniziali 723 etichette partecipanti provenienti da 279 aziende di 19 Paesi vitivinicoli eroici di tutto il mondo: Italia, Austria, Francia, Georgia, Germania, Grecia, Portogallo, Slovenia, Spagna, Stato di Palestina, Svizzera, con le novità di Capo Verde, Cile, Israele, Polonia, Repubblica di Macedonia e Slovacchia e con i graditi ritorni del Libano e Kazakistan.

L’elenco completo dei vini premiati è online e disponibile su: http://www.mondialvinsextremes.com/news/l-elenco-dei-vini-premiati-2018.

Tutte le etichette saranno anche in degustazione e a disposizione dei winelovers nelle giornate di sabato 22 e domenica 23 settembre, dalle 12 alle 24, mentre lunedì 24 settembre dalle 12 alle 19.

IL MONDIAL DES VINS EXTREMES
Il Mondial des vins Extremes è organizzato dal Cervim, in collaborazione con l’Assessorato Agricoltura e Ambiente della Regione Autonoma Valle d’Aosta, la Vival (Associazione Viticoltori Valle d’Aosta) e la sezione Ais – Valle d’Aosta, con il patrocinio dell’Oiv (Organisation Internationale de la Vigne et du Vin) di Vinofed (Federazione Internazionale dei Grandi Concorsi enologici), e la relativa autorizzazione del Ministero alle Politiche Agricole Alimentari, Forestali e del Turismo.

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degustati da noi news vini#02

Bolé Novebolle, Metodo classico da Viognier e Piwi: a CerviaINbolla frizzano le novità

CERVIA – Dal Romagna Doc Spumante Bolé Novebolle, allo spumante Metodo Classico base Viognier, passando per i vitigni resistenti (Piwi). Un mare di novità e conferme a CerviaINbolla 2018. Tutti attorno a calici ribollenti, per un evento che si è rivelato più mondano che tecnico, legato dunque al piacere di condividere il nettare di Bacco senza troppe formalità.

Ben organizzato nella suggestiva location degli storici Magazzini del sale di Cervia, l’appuntamento ha visto una buona affluenza di persone che hanno potuto assaggiare eccellenze spumantistiche da 10 denominazioni diverse. Oltre alle specialità gastronomiche custodite nei vari food corner.

Piccoli produttori ed etichette meno note ad affiancare nomi rinomati delle bollicine italiane. Presenti in degustazione a CerviaINbolla 2018 non solo spumanti, ma anche alcuni vini fermi.

I MIGLIORI ASSAGGI
Conferme – e non poteva essere altrimenti – per gli spumanti di montagna. Ferrari (presente con la linea Maximum), Letrari (Brut e Brut Rosè) e Arunda (Pralien e Brut Rosè) non deludono le aspettative confermandosi produttori d’eccellenza, a partire dalle linee base.

Anche la Franciacorta si dimostra in linea con le aspettative. Antica Fratta, Villa Franciacorta, Quadra presentano prodotti senza sbavature.

Stesso discorso per l’Oltrepò pavese – ben rappresentato da Monsupello e Calatroni – e per il Veneto, dove Ruggeri sbanca la concorrenza del Prosecco col suo Valdobbiadene Superiore Docg Giustino B., vecchia conoscenza per i lettori di vinialsuper.

Interessante l’assaggio di Bolé Novebolle Romagna Doc Spumante, prodotto dalla joint venture Caviro-Cevico. Un metodo Martinotti (30 giorni) composto da un 95% di Trebbiano e un 5% di Famoso, 9 g/l di dosaggio.

Floreale e fruttato, con un tocco di frutta esotica, in bocca risulta facile e morbido pur conservando una certa vena di acidità. Un sorso piacevole e poco impegnativo, quasi sbarazzino.

Dicevamo, piacevoli scoperte. Prima fra tutte è Solatio di Tenuta la Pennita. Metodo Classico millesimo 2013, 38 mesi sui lieviti. Solo 2 mila bottiglie: 100% Viognier da meno di 2,5 ettari di vigna.

Un produzione tanto piccola da non essere neppure a catalogo aziendale. Giunto ormai alla quarta vendemmia, questo brut seduce con gentilezza. Naso intenso ma non invadente. La crosta di pane è presente, ma non sovrasta le piacevoli note fruttate.

Albicocca, pesca gialla e prugna bianca mature che si sposano a note fresche di scorze d’agrumi ed una leggera nota speziata. In bocca entra morbido per poi crescere in acidità e sapidità.

Restano impressi nella mente i due prodotti presentati da LieseleHof, cantina altoatesina già incontrata da vinialsuper durante il Merano Wine Festival 2017 e segnalata tra i migliori assaggi. Vino del passo è un bianco fermo da vitigno Piwi Solaris.

Molto complesso, avvolge il naso con note floreali, note di frutta esotica come ananas e litchi ma anche frutti bianchi come pesca, note morbide di miele ed una leggera spezia (pepe bianco). Strutturato, minerale, persistente e con una chiusura leggermente amaricante.

LieseleHof Brut è invece uno spumante metodo ancestrale con sboccatura (“metodo LieseleHof” come ci tiene a specificare la cantina, visto il lavoro di perfezionamento della tecnica). Vitigno Piwi Souvignier gris, 30 mesi sui lieviti. Fresco la naso. Lime, mela renetta, pesca gialla, lievito. In bocca è morbido e setoso con finale elegante.

Interessante la proposta di Azienda Agricola Randi. Quattro vini, due bianchi da uve Famoso (Rambela Bianca e Ramba) e due rosati da uve Longanesi (Bruson Rosè Brut e Rosa per Fred).

Rambela Bianca è un vino fresco ed immediato, frutti a polpa bianca ed agrumi al naso, secco e morbido, con chiusura amarognola del sorso. Ramba è un metodo ancestrale, velato e con buon perlage che accoglie con profumi di mela verde e macchia mediterranea. Piacevolmente fresco al sorso ha nella buona persistenza la stessa vena amaricante di Rambela Bianca.

Bruson Rosè Brut avvolge in naso con piccoli frutti rossi ed accarezza il palato con un bolla non invasiva, ma è Rosa per Fred a sorprendere. Metodo ancestrale senza sboccatura si presenta di colore carico, quasi rubino, e velato.

Naso pulito ed inteso, quasi balsamico, ricco di frutti rossi maturi ed erbe aromatiche. Sorso pieno, secco, fresco e leggermente tannico. piacevolissima persistenza. Elegante e fine l’ormai noto Pertinello Brut Blanc de Noir 2014 da uve Sangiovese.

Vincente anche il trittico presentato da Azienda agricola Nevio Scala, noto per il suo trascorso di successo nel mondo del calcio italiano. Tre vini da Garganega in purezza con raccolta e lavorazione differente ed utilizzo di lieviti indigeni.

Gargante, rifermentato in bottiglia, è fresco e bevernio con bella nota fruttata. Diletto (fermentazione in acciaio) è altrettanto fruttato con una evidente spalla agrumata. Contame è invece un macerato dai profumi più vicini alla frutta surmatura che coinvolge in bocca per la sua grande sapidità.

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Cantina di Venosa: voce del Verbo Aglianico. Presente e futuro di una cooperativa illuminata

VENOSA – Siamo a nord della Lucania, alle pendici del monte Vulture, antico vulcano spento dalle cui cavità sgorgano le sorgenti di acqua minerale più grandi d’Europa.

Cantina di Venosa, società cooperativa, nasce qui nel 1957. Più di 350 soci, 800 ettari su 15 comuni nell’area del Vulture (la maggior parte in Venosa), più di 50 mila quintali di uve lavorate. Una sola referenza in GdO, “Baliaggio”, che da sola copre il 2,8% delle vendite della grande distribuzione. Il resto è destinato al mercato Ho.re.ca..

Questi i numeri, ma la realtà la si può capire solo mettendo piede in cantina. Una realtà che sta investendo in maniera concreta sul Vulture, con 5 milioni di euro di investimenti ed altri 3 previsti nei prossimi anni, anche sul fronte green.

Una società cooperativa gestita in modo “imprenditoriale”. Niente è lasciato al caso o all’iniziativa del singolo socio. Perfetto coordinamento fra i vari attori e grande attenzione alla gestione di vigneti, uve e cantina.

Lo si capisce bene ascoltando le parole di Antonio Teora (nella foto, sotto), Direttore Commerciale della cantina. L’idea è che anche se si fanno grandi volumi si può e si deve lavorare con estrema qualità.

LA FORMULA VINCENTE
Anche se i vigneti sono curati da numerosi soci, l’attenzione deve essere alta e “centralizzata” per garantire la miglior materia prima. Come è possibile coniugare tutto questo? Con una serie di accortezze e progetti.

Un enologo e due agronomi a costante supporto della gestione di terreni e vigneti. Campionamenti continui delle uve per stabilire i corretti tempi di raccolta area per area. Autorizzazione alla vendemmia stabilita dalla cantina e non dal singolo socio.

Controllo delle uve in fase di ricezione in cantina su più parametri (visivo, zuccheri, pH, grado babo, fenoli) e non solo sugli zuccheri per allocare ogni partita alla corretta via di vinificazione. Ma non finisce qui. In cantiere ci sono altri due progetti.

Il primo è Win Up, un sistema di monitoraggio dei vigneti. Novanta soci strategici selezionati in costante contatto con la cantina fungono da “sentinelle”. Le informazioni vengono incrociate forniti da stazioni meteo e bollettini sanitari.

Tutto questo per prevenire malattie ai vigneti, con interventi mirati solo dove si verificano condizioni a rischio. Limitare il numero di trattamenti applicando lotta integrata “su misura” solo la dove e quando i vari microclimi lo rendano necessario.

Il secondo progetto vede molti attori coinvolti e prevede la mappatura a mezzo satellite della superficie vitata. Tre passaggi annui del satellite (3 luglio e 18 luglio, il terzo passaggio è previsto a fine agosto) che misurano lo sviluppo del vigneto (apprato fogliare, colore, vigoria, etc.) appezzamento per appezzamento.

Lo scopo è da un lato conoscere esattamente lo stato delle vigne per gestire correttamente potature, trattamenti e vendemmie.

Dall’altro arrivare nel medio periodo, incrociando le informazioni con i dati tradizionali, ad una perfetta zonazione dei terroir. Un sorta di approccio borgognotto 2.0.

IN CANTINA
Diverse le tecniche di vinificazione, come ci spiega Donato Gentile (nella foto) enologo di Cantina di Venosa. Dalla più tradizionale, a temperatura controllata, alla più moderna vinificazione “a betoniera”, utile per ottenere una più veloce ed efficace estrazione di tannini nobili, colore ed essenza del frutto.

Nessun silos all’aperto. Uso del legno (rovere francese a pori aperti) quando necessario. Le varie partite di uva, monitorate, gestite puntualmente, vendemmiate in diversi momenti a seconda dei gradi di maturazione, testate e controllate vengono destinate alle varie vinificazioni per ottenere le varie linee di vini di Cantina di Venosa.

E l’approccio green si riversa anche nel processo produttivo: 70% la quota di vetro riciclato utilizzata, 100% cartone riciclato per gli imballi, nessun alveare nei cartoni delle linee base, utilizzo di colle vegetali e solo il 5% di nastro adesivo, impianto fotovoltaico per soddisfare il fabbisogno energetico.

Questi i numeri e le tecnologie che raccontano una realtà complessa ed articolata. Ma ciò che emerge davvero è un approccio legato al territorio, al valore enologico e culturale del vitigno principe di questo territorio: l’Aglianico del Vulture.

LA DEGUSTAZIONEVarie linee per vari stili. La linea vini “Verbo” di Cantina di Venosa, di recente creazione, è caratterizzata da un taglio molto moderno, capace di accontentare sia il consumatore meno esperto sia quello più esigente.

Basilicata Igt Verbo Bianco, 2017. Da uva Malvasia di Basilicata. Un vitigno dagli acini piccoli e concentrati. Utilizzo sapiente della tecnologia per salvare le caratteristiche organolettiche del frutto ed evitare ossidazioni.

Fermentazione in acciaio, passaggio in barrique nuove per una parte del vino. Giallo paglierino, al naso presente intesi profumi fruttati. Frutti esotici come mango e litchi, e frutti a polpa bianca ed una leggera nota floreale. In bocca entra morbido e scorrevole. L’acidità è ben vestita. Armonico nel complesso chiude il sorso con una piacevole nota amarognola.

Basilicata Igt Verbo Rosè, 2017. 100% Aglianico del Vulture. Color buccia di cipolla con rilflessi fra il dorato ed il ramato. Intenso profumo di frutti rossi, lampone e ciliegia. Grande freschezza in equilibrio con la morbidezza.

Basilicata Igt Verbo Rosso 2015. 100% Aglianico del Vulture. Vinificazione in piccoli fermentini e macerazione pellicolare a temperatura controllata, fermentazioni alcolica e malolattica in acciaio ed affinamento in legno per 12 mesi. Il risultato è una interpretazione moderna dell’Aglianico.

Rosso rubino presenta naso intensamente fruttato e morbido. Frutti rossi e neri come lampone, ribes, mirtillo, ciliegia ed una leggera nota di spezia dolce. Molto sapido presenta un tannino presente ma maturo. Un vino che, senza sbavature, rinuncia alla longevità in nome di una grande contemporaneità.

Basilicata Igt Terre di Orazio Rosè, 2017. 100% Aglianico del Vulture. Linea di vini che segue la tradizione, il Terre di Orazio presenta color cerasuolo intenso con riflessi quasi violacei.

Ricco di sentori fruttati in bocca è nettamente più verticale del Verbo Rosè. Molto sapido e con un tannino “soft” che accompagna il sorso. Un vino che non disdegna di essere bevuto a tavola accompagnando primi piatti anche saporiti.

Aglianico del Vulture Terre di Orazio, 2015. Vinificazione in acciaio ed affinamento in botte grande per 15 mesi. Un vino strutturato dal colore da colore rubino, quasi purpureo. Note di frutti rossi maturi, a tratti frutta macerata.

Pepe, caffè, fava di cacao. Ingresso potente in bocca, i 14% si fanno sentire ma sono immediatamente vestiti dalla piacevole morbidezza e freschezza. Scorre bene in bocca ed il tannino è perfettamente integrato nella struttura del vino.

Aglianico del Vulture Docg Carato Venusio 2013. Il top di Cantina di Venosa. Vinificazione e fermentazioni alcolica e mololattica in acciaio, affinamento in piccole botti (carati, per l’appunto) di rovere francese per due anni e per minimo 12 mesi in bottiglia.

Vino di grande spessore dal colore rosso rubino tendente al granato. Naso elegnate. Frutti rossi maturi che giocano a nascondino con la ciliegia sotto spirito. Spezie a volontà, pepe, liquirizia, tabacco, cuoio.

Grande balsamicità ed una nota mentolata a chiudere uno spettro olfattivo di grande eleganza. Morbido, molto sapido e di grande freschezza. Tannino setoso. Un vino di grande prospettiva: ottimo servito oggi a tavola, darà il meglio se dimenticato in cantina per un po’ di anni.

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I vini cileni biodinamici di Rodrigo Soto: Ritual, Primus e Neyen

Si parla spesso del Cile come di un Paese che aggredisce le economie internazionali, proponendo etichette di vino di scarsa qualità, a prezzi ridicoli.

Un Cile che inonda d’uva da taglio il Sudamerica (e non solo) dove sta invece crescendo il consumo consapevole di vino. I vini cileni di Rodrigo Soto, produttore incontrato all’ultima edizione del ProWein di Dusseldorf, in Germania, costituiscono l’altra faccia della medaglia.

A labor of love“. Una questione d’amore, per questo appassionato enologo e winemaker, produrre vino secondo i principi della viticoltura biologica e biodinamica. Una missione “strettamente legata alla terra coltivata, alla salubrità del suolo e ai rituali artigianali del vino”.

Seguendo i ritmi della natura. Un modo “nuovo” di fare viticoltura in uno dei Paesi, il Cile, spesso citato quando si parla di New World wines, i “Vini del Nuovo Mondo“.

Per il suo progetto biodinamico, Rodrigo Soto ha scelto in particolare tre zone, convertendole a una produzione attenta e di assoluta qualità, riunite sotto il tetto di González Byass, uno dei marchi storici del Cile del vino

  • Veramonte, la parte più a Est della Casablanca Valley, sferzata dalle fresche correnti del Pacifico (Ritual Estate)
  • Apalta, un’area influenzata dalla presenza del fiume Tinguiririca, nella Colchagua Valley (Primus Estate)
  • I terrazzamenti a mezzaluna di Apalta, un microclima unico all’incontro tra la catena montuosa delle Ande e la parallela Coastal Range, la Catena Costiera (Neyen Estate)

I MIGLIORI ASSAGGI

Sauvignon Blanc 2016, Ritual. Fermentazione in legno per questo Sauvignon che svela i tratti internazionali del vitigno, con una spinta aromatica intrigante. Il gioco tra l’acidità esplosiva e la morbidezza è parte integrante di un sorso difficile da dimenticare.

Chardonnay Supertuga 2016, Ritual. Giallo dorato che “tradisce” l’utilizzo di un legno forse ancora troppo invasivo, al naso. Una punta “piccante”, però, incuriosisce e invita a proseguire con entusiasmo l’analisi. In bocca l’ingresso è dritto, verticale, ma destinato ad ammorbidirsi.

Bello il contrasto tra la vaniglia – nota predominante del retro olfattivo – e il cesto di agrumi (pompelmo e buccia di lime) che sembrano spremuti nel momento centrale del sorso. Il nettare mostra solo in un secondo momento i suoi tratti più mansueti, disegnati appunto dal sapiente utilizzo del legno. Vino di prospettiva.

Pinot Noir 2016, Ritual. Una varietà relativamente nuova, piantata qui negli anni Novanta, nei primi anni della denominazione di Casablanca. Anche in questo calice la presenza al naso di richiami erbacei netti, che smorzano la finezza del frutto, rivelando però la territorialità del calice. La rivincita assoluta è al palato: una vera e propria rivincita per le note di melograno, lampone e mora che dominano il sorso, anche in un finale lungo.

Neyen 2013. Blend ottenuto per il 55% da Carmenere, completato da un 45% di un antico clone di Cabernet Sauvignon. Un vino da provare almeno una volta nella vita per la “misura” con cui riesce ad esprimere la propria ampiezza. Un nettare complesso, che evolve nel calice di minuto in minuto.

Naso e bocca non risentono particolarmente dei 18 mesi di affinamento in legno francese, per il 50% nuovo. La frutta di libera preziosa, accarezzata da un tannino di seta e da terziari composti che richiamano, in particolare, la liquirizia. Un vino decisamente gastronomico.

Carmenere 2016, Primus. Paprica, peperone e pepe per il naso di un Carmenere che si rivela verde, ma senza sbavature. Non mancano richiami balsamici mentolati, che completano il bouquet assieme alla frutta rossa.

In bocca sorprende per equilibrio e finezza, con una rotondità inaspettata. Il vino più facile da bere di quelli proposti in degustazione da Rodrigo Soto, pur evidenziando ulteriori margini di affinamento.

Syrah Alcaparral 2015, Ritual. Un Syrah col cappotto, che cresce (e bene) anche lontano dai climi caldi che sembra preferire a livello internazionale. La nota di pietra focaia è la cifra dell’assaggio: quella che ne connota l’unicità.

In bocca è rotondo in ingresso, prima di lasciar spazio a un’acidità vibrante. Chiusura su note vegetali e speziate che riportano a una dimensione mondiale questo tipicissimo Syrah cileno.

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50 anni di Doc Rosso Piceno. Quattro cantine da visitare

Quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario della Doc Rosso Piceno, un territorio da sempre sottostimato, nonostante le potenzialità pedoclimatiche e la qualità dei vini di molti vignaioli, anche emergenti.

Siamo andati sul posto, percorrendo il triangolo Offida, Ripatransone, Castorano. Abbiamo raccolto sensazioni tattili, olfattive e gustative, direttamente tra i filari e tra le mura delle cantine.

Abbiamo trovato grandi equilibri e grandi finezze, vini complessi e molto territoriali influenzati dal mare e dalla montagna.

Ritorneremo per continuare il tour: in agenda altre piccole ma grandi realtà. Per il momento prendete carta e penna e segnatevi queste.

PODERI SAN LAZZARO
L’azienda Agricola Poderi San Lazzaro nasce nel 2003. Paolo Capriotti porta avanti la tradizione di famiglia, nella coltivazione della vite e nella produzione del vino di qualità e si cimenta in quella che a tutt’oggi è diventata la sua principale occupazione.

Ci troviamo nel comune di Offida, il cuore del Rosso Piceno Superiore una delle DOC storiche Italiane.   Ottima posizione, in piena collina a circa 300 metri sul livello del mare e  a circa 15 Km dall’Adriatico e 25 Km dai monti Appennini. Suoli argillosi su questi crinali ed esposizioni a sud, sud-ovest e nord-ovest.

Qui si risente dell’influenza del mare e delle giuste variazioni termiche tra il caldo diurno e le brezze serali. Si lavora in biologico e la filosofia dell’azienda è rivolta all’estrema cura dei vigneti per ottenere uve di qualità e per garantire il massimo del prodotto in bottiglia.

Paolo Capriotti produce attualmente  circa 50 mila bottiglie divise tra uve bianche con Passerina e Pecorino e uve rosse come Montepulciano e Sangiovese in prevalenza ma anche uve Bordò.

Rese sempre intorno ai 70/80 quintali/ettaro , uso di legni vecchi e nuovi francesi  , grande pulizia e espressività di un territorio molto vocato per la viticultura che nulla ha da invidiare alla vicina Toscana. Questa realtà del Piceno merita per passione, dedizione e grande intuito di questo “giovane” produttore.

I MIGLIORI ASSAGGI
Pecorino Pistillo 2016. 14%vol , stessa densità di impianto a 4000 ceppi/ettaro ma resa più bassa. Qui siamo sui 70 q/ett. Lo scatto rispetto al bianco di apertura è notevole. Esposizione a Nord , terreno argilloso.

Il Pecorino 2016 dopo la fermentazione  il 30% della massa affina in legno grande per 7/8 mesi . poi dopo un successivo passaggio in acciaio viene imbottigliato. Il colore è giallo paglierino carico con intensi riflessi dorati. Al naso agrume, cedro, pesca, pera e le caratteristiche  note varietali del pecorino come erbe di campo e fiori. In bocca l’attacco è deciso.

Le note fruttate rilevabili al naso, lasciano il posto a sensazioni più mature, note di salvia, sfumature ammandorlate e mineralità. Nel finale torna l’agrumato a sottolineare tipicità e caratteri varietali.

Un vino da tutto pasto che con il salire della temperatura di servizio può offrire sensazioni organolettiche davvero interessanti e complesse. Da bere fresco non freddo. Ottimo rapporto q/p per un vino davvero divertente. Da preferire forse in annate più fresche dove la carica alcolica ben si bilancia con le durezze.

Podere 72 , Rosso Piceno Superiore Doc 2015  . 14.5% vol , Taglio di 50% Montepulciano e 50% sangiovese , il vino perfetto da bere sempre estate fresco e inverno a temp ambiente. Qui rese un po’ più alte sugli 80q/ett per un totale di 15000 bottiglie.

Il Vino della casa per Paolo Capriotti. Vendemmiato prima il sangiovese che porta a maturazione il grappolo con qualche settimana di anticipo rispetto al montepulciano. Le uve vengono vinificate e affinate separatamente passando circa un anno e mezzo in barrique usate e nuove e successivamente assemblate per fare un passaggio in acciaio e quindi arrivare in bottiglia.

Vinificazione a cappello emerso con rimottaggi frequenti. Colore rubino carico , al naso visciola , prugna , spezia e cacao. Ottimo bilanciamento tra le parti morbide e dure è un vino dalla struttura e dalla beva non impegnativa ma golosa. Tannini leggeri e ottima persistenza del reto olfattivo.

Grifola 2013 , Marche rosso Igt. 15%vol Montepulciano 100%. Bassissime rese, siamo circa sui 50 q/ett per un totale di 5000/6000  bottiglie a seconda dell’annata. Vigne di circa 40 anni. Vendemmia a metà Ottobre fermentazione in acciaio con cappello emerso e fino a 4 rimottaggi al giorno.

Verso Dicembre o Gennaio viene portato il barrique nuove di rovere Francese dove rimane per circa 2 anni, successivamente un dopo un passaggio in acciaio rimane in bottiglia altri 18 mesi. Il colore è un rubino intenso , impenetrabile . Il naso è un misto di frutta rossa matura, liquirizia, cacao, il tannino e morbido e non per niente ruvido.

La leggerezza  del sorso non fa pensare alla gradazione alcolica in etichetta. Un vino che appare ancora giovane, con una acidità e un corpo che ne garantiscono longevità. Struttura , tanta struttura . Un vino da sorseggiare con calma, da rispettare nei tempi.

Bordo 2014, Marche rosso Igt. Bordò è il nome con cui è chiamato nelle Marche il vitigno grenache. Si tratta di un vitigno tipicamente mediterraneo, che nella zona picena ha trovato un habitat perfetto. Un uva difficile ci racconta Paolo, dall’acino delicato.

In fermentazione bastano 3 giorni di contato che le bucce si rompano e si possa gia svinare. Una caratteristica intrinseca dell’uva questa. Siamo sulle 600 bottiglie prodotte, una vera chicca. Dopo la vendemmia manuale, le uve sono portate in cantina per la fermentazione, che avviene in acciaio a cappello sommerso con frequenti rimontaggi.

Il vino matura poi  per metà in legno nuovo e per metà in legno vecchio per circa 2 anni. Dopo un veloce passaggio in acciaio viene imbottigliato. Nel calice ha un colore granato. Il profilo olfattivo è caratterizzato da eleganti note floreali, sentori di macchia mediterranea, aromi di piccoli frutti a bacca rossa, cioccolato bianco, spezie orientali come la cannella e in minor misura la china.

Il sorso è piacevolmente fresco e gustoso anche se non ampissimo, di buona struttura, con tannini maturi e aromi ricchi e complessi. Finale da scorza d’arancia essiccata. Un vino elegante , fine , raffinato che accarezza il palato.


AZIENDA AGRICOLA VALTER MATTONI
Valter Mattoni detto “la Roccia” è un personaggio meraviglioso. Decoratore e imbianchino di professione, nel 2006 ha deciso di iniziare sul serio a fare vino, non solo per goderne lui e la sua famiglia come da anni facevano ma per far godere anche noi. Ed ecco la prima annata in commercio, la 2006 appunto.

La sua idea, fare un vino semplice, diretto, senza troppe decorazioni, come il nonno e il padre prima di lui hanno sempre fatto. Una produzione minuscola, siamo nell’ordine delle 7500/8000 bottiglie anno. Artigianali. Preziose. Emozionanti.

I vigneti di proprietà sono Montepulciano, Trebbiano, Sangiovese e Bordò (la grenache marchigiana). Sì, anche Valter fa parte di quel piccolo gruppo di produttori che in un fazzoletto di Piceno coltivano e vinificano l’uva Bordò con grandissimi risultati.

La produzione maggiore è per il Montepulciano, Arshura esce in circa 4000 bottiglie/anno, 1500/1600 bottiglie sono di Trebbiano e solo qualche centinaio per Sangiovese e Bordò. Tre ettari e mezzo la proprietà, esposizioni a sud-est e sud-ovest, a circa 300 metri sul livello del mare , in faccia all’Adriatico.

Terreni argillosi alluvionali come tutta la zona di Castorano (AP) Le piante più vecchie hanno età fino ai 50/60 aa e sono il trebbiano e il montepulciano. In cantina si predilige l’uso di legni usati anche di oltre 4 passaggi. Tutte barrique di legni Francesi .

I MIGLIORI ASSAGGI
Arshura, Marche rosso Igt 2015. 15%vol. Fermentazione in acciaio, poi un anno in barrique usate francesi. Rubino profondo con unghia accennata viola, naso su note di visciole, frutta rossa e cacao. Un naso ricco, che evolve con la leggera areazione del calice.

Al palato il tannino è morbido e il finale persiste su note di marasca e su note balsamiche mai stucchevoli. Il sorso è caldo ma i 15 % vol non appesantiscono la beva. L’utilizzo chirurgico del legno lo rende allo stesso tempo ricco e setoso.

Mai invadente in bocca. Verticale ed orizzontale, un sorso pieno su tutti i campi sensoriali. Un grandissimo Montepulciano in purezza. Un puledro adesso, che diventerà un campione di razza tra qualche anno.

Rossobordò 2015. Produzione esigua di circa 300 bott anno.  Stessa vinificazione dell’Arshura, fermentazione in acciaio, poi via in barrique vecchie per 2 anni. Nel calice di un rosso rubino, luminoso, quasi trasparente.

I profumi rimandano alla spezia mista al frutto rosso piccolo, fragole appena colte, alternate a cannella e alla cioccolata. Poi un sentore di rose e infine china e rabarbaro. E’ un naso affascinante per eleganza, che si scopre come una timida donna. Non ti stancheresti mai di annusare il calice.

In bocca il tannino è morbido, l’acidità presente, minerale e sapido. Lunghissimo. Ritornano prepotenti le note speziate, con un finale che si addolcisce e chiude in freschezza. Mai pesante.

Il retro olfattivo è un campo aromatico incredibile per armonicità. Un vino giovane ma preciso, chiaro, che non lascia spazio ai tecnicismi, da ascoltare e degustare dentro e fuori dal pasto.


AZIENDA AGRICOLA CAMELI IRENE
La famiglia Allevi, sulle colline del paese di Castorano (AP), riparate dai venti del mare, esposte a sud e particolarmente adatte per la coltivazione e la cura di vitigni, coltiva da oltre 40 anni Sangiovese, Montepulciano, Passerina e Pecorino, vitigni autoctoni di questo territorio con l’aggiunta di un piccolo vitigno di Chardonnay e da pochi anni di uva Bordò (non ancora vinificata).

Una produzione totale di 20000 bottiglie anno. Tre gli ettari totale dell’azienda tutti a circa 200 metri sul livello del mare. Esposizioni a sud e sud est. Un piccolo produttore che fa della semplicità il suo punto di forza.Una bella realtà di una famiglia di vignaioli come una volta, quelli per cui siamo innamorati del vino.

I MIGLIORI ASSAGGI
Pecorino Gaico 2016. 13,5 % vol, densità di 6 mila ceppi/ettaro per resa 60 q/ettaro. Vigne giovani. Fermentazione e affinamento sempre in acciaio per 6-8 mesi. Poi una sosta di altri 6 mesi minimo in bottiglia.

Colore giallo paglierino carico, sentori di frutta a pasta gialla, note che con la sosta nel bicchiere e il lieve rialzo della temperatura sconfinano quasi in un leggero tropicale. Erbe aromatiche sul finale. In bocca è rotondo, acidità ben bilanciata, finale lungo.

Conte 2017, Rosso Piceno Doc. 14%vol. 50 % Montepulciano, 50% Sangiovese. Fermentazione malolattica e affinamento sempre in acciaio. Sosta di 6-8 mesi in vasca poi assemblate le masse e imbottigliato.

Rosso Rubino carico con riflesso violaceo. La nota olfattiva è caratterizzata da profumi complessi di fiori, con una nota predominante di rosa e violetta poi frutta rossa ciliegia, fragola ma anche more e susina.

Finemente tannico al palato e con un’acidità perfettamente bilanciata. Un vino quotidiano che unisce il corpo del montepulciano all’eleganza del Sangiovese. Un best buy.

Paià 2016 , Rosso Piceno superiore Doc. 13,5 % vol. Montepulciano 70 %, Sangiovese 30 %. Vinificazione in acciaio poi affinamento in barrique usate solo per il Montepulciano. Il Sangiovese affina sempre in vasca di acciaio.

Colore Rubino carico e naso potente. Frutta rossa matura , caffè e una nota di spezia. Un vino dal corpo e dalla freschezza armoniose. Bello il tannino che si fa sentire senza invadere.

In bocca in prevalenza le durezze sulla parte morbida non stancano il palato. Un vino da pasto, da grigliata. Ottimo servito qualche grado sotto i canonici 18°.


AZIENDA AGRICOLA LE CANIETTE
La realtà della famiglia Vagnoni è sicuramente una delle più conosciute qui nel territorio Piceno. Giovanni Vagnoni, seguendo le orme del nonno prima e del padre poi, nei primi anni ’90 entra in azienda e inizia a introdurre tutte quelle novità tecnologiche ed imprenditoriali che hanno reso Le Caniette conosciute ed apprezzate sul territorio e nel mondo.

Attualmente l’Azienda si estende per un totale di 20 ettari di cui vitati circa 16. Siamo a Ripatransone (AP) in una posizione limitrofa e perpendicolare al mare, le vigne godono di molti elementi favorevoli che le rendono uniche perché particolare è il microclima, come lo è la conformazione del terreno, composto da depositi sabbiosi e conglomeratici di tetto (Pleistocene inferiore). Un’azienda certificata biologica dal 1996.

I MIGLIORI ASSAGGI
Lucrezia 2017 , Marche Passerina Igt. 12,5% vol. Bassa densità di impianto , siamo sui 400 ceppi per ettaro ma rese da 90/100 q/ettaro. dopo la vendemmia viene mantenuta per 10 gg a 0° C, sussegue diraspatura e spremitura molto soffice in assenza di ossigeno, pulizia dei mosti statica, fermentazione a temperatura controllata di circa 15 °C per circa 30 giorni. Affinamento in acciaio per circa 3 mesi.

E’ una Passerina diversa dalle solite scialbe e anonime che spesso si trovano in zona. E’ una bella bottiglia da ingresso di serata. Il colore è un giallo paglierino scarico ma il naso è intenso, ricco di frutta bianca fresca. In bocca sapidità e mineralità preparano la bocca e la stuzzicano. Discreta persistenza.

Chiediamo a Giovanni qual è quel tocco che rende questa Passerina una bottiglia che non passa inosservata e lui ci confida che dopo la spremitura del mosto fiore del pecorino circa 10/15 % della massa rimasta viene aggiunta alla Passerina conferendole quella struttura aromatica che per natura alla varietà manca. Piaciuta molto.

Morellone 2013 , Rosso Piceno Sup Doc. 13,5% vol ; 30% Sangiovese – 70% Montepulciano. Macerazione dai 6 ai 9 giorni in acciaio, affinamento e malolattica in barrique usate per 2 anni, un passaggio in cemento per fare la massa e poi ulteriori 2 anni di nuovo in acciaio. Terreno misto sciolto con presenza di calcare dai 280 ai 380 metri di altitudine.

Siamo sui 5000 ceppi per ettaro con rese di 60 quintali per ettaro. Rubino intenso, naso esplosivo caratteristico del montepulciano , marasca, prugna e spezia  fino al cacao. In bocca è rotondo con corpo e struttura ben bilanciata dalla freschezza del Sangiovese.

Armonico al palato. Tannino giustamente levigato. Bella persistenza. Un gran vino, che si gusta meglio con qualche anno di bottiglia che lo rende ulteriormente armonico e leggero alla beva.

Cinabro 2013 , Marche Rosso Igt. 13,5 % vol.  100%  Uva Bordò, (clone di Grenache) con piante di oltre 100 anni da un vigneto riscoperto poco distante dalla cantina. Vendemmia a fine agosto breve macerazione in tini di legno per 8 giorni, affinamento e malolattica in mezze barrique ( da 115 l) per 3 anni.

Poi sosta di un anno minimo in bottiglia. Cinquemila ceppi per ettaro a cordone speronato per una resa irrisoria di circa 12 quintali. Granato da manuale nel calice. Naso affascinante, mai sentita una china cosi netta.

Rabarbaro, chinotto, spezia, erba medicinale, poi agrume e un accenno di frutta rossa. E’ splendida l’evoluzione . In bocca è un fazzoletto di seta, entra elegante ed esplode. Sorso verticale dalla persistenza infinita.

La nota aranciata quasi da scorza essiccata ritorno sul finale donando freschezza e pulizia. Una bottiglia da bere con calma, senza fretta, anche fuori dal pasto. Una meraviglia.

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Cantina Santa Maria di Latina: una promessa per i vini laziali

LATINA – Piedi ben saldi a terra, idee chiare che trasformano in emozione il suo sguardo, parlando di storia e progetti futuri. Questo è Emanuele Fantinato, Direttore Generale della Cantina Santa Maria di Latina.

Ci troviamo a Borgo Santa Maria, frazione del Comune di Latina, nel basso Lazio. Fino agli anni cinquanta, il centro del borgo era chiamato “Gnif Gnaf”, onomatopea derivata dal rumore degli stivali nel fango, di cui la “Terra Redenta” dell’Agro Pontino era piena, vista la presenza di vaste paludi. Con la costruzione della chiesa, dedicata a Santa Maria, il borgo prese l’attuale nome.

Maturità aziendale, un’annata promettente, un investimento tecnologico importante, prezzi accessibili dei vini proposti per il valore potenziale che esprimono, fanno si che la Cantina Santa Maria, rinata con la nuova organizzazione solo due anni fa, possa diventare ben presto una realtà importante nel Lazio.

LA STORIA DELLA CANTINA
Prima cantina del Comune di Latina nasce nel lontano 1960 da un gruppo di viticoltori della zona con l’intento di favorire il progresso dell’agricoltura locale. La stessa si amplia fino al 1990 quando venne approvato un piano di miglioramento sia dei vigneti che tecnologico in cantina.

Il 2 Agosto 2016, Gianluca Mambrin, Alfredo Palombo, Dalilo e Matteo Zeoli, assieme ad Emanuele Fantinato, rivoluzionano la cooperativa fondando la società Santa Maria Srl, ponendo l’accento su una produzione qualitativa, selezionando e formando i coltivatori della zona nella cura e raccolta delle uve, valorizzando ciò che il terreno riesce a dare, esaltandone le caratteristiche.

Emanuele ha 41 anni e da venti è all’interno dell’Azienda, anche se la sua avventura è iniziata molto prima, quando già da bambino saliva assieme al padre sul trattore per dare una mano nelle vigne di proprietà. Insieme agli altri quattro soci viticoltori, hanno deciso di investire su questo progetto per ricercare e valorizzare  le proprie radici territoriali, condividendo il rapporto viscerale che li lega con la terra di Borgo Santa Maria.

LA CANTINA “OGGI”
“La trattativa con il cavatappi”, cosi definisce il percorso visitativo-degustativo dell’azienda, “perché la persona che vuole conoscerci oggi, ci conoscerà direttamente dal prodotto che stiamo creando, trovando all’interno tutte le risposte”, spiega Emanuele mentre camminiamo tra le cisterne in acciaio inox a temperatura controllata, dove degustiamo i frutti, ancora non filtrati, del loro lavoro che a breve verrà imbottigliato e commercializzato.

La struttura in cemento ha una capienza potenziale di 170.000 quintali, attualmente viene sfruttata per il 10% , questo per consentire un accurata ricerca ed un corretto taglio per le due linee produttive, una per la ristorazione, dall’elegante etichetta nera che comprende i prodotti Macchia Grande, Quadrato, Strada del Passo e il metodo Martinotti Santa Maria ed una per la Gdo.

Un layout che richiama l’area geografica del vigneto nativo, impreziosita da colori futuristici classici delle opere del XX Secolo, comprendente i vinificati in bianco come l’Astura, il Barabino, lo GnifGnaf ed il Valdoro e i rossi Terra Redenta, Piano Rosso e Cerreto.

Ottanta ettari di terra vitati, che si estendono dai piedi delle colline fino al mare, passando da trame di tufo a nord-est, per arrivare alla terra rossa, creta e sabbia a sud-ovest. Il tutto baciato dal Ponentino, tipico vento lieve occidentale che accarezza e coccola le vigne nel pomeriggio.

La Cantina Santa Maria si affida a diciotto conferitori della zona, di cui sette storici, con un età media dei vigneti di circa trent’anni, passando da coltivazioni giovani di tre anni fino a quelle di sessanta anni, il tutto seguito attentamente da tre enologi.

Terminiamo la visita nella Cantina Storica, un ambiente attualmente non utilizzato ma che rientra nei progetti futuri di valorizzazione, dove, già nel 1960, si producevano i primi vini a fermentazione controllata, al cui interno vi sono anche importanti botti in legno che regaleranno nelle prossime produzioni morbidezza ed eleganza.

LA DEGUSTAZIONE
Barabino IGP : E’ il vino storico della cantina, ampiamente conosciuto a livello locale. 11% gradi per l’annata 2016, nata dall’unione di Malvasia e Bellone. Giallo paglierino con riflessi verdognoli, sentori di agrumi, pesca e miele. Dalla beva leggera, equilibrata e fresca, perfetto in abbinamento con formaggi freschi locali.

Cerreto IGP : Annata 2016, Merlot in purezza, 11%, coltivato su terreni profondi ed argillosi. Rosso rubino intenso, sentori delicati di ciliegia, fragola matura. In bocca riempie il palato, con tannini morbidi e una leggera sapidità nel finale- Lo consigliamo, vista la moderata gradazione alcoolica , come aperitivo per una piacevole cena a base di carne.

Valdoro IGP : 2016, 11% per questa unione di Bellone e Trebbiano. Giallo paglierino, naso delicato, sentori di pompelmo, mandarino, pietra focaia. Al gusto è morbido, sapido, regalando note retronasali di fieno e mela gialla. Piacevole se abbinato con delle tagliatelle burro e salvia o delle preparazioni di pollame al forno.

Santa Maria IGP : Metodo Martinotti da uve Bellone, fermentazione a temperatura controllata e rifermentazione Charmat nella primavera successiva alla vendemmia. 11,5% Gradi, brut il dosaggio zuccherino colora il calice giallo paglierino con un elegante perlage fino e persistente. I richiami caratteristici del Bellone, come pompelmo, e pesca bianca, si uniscono alla crosta di pane appena sfornato. Piacevole equilibrio in bocca, morbido e persistente, valido sia come aperitivo ma anche come tutto pasto.

Strada del Passo IGP : Ritroviamo il Bellone, vitigno autoctono della zona, questa volta in versione ferma  per l’etichetta nera da Ristorazione. Annata 2016, 12,5% gradi, giallo paglierino intenso con riflessi dorati. Naso ricco di richiami fruttati, pompelmo, pesca Bianca, frutti esotici, agrumi e foglie di limoncello. In bocca è pieno, morbido, equilibrato, dalla mineralità importante ma mai invadente. Un vino che non disdegna di essere dimenticato qualche tempo in cantina. L’abbinamento con cruditè di pesce è un matrimonio obbligato.

Terra Redenda IGP : Taglio Bordolese di Merlot dai tannini dolci e dalla spiccata morbidezza e Cabernet Sauvignon, che regala corpo e struttura. 13% gradi per questo 2016. Rosso rubino intenso il calice che rivela sentori di ribes, mirtillo, violetta, bouquet di fiori e nel finale una nota balsamica di mentuccia selvatica. In bocca è pieno, ben strutturato, fresco. Ottimo con formaggi di gran stagionatura  o carni grigliate.

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Vendemmia 2018, prime stime: +20%. Testa a testa con la Francia

Al via la vendemmia 2018 in Italia che si prevede con una produzione complessivamente in aumento tra 10% e il 20% con circa 46/47 milioni di ettolitri rispetto ai 40 milioni dello scorso anno, che per la grave siccità è stata tra le più scarse dal dopoguerra.

Un risultato praticamente in linea con la media dell’ultimo decennio. Tutta aperta la tradizionale sfida per la leadership produttiva mondiale, con un testa a testa tra Italia e Francia dopo il primato conquistato dal vino tricolore lo scorso anno.

Secondo le prime stime di Agreste, il servizio statistico del Ministero dell’Agricoltura francese la produzione dei cugini d’oltralpe dovrebbe essere di 46,8 milioni di ettolitri, il 27% in più dello scorso anno, anche se con preoccupazioni per muffe e marciumi in Languedoc e a Bordeaux.

Tutti dati emersi in mattinata in occasione della raccolta del primo grappolo di uva nell’azienda agricola Faccoli in via Cava a Coccaglio, in provincia di Brescia.

In una Franciacorta che, come da tradizione, inaugura l’inizio della vendemmia nel Nord della Penisola (praticamente in concomitanza con l’altra grande zona spumantistica, l’Oltrepò pavese), con i primi grappoli di uve Pinot e Chardonnay per la produzione di spumanti, le prime ad essere raccolte.

L’ANALISI COLDIRETTI
Come sottolinea Coldiretti, la vendemmia 2018, per effetto delle piogge che hanno caratterizzato la primavera e l’inizio dell’estate, si allunga con un ritardo di circa una settimana rispetto allo scorso anno.

In Italia le condizioni attuali fanno ben sperare “per una annata di buona-ottima qualità, anche se l’andamento della vendemmia dipenderà molto dal resto del mese di agosto e da quello di settembre”.

Da nord a sud della Penisola si parte tradizionalmente con le uve Pinot e Chardonnay in un percorso che prosegue a settembre ed ottobre con la raccolta delle grandi uve rosse autoctone Sangiovese, Montepulciano, Nebbiolo e che si conclude addirittura a novembre con le uve di Aglianico e Nerello.

La produzione tricolore secondo la Coldiretti sarà destinata per oltre il 70% dedicata a vini DOCG, DOC e IGT con 332 vini a denominazione di origine controllata (Doc), 73 vini a denominazione di origine controllata e garantita (Docg), e 118 vini a indicazione geografica tipica (Igt) riconosciuti in Italia e il restante 30 per cento per i vini da tavola.

Sul territorio nazionale, ricorda Coldiretti, ci sono 504 varietà iscritte al registro viti contro le 278 dei cugini francesi a dimostrazione del ricco patrimonio di biodiversità su cui può contare l’Italia che vanta lungo tutta la Penisola la possibilità di offrire vini locali di altissima qualità grazie ad una tradizione millenaria.

La novità di quest’anno è il ritorno dei voucher in agricoltura dopo l’approvazione definitiva del D.L.Dignità che secondo la Coldiretti potrebbe assicurare 25mila posti di lavoro occasionali a studenti, disoccupati, cassintegrati e pensionati durante la vendemmia che è il settore in cui sono stati in passato impiegati quasi la metà dei voucher agricoli.

“Ora però – conclude Coldiretti – occorre fare prestissimo per adeguare la procedura Inps affinché le novità sui voucher tanto attese dalle imprese viticole siano immediatamente disponibili ed evitare che la burocrazia rallenti o addirittura vanifichi gli sforzi fatti dal Governo e dal Parlamento”.

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Daniele Ricci, una vita al naturale per il Timorasso: “Così ho smesso di fare il casellante”

COSTA VESCOVATO – Che poi, la vita, è un po’ per tutti come un’autostrada: piena di caselli. Ti fermi. Paghi. Se ti va bene ti danno il resto. E riparti. Altrimenti rimani lì. Fregato. Un infinito susseguirsi di stop and go. Da una parte chi dà. Dall’altra chi riceve. Fino alla prossima sbarra abbassata.

I panni del casellante, Daniele Ricci, se li è tolti volentieri. Nei primi anni Duemila. Per inseguire – fuor di metafora – un sogno chiamato Timorasso. Oggi, il 55enne vignaiolo è tra i riferimenti assoluti della piccola Denominazione piemontese portata in auge negli anni Novanta dal pioniere Walter Massa. Siamo sui Colli Tortonesi, in provincia di Alessandria. Per l’esattezza a Costa Vescovato.

Un campanile segna il paesaggio, all’orizzonte, tra le vigne appese alle colline che si alternano al bosco. Qualche sali e scendi e un tratto sterrato che macchia le gomme dell’auto di bianco, prima di raggiungere Daniele Ricci all’Agriturismo Cascina San Leto. Il “giocattolo” di famiglia, che suggella una vita di sacrifici, aperto due giorni a settimana, solo nel weekend.

I vini di Ricci, che oltre a diverse tipologie di Timorasso produce Barbera, Croatina e Nebbiolo, sono tra i più “naturali” della zona. Ma senza alcuna bandiera ideologica: “Avrei aderito alla Fivi – chiosa il vignaiolo – soprattutto per via dell’amicizia con Walter. Ma ultimamente hanno un po’ perso lo spirito iniziale e preferisco starne fuori, come sto fuori da qualsiasi altra associazione”.

Nessuna aggiunta di solforosa in cantina e rispetto massimo per il vigneto, con trattamenti che si riducono a rame e zolfo. Ma non è sempre andata così per il vignaiolo, che arriva all’appuntamento in pantaloncini corti e canottiera bianca, dalla vigna.

“Quando facevo ancora il casellante e la viticoltura era un’attività per così dire ‘secondaria’, portata avanti con mio padre – racconta Daniele Ricci – si lavorava come lavoravano gli altri: con la testa nel sacco. Senza porsi alcun problema ‘filosofico’. Non dimentichiamoci che siamo gente degli anni Ottanta, che ha bruciato tutto quello che poteva bruciare”.

“Io sono figlio del consumismo più sfrenato. Mio padre Filippo lavorava al Consorzio agrario. E per lui la novità erano i diserbanti ultimo modello, tutti i prodotti di sintesi che pensava fossero il meglio”

“Poi – continua il vignaiolo – il mio fisico particolarmente sensibile ha iniziato a dare i primi segni di cedimento. Davo i sistemici e sentivo una pressione al petto. Davo il diserbante nel grano e stavo male, pur indossando il casco per non respirarlo”. Ma la vera svolta è avvenuta alla nascita di Matteo (nella foto, sotto).

Oggi ha 22 anni e studia brillantemente enologia. “Da piccolo girava per i nostri campi, attorno all’attuale agriturismo. E io lo riprendevo: non puoi, non puoi! Una volta mi ha chiesto: perché non posso uscire? E da lì mi è scattata una molla. Ho detto basta. Succeda quel che succeda, basta con questi prodotti”.

“Ci dicevano che tutto sarebbe seccato – continua Ricci – senza l’aiutino dei sistemici. Ma era una balla. Era terrorismo. Ma fare vini naturali, per qualcuno, voleva dire fare vini con difetti. E ancora adesso, in certi contesti, essere biologici è penalizzante”.

Per questo non è presente alcun bollino sulle etichette dei vini di Daniele Ricci. Eppure l’azienda (15 ettari di cui 10 vitati, per 40 mila bottiglie complessive) è certificata biologica dallo scorso anno, al termine dei tre anni di conversione.

GLI ESORDI AL SUPERMERCATO
Nel percorso che ha portato Daniele Ricci ai fasti attuali, con la presenza di alcune sue etichette nelle carte del vino di molti ristoranti stellati, c’è anche un periodo nella Grande distribuzione organizzata.

“Erano gli anni Novanta – ricorda Ricci -. Grazie all’intermediazione di un broker abbiamo iniziato a lavorare con Finiper, ovvero Iper, la Grande i, che aveva capito l’importanza di avere in assortimento prodotti locali, quando ancora non era di moda al supermercato”.

Punti vendita come quelli di Tortona, Rozzano e Serravalle Scrivia, aiutano Ricci a farsi conoscere. “Ma mi sono accorto che non era il mio mondo. E ne sono uscito piuttosto velocemente, in quattro o cinque anni”.

“Nello stesso periodo, un’altra piccola catena di supermercati di Roma, oggi assorbita da Conad, volle i nostri vini. Il proprietario aveva anche un paio di enoteche nella capitale e ci commissionò due etichette diverse per i due canali, per lo stesso vino: un Timorasso”.

“Siamo andati avanti così, ancora per qualche anno. Tutto faceva mucchio: si portavano a casa due soldini e si reinvestivano. Tanto lo stipendio da casellante c’era. Mia moglie era tranquilla. Un anno compri la terra, un altro il trattore, un altro lo cambi: sempre senza soldi. Adesso è comico parlarne, ma allora no”.

Una svolta “naturalista”, quella di Daniele Ricci, che si può definire completata dalla realizzazione di una tettoia, immersa nel vigneto, sotto alla quale sono state interrate tre anfore da 10 ettolitri.

“La mia idea, anzi la mia fissa, era quella di fare il vino nella vigna. Fondamentale l’incontro con Josko Gravner, da cui andai negli Novanta, proprio con Walter Massa”

L’uva, raccolta nei vigneti attigui, viene diraspata e vinificata a “Chilometro zero” nei tre recipienti di terracotta di fabbricazione toscana, originari di Impruneta (FI). Nasce così “Io cammino da solo“, il Timorasso in anfora di Daniele Ricci. Cento giorni di macerazione sulle bucce e 12 mesi di affinamento ulteriore in botti di castagno.

Un vino non filtrato, non chiarificato. Ottenuto ovviamente con lieviti indigeni, così come tutti quelli di Daniele Ricci e della sua Azienda agricola di Costa Vescovato. Il tempo, sotto a quella tettoia, sembra essersi fermato al 1929.

L’anno in cui i nonni del vignaiolo, Carlo e Clementina, cominciarono a coltivare i terreni di marne Tortoniane di San Leto. Una calamita che ha riportato Daniele Ricci tra il verde dov’era cresciuto. Strappandolo anno dopo anno dall’asfalto del’autostrada.

LA DEGUSTAZIONE
VsQ Metodo classico 2014 “Donna Clem”. Metodo classico base Timorasso, 36 mesi sui lieviti, dosaggio zero. La base è ottenuta dalla cuvée dalle uve di due cru: San Leto (vigne vecchie) e Giallo di Costa (90 giorni di macerazione sulle bucce).

Ad occuparsi della spumantizzazione è Dogliotti Vini 1870, cantina di Castagnole delle Lanze (AT) che ha nel suo portafoglio diverse realtà dell’Alta Langa. Le prove sono iniziate nel 2009, ma l’uscita sul mercato (con appena 2 mila bottiglie) risale al Vinitaly 2017.

Perlage fine, che stuzzica il palato in un gioco curioso con la “grassa” abbondanza del Timorasso. Il sorso, grazie al non dosaggio, mantiene tuttavia la verticalità che ci si deve aspettare dall’uvaggio. Finale amarognolo e salino, che racconta la fase fenolica di raccolta di un Timorasso spumantizzato ancora in fase di evoluzione.

Derthona 2016. Vinificato con macerazione di 3 giorni sulle bucce e affinamento di 12 mesi in botti di acacia da 700 litri. E’ il vino d’ingresso nell’universo di Daniele Ricci, che non a caso ha il colore dell’oro.

Un Eldorado chiamato Timorasso che qui mostra la sua faccia più giovane, ma non per questo timida. Darà il meglio di sé a partire dai prossimi tre-quattro anni, ma già oggi comincia a mostrarsi per quel che sarà.

Colli Tortonesi Doc 2013 “San Leto”. Eccolo qui, sua maestà il Timorasso. Vinificato con macerazione di 3 giorni sulle bucce, 12 mesi sulle fecce nobili e almeno 24 mesi di ulteriore affinamento in bottiglia.

Naso che si spinge a toni netti di idrocarburo che sono la cifra del vitigno. Un Timorasso giocato su una balsamicità che, per certi versi, ricorda quelli prodotti nell’unica sottozona della Denominazione, la Val Borbera (600 metri slm). Conservando tuttavia gli sbuffi florali tipici della media collina (300 metri slm).

Un palato che si diverte a esaltare a corrente alternata salinità e grassezza balsamica, evidenziando fasi larghe (quasi morbide) e fasi acide (dure) del sorso. Sinonimo di un nettare che migliorerà ulteriormente in vetro, ma solo per chi avrà il coraggio di conservarlo in cantina.

Giallo di Costa 2013. Il vino a cui è più affezionato il produttore. Timorasso vinificato con macerazone di 90 giorni sulle bucce a cappello sommerso e 24 mesi di affinamento in bottiglia.

Ci sentiamo di concordare con Ricci, perché quest è un vino che fa facilmente innamorare di questa straordinaria uva a bacca bianca autoctona dei Colli Tortonesi.

Un Timorasso semplice, tutto sommato. Giocato su intensi sentori erbacei, agrumati e di radice di liquirizia, con ottima corrispondenza naso-bocca. Pregevole la chiusura, carica e salina.

Rispetto 2017. Novanta per cento Sauvignon Blanc, completato da un 10% di Riesling italico. Tra le sperimentazioni del vignaiolo Daniele Ricci, anche questa, riuscitissima. Dimenticatevi, però, i tipici tratti del Sauvignon.

Soprattutto al naso, l’ottimo grado di maturazione di uve alla raccolta ha giocato in maniera fondamentale nella riuscita di un bouquet davvero seducente, quasi femminile. Si tratta, di fatto, del vino dalla beva più “easy” di Daniele Ricci.

Un complemento di gamma che non snatura la filosofia del produttore piemontese, dal momento che la macerazione di 20 giorni sulle bucce resta parte integrante della vinificazione.

Colli Tortonesi Doc 2012, Io Cammino da solo. Vinificato con macerazione di 100 giorni sulle bucce in anfore di terracotta interrate e ulteriore affinamento in botti di castagno, per 12 mesi. E’ l’orange wine di casa Ricci. Il vino, che al momento, sorprende di più.

Al naso l’impronta ossidativa è netta, ma integrata alla perfezione in un corredo di . Netti anche i sentori di legno, che contribuiscono a rendere avvolgente, anche al palato, questo orange di carezzevole potenza.

DUE NOVITA’ IN ARRIVO
In quel laboratorio a cielo aperto che sono le vigne di Daniele Ricci, sono due le novità in arrivo. La prima sarà “C.C.C.”, che sta per “Come un Cane in Chiesa”. “E’ come mi hanno fatto sempre sentire, anche prima di trasformarmi in una specie di santone. Io ero, sono e resterò sempre un cretino: un uomo semplice!”, spiega il vignaiolo.

Vendemmia 2011 per il Timorasso “C.C.C.”, che sarà imbottigliata a febbraio. Si tratterà del capitolo 2, dopo “Rebus”, l’etichetta enigmatica che riportava gli anni di nascita dei componenti della famiglia Ricci (in quel caso di trattava di un Timorasso in magnum, dimenticato in cantina, al buio completo, per 8 anni).

La seconda novità si tinge di rosso. Sarà un Nebbiolo particolare. “Una prova”, che aspira a sondare le capacità dei Colli Tortonesi di produrre etichette in grado di fronteggiare le Langhe, in termini di finezza. Un’evoluzione, insomma, dell’attuale Nebbiolo “San Martino” di Daniele Ricci.

L’affinamento in 14 barrique delle vendemmie 2016 e 2017 è tuttora in corso: il vino non sarà messo in commercio prima di 4 anni. Per assaggiarlo, dunque, bisognerà attendere il 2020. Non resta che aspettare.

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