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degustati da noi news vini#02

Bolé Novebolle, Metodo classico da Viognier e Piwi: a CerviaINbolla frizzano le novità

CERVIA – Dal Romagna Doc Spumante Bolé Novebolle, allo spumante Metodo Classico base Viognier, passando per i vitigni resistenti (Piwi). Un mare di novità e conferme a CerviaINbolla 2018. Tutti attorno a calici ribollenti, per un evento che si è rivelato più mondano che tecnico, legato dunque al piacere di condividere il nettare di Bacco senza troppe formalità.

Ben organizzato nella suggestiva location degli storici Magazzini del sale di Cervia, l’appuntamento ha visto una buona affluenza di persone che hanno potuto assaggiare eccellenze spumantistiche da 10 denominazioni diverse. Oltre alle specialità gastronomiche custodite nei vari food corner.

Piccoli produttori ed etichette meno note ad affiancare nomi rinomati delle bollicine italiane. Presenti in degustazione a CerviaINbolla 2018 non solo spumanti, ma anche alcuni vini fermi.

I MIGLIORI ASSAGGI
Conferme – e non poteva essere altrimenti – per gli spumanti di montagna. Ferrari (presente con la linea Maximum), Letrari (Brut e Brut Rosè) e Arunda (Pralien e Brut Rosè) non deludono le aspettative confermandosi produttori d’eccellenza, a partire dalle linee base.

Anche la Franciacorta si dimostra in linea con le aspettative. Antica Fratta, Villa Franciacorta, Quadra presentano prodotti senza sbavature.

Stesso discorso per l’Oltrepò pavese – ben rappresentato da Monsupello e Calatroni – e per il Veneto, dove Ruggeri sbanca la concorrenza del Prosecco col suo Valdobbiadene Superiore Docg Giustino B., vecchia conoscenza per i lettori di vinialsuper.

Interessante l’assaggio di Bolé Novebolle Romagna Doc Spumante, prodotto dalla joint venture Caviro-Cevico. Un metodo Martinotti (30 giorni) composto da un 95% di Trebbiano e un 5% di Famoso, 9 g/l di dosaggio.

Floreale e fruttato, con un tocco di frutta esotica, in bocca risulta facile e morbido pur conservando una certa vena di acidità. Un sorso piacevole e poco impegnativo, quasi sbarazzino.

Dicevamo, piacevoli scoperte. Prima fra tutte è Solatio di Tenuta la Pennita. Metodo Classico millesimo 2013, 38 mesi sui lieviti. Solo 2 mila bottiglie: 100% Viognier da meno di 2,5 ettari di vigna.

Un produzione tanto piccola da non essere neppure a catalogo aziendale. Giunto ormai alla quarta vendemmia, questo brut seduce con gentilezza. Naso intenso ma non invadente. La crosta di pane è presente, ma non sovrasta le piacevoli note fruttate.

Albicocca, pesca gialla e prugna bianca mature che si sposano a note fresche di scorze d’agrumi ed una leggera nota speziata. In bocca entra morbido per poi crescere in acidità e sapidità.

Restano impressi nella mente i due prodotti presentati da LieseleHof, cantina altoatesina già incontrata da vinialsuper durante il Merano Wine Festival 2017 e segnalata tra i migliori assaggi. Vino del passo è un bianco fermo da vitigno Piwi Solaris.

Molto complesso, avvolge il naso con note floreali, note di frutta esotica come ananas e litchi ma anche frutti bianchi come pesca, note morbide di miele ed una leggera spezia (pepe bianco). Strutturato, minerale, persistente e con una chiusura leggermente amaricante.

LieseleHof Brut è invece uno spumante metodo ancestrale con sboccatura (“metodo LieseleHof” come ci tiene a specificare la cantina, visto il lavoro di perfezionamento della tecnica). Vitigno Piwi Souvignier gris, 30 mesi sui lieviti. Fresco la naso. Lime, mela renetta, pesca gialla, lievito. In bocca è morbido e setoso con finale elegante.

Interessante la proposta di Azienda Agricola Randi. Quattro vini, due bianchi da uve Famoso (Rambela Bianca e Ramba) e due rosati da uve Longanesi (Bruson Rosè Brut e Rosa per Fred).

Rambela Bianca è un vino fresco ed immediato, frutti a polpa bianca ed agrumi al naso, secco e morbido, con chiusura amarognola del sorso. Ramba è un metodo ancestrale, velato e con buon perlage che accoglie con profumi di mela verde e macchia mediterranea. Piacevolmente fresco al sorso ha nella buona persistenza la stessa vena amaricante di Rambela Bianca.

Bruson Rosè Brut avvolge in naso con piccoli frutti rossi ed accarezza il palato con un bolla non invasiva, ma è Rosa per Fred a sorprendere. Metodo ancestrale senza sboccatura si presenta di colore carico, quasi rubino, e velato.

Naso pulito ed inteso, quasi balsamico, ricco di frutti rossi maturi ed erbe aromatiche. Sorso pieno, secco, fresco e leggermente tannico. piacevolissima persistenza. Elegante e fine l’ormai noto Pertinello Brut Blanc de Noir 2014 da uve Sangiovese.

Vincente anche il trittico presentato da Azienda agricola Nevio Scala, noto per il suo trascorso di successo nel mondo del calcio italiano. Tre vini da Garganega in purezza con raccolta e lavorazione differente ed utilizzo di lieviti indigeni.

Gargante, rifermentato in bottiglia, è fresco e bevernio con bella nota fruttata. Diletto (fermentazione in acciaio) è altrettanto fruttato con una evidente spalla agrumata. Contame è invece un macerato dai profumi più vicini alla frutta surmatura che coinvolge in bocca per la sua grande sapidità.

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Cantine news

Cantina di Venosa: voce del Verbo Aglianico. Presente e futuro di una cooperativa illuminata

VENOSA – Siamo a nord della Lucania, alle pendici del monte Vulture, antico vulcano spento dalle cui cavità sgorgano le sorgenti di acqua minerale più grandi d’Europa.

Cantina di Venosa, società cooperativa, nasce qui nel 1957. Più di 350 soci, 800 ettari su 15 comuni nell’area del Vulture (la maggior parte in Venosa), più di 50 mila quintali di uve lavorate. Una sola referenza in GdO, “Baliaggio”, che da sola copre il 2,8% delle vendite della grande distribuzione. Il resto è destinato al mercato Ho.re.ca..

Questi i numeri, ma la realtà la si può capire solo mettendo piede in cantina. Una realtà che sta investendo in maniera concreta sul Vulture, con 5 milioni di euro di investimenti ed altri 3 previsti nei prossimi anni, anche sul fronte green.

Una società cooperativa gestita in modo “imprenditoriale”. Niente è lasciato al caso o all’iniziativa del singolo socio. Perfetto coordinamento fra i vari attori e grande attenzione alla gestione di vigneti, uve e cantina.

Lo si capisce bene ascoltando le parole di Antonio Teora (nella foto, sotto), Direttore Commerciale della cantina. L’idea è che anche se si fanno grandi volumi si può e si deve lavorare con estrema qualità.

LA FORMULA VINCENTE
Anche se i vigneti sono curati da numerosi soci, l’attenzione deve essere alta e “centralizzata” per garantire la miglior materia prima. Come è possibile coniugare tutto questo? Con una serie di accortezze e progetti.

Un enologo e due agronomi a costante supporto della gestione di terreni e vigneti. Campionamenti continui delle uve per stabilire i corretti tempi di raccolta area per area. Autorizzazione alla vendemmia stabilita dalla cantina e non dal singolo socio.

Controllo delle uve in fase di ricezione in cantina su più parametri (visivo, zuccheri, pH, grado babo, fenoli) e non solo sugli zuccheri per allocare ogni partita alla corretta via di vinificazione. Ma non finisce qui. In cantiere ci sono altri due progetti.

Il primo è Win Up, un sistema di monitoraggio dei vigneti. Novanta soci strategici selezionati in costante contatto con la cantina fungono da “sentinelle”. Le informazioni vengono incrociate forniti da stazioni meteo e bollettini sanitari.

Tutto questo per prevenire malattie ai vigneti, con interventi mirati solo dove si verificano condizioni a rischio. Limitare il numero di trattamenti applicando lotta integrata “su misura” solo la dove e quando i vari microclimi lo rendano necessario.

Il secondo progetto vede molti attori coinvolti e prevede la mappatura a mezzo satellite della superficie vitata. Tre passaggi annui del satellite (3 luglio e 18 luglio, il terzo passaggio è previsto a fine agosto) che misurano lo sviluppo del vigneto (apprato fogliare, colore, vigoria, etc.) appezzamento per appezzamento.

Lo scopo è da un lato conoscere esattamente lo stato delle vigne per gestire correttamente potature, trattamenti e vendemmie.

Dall’altro arrivare nel medio periodo, incrociando le informazioni con i dati tradizionali, ad una perfetta zonazione dei terroir. Un sorta di approccio borgognotto 2.0.

IN CANTINA
Diverse le tecniche di vinificazione, come ci spiega Donato Gentile (nella foto) enologo di Cantina di Venosa. Dalla più tradizionale, a temperatura controllata, alla più moderna vinificazione “a betoniera”, utile per ottenere una più veloce ed efficace estrazione di tannini nobili, colore ed essenza del frutto.

Nessun silos all’aperto. Uso del legno (rovere francese a pori aperti) quando necessario. Le varie partite di uva, monitorate, gestite puntualmente, vendemmiate in diversi momenti a seconda dei gradi di maturazione, testate e controllate vengono destinate alle varie vinificazioni per ottenere le varie linee di vini di Cantina di Venosa.

E l’approccio green si riversa anche nel processo produttivo: 70% la quota di vetro riciclato utilizzata, 100% cartone riciclato per gli imballi, nessun alveare nei cartoni delle linee base, utilizzo di colle vegetali e solo il 5% di nastro adesivo, impianto fotovoltaico per soddisfare il fabbisogno energetico.

Questi i numeri e le tecnologie che raccontano una realtà complessa ed articolata. Ma ciò che emerge davvero è un approccio legato al territorio, al valore enologico e culturale del vitigno principe di questo territorio: l’Aglianico del Vulture.

LA DEGUSTAZIONEVarie linee per vari stili. La linea vini “Verbo” di Cantina di Venosa, di recente creazione, è caratterizzata da un taglio molto moderno, capace di accontentare sia il consumatore meno esperto sia quello più esigente.

Basilicata Igt Verbo Bianco, 2017. Da uva Malvasia di Basilicata. Un vitigno dagli acini piccoli e concentrati. Utilizzo sapiente della tecnologia per salvare le caratteristiche organolettiche del frutto ed evitare ossidazioni.

Fermentazione in acciaio, passaggio in barrique nuove per una parte del vino. Giallo paglierino, al naso presente intesi profumi fruttati. Frutti esotici come mango e litchi, e frutti a polpa bianca ed una leggera nota floreale. In bocca entra morbido e scorrevole. L’acidità è ben vestita. Armonico nel complesso chiude il sorso con una piacevole nota amarognola.

Basilicata Igt Verbo Rosè, 2017. 100% Aglianico del Vulture. Color buccia di cipolla con rilflessi fra il dorato ed il ramato. Intenso profumo di frutti rossi, lampone e ciliegia. Grande freschezza in equilibrio con la morbidezza.

Basilicata Igt Verbo Rosso 2015. 100% Aglianico del Vulture. Vinificazione in piccoli fermentini e macerazione pellicolare a temperatura controllata, fermentazioni alcolica e malolattica in acciaio ed affinamento in legno per 12 mesi. Il risultato è una interpretazione moderna dell’Aglianico.

Rosso rubino presenta naso intensamente fruttato e morbido. Frutti rossi e neri come lampone, ribes, mirtillo, ciliegia ed una leggera nota di spezia dolce. Molto sapido presenta un tannino presente ma maturo. Un vino che, senza sbavature, rinuncia alla longevità in nome di una grande contemporaneità.

Basilicata Igt Terre di Orazio Rosè, 2017. 100% Aglianico del Vulture. Linea di vini che segue la tradizione, il Terre di Orazio presenta color cerasuolo intenso con riflessi quasi violacei.

Ricco di sentori fruttati in bocca è nettamente più verticale del Verbo Rosè. Molto sapido e con un tannino “soft” che accompagna il sorso. Un vino che non disdegna di essere bevuto a tavola accompagnando primi piatti anche saporiti.

Aglianico del Vulture Terre di Orazio, 2015. Vinificazione in acciaio ed affinamento in botte grande per 15 mesi. Un vino strutturato dal colore da colore rubino, quasi purpureo. Note di frutti rossi maturi, a tratti frutta macerata.

Pepe, caffè, fava di cacao. Ingresso potente in bocca, i 14% si fanno sentire ma sono immediatamente vestiti dalla piacevole morbidezza e freschezza. Scorre bene in bocca ed il tannino è perfettamente integrato nella struttura del vino.

Aglianico del Vulture Docg Carato Venusio 2013. Il top di Cantina di Venosa. Vinificazione e fermentazioni alcolica e mololattica in acciaio, affinamento in piccole botti (carati, per l’appunto) di rovere francese per due anni e per minimo 12 mesi in bottiglia.

Vino di grande spessore dal colore rosso rubino tendente al granato. Naso elegnate. Frutti rossi maturi che giocano a nascondino con la ciliegia sotto spirito. Spezie a volontà, pepe, liquirizia, tabacco, cuoio.

Grande balsamicità ed una nota mentolata a chiudere uno spettro olfattivo di grande eleganza. Morbido, molto sapido e di grande freschezza. Tannino setoso. Un vino di grande prospettiva: ottimo servito oggi a tavola, darà il meglio se dimenticato in cantina per un po’ di anni.

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Cantine degustati da noi news vini#02

I vini cileni biodinamici di Rodrigo Soto: Ritual, Primus e Neyen

Si parla spesso del Cile come di un Paese che aggredisce le economie internazionali, proponendo etichette di vino di scarsa qualità, a prezzi ridicoli.

Un Cile che inonda d’uva da taglio il Sudamerica (e non solo) dove sta invece crescendo il consumo consapevole di vino. I vini cileni di Rodrigo Soto, produttore incontrato all’ultima edizione del ProWein di Dusseldorf, in Germania, costituiscono l’altra faccia della medaglia.

A labor of love“. Una questione d’amore, per questo appassionato enologo e winemaker, produrre vino secondo i principi della viticoltura biologica e biodinamica. Una missione “strettamente legata alla terra coltivata, alla salubrità del suolo e ai rituali artigianali del vino”.

Seguendo i ritmi della natura. Un modo “nuovo” di fare viticoltura in uno dei Paesi, il Cile, spesso citato quando si parla di New World wines, i “Vini del Nuovo Mondo“.

Per il suo progetto biodinamico, Rodrigo Soto ha scelto in particolare tre zone, convertendole a una produzione attenta e di assoluta qualità, riunite sotto il tetto di González Byass, uno dei marchi storici del Cile del vino

  • Veramonte, la parte più a Est della Casablanca Valley, sferzata dalle fresche correnti del Pacifico (Ritual Estate)
  • Apalta, un’area influenzata dalla presenza del fiume Tinguiririca, nella Colchagua Valley (Primus Estate)
  • I terrazzamenti a mezzaluna di Apalta, un microclima unico all’incontro tra la catena montuosa delle Ande e la parallela Coastal Range, la Catena Costiera (Neyen Estate)

I MIGLIORI ASSAGGI

Sauvignon Blanc 2016, Ritual. Fermentazione in legno per questo Sauvignon che svela i tratti internazionali del vitigno, con una spinta aromatica intrigante. Il gioco tra l’acidità esplosiva e la morbidezza è parte integrante di un sorso difficile da dimenticare.

Chardonnay Supertuga 2016, Ritual. Giallo dorato che “tradisce” l’utilizzo di un legno forse ancora troppo invasivo, al naso. Una punta “piccante”, però, incuriosisce e invita a proseguire con entusiasmo l’analisi. In bocca l’ingresso è dritto, verticale, ma destinato ad ammorbidirsi.

Bello il contrasto tra la vaniglia – nota predominante del retro olfattivo – e il cesto di agrumi (pompelmo e buccia di lime) che sembrano spremuti nel momento centrale del sorso. Il nettare mostra solo in un secondo momento i suoi tratti più mansueti, disegnati appunto dal sapiente utilizzo del legno. Vino di prospettiva.

Pinot Noir 2016, Ritual. Una varietà relativamente nuova, piantata qui negli anni Novanta, nei primi anni della denominazione di Casablanca. Anche in questo calice la presenza al naso di richiami erbacei netti, che smorzano la finezza del frutto, rivelando però la territorialità del calice. La rivincita assoluta è al palato: una vera e propria rivincita per le note di melograno, lampone e mora che dominano il sorso, anche in un finale lungo.

Neyen 2013. Blend ottenuto per il 55% da Carmenere, completato da un 45% di un antico clone di Cabernet Sauvignon. Un vino da provare almeno una volta nella vita per la “misura” con cui riesce ad esprimere la propria ampiezza. Un nettare complesso, che evolve nel calice di minuto in minuto.

Naso e bocca non risentono particolarmente dei 18 mesi di affinamento in legno francese, per il 50% nuovo. La frutta di libera preziosa, accarezzata da un tannino di seta e da terziari composti che richiamano, in particolare, la liquirizia. Un vino decisamente gastronomico.

Carmenere 2016, Primus. Paprica, peperone e pepe per il naso di un Carmenere che si rivela verde, ma senza sbavature. Non mancano richiami balsamici mentolati, che completano il bouquet assieme alla frutta rossa.

In bocca sorprende per equilibrio e finezza, con una rotondità inaspettata. Il vino più facile da bere di quelli proposti in degustazione da Rodrigo Soto, pur evidenziando ulteriori margini di affinamento.

Syrah Alcaparral 2015, Ritual. Un Syrah col cappotto, che cresce (e bene) anche lontano dai climi caldi che sembra preferire a livello internazionale. La nota di pietra focaia è la cifra dell’assaggio: quella che ne connota l’unicità.

In bocca è rotondo in ingresso, prima di lasciar spazio a un’acidità vibrante. Chiusura su note vegetali e speziate che riportano a una dimensione mondiale questo tipicissimo Syrah cileno.

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Cantine news

50 anni di Doc Rosso Piceno. Quattro cantine da visitare

Quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario della Doc Rosso Piceno, un territorio da sempre sottostimato, nonostante le potenzialità pedoclimatiche e la qualità dei vini di molti vignaioli, anche emergenti.

Siamo andati sul posto, percorrendo il triangolo Offida, Ripatransone, Castorano. Abbiamo raccolto sensazioni tattili, olfattive e gustative, direttamente tra i filari e tra le mura delle cantine.

Abbiamo trovato grandi equilibri e grandi finezze, vini complessi e molto territoriali influenzati dal mare e dalla montagna.

Ritorneremo per continuare il tour: in agenda altre piccole ma grandi realtà. Per il momento prendete carta e penna e segnatevi queste.

PODERI SAN LAZZARO
L’azienda Agricola Poderi San Lazzaro nasce nel 2003. Paolo Capriotti porta avanti la tradizione di famiglia, nella coltivazione della vite e nella produzione del vino di qualità e si cimenta in quella che a tutt’oggi è diventata la sua principale occupazione.

Ci troviamo nel comune di Offida, il cuore del Rosso Piceno Superiore una delle DOC storiche Italiane.   Ottima posizione, in piena collina a circa 300 metri sul livello del mare e  a circa 15 Km dall’Adriatico e 25 Km dai monti Appennini. Suoli argillosi su questi crinali ed esposizioni a sud, sud-ovest e nord-ovest.

Qui si risente dell’influenza del mare e delle giuste variazioni termiche tra il caldo diurno e le brezze serali. Si lavora in biologico e la filosofia dell’azienda è rivolta all’estrema cura dei vigneti per ottenere uve di qualità e per garantire il massimo del prodotto in bottiglia.

Paolo Capriotti produce attualmente  circa 50 mila bottiglie divise tra uve bianche con Passerina e Pecorino e uve rosse come Montepulciano e Sangiovese in prevalenza ma anche uve Bordò.

Rese sempre intorno ai 70/80 quintali/ettaro , uso di legni vecchi e nuovi francesi  , grande pulizia e espressività di un territorio molto vocato per la viticultura che nulla ha da invidiare alla vicina Toscana. Questa realtà del Piceno merita per passione, dedizione e grande intuito di questo “giovane” produttore.

I MIGLIORI ASSAGGI
Pecorino Pistillo 2016. 14%vol , stessa densità di impianto a 4000 ceppi/ettaro ma resa più bassa. Qui siamo sui 70 q/ett. Lo scatto rispetto al bianco di apertura è notevole. Esposizione a Nord , terreno argilloso.

Il Pecorino 2016 dopo la fermentazione  il 30% della massa affina in legno grande per 7/8 mesi . poi dopo un successivo passaggio in acciaio viene imbottigliato. Il colore è giallo paglierino carico con intensi riflessi dorati. Al naso agrume, cedro, pesca, pera e le caratteristiche  note varietali del pecorino come erbe di campo e fiori. In bocca l’attacco è deciso.

Le note fruttate rilevabili al naso, lasciano il posto a sensazioni più mature, note di salvia, sfumature ammandorlate e mineralità. Nel finale torna l’agrumato a sottolineare tipicità e caratteri varietali.

Un vino da tutto pasto che con il salire della temperatura di servizio può offrire sensazioni organolettiche davvero interessanti e complesse. Da bere fresco non freddo. Ottimo rapporto q/p per un vino davvero divertente. Da preferire forse in annate più fresche dove la carica alcolica ben si bilancia con le durezze.

Podere 72 , Rosso Piceno Superiore Doc 2015  . 14.5% vol , Taglio di 50% Montepulciano e 50% sangiovese , il vino perfetto da bere sempre estate fresco e inverno a temp ambiente. Qui rese un po’ più alte sugli 80q/ett per un totale di 15000 bottiglie.

Il Vino della casa per Paolo Capriotti. Vendemmiato prima il sangiovese che porta a maturazione il grappolo con qualche settimana di anticipo rispetto al montepulciano. Le uve vengono vinificate e affinate separatamente passando circa un anno e mezzo in barrique usate e nuove e successivamente assemblate per fare un passaggio in acciaio e quindi arrivare in bottiglia.

Vinificazione a cappello emerso con rimottaggi frequenti. Colore rubino carico , al naso visciola , prugna , spezia e cacao. Ottimo bilanciamento tra le parti morbide e dure è un vino dalla struttura e dalla beva non impegnativa ma golosa. Tannini leggeri e ottima persistenza del reto olfattivo.

Grifola 2013 , Marche rosso Igt. 15%vol Montepulciano 100%. Bassissime rese, siamo circa sui 50 q/ett per un totale di 5000/6000  bottiglie a seconda dell’annata. Vigne di circa 40 anni. Vendemmia a metà Ottobre fermentazione in acciaio con cappello emerso e fino a 4 rimottaggi al giorno.

Verso Dicembre o Gennaio viene portato il barrique nuove di rovere Francese dove rimane per circa 2 anni, successivamente un dopo un passaggio in acciaio rimane in bottiglia altri 18 mesi. Il colore è un rubino intenso , impenetrabile . Il naso è un misto di frutta rossa matura, liquirizia, cacao, il tannino e morbido e non per niente ruvido.

La leggerezza  del sorso non fa pensare alla gradazione alcolica in etichetta. Un vino che appare ancora giovane, con una acidità e un corpo che ne garantiscono longevità. Struttura , tanta struttura . Un vino da sorseggiare con calma, da rispettare nei tempi.

Bordo 2014, Marche rosso Igt. Bordò è il nome con cui è chiamato nelle Marche il vitigno grenache. Si tratta di un vitigno tipicamente mediterraneo, che nella zona picena ha trovato un habitat perfetto. Un uva difficile ci racconta Paolo, dall’acino delicato.

In fermentazione bastano 3 giorni di contato che le bucce si rompano e si possa gia svinare. Una caratteristica intrinseca dell’uva questa. Siamo sulle 600 bottiglie prodotte, una vera chicca. Dopo la vendemmia manuale, le uve sono portate in cantina per la fermentazione, che avviene in acciaio a cappello sommerso con frequenti rimontaggi.

Il vino matura poi  per metà in legno nuovo e per metà in legno vecchio per circa 2 anni. Dopo un veloce passaggio in acciaio viene imbottigliato. Nel calice ha un colore granato. Il profilo olfattivo è caratterizzato da eleganti note floreali, sentori di macchia mediterranea, aromi di piccoli frutti a bacca rossa, cioccolato bianco, spezie orientali come la cannella e in minor misura la china.

Il sorso è piacevolmente fresco e gustoso anche se non ampissimo, di buona struttura, con tannini maturi e aromi ricchi e complessi. Finale da scorza d’arancia essiccata. Un vino elegante , fine , raffinato che accarezza il palato.


AZIENDA AGRICOLA VALTER MATTONI
Valter Mattoni detto “la Roccia” è un personaggio meraviglioso. Decoratore e imbianchino di professione, nel 2006 ha deciso di iniziare sul serio a fare vino, non solo per goderne lui e la sua famiglia come da anni facevano ma per far godere anche noi. Ed ecco la prima annata in commercio, la 2006 appunto.

La sua idea, fare un vino semplice, diretto, senza troppe decorazioni, come il nonno e il padre prima di lui hanno sempre fatto. Una produzione minuscola, siamo nell’ordine delle 7500/8000 bottiglie anno. Artigianali. Preziose. Emozionanti.

I vigneti di proprietà sono Montepulciano, Trebbiano, Sangiovese e Bordò (la grenache marchigiana). Sì, anche Valter fa parte di quel piccolo gruppo di produttori che in un fazzoletto di Piceno coltivano e vinificano l’uva Bordò con grandissimi risultati.

La produzione maggiore è per il Montepulciano, Arshura esce in circa 4000 bottiglie/anno, 1500/1600 bottiglie sono di Trebbiano e solo qualche centinaio per Sangiovese e Bordò. Tre ettari e mezzo la proprietà, esposizioni a sud-est e sud-ovest, a circa 300 metri sul livello del mare , in faccia all’Adriatico.

Terreni argillosi alluvionali come tutta la zona di Castorano (AP) Le piante più vecchie hanno età fino ai 50/60 aa e sono il trebbiano e il montepulciano. In cantina si predilige l’uso di legni usati anche di oltre 4 passaggi. Tutte barrique di legni Francesi .

I MIGLIORI ASSAGGI
Arshura, Marche rosso Igt 2015. 15%vol. Fermentazione in acciaio, poi un anno in barrique usate francesi. Rubino profondo con unghia accennata viola, naso su note di visciole, frutta rossa e cacao. Un naso ricco, che evolve con la leggera areazione del calice.

Al palato il tannino è morbido e il finale persiste su note di marasca e su note balsamiche mai stucchevoli. Il sorso è caldo ma i 15 % vol non appesantiscono la beva. L’utilizzo chirurgico del legno lo rende allo stesso tempo ricco e setoso.

Mai invadente in bocca. Verticale ed orizzontale, un sorso pieno su tutti i campi sensoriali. Un grandissimo Montepulciano in purezza. Un puledro adesso, che diventerà un campione di razza tra qualche anno.

Rossobordò 2015. Produzione esigua di circa 300 bott anno.  Stessa vinificazione dell’Arshura, fermentazione in acciaio, poi via in barrique vecchie per 2 anni. Nel calice di un rosso rubino, luminoso, quasi trasparente.

I profumi rimandano alla spezia mista al frutto rosso piccolo, fragole appena colte, alternate a cannella e alla cioccolata. Poi un sentore di rose e infine china e rabarbaro. E’ un naso affascinante per eleganza, che si scopre come una timida donna. Non ti stancheresti mai di annusare il calice.

In bocca il tannino è morbido, l’acidità presente, minerale e sapido. Lunghissimo. Ritornano prepotenti le note speziate, con un finale che si addolcisce e chiude in freschezza. Mai pesante.

Il retro olfattivo è un campo aromatico incredibile per armonicità. Un vino giovane ma preciso, chiaro, che non lascia spazio ai tecnicismi, da ascoltare e degustare dentro e fuori dal pasto.


AZIENDA AGRICOLA CAMELI IRENE
La famiglia Allevi, sulle colline del paese di Castorano (AP), riparate dai venti del mare, esposte a sud e particolarmente adatte per la coltivazione e la cura di vitigni, coltiva da oltre 40 anni Sangiovese, Montepulciano, Passerina e Pecorino, vitigni autoctoni di questo territorio con l’aggiunta di un piccolo vitigno di Chardonnay e da pochi anni di uva Bordò (non ancora vinificata).

Una produzione totale di 20000 bottiglie anno. Tre gli ettari totale dell’azienda tutti a circa 200 metri sul livello del mare. Esposizioni a sud e sud est. Un piccolo produttore che fa della semplicità il suo punto di forza.Una bella realtà di una famiglia di vignaioli come una volta, quelli per cui siamo innamorati del vino.

I MIGLIORI ASSAGGI
Pecorino Gaico 2016. 13,5 % vol, densità di 6 mila ceppi/ettaro per resa 60 q/ettaro. Vigne giovani. Fermentazione e affinamento sempre in acciaio per 6-8 mesi. Poi una sosta di altri 6 mesi minimo in bottiglia.

Colore giallo paglierino carico, sentori di frutta a pasta gialla, note che con la sosta nel bicchiere e il lieve rialzo della temperatura sconfinano quasi in un leggero tropicale. Erbe aromatiche sul finale. In bocca è rotondo, acidità ben bilanciata, finale lungo.

Conte 2017, Rosso Piceno Doc. 14%vol. 50 % Montepulciano, 50% Sangiovese. Fermentazione malolattica e affinamento sempre in acciaio. Sosta di 6-8 mesi in vasca poi assemblate le masse e imbottigliato.

Rosso Rubino carico con riflesso violaceo. La nota olfattiva è caratterizzata da profumi complessi di fiori, con una nota predominante di rosa e violetta poi frutta rossa ciliegia, fragola ma anche more e susina.

Finemente tannico al palato e con un’acidità perfettamente bilanciata. Un vino quotidiano che unisce il corpo del montepulciano all’eleganza del Sangiovese. Un best buy.

Paià 2016 , Rosso Piceno superiore Doc. 13,5 % vol. Montepulciano 70 %, Sangiovese 30 %. Vinificazione in acciaio poi affinamento in barrique usate solo per il Montepulciano. Il Sangiovese affina sempre in vasca di acciaio.

Colore Rubino carico e naso potente. Frutta rossa matura , caffè e una nota di spezia. Un vino dal corpo e dalla freschezza armoniose. Bello il tannino che si fa sentire senza invadere.

In bocca in prevalenza le durezze sulla parte morbida non stancano il palato. Un vino da pasto, da grigliata. Ottimo servito qualche grado sotto i canonici 18°.


AZIENDA AGRICOLA LE CANIETTE
La realtà della famiglia Vagnoni è sicuramente una delle più conosciute qui nel territorio Piceno. Giovanni Vagnoni, seguendo le orme del nonno prima e del padre poi, nei primi anni ’90 entra in azienda e inizia a introdurre tutte quelle novità tecnologiche ed imprenditoriali che hanno reso Le Caniette conosciute ed apprezzate sul territorio e nel mondo.

Attualmente l’Azienda si estende per un totale di 20 ettari di cui vitati circa 16. Siamo a Ripatransone (AP) in una posizione limitrofa e perpendicolare al mare, le vigne godono di molti elementi favorevoli che le rendono uniche perché particolare è il microclima, come lo è la conformazione del terreno, composto da depositi sabbiosi e conglomeratici di tetto (Pleistocene inferiore). Un’azienda certificata biologica dal 1996.

I MIGLIORI ASSAGGI
Lucrezia 2017 , Marche Passerina Igt. 12,5% vol. Bassa densità di impianto , siamo sui 400 ceppi per ettaro ma rese da 90/100 q/ettaro. dopo la vendemmia viene mantenuta per 10 gg a 0° C, sussegue diraspatura e spremitura molto soffice in assenza di ossigeno, pulizia dei mosti statica, fermentazione a temperatura controllata di circa 15 °C per circa 30 giorni. Affinamento in acciaio per circa 3 mesi.

E’ una Passerina diversa dalle solite scialbe e anonime che spesso si trovano in zona. E’ una bella bottiglia da ingresso di serata. Il colore è un giallo paglierino scarico ma il naso è intenso, ricco di frutta bianca fresca. In bocca sapidità e mineralità preparano la bocca e la stuzzicano. Discreta persistenza.

Chiediamo a Giovanni qual è quel tocco che rende questa Passerina una bottiglia che non passa inosservata e lui ci confida che dopo la spremitura del mosto fiore del pecorino circa 10/15 % della massa rimasta viene aggiunta alla Passerina conferendole quella struttura aromatica che per natura alla varietà manca. Piaciuta molto.

Morellone 2013 , Rosso Piceno Sup Doc. 13,5% vol ; 30% Sangiovese – 70% Montepulciano. Macerazione dai 6 ai 9 giorni in acciaio, affinamento e malolattica in barrique usate per 2 anni, un passaggio in cemento per fare la massa e poi ulteriori 2 anni di nuovo in acciaio. Terreno misto sciolto con presenza di calcare dai 280 ai 380 metri di altitudine.

Siamo sui 5000 ceppi per ettaro con rese di 60 quintali per ettaro. Rubino intenso, naso esplosivo caratteristico del montepulciano , marasca, prugna e spezia  fino al cacao. In bocca è rotondo con corpo e struttura ben bilanciata dalla freschezza del Sangiovese.

Armonico al palato. Tannino giustamente levigato. Bella persistenza. Un gran vino, che si gusta meglio con qualche anno di bottiglia che lo rende ulteriormente armonico e leggero alla beva.

Cinabro 2013 , Marche Rosso Igt. 13,5 % vol.  100%  Uva Bordò, (clone di Grenache) con piante di oltre 100 anni da un vigneto riscoperto poco distante dalla cantina. Vendemmia a fine agosto breve macerazione in tini di legno per 8 giorni, affinamento e malolattica in mezze barrique ( da 115 l) per 3 anni.

Poi sosta di un anno minimo in bottiglia. Cinquemila ceppi per ettaro a cordone speronato per una resa irrisoria di circa 12 quintali. Granato da manuale nel calice. Naso affascinante, mai sentita una china cosi netta.

Rabarbaro, chinotto, spezia, erba medicinale, poi agrume e un accenno di frutta rossa. E’ splendida l’evoluzione . In bocca è un fazzoletto di seta, entra elegante ed esplode. Sorso verticale dalla persistenza infinita.

La nota aranciata quasi da scorza essiccata ritorno sul finale donando freschezza e pulizia. Una bottiglia da bere con calma, senza fretta, anche fuori dal pasto. Una meraviglia.

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Cantine news

Cantina Santa Maria di Latina: una promessa per i vini laziali

LATINA – Piedi ben saldi a terra, idee chiare che trasformano in emozione il suo sguardo, parlando di storia e progetti futuri. Questo è Emanuele Fantinato, Direttore Generale della Cantina Santa Maria di Latina.

Ci troviamo a Borgo Santa Maria, frazione del Comune di Latina, nel basso Lazio. Fino agli anni cinquanta, il centro del borgo era chiamato “Gnif Gnaf”, onomatopea derivata dal rumore degli stivali nel fango, di cui la “Terra Redenta” dell’Agro Pontino era piena, vista la presenza di vaste paludi. Con la costruzione della chiesa, dedicata a Santa Maria, il borgo prese l’attuale nome.

Maturità aziendale, un’annata promettente, un investimento tecnologico importante, prezzi accessibili dei vini proposti per il valore potenziale che esprimono, fanno si che la Cantina Santa Maria, rinata con la nuova organizzazione solo due anni fa, possa diventare ben presto una realtà importante nel Lazio.

LA STORIA DELLA CANTINA
Prima cantina del Comune di Latina nasce nel lontano 1960 da un gruppo di viticoltori della zona con l’intento di favorire il progresso dell’agricoltura locale. La stessa si amplia fino al 1990 quando venne approvato un piano di miglioramento sia dei vigneti che tecnologico in cantina.

Il 2 Agosto 2016, Gianluca Mambrin, Alfredo Palombo, Dalilo e Matteo Zeoli, assieme ad Emanuele Fantinato, rivoluzionano la cooperativa fondando la società Santa Maria Srl, ponendo l’accento su una produzione qualitativa, selezionando e formando i coltivatori della zona nella cura e raccolta delle uve, valorizzando ciò che il terreno riesce a dare, esaltandone le caratteristiche.

Emanuele ha 41 anni e da venti è all’interno dell’Azienda, anche se la sua avventura è iniziata molto prima, quando già da bambino saliva assieme al padre sul trattore per dare una mano nelle vigne di proprietà. Insieme agli altri quattro soci viticoltori, hanno deciso di investire su questo progetto per ricercare e valorizzare  le proprie radici territoriali, condividendo il rapporto viscerale che li lega con la terra di Borgo Santa Maria.

LA CANTINA “OGGI”
“La trattativa con il cavatappi”, cosi definisce il percorso visitativo-degustativo dell’azienda, “perché la persona che vuole conoscerci oggi, ci conoscerà direttamente dal prodotto che stiamo creando, trovando all’interno tutte le risposte”, spiega Emanuele mentre camminiamo tra le cisterne in acciaio inox a temperatura controllata, dove degustiamo i frutti, ancora non filtrati, del loro lavoro che a breve verrà imbottigliato e commercializzato.

La struttura in cemento ha una capienza potenziale di 170.000 quintali, attualmente viene sfruttata per il 10% , questo per consentire un accurata ricerca ed un corretto taglio per le due linee produttive, una per la ristorazione, dall’elegante etichetta nera che comprende i prodotti Macchia Grande, Quadrato, Strada del Passo e il metodo Martinotti Santa Maria ed una per la Gdo.

Un layout che richiama l’area geografica del vigneto nativo, impreziosita da colori futuristici classici delle opere del XX Secolo, comprendente i vinificati in bianco come l’Astura, il Barabino, lo GnifGnaf ed il Valdoro e i rossi Terra Redenta, Piano Rosso e Cerreto.

Ottanta ettari di terra vitati, che si estendono dai piedi delle colline fino al mare, passando da trame di tufo a nord-est, per arrivare alla terra rossa, creta e sabbia a sud-ovest. Il tutto baciato dal Ponentino, tipico vento lieve occidentale che accarezza e coccola le vigne nel pomeriggio.

La Cantina Santa Maria si affida a diciotto conferitori della zona, di cui sette storici, con un età media dei vigneti di circa trent’anni, passando da coltivazioni giovani di tre anni fino a quelle di sessanta anni, il tutto seguito attentamente da tre enologi.

Terminiamo la visita nella Cantina Storica, un ambiente attualmente non utilizzato ma che rientra nei progetti futuri di valorizzazione, dove, già nel 1960, si producevano i primi vini a fermentazione controllata, al cui interno vi sono anche importanti botti in legno che regaleranno nelle prossime produzioni morbidezza ed eleganza.

LA DEGUSTAZIONE
Barabino IGP : E’ il vino storico della cantina, ampiamente conosciuto a livello locale. 11% gradi per l’annata 2016, nata dall’unione di Malvasia e Bellone. Giallo paglierino con riflessi verdognoli, sentori di agrumi, pesca e miele. Dalla beva leggera, equilibrata e fresca, perfetto in abbinamento con formaggi freschi locali.

Cerreto IGP : Annata 2016, Merlot in purezza, 11%, coltivato su terreni profondi ed argillosi. Rosso rubino intenso, sentori delicati di ciliegia, fragola matura. In bocca riempie il palato, con tannini morbidi e una leggera sapidità nel finale- Lo consigliamo, vista la moderata gradazione alcoolica , come aperitivo per una piacevole cena a base di carne.

Valdoro IGP : 2016, 11% per questa unione di Bellone e Trebbiano. Giallo paglierino, naso delicato, sentori di pompelmo, mandarino, pietra focaia. Al gusto è morbido, sapido, regalando note retronasali di fieno e mela gialla. Piacevole se abbinato con delle tagliatelle burro e salvia o delle preparazioni di pollame al forno.

Santa Maria IGP : Metodo Martinotti da uve Bellone, fermentazione a temperatura controllata e rifermentazione Charmat nella primavera successiva alla vendemmia. 11,5% Gradi, brut il dosaggio zuccherino colora il calice giallo paglierino con un elegante perlage fino e persistente. I richiami caratteristici del Bellone, come pompelmo, e pesca bianca, si uniscono alla crosta di pane appena sfornato. Piacevole equilibrio in bocca, morbido e persistente, valido sia come aperitivo ma anche come tutto pasto.

Strada del Passo IGP : Ritroviamo il Bellone, vitigno autoctono della zona, questa volta in versione ferma  per l’etichetta nera da Ristorazione. Annata 2016, 12,5% gradi, giallo paglierino intenso con riflessi dorati. Naso ricco di richiami fruttati, pompelmo, pesca Bianca, frutti esotici, agrumi e foglie di limoncello. In bocca è pieno, morbido, equilibrato, dalla mineralità importante ma mai invadente. Un vino che non disdegna di essere dimenticato qualche tempo in cantina. L’abbinamento con cruditè di pesce è un matrimonio obbligato.

Terra Redenda IGP : Taglio Bordolese di Merlot dai tannini dolci e dalla spiccata morbidezza e Cabernet Sauvignon, che regala corpo e struttura. 13% gradi per questo 2016. Rosso rubino intenso il calice che rivela sentori di ribes, mirtillo, violetta, bouquet di fiori e nel finale una nota balsamica di mentuccia selvatica. In bocca è pieno, ben strutturato, fresco. Ottimo con formaggi di gran stagionatura  o carni grigliate.

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Analisi e Tendenze Vino news

Vendemmia 2018, prime stime: +20%. Testa a testa con la Francia

Al via la vendemmia 2018 in Italia che si prevede con una produzione complessivamente in aumento tra 10% e il 20% con circa 46/47 milioni di ettolitri rispetto ai 40 milioni dello scorso anno, che per la grave siccità è stata tra le più scarse dal dopoguerra.

Un risultato praticamente in linea con la media dell’ultimo decennio. Tutta aperta la tradizionale sfida per la leadership produttiva mondiale, con un testa a testa tra Italia e Francia dopo il primato conquistato dal vino tricolore lo scorso anno.

Secondo le prime stime di Agreste, il servizio statistico del Ministero dell’Agricoltura francese la produzione dei cugini d’oltralpe dovrebbe essere di 46,8 milioni di ettolitri, il 27% in più dello scorso anno, anche se con preoccupazioni per muffe e marciumi in Languedoc e a Bordeaux.

Tutti dati emersi in mattinata in occasione della raccolta del primo grappolo di uva nell’azienda agricola Faccoli in via Cava a Coccaglio, in provincia di Brescia.

In una Franciacorta che, come da tradizione, inaugura l’inizio della vendemmia nel Nord della Penisola (praticamente in concomitanza con l’altra grande zona spumantistica, l’Oltrepò pavese), con i primi grappoli di uve Pinot e Chardonnay per la produzione di spumanti, le prime ad essere raccolte.

L’ANALISI COLDIRETTI
Come sottolinea Coldiretti, la vendemmia 2018, per effetto delle piogge che hanno caratterizzato la primavera e l’inizio dell’estate, si allunga con un ritardo di circa una settimana rispetto allo scorso anno.

In Italia le condizioni attuali fanno ben sperare “per una annata di buona-ottima qualità, anche se l’andamento della vendemmia dipenderà molto dal resto del mese di agosto e da quello di settembre”.

Da nord a sud della Penisola si parte tradizionalmente con le uve Pinot e Chardonnay in un percorso che prosegue a settembre ed ottobre con la raccolta delle grandi uve rosse autoctone Sangiovese, Montepulciano, Nebbiolo e che si conclude addirittura a novembre con le uve di Aglianico e Nerello.

La produzione tricolore secondo la Coldiretti sarà destinata per oltre il 70% dedicata a vini DOCG, DOC e IGT con 332 vini a denominazione di origine controllata (Doc), 73 vini a denominazione di origine controllata e garantita (Docg), e 118 vini a indicazione geografica tipica (Igt) riconosciuti in Italia e il restante 30 per cento per i vini da tavola.

Sul territorio nazionale, ricorda Coldiretti, ci sono 504 varietà iscritte al registro viti contro le 278 dei cugini francesi a dimostrazione del ricco patrimonio di biodiversità su cui può contare l’Italia che vanta lungo tutta la Penisola la possibilità di offrire vini locali di altissima qualità grazie ad una tradizione millenaria.

La novità di quest’anno è il ritorno dei voucher in agricoltura dopo l’approvazione definitiva del D.L.Dignità che secondo la Coldiretti potrebbe assicurare 25mila posti di lavoro occasionali a studenti, disoccupati, cassintegrati e pensionati durante la vendemmia che è il settore in cui sono stati in passato impiegati quasi la metà dei voucher agricoli.

“Ora però – conclude Coldiretti – occorre fare prestissimo per adeguare la procedura Inps affinché le novità sui voucher tanto attese dalle imprese viticole siano immediatamente disponibili ed evitare che la burocrazia rallenti o addirittura vanifichi gli sforzi fatti dal Governo e dal Parlamento”.

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Cantine news

Daniele Ricci, una vita al naturale per il Timorasso: “Così ho smesso di fare il casellante”

COSTA VESCOVATO – Che poi, la vita, è un po’ per tutti come un’autostrada: piena di caselli. Ti fermi. Paghi. Se ti va bene ti danno il resto. E riparti. Altrimenti rimani lì. Fregato. Un infinito susseguirsi di stop and go. Da una parte chi dà. Dall’altra chi riceve. Fino alla prossima sbarra abbassata.

I panni del casellante, Daniele Ricci, se li è tolti volentieri. Nei primi anni Duemila. Per inseguire – fuor di metafora – un sogno chiamato Timorasso. Oggi, il 55enne vignaiolo è tra i riferimenti assoluti della piccola Denominazione piemontese portata in auge negli anni Novanta dal pioniere Walter Massa. Siamo sui Colli Tortonesi, in provincia di Alessandria. Per l’esattezza a Costa Vescovato.

Un campanile segna il paesaggio, all’orizzonte, tra le vigne appese alle colline che si alternano al bosco. Qualche sali e scendi e un tratto sterrato che macchia le gomme dell’auto di bianco, prima di raggiungere Daniele Ricci all’Agriturismo Cascina San Leto. Il “giocattolo” di famiglia, che suggella una vita di sacrifici, aperto due giorni a settimana, solo nel weekend.

I vini di Ricci, che oltre a diverse tipologie di Timorasso produce Barbera, Croatina e Nebbiolo, sono tra i più “naturali” della zona. Ma senza alcuna bandiera ideologica: “Avrei aderito alla Fivi – chiosa il vignaiolo – soprattutto per via dell’amicizia con Walter. Ma ultimamente hanno un po’ perso lo spirito iniziale e preferisco starne fuori, come sto fuori da qualsiasi altra associazione”.

Nessuna aggiunta di solforosa in cantina e rispetto massimo per il vigneto, con trattamenti che si riducono a rame e zolfo. Ma non è sempre andata così per il vignaiolo, che arriva all’appuntamento in pantaloncini corti e canottiera bianca, dalla vigna.

“Quando facevo ancora il casellante e la viticoltura era un’attività per così dire ‘secondaria’, portata avanti con mio padre – racconta Daniele Ricci – si lavorava come lavoravano gli altri: con la testa nel sacco. Senza porsi alcun problema ‘filosofico’. Non dimentichiamoci che siamo gente degli anni Ottanta, che ha bruciato tutto quello che poteva bruciare”.

“Io sono figlio del consumismo più sfrenato. Mio padre Filippo lavorava al Consorzio agrario. E per lui la novità erano i diserbanti ultimo modello, tutti i prodotti di sintesi che pensava fossero il meglio”

“Poi – continua il vignaiolo – il mio fisico particolarmente sensibile ha iniziato a dare i primi segni di cedimento. Davo i sistemici e sentivo una pressione al petto. Davo il diserbante nel grano e stavo male, pur indossando il casco per non respirarlo”. Ma la vera svolta è avvenuta alla nascita di Matteo (nella foto, sotto).

Oggi ha 22 anni e studia brillantemente enologia. “Da piccolo girava per i nostri campi, attorno all’attuale agriturismo. E io lo riprendevo: non puoi, non puoi! Una volta mi ha chiesto: perché non posso uscire? E da lì mi è scattata una molla. Ho detto basta. Succeda quel che succeda, basta con questi prodotti”.

“Ci dicevano che tutto sarebbe seccato – continua Ricci – senza l’aiutino dei sistemici. Ma era una balla. Era terrorismo. Ma fare vini naturali, per qualcuno, voleva dire fare vini con difetti. E ancora adesso, in certi contesti, essere biologici è penalizzante”.

Per questo non è presente alcun bollino sulle etichette dei vini di Daniele Ricci. Eppure l’azienda (15 ettari di cui 10 vitati, per 40 mila bottiglie complessive) è certificata biologica dallo scorso anno, al termine dei tre anni di conversione.

GLI ESORDI AL SUPERMERCATO
Nel percorso che ha portato Daniele Ricci ai fasti attuali, con la presenza di alcune sue etichette nelle carte del vino di molti ristoranti stellati, c’è anche un periodo nella Grande distribuzione organizzata.

“Erano gli anni Novanta – ricorda Ricci -. Grazie all’intermediazione di un broker abbiamo iniziato a lavorare con Finiper, ovvero Iper, la Grande i, che aveva capito l’importanza di avere in assortimento prodotti locali, quando ancora non era di moda al supermercato”.

Punti vendita come quelli di Tortona, Rozzano e Serravalle Scrivia, aiutano Ricci a farsi conoscere. “Ma mi sono accorto che non era il mio mondo. E ne sono uscito piuttosto velocemente, in quattro o cinque anni”.

“Nello stesso periodo, un’altra piccola catena di supermercati di Roma, oggi assorbita da Conad, volle i nostri vini. Il proprietario aveva anche un paio di enoteche nella capitale e ci commissionò due etichette diverse per i due canali, per lo stesso vino: un Timorasso”.

“Siamo andati avanti così, ancora per qualche anno. Tutto faceva mucchio: si portavano a casa due soldini e si reinvestivano. Tanto lo stipendio da casellante c’era. Mia moglie era tranquilla. Un anno compri la terra, un altro il trattore, un altro lo cambi: sempre senza soldi. Adesso è comico parlarne, ma allora no”.

Una svolta “naturalista”, quella di Daniele Ricci, che si può definire completata dalla realizzazione di una tettoia, immersa nel vigneto, sotto alla quale sono state interrate tre anfore da 10 ettolitri.

“La mia idea, anzi la mia fissa, era quella di fare il vino nella vigna. Fondamentale l’incontro con Josko Gravner, da cui andai negli Novanta, proprio con Walter Massa”

L’uva, raccolta nei vigneti attigui, viene diraspata e vinificata a “Chilometro zero” nei tre recipienti di terracotta di fabbricazione toscana, originari di Impruneta (FI). Nasce così “Io cammino da solo“, il Timorasso in anfora di Daniele Ricci. Cento giorni di macerazione sulle bucce e 12 mesi di affinamento ulteriore in botti di castagno.

Un vino non filtrato, non chiarificato. Ottenuto ovviamente con lieviti indigeni, così come tutti quelli di Daniele Ricci e della sua Azienda agricola di Costa Vescovato. Il tempo, sotto a quella tettoia, sembra essersi fermato al 1929.

L’anno in cui i nonni del vignaiolo, Carlo e Clementina, cominciarono a coltivare i terreni di marne Tortoniane di San Leto. Una calamita che ha riportato Daniele Ricci tra il verde dov’era cresciuto. Strappandolo anno dopo anno dall’asfalto del’autostrada.

LA DEGUSTAZIONE
VsQ Metodo classico 2014 “Donna Clem”. Metodo classico base Timorasso, 36 mesi sui lieviti, dosaggio zero. La base è ottenuta dalla cuvée dalle uve di due cru: San Leto (vigne vecchie) e Giallo di Costa (90 giorni di macerazione sulle bucce).

Ad occuparsi della spumantizzazione è Dogliotti Vini 1870, cantina di Castagnole delle Lanze (AT) che ha nel suo portafoglio diverse realtà dell’Alta Langa. Le prove sono iniziate nel 2009, ma l’uscita sul mercato (con appena 2 mila bottiglie) risale al Vinitaly 2017.

Perlage fine, che stuzzica il palato in un gioco curioso con la “grassa” abbondanza del Timorasso. Il sorso, grazie al non dosaggio, mantiene tuttavia la verticalità che ci si deve aspettare dall’uvaggio. Finale amarognolo e salino, che racconta la fase fenolica di raccolta di un Timorasso spumantizzato ancora in fase di evoluzione.

Derthona 2016. Vinificato con macerazione di 3 giorni sulle bucce e affinamento di 12 mesi in botti di acacia da 700 litri. E’ il vino d’ingresso nell’universo di Daniele Ricci, che non a caso ha il colore dell’oro.

Un Eldorado chiamato Timorasso che qui mostra la sua faccia più giovane, ma non per questo timida. Darà il meglio di sé a partire dai prossimi tre-quattro anni, ma già oggi comincia a mostrarsi per quel che sarà.

Colli Tortonesi Doc 2013 “San Leto”. Eccolo qui, sua maestà il Timorasso. Vinificato con macerazione di 3 giorni sulle bucce, 12 mesi sulle fecce nobili e almeno 24 mesi di ulteriore affinamento in bottiglia.

Naso che si spinge a toni netti di idrocarburo che sono la cifra del vitigno. Un Timorasso giocato su una balsamicità che, per certi versi, ricorda quelli prodotti nell’unica sottozona della Denominazione, la Val Borbera (600 metri slm). Conservando tuttavia gli sbuffi florali tipici della media collina (300 metri slm).

Un palato che si diverte a esaltare a corrente alternata salinità e grassezza balsamica, evidenziando fasi larghe (quasi morbide) e fasi acide (dure) del sorso. Sinonimo di un nettare che migliorerà ulteriormente in vetro, ma solo per chi avrà il coraggio di conservarlo in cantina.

Giallo di Costa 2013. Il vino a cui è più affezionato il produttore. Timorasso vinificato con macerazone di 90 giorni sulle bucce a cappello sommerso e 24 mesi di affinamento in bottiglia.

Ci sentiamo di concordare con Ricci, perché quest è un vino che fa facilmente innamorare di questa straordinaria uva a bacca bianca autoctona dei Colli Tortonesi.

Un Timorasso semplice, tutto sommato. Giocato su intensi sentori erbacei, agrumati e di radice di liquirizia, con ottima corrispondenza naso-bocca. Pregevole la chiusura, carica e salina.

Rispetto 2017. Novanta per cento Sauvignon Blanc, completato da un 10% di Riesling italico. Tra le sperimentazioni del vignaiolo Daniele Ricci, anche questa, riuscitissima. Dimenticatevi, però, i tipici tratti del Sauvignon.

Soprattutto al naso, l’ottimo grado di maturazione di uve alla raccolta ha giocato in maniera fondamentale nella riuscita di un bouquet davvero seducente, quasi femminile. Si tratta, di fatto, del vino dalla beva più “easy” di Daniele Ricci.

Un complemento di gamma che non snatura la filosofia del produttore piemontese, dal momento che la macerazione di 20 giorni sulle bucce resta parte integrante della vinificazione.

Colli Tortonesi Doc 2012, Io Cammino da solo. Vinificato con macerazione di 100 giorni sulle bucce in anfore di terracotta interrate e ulteriore affinamento in botti di castagno, per 12 mesi. E’ l’orange wine di casa Ricci. Il vino, che al momento, sorprende di più.

Al naso l’impronta ossidativa è netta, ma integrata alla perfezione in un corredo di . Netti anche i sentori di legno, che contribuiscono a rendere avvolgente, anche al palato, questo orange di carezzevole potenza.

DUE NOVITA’ IN ARRIVO
In quel laboratorio a cielo aperto che sono le vigne di Daniele Ricci, sono due le novità in arrivo. La prima sarà “C.C.C.”, che sta per “Come un Cane in Chiesa”. “E’ come mi hanno fatto sempre sentire, anche prima di trasformarmi in una specie di santone. Io ero, sono e resterò sempre un cretino: un uomo semplice!”, spiega il vignaiolo.

Vendemmia 2011 per il Timorasso “C.C.C.”, che sarà imbottigliata a febbraio. Si tratterà del capitolo 2, dopo “Rebus”, l’etichetta enigmatica che riportava gli anni di nascita dei componenti della famiglia Ricci (in quel caso di trattava di un Timorasso in magnum, dimenticato in cantina, al buio completo, per 8 anni).

La seconda novità si tinge di rosso. Sarà un Nebbiolo particolare. “Una prova”, che aspira a sondare le capacità dei Colli Tortonesi di produrre etichette in grado di fronteggiare le Langhe, in termini di finezza. Un’evoluzione, insomma, dell’attuale Nebbiolo “San Martino” di Daniele Ricci.

L’affinamento in 14 barrique delle vendemmie 2016 e 2017 è tuttora in corso: il vino non sarà messo in commercio prima di 4 anni. Per assaggiarlo, dunque, bisognerà attendere il 2020. Non resta che aspettare.

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Cantine degustati da noi news vini#02

La Boschera di Eros Zanon: da vitigno dimenticato a chicca enologica

TREVISO – Se non fosse per quel tipico intercalare veneto e per un altro paio di dettagli, Eros Zanon potresti scambiarlo per uno dei personaggi del Signore degli Anelli. Gli mancano l’ascia e l’elmo del nano Gimli. Ma il coraggio e la dedizione con cui sta salvando dalla scomparsa il vitigno Boschera sono degni del romanzo di Tolkien.

Dimenticatevi di Arda e della “Compagnia dell’Anello”. Siamo in Veneto. Nelle terre, piuttosto, della “Compagnia del Prosecco”. Zanon ha mappato alcuni vigneti dove è ancora presente questo autoctono. Sei ettari complessivi, in provincia di Treviso. Una rarità assoluta. Nel cosmo gleracentrico di Conegliano.

Cinque filari sulla collina. Una ventina più in basso, accanto alla Glera. A Fregona, la concentrazioni più massiccia di Boschera (pari a un ettaro) si trova nella splendida proprietà di Giuseppina Marangon.

A dominare i 10 ettari di vigneti, una dimora di fine Settecento. Nelle giornate in cui il cielo gioca a fare il poeta sol sole, da qui, si scorge l’Istria all’orizzonte. Giuseppina, rimasta vedova, vende l’uva della tenuta a diversi produttori della zona.

“Avere la Boschera è sempre stato un problema”, ammette oggi. Le uve, oltre a dar vita al Colli di Conegliano Docg Torchiato di Fregona – un passito bianco da Glera, Verdisio e Boschera – finiscono da sempre (ma non si può dire) nel calderone della produzione del Prosecco. Pagate però molto meno.

Se per un chilo di Glera viene riconosciuto oggi in media 1,50 euro, la Boschera – secondo indiscrezioni – vale 15-20 centesimi. “Io comunque non l’ho estirpata, nonostante i numerosi inviti a farlo – sottolinea Giuseppina Marangon – perché credo sia un patrimonio locale da preservare. E ho fatto bene, perché da qualche anno se ne occupa Eros!”.

GLI ESPERIMENTI

I primi esperimenti di Zanon, che nella zona alleva 7 ettari complessivi tra Glera, Pinot Grigio e Merlot, risalgono al 2012. Il vignaiolo trevigiano realizza le prime 800 bottiglie di Boschera.

“La vinificazione è avvenuta praticamente alla cieca – spiega il vignaiolo – ed è venuto fuori un prodotto dalla beva facile, che mancava però di spessore”. Il secondo anno, Zanon decide di effettuare un leggero appassimento in pianta.

L’obiettivo è chiaro: concentrare gli zuccheri e dare più orizzontalità al calice, andando a contrastare la nota verticale acida tipica del vitigno. “Ne è venuto fuori un mini capolavoro”, chiosa Zanon.

Nel 2014 le eccessive piogge rovinano il raccolto e la vinificazione in purezza della Boschera subisce una battuta d’arresto. Nel 2015, la svolta. Zanon scopre l’ettaro di Boschera nella tenuta di Giuseppina Marangon. I due si accordano per quella che, ad oggi, è l’annata col maggior numero di bottiglie di Boschera: circa 10 mila.

Un terzo dei grappoli appassisce in pianta, come nel 2013. “Un bel vino, molto particolare – assicura Zanon -. Un successo nella ristorazione locale, che assorbe praticamente tutta la produzione”. Una sorta di “Col Fondo” prodotto con la Boschera, che fa concorrenza al solito Prosecco.

IL FUTURO DELLA BOSCHERA
Annata completamente diversa la 2016: pianta mai in stress, alcol a 12,40 (naturale!) e un’acidità sopra i 6 in bottiglia (7,60 a raccolta, parametro da incorniciare). Un vino buono oggi (fresco, vivo, con sentori vendemmiali verdi in fase di attenuazione) che si presta a un ottimo affinamento in vetro, almeno nell’arco del prossimo anno e mezzo.

Non filtrato, non chiarificato e con una piccola aggiunta di solforosa, nello stile Zanon. Si arriva così alla vendemmia 2017 (80% di raccolto perso per via della grandine) che è ancora in vasca: 20 quintali complessivi, che saranno imbottigliati ad agosto (2.500 bottiglie).

Numeri molto variabili, dunque, vista l’esiguità degli ettari di Boschera. Ma il “movimento” creato da Eros Zanon non è passato inosservato in zona. E così, anche altri produttori stanno vinificando in purezza la Boschera. Tra questi la Cantina produttori di Fregona.

“Il mistero di questa uva – spiega Zanon – è che è presente solo nel Comune di Fregona. In altre zone, anche limitrofe, non esiste. Non è stato facile arrivare ad oggi: ma non perché io sia un genio, ma perché nessuno ha mai pensato prima a dargli valore”.

IL PROSECCO ZANON: ANZI, IL BIANCO IGT
Da sola, la Boschera di Zanon vale una visita ai colli di Conegliano. Ma anche il Prosecco di questo coraggioso vignaiolo – fuori dalle mode del vino e concentrato solo sulla valorizzazione dei suoi vigneti – è una vera e propria chicca. Di fatto, non è un Prosecco, ma un “Vino frizzante Bianco col fondo“, Colli Trevigiani Igt.

“Troppo diverso dal Prosecco del giorno d’oggi per pretendere di essere tale, anche in etichetta”, chiosa Zanon. Eppure, in bottiglia, non finisce che Glera prodotta nei diversi appezzamenti di proprietà, ben 11, a cavallo tra la zona storica della Docg (dove sono presenti viti di oltre 100 anni) e quella della Doc Prosecco.

Sono le macerazione sulle bucce, i lieviti indigeni e la mancata aggiunta di chiarificanti a rendere diverso (e speciale) il “Col fondo” di Zanon. Diverso dal Prosecco che tutti conoscono, perché punta dritto alla sostanza: un calice verticale, che conserva ricordi della caratteristica aromaticità della Glera, senza cadere nel tranello della piacioneria.

Ed è sempre la Glera, assemblata con un 30% di Pinot Grigio, a dare vita al rosato “Lo Diverso“. La vendemmia 2017, non ancora in commercio, ha bisogno di un’altra decina di mesi di bottiglia per arrivare al top della forma. Ma si fa già apprezzare, sfoderando non solo un colore stupendo, ma anche un naso ampio.

Dominato da una Glera che, col passare dei minuti, lascia sempre più spazio al Pinot, vinificato in botti di rovere di media tostatura. Già pregevole il finale salino, unito al frutto, lunghissimo. Un rosato di quelli veri, dall’anima pura. Forse più un rosso travestito da “bianco” che il contrario. Chapeau.

Il rosso vero, del resto, esiste. Anche se Zanon lo considera quasi alla stregua di “un gioco”. Il calice delle vendemmie 2015 e 2013 del Merlot allevato a Cison di Val Marino mostra i riflessi dell’andamento delle due annate, nel rispetto del pittore verista che ha dato loro vita, in formato Magnum.

Trentaquattro mesi in tonneau esausta per la vendemmia 2015, tuttora in affinamento in vetro. Naso morbido ma sincero che sfiora le note di toffee, oltre a un frutto succoso e a una mineralità salina che accresce il desiderio di un sorso pieno, largo.

“Fare Merlot qui è come sperare di far banane a Milano”, dice Eros Zanon sottolineando l’unicità della sua etichetta “diversamente bianca”, nella terra del Prosecco: l’unica nel raggio di 10-20 chilometri.

Ma l’evoluzione della vendemmia 2013 dimostra che la Boschera non è l’unica scommessa vinta dal vignaiolo di Follina. Quarantadue mesi di barrique, per un vino “che non sembrava mai pronto”.

Scalpita ancora oggi, nel calice, questo Merlot. Un altro vino rispetto al 2015, soprattutto per via di un naso meno malizioso. E in bocca, esattamente quello che ci si deve aspettare da un rosso di Zanon: dinamicità pura, libera da condizionamenti.

Un Merlot anarchico “Cison”, senza fronzoli. Vero. Splendido. Ennesima sintesi del lavoro di un produttore pronto a stupire tutti, di vendemmia in vendemmia. Unico alleato, il meteo. E la sua terra di viticoltura eroica, segnata dal sudore. Patrimonio dell’umanità. Anche senza il timbro dell’Unesco.

AZIENDA AGRICOLA ZANON di Zanon Eros
Via Peroz 1 – 31050 VALMARENO DI FOLLINA (TV)
TEL: +39 0438 971372

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Cork Trip in Portogallo: il sughero, dal campo alla bottiglia

Ci infiliamo il cavatappi, lo estraiamo, lo annusiamo e lo buttiamo via. Ma vi siete mai chiesti cosa c’è dietro a un tappo? Dietro quei pochi centimetri di sughero che proteggono il nostro vino e gli consentono di evolversi?

WineMag.it ha avuto l’opportunità – unica testata italiana – di partecipare al “Cork Trip” organizzato negli stabilimenti portoghesi di Cork Supply, azienda americana che è tra i leader mondiali nella produzione di tappi in sughero. Dietro un tappo, insomma, c’è un mondo. Anzi più di un mondo.

Il mondo della coltivazione, del rispetto per i cicli naturali e dell’ecosotenibilità. Il mondo della Ricerca & Sviluppo, per raggiungere gli “zero difetti”. Il mondo industriale, l’approccio “lean”, per garantire efficienza e continuità. Mondi che si legano ed intrecciano per coprire l’intero ciclo di produzione del tappo in sughero.

LA RACCOLTA
Da 20 a 25 anni perché una nuova piantina produca sughero, anche se la prima raccolta non da sughero utile alla produzione di tappi. Da lì in poi le raccolte avverranno ogni 9 anni (il sughero cresce al ritmo di 3 millimetri l’anno) ma solo dalla terza raccolta il sughero ha le caratteristiche migliori. Morale: oltre 40 anni prima che una pianta dia sughero ottimale. Ma non solo.

Il sughero non è tutto uguale. Il sughero è come la nostra amata vite: sente il terroir. Ecco quindi che terreni più sabbiosi, drenanti ed ossigenati danno sugheri di qualità superiore.

Terreni più compatti trattengono maggiore umidità e danno sugheri più soggetti a problematiche come il TCA: il Tricloroanisolo, la sostanza responsabile del sentore “di tappo”. Ecco perché le foreste di sughero vengono accuratamente selezionate e monitorate.

Come la “Cork Forest“, nella regione del Montado, Sud del Portogallo. Qui, Cork Supply può contare su un modernissimo stabilimento di 21 mila metri quadrati, nel cuore della più estesa area del mondo di querce da sughero.

Il sughero subisce qui i primi trattamenti, prima di essere trasferito per completare il suo ciclo industriale nelle altre due sedi, a São Paio de Oleiros e Rio Meão, nel Nord del Portogallo.

All’avanzato livello tecnologico degli stabilimenti fa eco una raccolta che, nella Cork Forest del Montado, avviene rigorosamente in maniera manuale. Tanto perché non è facile meccanizzarla, quanto perché sta alla mano e all’abilità dell’operatore decorticare correttamente ogni singola pianta.

Selezione del raccolto sia in foresta che in stabilimento, “cottura” a vapore per allargare i pori e reidratazione del legno completano la prima fase dell’affascinante ciclo produttivo del tappo da sughero Cork Supply.

LA PRODUZIONE

Ciò che sembra semplice e in realtà non lo è. Ricavare un tappo, sia esso “pieno” che “agglomerato”, non è così immediato come sembra. Le fasi sono molte, dal taglio alla finitura attraverso numerose operazioni di controllo visivo, sia automatiche che manuali (nessuna macchina è efficace quanto l’occhio umano), lungo la produzione.

Cork Supply adotta un puro approccio “lean“. “6S”, “Spaghetti Chart”, “Value Stream Mapping”, per citare i paroloni. In pratica, una realtà dove ogni operazione è pensata, studiata, analizzata e realizzata in ottica di totale efficienza, in cui il primo obiettivo è la qualità finale del prodotto.

IL CONTROLLO

Non solo attenzione in foresta. Non solo grande capacità nella gestione produttiva. Ciò che davvero caratterizza il main player di questo mercato è la grande attenzione alla Ricerca & Sviluppo, per identificare tutte le possibili cause di difetto e contaminazione.

Conoscenza profonda del TCA e dei suoi meccanismi che hanno portato a sviluppare sistemi di controllo (Innocork, DS100, DS100+) in grado di garantire che ogni tappo di ogni lotto sia controllato e privo di difetti al punto da fornire al cliente la garanzia del Bottel Buy Back (riacquisto della bottiglia a prezzo consumatore) in caso di tappo difettoso.

Ma in cosa consistono i controlli? In estrema sintesi ogni tappo viene controllato – ovvero annusato – da tre persone adeguatamente formate: se solo una delle tre sente un difetto, l’intero lotto di quel tappo viene appartato ed eliminato. Non riciclato. Eliminato!

Riconoscere i contaminanti è meno semplice di quanto possa sembrare. Abbiamo potuto partecipare a ben tre panel per il riconoscimento dei difetti. Un panel costituito da tre batterie in cui due campioni di vino vanno valautati contro un campione di riferimento. Uno in cui il campione di riferimento fornisce il riscontro a sette campioni di vino potenzialmente difettato da identificare.

Il terzo in cui riconoscere l’eventuale presenza di difetto nei campioni di ben nove lotti di tappi (tecnica DS100, cioè Dry Soak 100. Tappi leggermente umettati per poter evidenziare al naso umani i sentori).

Per i tre panle i difetti sono presenti in concentrazioni da 20 ppt (part per trilion = una molecola di difetto ogni milione di milioni di molecole “sane”) giù fino ad 1 ppt.

Si impara così che il “difetto” non è solo il famigerato TCA, ma che il TeCA, il TBA, il TCP (precursore del TCA) che danno problemi simili (a volte il naso non distingue la differenza) ma hanno origini molto diverse. O anche presenza di etanolo, di geosmine, ed eccessivi sentori floreali.

Consigliamo a tutti gli enoappassionati di approfondire il discorso sui difetti da tappo. Solo così, guardando il “turacciolo”, si riuscirà a fermarsi a pensare che quel semplice cilindro (o fungo) di sughero ha almeno 40 anni. Ed è lì perché in molti – almeno se si tratta di un sughero Cork Supply – ci hanno messo la faccia. Anzi, meglio: il naso.

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Beer Tasting al Birrificio Italiano: una gamma che convince

LURAGO MARINONE – È il primo microbirrifcio della Lombardia. Forse il primo d’Italia, o poco ci manca. Una pietra angolare nella storia della birra Italiana. Birrificio Italiano, a Lurago Marinone (CO), fondato nell’aprile del 1996, può ormai vantare una lunga tradizione. E una vasta gamma di birre.

Come preannunciato sul nostro social di riferimento, lo staff di Vinialsupermercato.it ha degustato ben 13 etichette diverse de “Il Birri“, come viene ormai soprannominato questo tempio della spillatura Made in Italy. Ecco come è andata.

LA DEGUSTAZIONE
Tredici birre per coprire un’ampia gamma di profumi, sapori, persistenze. Andiamo quindi per livelli per raccontarvi l’arcobaleno delle sensazioni.

Partiamo con le più semplici ed immediate. Delia (4,3%) pils poco amara dai profumi erbacei e corpo morbido e scorrevole. Ottima come entrée, ci prepara alle successive Tipopils (5,2%) ed Imperial Pils (5,8%).

Se la prima richiama immediatamente l’immediatezza delle Pils ceche, la seconda ha più corpo e una più marcata nota floreale. Bibock (6,2%) è leggermente ambrata e molto nota fra gli appassionati di Birrificio Italiano: un must.

Note di frutta e spezie al naso e una bocca di medio corpo, tendente alla dolcezza del miele che cede il passo all’amaro del luppolo solo sul finale. La sorpresa si chiama Fleurette (3,8%). La birra che non ti aspetti.

Profumatissima di fiori ed agrumi, con nota di pepe appena accennata. Leggermente acidula in bocca stimola il palato invitando subito ad un nuovo sorso. Acidità e persistenza floreale che si rincorrono rendendola pericolosamente beverina.

Segue il triplete delle birre che non puoi dimenticare. Nigredo (6,5%) gioca il suo fascino su di un’abbondante luppolatura, il cui amaro ben lega con i malti tostati richiamando note di caffè e cioccolato pur rimanendo molto scorrevole.

Amber Shock (7,0%) è ricca e complessa, uno dei migliori assaggi della serata al Birrificio Italiano. Agrumi, frutta a polpa bianca ed esotica, leggera nota di frutta secca e di tostatura. Di corpo, riempie il palato e lo accarezza con una buona persistenza. VuDù (6,2%) è più morbida e leggermente speziata.

AT Pils, Alba  e Grano Giusto si somigliano un po’. Fragranti e scorrevoli. L’outsider della batteria è Asteroid 56013 (6,6%). Molto aromatica, riempie il naso con note di frutta gialla ed agrumi, dolcezza di resina e una leggera nota biscottata (probabilmente dovuta alla scelta dei malti).

In bocca è di corpo pieno, con una spiccata e fresca nota amaricante che pulisce il sorso e gioca a nascondino con le altre note, durante la lunga persistenza. Una birra che da sola vale la visita al Birrificio Italiano di Lurago Marinone.

Chiude il cerchio Sparrow Pit (10%), l’unica in bottiglia. Ricca morbida e dolce. Ricorda la pasticceria secca e la dolcezza di certi vini passiti. Una birra che scalda coi suoi sentori di frutta matura, ottima per chiudere una degustazione o come fine pasto.

L’ABBINAMENTO CIBO – BIRRA
Abbiamo giocato, al Birrificio Italiano di Lurago Marinone, anche con gli abbinamenti cibo – birra. Al tavolo, oltre all’immancabile antipasto misto, abbiamo chiesto piatti più elaborati, per rendere ancora più sfidante la prova delle birre in gamma. Com’è andata? Molto bene.

Per la tartare (carne cruda di fassona, accompagnata da diverse salse) abbiamo scelto Amber Shock. Per lo stinco di maiale cotto nella Bibock avremmo potuto scegliere benissimo la stessa birra.

Ma per evitare problemi legati alla concentrazione dei suoi aromi in cottura, abbiamo optato per una più corposa Asteroid. Scelta che si è rivelata azzeccata.

Ripaga anche l’abbinamento della Imperial Pils al trancio di tonnetto in crosta di pistacchio (a proposito, chapeau!): una doppio malto delicata e profumata che non copre il pesce, appena scottato. E si lega, con la sua aromaticità pacata, alle note dolciastre del pistacchio.

A cura di Giacomo Merlotti e Davide Bortone

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Champagne, caso Palmer: Bruno Paillard contro tutti per la difesa del marchio

Bruno Paillard fa sul serio. Sono confermate le sue dimissioni da presidente della Commission protection de l’Appellation, un tempo nota come Commission Appellation et Communication Champagne (CACC). Un ruolo che Paillard ricopriva da 17 anni.

La decisione è dovuta all’accordo di distribuzione negli Usa sottoscritto dalla cooperativa francese Champagne Palmer con TRU Estates and Vineyards, divisione di vini pregiati di Constellation Brands che nel suo portafoglio ha anche l’italiana Ruffino Estate.

Tru Estate è una delle aziende contro le quali Paillard, nel suo ruolo di presidente della Commissione di protezione della denominazione Champagne, si è scagliato negli ultimi anni per via della commercializzazione di migliaia di bottiglie di spumanti californiani col marchio “Champagne”.

Si parla di qualcosa come 80 mila bottiglie, distribuite localmente da Constellation Brands, ma anche da Korbel ed E & J Gallo Winery. Un “fake” che ha dell’incredibile, reso possibile dalla mancanza di accordi internazionali di protezione del brand, tra Europa e Stati Uniti.

Paillard, che ha comunicato le sue dimissioni durante un’intervista al quotidiano francese l’Union, non ha usato mezze parole contro la cooperativa francese Champagne Palmer.

“E’ una pugnalata alle spalle”, ha detto. “Non sarebbe una perdita per lo Champagne se Palmer scomparisse, trascinata nella sua pazza arroganza. Non è indispensabile e farebbero bene a rendersene conto”.

Nei 17 anni di presidenza della CACC, il produttore di Reims ha speso energie infinite nella difesa del marchio Champagne, incontrando politici, deputati e senatori americani. “Tutto questo per essere poi traditi”, ha chiosato.

Le dimissioni saranno effettive dal 25 luglio e difficilmente potranno essere ritirate. L’accordo tra Champagne Palmer e TRU Estates and Vineyards è stato siglato il 23 maggio a San Francisco. Oltre un mese di trattative, lontane dai microfoni, non sono servite a Paillard per far cambiare idea alla cooperativa Palmer.

“Non eravamo lontani dal raggiungere un accordo con almeno una delle aziende californiane che commercializzano spumanti col nome di Champagne – ha evidenziato Paillard – ma con questo tradimento abbiamo perso credibilità”.

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Germania, boom di vigneti in città. Svolta green a Colonia, Berlino e Norimberga

COLONIA – Piccole vigne nel bel mezzo delle città. E’ il nuovo trend che sta segnando in maniera spettacolare le linee di città tedesche come Colonia, Berlino e Norimberga. Ai contorni grigi dei palazzi risponde in diversi quartieri il green dei vigneti.

Anche così, il vino, conquista fette di mercato importanti nelle scelte dei tedeschi, sempre più avvezzi al nettare di Bacco. Sono le colonne del Frankfurter Allgemeine Zeitung a dare risalto alla brillante idea di Thomas Eichert, tedesco di Colonia che ama definirsi “enologo cittadino autodidatta”.

Dopo una lunga battaglia con le istituzioni locali è riuscito a farsi dare il permesso di impiantare le viti in diverse aree della città del nord della Germania. Nota, tra l’altro, per essere la base degli spostamenti per molti ospiti della ProWein Trade Fair di Düsseldorf, la fiera del vino più importante al mondo, a livello di business.

Oggi non è difficile trovare Thomas Eichert mentre rassetta il terreno o fissa nel terreno pali di sostegno per le viti, in 30 punti diversi di Colonia. Come nella zona della Chlodwigplatz, dietro alle mura della pittoresca porta di Severinstorburg.

Quella che sembra un’idea rivoluzionaria, è invece connessa a doppio filo con la storia di Köln. Sono numerose le testimonianze della presenza di vigneti nella città, sin dal XVI Secolo.

Le aree coltivate a vite all’interno delle mura cittadine, su una copia colorata del Mercatorplan nel Museo del vino di Colonia, sono estese quasi quanto case, chiese e monasteri. Nel tardo Medioevo, infatti, in Germania c’erano circa 300 mila ettari di vigneti. Circa tre volte quelli attuali.

Stessa storia a Norimberga, dove a Patrik Fritz è stato concesso il permesso di allevare la vite di fronte a casa sua, nei pressi del castello. Purché l’attività sia svolta “a titolo gratuito”. Fritz, che tutti in zona conoscono come appassionato bevitore, non si è lasciato scappare l’occasione.

Ma è andato oltre, piantando tra le varietà anche il vitigno Adelfränkisch: un autoctono rarissimo, “in segno di protesta contro la corrente principale del vino in Germania”. Fritz, non a caso, si definisce un “enologo hipster“, in contrapposizione ai colleghi “più vecchi e più seri”.

In Germania, l’esplosione dei vigneti urbani non è relegata soltanto alla buona volontà dei singoli. L’Associazione Weingarten di Berlino ha 35 membri e mantiene nel mezzo del distretto Pankow, 650 piante di Riesling e 200 viti di altre varietà.

“Una pazza idea che non si adatta al cento per cento al contorno urbano”, chiosa il presidente Frank Pietsch.

Per la vinificazione delle uve e l’imbottigliamento, i soci Weingarten (letteralmente “Giardino del Vino”) si affidano a una nota cantina della zona sassone, la Weingut Schloss Proschwitz di Meißen.

In un’altra città tedesca, Fulda, situata a Nord Est di Francoforte, l’associazione presieduta da Barbara Hermann si occupa di tenere in vita la tradizione vitivinicola  frati francescani del chiostro Frauenberg, che altrimenti sarebbe andata perduta.

Centoquaranta i membri di questo “Club dell’Uva”, che produce vino anche per 150 cittadini della zona, oltre a organizzare tour guidati per i turisti. Un’attività di comunicazione studiata nel dettaglio e di successo.

COME A PRAGA
Eppure, il fenomeno sembra interessare anche altre aree d’Europa. Un’altra città dove i privati tengono viva la viticoltura urbana è Praga. Non a caso, il nostro wine tour in Moravia ha interessato anche la capitale della Repubblica Ceca, ricca di veri e propri monumenti al vino, proprio accanto a quelli più conosciuti.

http://www.vinialsupermercato.it/praga-valtice-wine-tour-vini-vigneti-della-repubblica-ceca/

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degustati da noi news vini#02

Sei rosati del Sud da provare: Basilicata, Etna e Puglia

Sei rosati del Sud Italia da provare a tutti i costi, ma mica per caso. Il concetto è semplice, ma occorre impegnarsi per metterlo in pratica: “usare” l’estate per scoprire il vino rosato. E berlo, poi, tutto l’anno.

Già. Perché il rosato come “vino dell’estate” è un retaggio che, ormai, possiamo metterci alle spalle. Anche se la tendenza è quella di scimmiottare i francesi, soprattutto a livello cromatico, molti produttori del Bel Paese riescono a mettere nel calice dei rosé dotati di grande personalità

Meritevoli di accompagnare la tavola degli italiani, e non solo, trecentosessantacinque giorni l’anno. Il suggerimento è quello di giocare con gli abbinamenti. Sbagliate pure. Al massimo, un buon rosato, sarà buono anche il giorno dopo, per accompagnare l’aperitivo. E allora ecco il viaggio ideale nord-sud, dalla Basilicata alla Sicilia dell’Etna.

Sei etichette presenti a Radici del Sud 2018, in passerella giovedì 28 giugno all’Osteria del Pisello di Fano (PU), nelle Marche. Sei vini diversi tra loro. Ma ognuno in grado di dire la sua, come rosé in quanto tale. Né un rosso sciacquato, né un bianco carico. Semplicemente vini dotati di un’anima propria. Rosata.


Puglia Igt Primitivo 2017 “Teres”, Fatalone (Gioia del Colle, Bari)
“Autentico. Biologico. Sostenibile”. I tre aggettivi scelti dalla famiglia Petrera-Orfino per sintetizzare la filosofia aziendale si riflettono alla perfezione sul Primitivo rosato “Teres”. Un rosato di spessore, luminoso sia al naso sia al palato. Perfetta materializzazione nel calice del colore carico, che non lascia spazio a interpretazioni commerciali o sconfinamenti d’Oltralpe.


Salento Igp Susumaniello 2017 “Elfo”, Apollonio Vini (Monteroni di Lecce, Lecce)
Tutta la grassa voracità che sa regalare in Puglia il Susumaniello, unita all’eleganza tipica dei vini Apollonio. Mettici pure una buona vena sapida, a giocare con la freschezza. E nel calice ti rendi conto d’avere un rosato perfetto.


Igp Murgia Rosato Nero di Troia 2017 “Dandy”, Mazzone (Ruvo di Puglia, Bari)
“Dandy” fa parte della linea “Trendy” di Mazzone, assieme a “Trousse”. Bello constatare che oltre al marketing, ci sia di più. Ovvero tutto quello che serve a un rosato degno di tale nome, anche se qui col colore si strizza l’occhio al mercato. Un rosato che gioca sull’equilibrio perfetto tra un’acidità spiccata e una morbidezza glicerica setosa.


Basilicata Rosato Igt 2017 “Angelina”, Tenuta Le Querce (Barile, Potenza)
Non ne sbaglia una, Tenuta Le Querce. Siamo nello splendido Vulture, terra d’elezione dell’Aglianico, qui in versione rosé con riflessi “cipollé”. Il bello è che la sostanza organolettica rimane quella del vitigno. Un rosato tattile, da masticare, croccante. Al contempo succoso e sapido. Il vino prende il nome da Angelina Pietrafesa, figlia dei proprietari di Tenuta Le Querce.


Matera Doc Rosato 2017 “Akratos”, Battifarano (Nova Siri, Matera)
Il Primitivo in Basilicata? Ebbene sì. E pure Doc. La lunga macerazione sulle bucce (24 ore) conferisce al nettare il peso specifico dei rosati con gli attributi. Frutta rossa al naso e al palato, unita a puliti richiami vegetali e a una leggera speziatura. Solo 3.500 bottiglie, per una vera e propria chicca qualità prezzo.


Etna Doc Rosato 2017 “Millimetri”, Feudo Cavaliere (Santa Maria di Licodia, Catania)
Chiudiamo questo viaggio sull’Etna, terra a noi cara e oggetto di un recente tour. Siamo sul versante Sud. Nerello Mascalese in purezza, allevato a quasi mille metri d’altezza, sulle pendici della Montagna. A un naso piacevole, di frutta matura, risponde un sorso serio, minerale, di scheletrica essenzialità. Un rosé che colpisce per la precisione e pulizia del frutto rosso tipico del Mascalese.

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Montalcino: la Toscana di Mastrojanni e Biondi Santi

Mastrojanni e Biondi Santi. Due aziende che, negli anni, sono divenute “sinonimo” di Montalcino e di Brunello.

Abbiamo visitato i due storici produttori, capaci di dipingere come pochi la Toscana dei rossi di qualità.

MASTROJANNI
L’azienda agricola Mastrojanni nasce nel 1975 a Castelnuovo dell’Abate, estremo sud-est del comune di Montalcino, in provincia di Siena.

Novanta ettari, di cui 25 vitati, 14,5 dei quali atti alla produzione di Brunello di Montalcino. Vigneti di età compresa tra gli 8 e i 35 anni.

Oltre al Sangiovese (fra cui i cru Loreto e Schiena d’ Asino) troviamo piccole quantità di Cabernet Sauvignon e Moscato, che assieme a un tocco di Malvasia di Candia e Sauvignon dà vita Botrys Moscadello di Montalcino (vendemmia tardiva).

L’altitudine varia dai 150 ai 420 metri sul livello del mare, con esposizione delle vigne a sud-est. Ripide colline, più o meno scoscese.

Il terreno è composto da argille, ciottoli, tufi e arenarie e risente degli influssi del Monte Amiata, antico vulcano spento. La densità varia dai 3600 ai 5300 ceppi ad ettaro, con rese che non superano i cinquanta quintali per ettaro.

Vini che nascono rigorosamente in vigna. Nessuna trasformazione in cantina, dove anche la vinificazione e l’invecchiamento avvengono tradizionalmente in botti grandi: niente barrique, saltuariamente tonneau.

LA DEGUSTAZIONE
Brunello di Montalcino “Vigna Schiena d’ASINO”, 14,5%. Affinamento in botti di rovere di Allier per 42 mesi e 12 mesi in bottiglia. Nel calice si presenta il colore è fitto eppur trasparente.Molto elegante al naso.

Si percepiscono frutti di macchia come ribes nero, marasca, in successione seguono spezie fresche e foglie di tabacco essiccato. Non delude in bocca rispecchiando alla perfezione tutto ciò che si è percepito al naso. Attacco ampio ed austero. Un vino pieno e sapido, fatto per affrontare il tempo.

Brunello di Montalcino “Vigna Loreto”, 14,5%. Affinamento in botti di rovere di Allier, 6-8 mesi in bottiglia. Rosso rubino brillante. Le componenti olfattive sono di notevole eleganza.

Il naso vine invaso da note di fiori e frutti rossi, rosa canina, prugna, marasca, spezie fresche e liquirizia. In bocca ha in ingresso potente e deciso, quasi invadente con tannino setoso. Chiude con un finale ampio ed importante.

Rosso Di Montalcino, 14,5%. 3 mesi di affinamento in bottiglia. Rosso rubino con riflessi porpora, vino di grande vivacità ed intensità nel colore. Impianto olfattivo molto generoso e giovane, con un bouquet fresco di prugna e ciliegia. L’ingresso in bocca è pieno ed intenso, termina piacevolmente tannico, sapido al palato.

Botrytis Moscadello di Montalcino vendemmia tardiva, 14,5%. Affinamento in bottiglia per 12 mesi. Oro brillante e intenso. Bouquet complesso ed evoluto con sentori di marmellata di albicocca, miele, frutta candita o sotto spirito, fico secco e pesca matura. In bocca si viene invasi dal suo calore avvolgente, la glicerina avvolge il palato e la lingua. Buona corrispondenza gusto olfattiva.

BIONDI SANTI
La storia del Brunello del Greppo comincia con Clemente Santi. Laureato in farmacia a Pisa, dedicò gran parte della sua attività all’agricoltura, in modo particolare al Greppo.

Le conoscenze di chimica e di scienza lo aiutarono a portare le sue tecniche enologiche a livelli invidiabili ricevendo riconoscimenti per il suo Brunello nel 1965 ed ancor prima vedendo premiato il Moscatello all’Esposizione Universale di Parigi nel 1867 (epoca in cui i francesi si ritenevano gli unici produttori al mondo di vino di qualità).

La figlia di Clemente Santi, Caterina, sposò Jacopo Biondi, medico fiorentino. Il loro figlio Ferruccio ereditò dal nonno materno la passione per il vino ed i vitigni ed unì i cognomi per un giusto tributo alla famiglia Santi.

Forte dell’esperienza straordinaria del nonno materno si dedicò con competenza all’azienda del Greppo e mentre gli altri viticoltori cercarono di mettere in beva rapidamente i vini rossi, egli guardò verso nuovi orizzonti e volle diversificarsi con un vino longevo vinificando in purezza il Sangiovese.

Nel 1932 viene investito del titolo di “inventore del Brunello” da una commissione Interministeriale. Il resto è storia. Storia di una famiglia che grazie ad una costante comunicazione dei suoi vini nel mondo è riuscita a far capire ed apprezzare la straordinaria tipicità e qualità del suo Brunello del Greppo.

LA DEGUSTAZIONE
Brunello “Il Greppo” Riserva 1997. Trasparente nel suo colore granato. Bouquet agrumato ed erbe aromatiche di macchia mediterranea, tra tutte il rosmarino. In seconda battuta sprigiona sentori minerali di grafite e pietra focaia chiudendo con un leggero sentore di goudron.

In bocca colpisce per la sua eleganza e per il suo tannino imperioso ed austero che si palesa solo dopo aver goduto della acidità e sapidità del vino. Finale lungo e piacevole.

Brunello “Il Greppo” Riserva 2013. Abbiamo la fortuna di assaggiare il vino direttamente dall botte. Rosso rubino brillante. Al naso è abbastanza chiuso nelle sue note scure di tabacco e spezie.

Chiude con sentori minerali di gesso. In bocca presenta un tannino scalpitante, irruento, che invade le papille gustative.

Sassoalloro 2010. Rosso rubino netto. Naso caleidoscopico con nuovi aromi ad ogni olfazione: dal fiore rosso alla frutta a polpa rossa, dalla macchia mediterranea a sentori salmastri quasi marini, dall’aromatico al balsamico. In bocca è avvolgente con il suo calore e la sua morbidezza pseudo calorica, per poi cedere il posto ad un finale acido e sapido.

L’ESPERIENZA A MONTALCINO
Difficile rendere le emozioni vissute durante un viaggio. Montalcino è così. Colori, profumi e sapori, che da soli meritano la visita. Comprendere un territorio visitandolo. Comprendere il concetto di cru osservando una vigna.

Sentirsi raccontare della ricolmatura delle bottiglie dalla voce di chi la ricolmatura la esegue. Conoscenza che si posso avere solo mettendo mano, meglio poggiando i piedi, su quel fazzoletto di terra.

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degustati da noi news vini#02

Champagne eterno: degustazione 1985-2006 da Carlo e Camilla

Nove calici. Cinque piccoli produttori. Un arco di tempo di 22 anni (34 se contiamo dal 2018). Questo lo scenario della degustazione organizzata da Bollicine Mon Amour lo scorso 11 giugno da Carlo e Camilla in Segheria, a Milano.

L’ennesima riprova che le bollicine che nascono in quel fazzoletto di terra gessosa possono sfidare i decenni. La dimostrazione che non solo le grandi maison sanno produrre vini longevi, ma anche piccoli produttori attenti ed appassionati. Nove millesimi (rarità in Champagne) in grado di farci riflettere tanto sulle annate quanto sui produttori.

LA DEGUSTAZIONE
Collard-Chardelle 1985. Maison fondata nel 1974 nella Valée de la Marne. 40% Chardonnay, 40% Meunier, 20% Pinot noir. Sei mesi in botte grande prima dell’imbottigliamento. Dégorgement nel 1990,  3g/l il dosaggio.

Figlio di un’annata che ha donato grandi millesimi anche in Italia si presenta di colore dorato con perlage fine, ancora ben presente e cremoso in bocca. Leggera nota ossidativa al naso, non fastidiosa ma che anzi completa ed integra i profumi di marmellata di mela cotogna e crema pasticcera.

Una leggera nota di torrefazione accompagna i sentori di frutta secca. L’acidità è ancora molto via e supporta bene il sorso, sorso ricco della pienezza del frutto, pienezza probabilmente dovuta alla grande presenza di bacca rossa nella cuvée.

Chiude su note di miele e di erbe aromatiche. Uno Champagne in grado di stupire e coinvolgere col suo alternarsi di note tipiche dell’invecchiamento e freschezza di beva.

Champagne de la Renaissance 1989. Siamo ad Oger, Cotes de Blancs. 100% Chardonnay di Oger. Nessun utilizzo di legno. Sboccatura e dosaggio non conosciuti.

Nettamente più verticale del precedente. Evidente il lisato che anche qui si declina in tostatura e note di pasticceria. Leggero sentore balsamico che ricorda la mostarda. Teso in bocca.

Seppur meno acido del precedente regala tutta l’eleganza e l’irruenza di un Blanc de blancs nettamente più giovane. Chiude morbido e mediamente persistente sui sentori fini ed eleganti tipici dello Chardonnay.

Champagne de la Reinassance 1993. 100% Chardonnay di Oger. Nessun utilizzo di legno. Sboccatura 2013. Dosaggio non conosciuto.

Profumi netti. Inconfondibilmente blanc de blanc da chardonnay. Sentori di banana e frutta a polpa bianca matura. In bocca grande acidità e mineralità. “Dritto” come si suol dire. Il tostato si percepisce solo in retro olfattivo sulla persistenza, accompagnato da una piacevole sensazione di caramella d’orzo.

Collard-Chardelle 1993. 50% chardonnay, 25% meunier, 25% pinto noir. Sei mesi in botte grande prima dell’imbottigliamento. Dégorgement nel 2001,  3g/l il dosaggio.

Al primo naso sembra più giovane del suo coetaneo precedente. Poi ecco sentori di fungo e sottobosco, crema e pane appena sfornato che riportano alla complessità del prodotto. perlage ed acidità supportano molto bene il sorso.

Dopo 4 assaggi una cosa appare chiara: più che il millesimo (1993 o 1985-89) il fil rouge è da ricercarsi nella mano del produttore. Evidente infatti il legame 1985-1933 Collard-Chardelle e 1989-1933 La Reinassance più che quello fra i due ’93.

Gustave Goussard 1995. Les Riceys, Cotes de Bar. 60% chardonnay, 40% pinot noir. Dégorgement 2008. 10 g/l. Naso fresco. Frutta ed erbe aromatiche. Prevale la parte “blanc”, il Pinot noir emerge solo quando il calice si scalda un poco.

In bocca entra morbido e morbido sta, si sente il maggior dosaggio. In bocca è pieno, ricorda il precedente 1985 ma con meno note aromatiche. Buona la persistenza.

Guy de Forez 1996. Les Riceys, Cotes de Bar. 100% pinot noir. Sboccatura 2000. 8 g/l. Stesso terroir, millesimi prossimi, dosaggi simili. il Gustave Goussard 1995 e Guy de Forez 1996 sono diversi e rivali.

Naso generoso, profondo, balsamico. Frutti rossi, crema pasticcera, erbe aromatiche. Croccante in bocca, molto sapido. Uno champagne austero, quasi tannico, figlio di un’annata perfetta. Un vino che ha ancora molto da dare e raccontare, da dimenticare in cantina ancora per chissà quanto.

Gustave Goussard, 1998. 60% chardonnay, 40% pinot noir. Dégorgement 2013. 10 g/l.

Meno articolato del 1995. Più teso. Grande freschezza tanto al naso quanto in bocca. Molto fruttato con leggera nota di miele d’acacia. Bella sapidità. Non esageratamente persistente.

Fresnet-Juillet 2000. Verzy, Montagne de Reims.  60% chardonnay, 40% pinot noir. Dégorgement 2004. 10 g/l. Frutta matura e miele al naso, quasi dolce. Evidente la complessità post sboccatura che lo pone in netta contrapposizione al Gustave Goussard 1998. Sottobosco e nocciola che si rincorrono anche nel retro olfattivo e nella discreta persistenza.

Guy de Forez 2006. 100% pinot noir. Sboccatura 2012. 10 g/l. Immediato il confronto col suo omologo millesimo 1996.

Qui il calice è ancora più austero, ancora più chiuso. Appare evidente come questi vini andrebbero aspettati per essere goduti a pieno. Qui ancor più del ’96. Il 2006 è uno champagne che appare semplice ed immediato ma che scalcia sotto la superficie. Ottimo questo paragone a 10 anni di distanza.

Quanto tempo sarà passato dall’inizio della degustazione? Spiacenti, non abbiamo guardato l’orologio, troppo coinvolgenti i vini. Una cosa però è certa: tutti i bicchieri si sono scaldati e nessuno degli champagne si è scomposto. Ottimo indizio di grande qualità ed attenzione produttiva.

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Analisi e Tendenze Vino news

Bottiglia di vino “leggera” per l’ambiente? “No” della Puglia del Primitivo cooperativo

BARI – Pesante is better. Perché puoi essere “avanti” finché vuoi. Ma se non vendi, tutto il resto si limita a sterile poesia sui massimi sistemi.

Sembrano pensarla così, in Puglia, sulla possibilità di ridurre il “peso” delle bottiglie di vetro del vino – in particolare di Primitivo di Manduria – per venire incontro alla crescente attenzione per l’ambiente, espressa peraltro anche dai Millennials.

Quello che è ormai un must per le aziende all’avanguardia in tutti i settori (ovvero l’attenzione green nelle fasi produttive, al di là delle certificazioni “bio”) sembra invece trovare detrattori in Meridione.

Un gap che, in Italia, allontana ancor più aziende come la toscana Banfi Wines e la cooperativa pugliese Cantine San Marzano.

Da un lato la senese Banfi, che già nel 2008 ha avviato gli studi sull’utilizzo di “bottiglie leggere” per i propri vini. Quattrocento grammi, al posto dei consueti 570. Dall’altro la tarantina San Marzano, che incalzata in occasione dell’ultima edizione di Radici del Sud, risponde “picche”. Senza mezzi termini.

QUESTIONI DI MERCATO
“Il mercato non è pronto, la bottiglia pesante è ancora una sorta di status simbol legato alla qualità del vino, soprattutto in determinati mercati”. Parole di Mauro di Maggio (nella foto, sopra), attuale direttore di Cantina San Marzano.

Pesante is better, appunto. Almeno per l’export, in determinate aree emergenti. In Cina, in particolare, sembrano apprezzare più di altri le bottiglie pesanti di rosso. Un po’ come facevano (e continuano a fare oggi) i nostri nonni, lodando il vetro ingombrante, voluminoso, tozzo, di certe etichette di vino.

Un mercato, quello orientale, a cui San Marzano guarda con interesse (il Vietnam è una fissa del presidente Francesco Cavallo) e su cui la cantina di Taranto non intende perdere punti preziosi, in nome di una battaglia per l’ambiente in cui non crede (ancora) abbastanza. Almeno sul fronte della bilancia.

E allora, amen. Purché non pensiate anche voi – magari di fronte ad amici e commensali assetati – che ci sia ancora del vino in quella bottiglia pesante (ma vuota) di Primitivo di Manduria, spremuta verticalmente sul calice.

QUANTO SI RISPARMIA
La voce “sostenibilità”, o “sustainability“, è invece al centro dell’attenzione di Casello Banfi, premiata di recente in Piemonte tra le aziende e i Consorzi del vino più “verdi” d’Italia, nell’ambito del “Premio Gavi – La Buona Italia 2018“.

Dallo studio avviato nel 2008, di strada ne è stata fatta. Per quasi tutta la produzione – esclusi i vini a lungo invecchiamento – Banfi utilizza bottiglie di peso inferiore allo standard: meno 30% rispetto alle precedenti.

Dal 2009 sono state utilizzate oltre 30 milioni e cinquecentomila bottiglie leggere. In particolare, a partire dalla seconda metà del 2014 si sono utilizzate sei milioni di bottiglie del peso di 360 grammi.

“I benefici ambientali ottenuti – spiega la dirigenza di Castello Banfi – si possono riassumere in un risparmio di materie prime, di energia e, dunque, di emissioni di anidride carbonica (CO2)”.

Considerato che una berlina genera circa 200 grammi di CO² per chilometro percorso, il primo milione di bottiglie leggere equivarrebbe a 2,3 milioni (459/200×1.000.000) di chilometri risparmiati, pari al consumo di cento auto che hanno percorso ciascuna 23 mila chilometri.

O l’equivalente del consumo annuale di 100 abitazioni di montagna da 100 metri quadrati. O ancora, considerato che il consumo domestico d’energia elettrica da fonti primarie genera circa 750 chilogrammi di CO² per abitante per anno, per il solito milione di bottiglie, il tutto equivale al consumo annuale di 600 persone.

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degustati da noi news vini#02

Torna “Modena Champagne Experience”: appuntamento il 7 e l’8 Ottobre 2018

MODENA – Oltre 120 Maison presenti per 700 tipologie di champagne, 60 tra importatori e distributori, 2000 operatori di settore e 4000 visitatori previsti. Ecco i numeri con i quali si ripresenta al grande pubblico delle bollicine “Modena Champagne Experience“.

Dopo il grande successo dell’edizione 2017 presidiata anche dalla nostra redazione che ne ha stilato i migliori assaggi,  torna la più grande manifestazione sullo Champagne in Italia che si rivolge principalmente a professionisti del settore horeca, ma anche ai winelovers.

IL PROGRAMMA
“Modena Champagne Experience 2018”, promossa ed organizzata da Club Excellence, si svolgerà a Modena Fiere domenica 7 e lunedì 8 Ottobre dalle 10:00 alle 18:30.

Fino al 30 Giugno sarà possibile acquistare on line il biglietto di ingresso giornaliero a 60 euro. Da luglio il costo del biglietto incrementerà di dieci euro al mese, fino a raggiungere il prezzo di 110 euro nella settimana precedente l’evento. Stessa “urgenza” di acquisto anche per il biglietto bi-giornaliero attualmente disponibile a 110 euro ma che lieviterà fino a 180 euro per chi lo acquisterà ad Ottobre.

Durante i due giorni della manifestazione sarà possibile degustare i prodotti delle maggiori Maison francesi tra cui, Louis Roederer, Bollinger, Bruno Paillard, Jacquesson, Mailly Grand Cru, Thiénot, Palmer & Co, Pannier, Encry, Paul Bara, Marguet, Larmandier-Bernier e incontrare i produttori francesi presenti.

La Maison saranno distribuite in un percorso organizzato per area geografica di produzione (Montagne de Reims, Vallée de la Marne, Côte des Blancs, Aube) oltre alle maison classiche riunite in uno specifico spazio.

Sono previsti anche momenti di approfondimento tematico, masterclass verticali e degustazioni relative a particolari annate o specifiche aree guidate da esperti di fama internazionale.

CLUB EXCELLENCE
Club Excellence
, Club dei distributori e importatori nazionali di vini e distillati di eccellenza è nato nel 2012. Dal 2016 si è trasformato in una realtà cooperativa cui aderiscono le principali aziende italiane operanti nel settore della distribuzione vitivinicola di qualità come Balan srl, Bolis srl, Cuzziol Grandivini srl, Gruppo Meregalli, Les Caves de Pyrene srl, Pellegrini spa, Premium Wine Selection P.W.S. srl, Proposta Vini sas, Sagna spa, Sarzi Amadè srl, Teatro del Vino srl e Vino & Design srl.

Tra i principali obiettivi del Club, l’organizzazione di eventi, la partecipazione a fiere e manifestazioni, l’attività di promozione commerciale e culturale sui prodotti commercializzati dai soci, l’organizzazione di corsi di formazione in ambito enogastronomico e lo sviluppo di iniziative sociali, culturali e ricreative aperte al pubblico dei consumatori.

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degustati da noi news vini#02

Sette sfumature di Cerasuolo d’Abruzzo: consigli rosé per l’estate

Sette Cerasuolo d’Abruzzo per l’estate. E’ l’esito della nostra degustazione alla cieca, alla scoperta delle caratteristiche di uno dei vini rosati più noti e bevuti in Italia, senza i condizionamenti dell’etichetta.

Scegliamo la blind (chi ci segue sa quanto siamo appassionati alle degustazioni alla cieca!) per goderci le sfumature che questa denominazione è in grado di offrire, in base alla zona in cui si trovano i vigneti. Più o meno vicini al mare, in zona collinare, “montana” o nell’entroterra.

Sette etichette che, a vario titolo, si sposano perfettamente con la bella stagione, ormai cominciata. Tutte acquistabili in enoteca, o reperibili nella ristorazione. Ecco come è andata.

Cerasuolo 2016, Cataldi Madonna. Siamo nell’entroterra abruzzese, nell’Aquilano, in località Macerone, a 380 metri sul livello del mare. Il colore è quello più classico, un rosa quasi lampone, limpido.

Vino ottenuto da uve che subiscono una parziale criomacerazione, per estrarre al massimo la componente fruttata classica dell’uva Montepulciano.

Al naso infatti spiccano frutti rossi piccoli, di sottobosco, fragolina, lampone. Finale più sul floreale. Poca persistenza aromatica in bocca, ma spicca la freschezza. Un Cerasuolo didattico.

Cerasuolo 2015 “Apollo”, Ausonia. Entroterra Teramano. Siamo ad Atri, vicino alla riserva WWF dei Calanchi. Una zona collinare, tra il massiccio del Gran Sasso e l’Adriatico. Il microclima è perfetto per la viticultura.

Il colore di questo Cerasuolo è quasi un rosa mattone, tendente al buccia di cipolla. Macerazione di una notte, pressatura soffice e veloce, poi in acciaio per circa 10/12 mesi.

Fermentazione spontanea e niente filtrazioni. Naso complesso e sfaccettato, lampone e fragola, amarena, quasi una nota di violetta.

Sorso corposo, pieno, con ottima mineralità e un accenno di sapidità. Lungo. Per molti degustatori un vino appagante, che richiama la territorialità e la tradizione.

Vino Rosato “Tauma” 2015, Az. Agr. Pettinella. Questa bottiglia è il frutto della ricerca sul territorio e delle soffiate di ottimi scout. Azienda microscopica, solo 1.800 bottiglie all’anno, di solo Cerasuolo, o meglio di Rosato, come l’etichetta dichiara.

Uve Montepulciano provenienti da due vigneti posti uno in prossimità dell’Adriatico, a Silvi Marina (TE), e uno più all’interno, in collina, nel comune di Tocco da Cesauria (PE). Quarantacinque anni l’età delle viti nell’entroterra e 25 quelle che si affacciano sul mare. Una pergola e un cordone speronato. Un mix affascinante.

Vinificazione in bianco. Fermentazione spontanea in barrique ultradecennali a temperature non controllate. Il vino affina in legno per 6 mesi con frequenti battonage, permane sulle fecce fini e poi riposa in acciaio per un ulteriore mese.

Rosato carico, con riflessi quasi cupi. Al momento il meno Cerasuolo dei 3. Il naso non è ruffiano, è carico, robusto. Le note fruttate sono accompagnate da sentori di spezia, cannella, salvia, timo, quasi un accenno di china leggera.

In bocca è caldo, il legno si percepisce appena, non è invadente. Sorso ampio, buona persistenza. Si sente tanta materia nel bicchiere. Forse il nome “Rosato” gli si addice di più… Non è certo uno di quei Cerasuoli fighetti, tutta Big Babol!

Cerasuolo 2015, Emidio Pepe. Non ha certo bisogno di presentazione questo Artigiano del Vino, ma la cieca ci permette di avere occhi, naso e bocca solo per il bicchiere. Risalta un colore rosso. Il Cerasuolo di Pepe è ottenuto da uve  Montepulciano vinificate “in bianco”.

Le uve vengono pigiate con i piedi in vasche di legno e il mosto viene fatto fermentare senza le bucce in cemento vetrificato. Affinamento in bottiglia senza filtrazioni. Un chiaro richiamo alla tradizione contadina.

Naso intenso, sincero ed espressivo.Marasca, fragola, melograno. Ma anche balsamicità. In bocca tannino, sapidità e mineralità. Forse troppo il calore alcolico che ne appesantisce un po’ il sorso.

Vino Rosato 2014 “Lusignolo” , Az. Agr Feudo D’Ugni. Anche qui siamo di fronte ad una chicca, se non per numero esiguo di bottiglie prodotte dalla piccola (ma grande) artigiana che è Cristiana Galasso.

Lei che se la vedi sembra un’eremita scesa dalla sua montagna, per portarti in dono le sue bottiglie.

Colore Cerasuolo velato. Cristiana lavora in naturale, niente filtrazioni e stabilizzazioni. Il naso è un po’ chiuso , accenni di frutta rossa bacca piccola e spezie leggere.

In bocca esplosiva l’acidità ma la percezione è di poca sostanza, al limite della soglia di percezione degli aromi e sapori tipici. Comunque un sorso snello, facile, non stancante.

Cerasuolo d’Abruzzo superiore 2014, Az. Agr. Praesidium. Entroterra Aquilano, comune di Prezza, vigneti a 400 metri sul livello del mare.

Azienda a conduzione famigliare. Dalle uve Montepulciano, con macerazione di quasi 2 giorni, si ottiene questo Cerasuolo dal colore rosato intenso e carico, quasi rubino.

Affinamento di circa 5 mesi in acciaio. Naso espressivo, netto, tutta la gamma dei frutti rossi a bacca piccola, lampone, ciliegia, fragola, poi melograno, rose selvatiche.

Sorso denso ma snello, agile, più salino che acido. Sottofondo minerale, con retro olfattivo che rimanda ancora alla ciliegia. Finale “alcolico” ma non stancante. Il migliore per tipicità e godubilità.

Cerasuolo 2016, Az. Agr Valentini. Qui siamo di fronte al Gota dell’Abruzzo, il non plus ultra. Bottiglia che da sola può valere una serata, che ti rimane impressa nella mente e nella pancia. Lascia segni indelebili.

Nel bicchiere un rosa tenue, quasi una leggera buccia di cipolla. Naso espressivo come un marchio di fabbrica per Francesco Paolo Valentini. Iniziale riduzione che via, via si attenua. Note erbacee affiancano l’espressività del piccolo frutto rosso classico del Montepulciano.

E’ delicato il Cerasuolo 2016, quasi timido. Come a invogliare ancor prima della bocca il naso. Non smetteresti mai di buttarcelo dentro. Sprigiona note quasi minerali. Ciliegia, geranio, fiori selvatici, sottobosco. In bocca elegante, suadente, avvolgente, ti copre ogni papilla e non smette mai di mostrarsi.

Complesso. Mutevole. Sapidità e mineralità ben bilanciate, alcol non preponderante. Un vino che racconta tutto l’Abruzzo. Austero e delicato allo stesso tempo.

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Igt del vino italiano: che confusione! Sarà perché ti (bevi)amo

Si scrive “Indicazione geografica tipica“, si legge “fate un po’ quello che ve pare”. A tuffarsi nel mondo delle “Igt” del vino italiano (oggi “Igp”) si scoprono più cose che sfogliando Men’s Health.

Quello che potrebbe essere lo scrigno delle “tipicità” enologiche regionali, sembra in realtà il quadro di tanti improvvisati Miró.

Non si spiega altrimenti la presenza di vitigni come il Refosco dal Peduncolo Rosso, allevato in Friuli (dove è pure “Doc”), in un paio di Igt del Centro e Sud Italia, tra cui quella della Valle d’Itria, in Puglia.

Per non parlare della Glera, divenuta ormai il vitigno non autoctono più coltivato in Sicilia, soprattutto nella zona di Palermo, dove è stata introdotta in Igt nel 2009. Che dire, poi, del Primitivo? Un altro vitigno che i comuni mortali accosterebbero alla Puglia.

E invece è presente in alcune Igt del centro Italia (in Basilicata, per esempio), così come il Nebbiolo e la Freisa. Per non allontanarsi idealmente dal Piemonte, ecco la Barbera: in Igt in Campania, Puglia e Calabria.

Non manca neppure il Lambrusco. Scordatevi l’Emilia e la Romagna, pensando che la coltivazione di questa varietà a bacca rossa è ammessa in regioni come la Puglia, nelle Igt Daunia e (ancora lei) Valle D’Itria. Per regolamento del Mipaaf, il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali.

Che dire del Teroldego in Toscana? L’ammissione alla coltivazione l’ha voluta tanti anni fa un dirigente originario del Trentino, appassionato di quest’uva. E lo ritroviamo, infatti, anche nella Igt Costa Toscana, di recentissima costituzione.

PAESE CHE VAI…
Stranezze, stravaganze, o colpi di genio che voler si dica, che non possono trovare una reale giustificazione nella tradizione ampelografica di alcuni areali.

Diciamoci, allora, che le Igt – fin troppo spesso – rischiano di sembrare riuscitissime trovate commerciali.

Tutto tranne che strumenti utili a veicolare la tipicità (e la varietà) del Made in Italy nel mondo, al di là del “lavoro” delle Denominazioni d’origine.

Un campo, quello delle Indicazioni geografiche del vino, che deve aver impegnato tante capocce. Lo si capisce dal numero. Sono ben 181, da Nord a Sud Italia. Veri e propri agglomerati di regolamentazioni e burocrazia, utili più ad occupare cassetti che a favorire la promozione “global” delle eccellenze “local” (ci si accontenterebbe anche del “national”).

Per citarne alcune delle più curiose, in ordine alfabetico: Igt Alto Livenza, Igt Benaco Bresciano, Igt Bettona, Igt Catalanesca del Monte Somma, Igt Colline del Genovesato, Igt del Vastese o Historium, Igt Epomeo.

E andiamo avanti: Igt Fontanarossa di Cerda, Igt Marmilla, Igt Pareolla, Igt Planargia, Igt Quistello, Igt Rotae, Igt Terre del Valeja, Igt Tharros, Igt Valdamato. L’elenco è lunghissimo. Cui prodest?

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Birra news

Campus Peroni: a Teramo il Master in Agricoltura di Precisione

ROMA – Dalla collaborazione tra Birra Peroni e CREA, il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria, nasce oggi a Roma Campus Peroni, una nuova realtà per la formazione e l’innovazione sui due pilastri della “qualità Peroni”: la coltivazione sostenibile dell’orzo distico da birra e il Malto 100% Italiano, ingrediente principale della birra nata nel 1846.

Un centro d’eccellenza per la promozione e la diffusione della cultura della qualità e della sostenibilità in ambito agricolo e cerealicolo.

Attraverso Campus Peroni, l’azienda birraria si pone un ambizioso obiettivo: “Coltivare la cultura della qualità fin dai banchi di studio e sviluppare ulteriori attività di formazione a favore dell’intera filiera”.

Un’oportunità in più anche per i 1.500 agricoltori della filiera Peroni, ad oggi al lavoro su circa 17 mila ettari di campi coltivati ad orzo tra Umbria, Lazio, Toscana, Molise, Abruzzo, Friuli Venezia Giulia, Marche, Campania e Puglia.

Nell’ambito di Campus Peroni saranno anche loro, infatti, ad essere coinvolti nel Master di I livello in Agricoltura di Precisione istituito dall’Università di Teramo, in collaborazione con lo stesso CREA.

I DETTAGLI
Il progetto è stato presentato oggi alla presenza del Sottosegretario al Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, Alessandra Pesce. Sono intervenuti Salvatore Parlato, Presidente del CREA, Federico Sannella, Direttore Relazioni Esterne Birra Peroni e Chiara Di Pietro, Brand Manager Peroni Family.

Grazie al protocollo d’intesa firmato tra Birra Peroni e CREA vengono messe a sistema e implementate le iniziative di formazione e training che Birra Peroni sviluppa a sostegno della sua filiera agricola, con l’obiettivo di migliorare la qualità e le performance ambientali della produzione cerealicola.

“Il progetto presentato oggi ricalca nei suoi obiettivi il modello virtuoso di scambio tra ricerca, formazione e produzione”, ha dichiarato il Sottosegretario al Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, Alessandra Pesce.

“È il modello che ci consente di guardare con fiducia all’agroalimentare del futuro – ha aggiunto Pesce – che, grazie a una stretta integrazione tra innovazione, trasferimento e nuove generazioni, è  in grado di innalzare la competitività e la sostenibilità delle produzioni”.

“Questa iniziativa si pone come strumento per la valorizzazione dell’intera filiera nazionale, sostenendo il miglioramento qualitativo dell’orzo e del luppolo italiano, evitando la loro importazione e garantendo il massimo della trasparenza per i nostri consumatori, sempre più attenti alla provenienza delle materie prime e alla qualità del prodotto”, ha concluso il Sottosegretario.

I PARTNER: DALLE UNIVERSITA’ AGLI AGRICOLTORI
Per quanto riguarda l’implementazione della cultura della qualità, hanno già aderito a Campus Peroni i Dipartimenti di Scienze Agrarie delle Università di Firenze, Università di Perugia, Università di Teramo e Università della Tuscia i cui studenti avranno la possibilità di seguire un percorso didattico che prevede momenti di lezione frontale, workshop e visite “sul campo”.

Con la partecipazione degli stessi agricoltori della filiera, che agiranno come veri e propri tutor, gli studenti potranno dunque apprendere tecniche e modelli della coltivazione dell’orzo distico da birra, del processo di maltazione e la gestione di una moderna azienda agricola.

Attraverso Campus Peroni, quindi, l’esperienza maturata dalla filiera agricola Peroni e nella produzione del Malto 100% Italiano diventa patrimonio condiviso anzitutto con le nuove generazioni, con le radici ben piantante nella storia e nella tradizione, ma in un’ottica di sviluppo futuro, ricerca e innovazione.

“L’iniziativa di oggi – ha dichiarato Salvatore Parlato, Presidente del CREA – rappresenta l’inizio di una proficua collaborazione con Birra Peroni, orientata alla valorizzazione delle produzioni italiane in un’ottica di sostenibilità ambientale, economica e sociale”.

Si tratta di un nuovo importante tassello nell’ambito della ricerca sulla filiera della birra, che il CREA sta svolgendo già da qualche anno, che sarà arricchita dall’attività di formazione agli studenti universitari e dalla consulenza alle imprese.

“La filiera orzo birra – ha aggiunto Parlato – richiede l’uso di varietà di orzo appositamente selezionate e adatte alle condizioni pedoclimatiche italiane così come l’uso di tecnologie di precisione per la gestione e il monitoraggio delle colture, utilizzando anche sistemi di integrazione di dati diversi, compresi quelli meteorologici”.

Parlato ha ricordato poi che “il CREA è l’unico ente di ricerca in grado di fornire tutto il know-how necessario per la valorizzazione della filiera orzo-birra italiana”.

IL KNOW HOW PERONI
“Da anni lavoriamo a stretto contatto con la rete degli agricoltori della nostra filiera che supportiamo anche attraverso attività di formazione finalizzate a migliorare la sostenibilità e la resa delle colture”, ha detto Federico Sannella, Direttore Relazioni Esterne Birra Peroni.

“Sotto questo profilo – ha aggiunto – abbiamo voluto mettere a condividere il nostro know how con alcune tra le più importanti università italiane con le quali vogliamo impegnarci, insieme al CREA, nella diffusione e promozione della cultura della qualità, un tassello fondamentale per la crescita e l’affermazione del Made in Italy”.

“La qualità Peroni – ha detto Chiara Di Pietro, Peroni Family Brand Manager – nasce e cresce durante quel percorso che lega la passione dei nostri agricoltori, che lavorano per produrre l’orzo che diventerà poi Malto 100% Italiano, all’esperienza dei mastri birrai che forgia le caratteristiche uniche della nostra birra”.

“Un prodotto pensato, fatto e amato in Italia – ha precisato Di Pietro – un simbolo di convivialità e dello stare insieme, ma anche di legame con i territori e con le persone che, giorno dopo giorno, danno il loro meglio per far arrivare sulle tavole degli italiani una birra che unisce le generazioni nel segno della qualità e dell’italianità”.

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degustati da noi news vini#02

Nunzio Puglisi (Enò-Trio) e Frank Cornelissen: facce pulite dell’Etna, la nuova America del vino italiano

E’ il motore rombante dell’economia siciliana. La nuova America del vino italiano. L’Etna, con i suoi vini fini, eleganti e longevi, è l’immagine più fulgida del rilancio enologico del Meridione, a suon di Nerello Mascalese. Il simbolo della riscossa di tante regioni del Sud Italia, spremute per decenni da grandi e piccole aziende del Nord.

Conquistadores a caccia di uve “da taglio” cariche di colore, d’alcol e struttura, con cui blendare bacche bianche e rosse altrimenti incapaci di dare vini di peso. Qualitativo e commerciale.

Un tesoro, l’Etna, che ha ormai abbracciato la sua indipendenza. Una terra che abbiamo visitato in lungo e in largo, entrando in nove cantine in cinque giorni di tour. Piccole e grandi aziende, che operano o meno all’interno della Gdo, nella filosofia del nostro “contenitore unico” di informazioni controcorrente.

Quel che emerge è che ciò che alla Sicilia è stato preso in passato, alla Sicilia sta tornando con gli “interessi”. I 903 ettari vitati della Doc (2,5 milioni di bottiglie complessive su 117 iscritti al Consorzio) danno vita a vini capaci di competere con i più vocati territori vitivinicoli internazionali.

Che la discesa di tanti imprenditori sull’Etna non sia frutto di pura filantropia, bensì di marketing e tentativi di diversificazione, è chiaro a tutti. L’Etna “tira”. Negli ultimi mesi, infatti, è in corso una vera e propria gara per accaparrarsi gli ultimi terreni a disposizione nel comprensorio della Denominazione. Prima che il prezzo lieviti ancora, rispetto ai 100 mila euro all’ettaro attuali.

NICOSIA: DA “CANTINE” A “TENUTE”
Il caso emblematico è quello di Cantine Nicosia. Il gruppo di Trecastagni (CT), molto attivo nella Grande distribuzione organizzata grazie alle uve dei conferitori, diventerà presto uno dei maggiori player sul vulcano.

Trentatré gli ettari di recente acquisizione sul versante Nord dell’Etna, il più vocato per la produzione dei rossi base Nerello Mascaese e Cappuccio.

Vigneti che entreranno in produzione entro il 2022. Secondo indiscrezioni, è in programma anche la realizzazione di un polo di accoglienza enoturistica nella zona di Linguaglossa. Hospitality e Spa, nel segno delle migliori boutique winery.

Il disegno è chiaro. Con la creazione di un nuovo brand, denominato “Tenute Nicosia“, la cantina che per anni ha puntato sulla Gdo (con picchi di qualità come l’Etna Rosso della linea “Grandi Vigne” dell’insegna Iper, la grande I) punta a un restyling d’immagine. Nascerà una nuova linea “top di gamma” destinata soprattutto all’Horeca, da affiancare a quella attuale del versante Etna Est (dove tra l’altro si trova il sito produttivo).

Nicosia, di fatto, è solo l’ultimo colosso che si unisce alla caccia all’oro dell’Etna. Un “battaglione” a cui i vari Firriato, Planeta, Donnafugata e Tasca d’Almerita (solo per citarne alcuni) hanno aderito ormai da anni.

L’ETNA CHE CONQUISTA
Ma se la scelta iniziale è di tipo commerciale (così come lo è stata certamente per produttori illuminati come Andrea Franchetti di Passopisciaro e Marco De Grazia di Tenuta delle Terre Nere) è anche vero che dell’Etna finisci per innamorarti, per davvero.

E allora ecco che anche i vini dei colossi (o di chi ha investito sull’Etna in maniera lungimirante, riconoscendone il potenziale economico, oltre che vitivinicolo) hanno senso di entrare nell’Olimpo enologico mondiale. Con punte di qualità assoluta, accanto ai “vini veri” e “naturali” di chi sull’Etna è nato (vedi Enòtrio di Nunzio Puglisi, nella foto sotto con la figlia Desirée) o ci è arrivato dal Belgio (come Frank Cornelissen).

Necessari però dei distinguo. Tra i “big” meglio Planeta di Firriato per i vini fermi, che mostrano ottimi margini di invecchiamento (sorprendenti i bianchi). Ottimi i due sparkling prodotti a Cavanera da Firriato, superiori al Metodo Classico base Carricante ottenuto dai vigneti di Sciaranuova – Planeta.

Per le “bollicine” dell’Etna, riferimento assoluto tutto da scoprire è Antonino Destro. La sua Azienda vitivinicola, con l’appoggio dell’enologo Giovanni Rizzo, offre una gamma straordinaria di Metodo Classico sensati e territoriali, con al vertice un “60 mesi” sui lieviti (base Nerello Mascalese vinificato in bianco) degno di entrare nella top 10 italiana dei migliori champenoise sotto i 35 euro (prezzo di cantina).

Spumanti, questi, in grado di far dimenticare in un baleno Charmat base Catarratto come “Pros.it” di Cantine Patria, più consoni a giocarsela (al ribasso) col Veneto della Glera Extra Dry, perfetta per palati avvezzi al frizzantino da aperitivo.

Poco Etna e poco senso (se non commerciale) per vini come questo: scimmiottanti il campione italiano di vendite internazionali from Treviso, scevro da qualsiasi identità etnea.

Tra l’altro uno spumante con un’etichetta – a nostro avviso – al limite della correttezza nei confronti del consumatore: “Pros” “.” “it” non vi ricorda nulla?

Sicuri che, vedendo questa etichetta su uno scaffale, in molti (soprattutto stranieri) non possano pensare di trovarsi di fronte a un “Pros”-ecco “It”-aliano? Una label molto “Patri”-ottica (scommettiamo) per le tasche della cantina di Solicchiata.

D’altronde, il Consorzio del Prosecco Doc ha ben altri problemi a cui pensare, tra cui l’allargamento della regolamentazione alla versione Prosecco Rosé, di cui già si parla ovunque.

Rapporto qualità prezzo molto interessante, invece, su tutta la linea di Antichi Vinai 1877, che a Castiglione di Sicilia è attiva con un sito produttivo di maestose capacità (oltre 1 milione di bottiglie potenziali, quasi la metà di tutta la Doc) al momento sfruttato dalla famiglia Gangemi per attività di imbottigliamento “conto terzi”.

IL CASO
Una cantina, Antichi Vinai, artefice di un casus degno delle cronache vinicole nazionali.

Quello di Neromosso, “frizzante” da 2 bar (tecnicamente “vino bianco mosso di Sicilia”) piazzato sul mercato con grande successo a un costo incredibile per la tipologia: ben 9 euro in cantina (13,50 sul sito web della cantina).

Una “bolla” imitatissima in zona, dopo il lancio ufficiale avvenuto nel 2010. Si tratta di Nerello Mascalese vinificato in bianco, con piccole percentuali di uve a bacca bianca (Minnella e Zibibbo) che restituiscono un calice tutto sommato tipico in termini di mineralità etnea.

Altro discorso per Marco De Grazia e la sua Tenuta delle Terre Nere. Un’azienda che in pochi anni si è trasformata in un vero e proprio faro per l’Etna. Vini di una finezza assoluta, con la Borgogna a materializzarsi nei calici dei “cru” delle contrade.

Tenuta delle Terre Nere è la punta di diamante di De Grazia, ex commerciante di vini che ha dato vita alla rivoluzione dei Barolo Boys. Un marchio, “BB”, che ha consentito alle Langhe di farsi conoscere fino in America. Un miracolo replicato da De Grazia sull’Etna.

Chi deve crescere, invece, è Palmento Costanzo. Il recupero dell’antico caseggiato e della cantina – unico sito produttivo siciliano costruito all’interno di un antico palmento, risalente al XIX secolo – è iniziato nel 2011, ma il cambio di enologo ha forse creato qualche squilibrio tra le annate ad oggi in degustazione.

Una difformità che non aiuta la comprensione del tipo di lavoro che la famiglia Costanzo vuole intraprendere sull’Etna, anche se le premesse sono buone. Alla ristrutturazione dell’antico palmento (prevista Hospitality e Spa) sta facendo seguito un lavoro attento nei vigneti certificati biologici, che porterà presto alla presentazione di nuove etichette, tra cui il primo “cru” e il primo Metodo classico.

I VIGNAIOLI DA COPERTINA
Ex commerciante di vino, così come De Grazia, è Frank Cornelissen. Uno che dà del tu alla Muntagna, sulla quale sembra cresciuto. E nella quale, certamente, ha affondato le radici, oggi solidissime.

Cornelissen e Nunzio Puglisi di Enò-trio, uomini copertina del nostro tour, sono vignaioli diversi tra loro. Che hanno in comune, però, l’amore per l’Etna e la voglia di proporre un modello di viticoltura rispettoso dell’ambiente.

Intellettuale il belga Cornelissen, dentro e fuori da un calice in cui sviscera un minimalismo giapponese (del Giappone, non a caso, è originaria la moglie) ad eccezione del prezzo del vino di punta, “Magma”, in vendita a oltre 180 euro.

Maestro di vigna il siculo Puglisi, un lottatore in camicia che può vantare vigneti tra i più belli dell’Etna (certamente i più maniacalmente ordinati, anche grazie all’apporto della figlia Desirée) e tra i più alti in quota (oltre i mille metri quello di Traminer, cha dà vita a un vino strepitoso).

Due sperimentatori, Cornelissen e Puglisi, che meritano tutta l’attenzione autentica di chi cerca qualcosa di lontano dalle mode e dagli stereotipi del mondo del vino. Due da prendere in considerazione a tutti i costi, in previsione di un tour alle pendici dell’Etna.

Una panoramica, quella che avete appena letto, con la quale vogliamo introdurre un secondo articolo, dedicato ai migliori vini degustati in occasione del tour: online tra qualche giorno.

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Girofle di Garofano, alias il rosato brizzolato: verticale memorabile a Radici del Sud

E’ il rosato controcorrente. Quello che sfida le mode, i gusti. Ma soprattutto le tradizioni e la logica. Girofle, il rosato da uve Negroamaro di Severino Garofano, più che un vino è una rivoluzione culturale allo stato liquido.

Un calice che mostra tutte le potenzialità del rosé come vino “da invecchiamento”, al di là del consumo entro pochi mesi dalla vendemmia. E fa pensare alla cucina – ovvero al vasto ventaglio di abbinamenti che si apre per le annate meno recenti – come alla miglior alleata per valorizzare il rosato brizzolato.

La cantina di Copertino (LE) non ha perso l’occasione offerta nei giorni scorsi da Radici del Sud 2018. Organizzando una verticale di 6 annate per la stampa italiana ed estera. Sei Girofle, dal 2017 al 2011 (ad eccezione della 2012), capaci di ribadire un concetto che a casa Garofano è chiaro da un pezzo: il rosé va aspettato, come un vino rosso.

LA DEGUSTAZIONE
Ogni calice un Cubo di Rubik. Già, perché tutto si può dire di Girofle, tranne che sia un vino di immediata comprensione. L’ennesima riprova di una complessità comunemente accostata ai vini rossi, o ai grandi bianchi da lungo affinamento.

La verticale condotta da Stefano e Renata Garofano, assieme alla sommelier Jlenia Gigante, prende il via da una 2017 più che mai in linea con l’idea di rosé da Negroamaro. A cui però si somma una finezza rara.

Si tratta del campione più “moderno” della batteria, in tutti i sensi: un rosato che strizza l’occhio al mercato estero, senza perdere originalità o dimenticarsi della tradizione.

Con Girofle 2016 si volta pagina. Il rosa carico inizia ad affievolirsi, assumendo tinte tendenti all’aranciato. Il naso è ricco e ricorda chiaramente la versione rossa. Un calice che segna la cifra della verticale di casa Garofano, definendo la regola assoluta: allo scaricarsi cromatico del Negroamaro corrisponde l’ispessimento della caratura gusto olfattiva. Una trama che ha del romantico.

Così come romantico è il susseguirsi dei descrittori delle vendemmie successive. La 2015 sembra giunta al momento di un sussulto d’orgoglio, tanto nel colore (che tiene ed è luminosissimo) quanto nell’ampiezza di un naso e di un palato quasi “grassi”, ben sostenuti dalla consueta verticalità scheletrica che caratterizza Girofle.

E’ un cuore che batte, la vendemmia 2014. A quattro anni di distanza, il nettare si mostra in netta evoluzione. I battiti di questo rosé sono scanditi al momento da rintocchi salini e sincopi di arancio e lavanda. Non certo un amore a prima vista, immediato: il calice va aspettato, ossigenato, alimentato di speranze. E infine capito.

Eros puro, invece, Girofle 2013. Un vino magico quello che Severino Garofano e i suoi figli sono riusciti a racchiudere in bottiglia. Una pozione che gioca sui contrasti e sugli ossimori, dando un senso tanto concreto quanto poetico a tutto il lavoro che la famiglia di Copertino sta facendo da anni, in Puglia, col vitigno Negroamaro vinificato in rosa.

Strepitosa intensità al naso e al palato, che allo stesso tempo si mantiene sulle tinte delicate e fini già avvertite nelle annate precedenti. Perché si può essere forti anche senza perdere eleganza. Un rosé che ti prende per mano in punta di piedi, prima di salutarti in un sottofondo musicale: sul pentagramma, note di buccia di lime e una leggera speziatura anticipano la fine di un lungo spartito.

Girofle 2011 è il lottatore stanco, che tuttavia non rinuncia al ring. E ne ha ben donde. Gancio e dritto del boxeur si materializzano in un’acidità ancora viva. Il Negroamaro mostre qui la sua faccia più grezza, anzi sfumata.

Ecco che alla cifra delle note agrumate e dei piccoli frutti a bacca rossa fanno eco richiami fumé e di pietra bagnata. L’evoluzione naturale di un vino che ancora combatte, nel nome di un ideale e di una filosofia. Nel nome della rivoluzione.

IL ROSATO AL BIVIO, DA NORD A SUD ITALIA
Angelo Peretti è direttore di The Internet Gourmet e consulente del Consorzio di tutela del Bardolino per il quale ha scritto nel 2008 il piano strategico. Nel Chiaretto, Peretti vedeva – già 10 anni fa – la leva per la crescita del territorio.

Da allora, il rosé gardesano è salito da 4 a 10 milioni di bottiglie vendute annualmente, diventando leader assoluto tra i rosati italiani a menzione geografica. Abbiamo dunque chiesto ad Angelo Peretti un commento sulle potenzialità del rosato italiano come “vino da invecchiamento”.

“Da appassionato di rosé – evidenzia Peretti – ho due sogni. Il primo potrebbe anche realizzarsi, ed è quello di vedere finalmente una sezione dedicata ai vini rosati nelle liste dei ristoranti italiani. Il secondo temo sia un’utopia, ed è vedere in lista più annate dello stesso rosato, come accade invece nella grande ristorazione francese”.

“Eppure – continua Angelo Peretti – i vini delle aree storiche del rosato italiano, come il lago di Garda con il suo Chiaretto di sponda veneta e di sponda lombarda, l’Abruzzo con il Cerasuolo, la Puglia con i rosati a base di Bombino Nero a Castel del Monte o di Negroamaro nel Salento, quando sono rispettosi del vitigno autoctono e del territorio hanno ottimi potenziali di affinamento in bottiglia e col passare del tempo diventano anzi più complessi, assumendo e accrescendo quelle note speziate che in gioventù sono molto attenuate”.

Caratteristiche che rendono questi rosati perfetti in cucina. “Quando d’estate voglio un rosato per l’aperitivo o per una cucina leggera – commenta Peretti – ne stapperò uno dell’ultima annata. Ma se per esempio in autunno ho un coniglio al forno o un tacchino con le castagne, diventa perfetto lo stesso vino di due, tre, quattro, cinque annate prima”.

Altro trucco da seguire, per apprezzare al meglio il rosato “brizzolato”, è quello della temperatura di servizio. “Per un rosato giovane sarà più bassa – consiglia Angelo Peretti – mentre per un rosé affinato dovrà alzarsi magari fino alla temperatura di cantina, sui 14 gradi”.

“Con questo – precisa – non voglio dire che un rosato debba per forza essere fatto invecchiare, perché la sua versione più golosa, immediata e godibile è quella della giovinezza, anche in spiaggia o in piscina. Ma suggerisco di mettere da parte una bottiglia o due del rosato preferito, per apprezzarne l’evoluzione nel tempo: c’è un mondo intero da scoprire dentro ai vini in rosa”. Chi vuole provarci?

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Edda Lei, Cantine San Marzano: un gioiello della cooperazione italiana

BARI – Tre annate per mostrare quanto è bella “Edda“. Lei, che come tutte le cose preziose guadagna in fascino, col trascorrere del tempo. Radici del Sud 2018 regala un’altra emozione alla stampa italiana e internazionale, con una verticale della gemma di Cantine San Marzano andata in scena poco fa al ristorante Al Pescatore di Bari.

Tre vendemmie del Bianco Salento Igp che fanno onore a tutto il sistema cooperativo vitivinicolo italiano. Ennesima riprova che si può essere grandi (12 milioni di bottiglie, 1.500 ettari e 1.200 soci per la coop di San Marzano di San Giuseppe, Taranto) senza maltrattare la qualità. Anzi, promuovendola.

Certamente uno dei bianchi italiani del momento, grazie anche a uno straordinario rapporto qualità prezzo: inferiore ai 20 euro in cantina, assestandosi sui 15-16 euro. Un vino riservato al canale Horeca e alla ristorazione, fascinoso sin dall’etichetta, molto essenziale ma curata.

Di fatto, “Edda Lei”, è un Bianco del Salento dalla specifica connotazione territoriale. Il blend nasce nel 2015, aggiungendo alla base Chardonnay (80%) un 20% composto da Fiano Minutolo e Moscatello Selvatico.

Il progetto a lungo termine è tuttavia quello di incrementare, vendemmia dopo vendemmia, la caratterizzazione conferita degli autoctoni. Le annate 2016 e 2017 vedono così una riduzione della percentuale di Chardonnay. Con Fiano Minutolo, Moscatello selvatico e un 5% di altri indigeni a guadagnare terreno nei confronti del vitigno internazionale.

LA VERTICALE 2017-2015
Il risultato? Un vino, “Edda Lei”, che si mostra ampio e glicerico nella vendemmia 2015, senza rinunciare tuttavia ai muscoli ben definiti dalla balsamicità del Minutolo. Chardonnay e Moscato si rimbalzano richiami di pasticceria e sbuffi aromatici.

E’ al palato che il vino “spinge” più, mostrando ancora una pregevole verticalità. Nonché ulteriori margini di positivo affinamento, garantito da un’acidità viva, dinamica. Gran bella chiusura su note di talco e crema pasticcera al lime.

E’ un giallo paglierino intenso e luminoso quello che colora il calice della vendemmia 2016. I riflessi sono quelli dorati, caratterizzanti in toto la cromia della vendemmia 2015. Il campione centrale della verticale è quello che offre forse il corredo più completo e la complessità più marcata.

Le note balsamiche, tipiche del Fiano Minutolo, paiono perfettamente integrate con quelle aromatiche del Moscatello selvatico, varietà che presenta comunque componenti di freschezza. Talco, resina di pino dominano naso e ingresso in bocca. Il palato poi si accende di un’acidità giocata sull’arnica. Lungo e preciso il retro olfattivo.

L’ultima vendemmia di “Edda Lei” in degustazione, la 2017, è di fatto una fanciulla in confronto alle più evolute 2016 e 2015. Un vino adatto ad abbinamenti meno più rigorosi a tavola, visto il crepitio di sentori di lime, buccia di bergamotto e arancia.

Non si tratta tuttavia della classica lama nel burro. “Edda”, pur giovane, è già ben educata da bilanciatissimi componenti gliceriche, che si materializzano sotto forma di pesca, sciroppo d’ananas e mango maturo. Un vino che fa già della grazia e della misura la sua regola d’oro. Da professare ancor più domani. E domani ancora.

LA VINIFICAZIONE
Le uve che compongono il blend di “Edda Lei” provengono dai vigneti di Mauro di Maggio, attuale direttore di Cantina San Marzano. Vengono diraspate e lasciate in criomacerazione, per qualche ora.

La fase successiva prevede la pressatura soffice delle vinacce, seguita da una decantazione statica a freddo. Un passaggio fondamentale per un illimpidimento naturale. La fermentazione alcolica ha luogo in barrique di rovere francese nuove.

L’affinamento prevede un periodo sui lieviti – sempre in barrique – per 4 mesi con batonnage settimanale. Secondo le stime di Cantina San Marzano, la capacità di invecchiamento di “Edda Lei” si assesterebbe sui 5 anni. Un grande risultato per un bianco simbolo della Puglia del vino di qualità.

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Dal garage di casa a Radici del Sud 2018: i grandi Greco di Tufo di Sertura

Da “garagista” a star di Radici del Sud 2018, con una strepitosa verticale di Greco di Tufo. Ne ha fatta di strada Giancarlo Barbieri, che con la sua cantina Sertura interpreta in maniera preziosa il grande vitigno della Campania.

E’ lui a firmare, su iniziativa di Nicola Campanile, patron di Radici del Sud, la scalata 2014 – 2009 di Greco di Tufo Docg, andata in scena lunedì sera all’Hotel Rondò di Bari. Il modo migliore per dare il via al concorso che decreterà i migliori vini delle regioni del Sud Italia: quelli più “tipici” e rappresentativi.

Un’Irpinia dipinta col pennello, annata per annata, dalla cantina nata dal sogno di Giancarlo Barbieri. Un salto dai vini prodotti e consumati a livello famigliare, fino all’ultima vendemmia. La 2017, non ancora in commercio in enoteca e nella ristorazione.

Già, perché il Greco di Tufo va aspettato. Un vitigno che come pochi è capace di pennellare nel calice i tratti del terroir nel quale affonda le radici. Giancarlo Barbieri, questo, lo sa. E i calici del suo Greco Docg parlano chiaro.

Greco di Tufo Docg 2017, Sertura (campione di botte, in commercio da maggio 2019)
Annata calda, siccitosa. Si assiste una selezione “naturale” dei grappoli, per via di una pesante gelata primaverile. Ma le uve portate “in cascina” sono di altissimo livello. Poche. Ma buone.

Fondamentale, in questo quadro, l’epoca di raccolta. Al punto corretto del bilanciamento tra alcol e acidità. Il campione di botte della vendemmia 2017 è giovane e scalpitante. Ma evidenzia le capacità di ascolto di Barbieri del proprio vitigno prediletto.

Colore giallo paglierino scarico, note fruttate al naso che raccontano del sole di Avellino. Ci pensa l’agrume a conferire freschezza e corrispondenza naso-bocca a un vino che promette molto bene. Per ora, giusto lascialo scalpitare. Aspettando che si stanchi di battere i pugni, per lasciarsi apprezzare (voto: 90/100).

Greco di Tufo Docg 2016, Sertura (annata in commercio)
Estate fresca, a tratti piovosa. Condizioni ideali per i vini dell’Irpinia, terra che allarga le braccia sotto la pioggia e si bagna volentieri, se il Cielo decide di non esagerare.

In bocca la nota tipica, amara, del Greco di Tufo. La mineralità, in questo calice, la fa da padrona. Un vino perfetto per la tavola, in abbinamento con piatti ricercati, ma anche adatto a rinfrescare dalla calura estiva, grazie a un sorso freddo, che inizia a tendere al mentolato (voto: 90/100).

Greco di Tufo Docg 2015, Sertura
Il vigneto fa i conti col freddo, in epoca di fioritura. Una delle annate magiche per il Greco di Tufo in Irpinia, la 2015. A cinque anni esatti dalla strepitosa 2010.

Il calice si tinge allora di un giallo dorato pregevole, invitante, curioso. Al naso la consueta mineralità, precisa. Calibrata. Dosata alla perfezione con percezioni citriche, altrettanto caratteristi diche.

La bocca è dritta, verticale. Il Greco di Tufo di Sertura inizia forse – a partire da questa annata – inizia a svoltare. Ma c’è un fil rouge che lega ancora la 2015 alle annate meno pronte.

A tre anni dalla vendemmia, il vino si esprime su livelli non ancora degni del potenziale assoluto. Un vino che sarà grandissimo l’anno prossimo. Immenso, più in là. Per chi riuscirà a conservarne qualche bottiglia in cantina (voto: 92/100).

Greco di Tufo Docg 2014, Sertura
Estate piovosa, dopo un inverno caldo. Le follie del meteo condizionano il Greco di Tufo 2014 anche durante l’epoca di raccolta: un agosto bagnato, contro il quale Barbieri sfodera le proprie abilità da agronomo consumato.

Defogliazione e diradamento dei grappoli consentono di portare in cantina un’annata che ci sentiamo di premiare come la migliore in commercio – attualmente – per Sertura Vini d’Irpinia (in lotta aperta con la vendemmia 2013, di gestione meno difficoltosa dal punto di vista agronomico).

Il naso del Greco di Tufo 2014 è il più evoluto di tutti. Banalità? Non proprio. Solo di fronte a un esame attento si esclude la possibilità – poi esclusa ufficialmente – che il produttore abbia utilizzato parzialmente del legno in vinificazione.

Zolfo, tabacco e percezioni fumè, ad ampliare lo spettro di un frutto come capace come pochi di condurre “streight to the point”, attraverso la consueta verticalità giocata sull’agrume. Il naso è un concentrato di emozioni concepite per chi non ha fretta.

Un vino da aspettato nel calice, come si aspetta sotto casa una bella donna. Prima di andare al cinema a godersi un bel film. In bocca la corrispondenza è pressoché totale e conferma il tratto più evidente e tranchant della vendemmia 2014 in casa Sertura: una pregevole balsamicità verde (voto: 96/100).

Greco di Tufo Docg 2013, Sertura
Annata fresca e abbondante, ma non per questo “facile”. Si parla infatti di una sorta di “vendemmia tardiva” in Irpinia, per via dell’epoca di raccolta (ovviamente non del grado zuccherino).

Quanto alla descrizione, poco da aggiungere rispetto alle considerazioni già fatte in precedenza, per la vendemmia 2014. Ma qui manca il risvolto balsamico, che può piacere o meno. Le due vendemmie (2013 e 2014) sembrano sorelle: altissimo livello, vini perfetti.

Ma qui manca quel quid che la 2014 – forse a causa di un lavoro ancora più accurato nella selezione delle uve in vigna, per via del meteo – riesce a esprimere prima al naso, poi al sorso e, infine, nel retrolfattivo (voto: 94/100).

Greco di Tufo 2009, Sertura
Vino frutto dell’ultima vendemmia “casalinga” di Giancarlo Barbieri, nel garage di casa. Ma provate a piazzarlo in una degustazione alla cieca, tra amici. Nessuno – ne siamo certi – riuscirà a capire che si tratta di un vino realizzato per hobby.

Un Greco di Tufo carico, pieno, col naso più morbido di tutti, pur conservando i tratti vulcanici tipici dell’area vesuviana e i risvolti citrici del vitigno. Un vino impreziosito da una nota vagamente idrocarburica, che contribuisce a creare ulteriore fascino all’inizio di una storia che, per Sertura, si preannuncia infinita (voto: 90/100).

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Analisi e Tendenze Vino news

Tre mesi senza stipendio: sciopero all’Istituto Regionale Vini e Oli di Sicilia

MARSALA – Sessantasei dipendenti senza stipendio da 3 mesi all’Istituto Regionale Vini e Oli di Sicilia. Lo denuncia il sindacato UgL Sicilia, nel proclamare lo sciopero per l’11, 12 e 14 giugno, dalle ore 9 alle ore 13.

“Questo Ente è di fatto abbandonato dal Governo regionale siciliano”, attacca l’Unione generale del Lavoro. Rischiano così di saltare i prelievi utili alle certificazioni dei vini Doc e degli oli siciliani. L’Irvo, del resto, vive in regime di gestione commissariale ormai da diversi anni.

A chiarire i contorni della vicenda sono Gaetano Cassibba, coordinatore regionale Enti Vigilati Ugl, Stefano Pulizzi, coordinatore provinciale e Giacomo Alberto Manzo, dell’Rsa Ugl del presidio di Marsala.

“Nonostante le difficoltà finanziarie – spiegano – è stata garantita con il qualificato personale tecnico la certificazione e controllo dei vini siciliani a Doc e degli Oli di Sicilia. Da oltre sei anni manca il Consiglio di Amministrazione, in grado di programmare e rilanciare alcune delle attività istituzionali”.

Tra queste la ricerca scientifica e le attività promozionali del vino e dell’olio. “Indispensabili – evidenzia UgL Sicilia – in un mercato mondiale sempre più alla ricerca di prodotti salubri e certificati, su cui bisogna investire”.

“Facciamo appello al governo regionale – aggiunge l’enologo marsalese Giacomo Manzo – affinché predisponga di concerto con i competenti uffici tutti gli adempimenti necessari ad evitare il blocco dei prelievi e delle certificazioni dei vini a Doc e degli Oli di Sicilia e per affrontare seriamente la questione dovuta alla mancata corresponsione degli stipendi dei dipendenti”.

Manzo chiede inoltre “l’immediata nomina del nuovo Cda, ormai indispensabile”. “Ci sentiamo come una nave senza il comandante – chiosa l’esponente della Rsa dell’Irvo Marsala -. Ci sono tutte le altre figure professionali, ma manca la guida che non può essere assicurata da un regime commissariale”.

All’Istituto Regionale Vini e Oli di Sicilia – fondato nel 1950 – lavorano tecnici agronomi, chimici ed enologi attivi al fianco dei viticoltori, degli olivicoltori e delle imprese siciliane. Un presidio in grado di tendere la mano soprattutto ad aziende di piccole e medie dimensioni.

CONTROLLI A RISCHIO
Proprio in questi giorni è in costante aumento la mole di lavoro a carico dell’Irvo. E’ di fatto al vaglio dell’Assessorato la costituzione di un’ulteriore Commissione di degustazione deputata all’esame organolettico dei vini a Doc “Sicilia”, in aggiunta alle due attualmente operanti.

La modifica del disciplinare della Igt “Terre Siciliane”, con il divieto alla specificazione dei vitigni “Nero d’Avola” e
“Grillo” a partire dalla vendemmia 2017, sta avendo come conseguenza un aumento cospicuo della produzione a DOC “Sicilia”, denominazione per la quale è invece consentito il riferimento ai due vitigni.

Le aziende assoggettate per la Doc Sicilia sono passate da 289 al 1/08/2017 alle attuali 388, suddivise in 319 aziende trasformatrici e 344 aziende imbottigliatrici. Le ditte che chiedono l’assoggettamento come imbottigliatori continuano comunque ad aumentare.

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Birra news

Ceres, post sul Governo: “Grazie raga, è stato meglio dei mondiali”

“Grazie raga, è stato quasi meglio dei mondiali”. Spopola sul web l’inserzione sponsorizzata di Ceres, comparsa a poche ore dalla notizia della formazione del nuovo Governo.

“E’ sempre un piacere Luigi Di Maio, Matteo Salvini, Sergio Mattarella, Enrico Mentana“, recita lo spot del noto marchio di birra danese.

Un’entrata a calice teso nella storia infinita che ha visto protagonisti Cinque Stelle, Lega e il presidente della Repubblica.

Birra ghiacciata e pop corn, appoggiati sulla bandiera di un’Italia che i mondiali quest’anno li guarderà dal divano. Da spettatrice.

Come spettatori sono stati gli italiani, in queste settimane di spread alle stelle, mercati in subbuglio e tedeschi col mirino puntato sul Bel Paese.

Al termine di una serie infinita di rimpalli, scambi di responsabilità fra partiti di maggioranza, Presidente della Repubblica e forze di opposizione – roba che neanche Andre Agassi, Pete Sampras, Steffi Graf e Martina Navràtilovà sullo stesso campo di gioco – ecco il post di Ceres. Con tanto di “tag” a Luigi Di Maio, Matteo Salvini e Sergio Mattarella.

Geniale. Geniale nella sua semplicità e contemporaneità. Così come il post dello scorso 25 maggio quando, sulla scia della nuova normativa per la privacy, Ceres pubblicò “Informativa sulla Privacy […] Accetta ed esci, che è venerdì”. Commento al post? “Dai che della tua birra ti puoi fidare.”

Ironia. Forse davvero una delle chiavi per comunicare non solo un brand, ma anche il concetto di bere consapevolmente.

Non ce ne vogliano quindi Di Maio e Salvini se, accanto all’ormai noto slogan “bevi responsabilmente”, per una volta ci sentiamo si aggiungere “Governa responsabilmente”.

#governaresponsabilmente

Giacomo Merotti, Davide Bortone

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news Spirits

Lunelli scatenati in Trentino: vino, grappa, acqua. Ora l’Amaro Re Laurino

TRENTO – Non si arresta la crescita del gruppo Lunelli in Italia, forte anche di tanti successi a livello internazionale. Dopo la grappa Segnana e l’acqua Surgiva, la famiglia proprietaria di Ferrari Trento segna un altro colpo in città: l’acquisizione del marchio dell’amaro Re Laurino.

“Dell’Elmo Saracini, famoso per la sua grappa e per il suo amaro Re Laurino, ci ha espresso la volontà di vendere. Gli amari hanno ricominciato ad essere apprezzati ultimamente. E così abbiamo accettato la proposta, acquistando l’azienda”.

Parole di Franco Lunelli in esclusiva a vinialsuper, durante il nostro tour delle Tenute di proprietà della famiglia trentina che ha dato il via al sogno di produrre “uno spumante capace di competere con lo Champagne, in Italia”.

Dalle finestre della sede di Ferrari Trento si scorge, in lontananza, la distilleria Tschurtschenthaler dell’Elmo Saracini, ormai di proprietà della terza generazione Lunelli. Situata a soli 7,3 chilometri da via del Ponte: 10 minuti di strada, in auto.

I Lunelli inizieranno a produrre l’amaro dal prossimo anno, dopo aver rilevato il marchio Re Laurino – legato tra l’altro a una delle più note leggende del Trentino, tramandata soprattutto in Val di Fassa – “senza modificare la ricetta originale”.

Il liquore “Re Laurino”, “digestivo e aperitivo”, è il simbolo della storica casa di Povo di Trento: “Un Elisir creato da Mario Tschurtschenthaler dell’Elmo. Il primo commercializzato dalla famiglia”. Presentato tuttora con l’etichetta originale degli anni Cinquanta. E’ la “Riserva dell’Elmo Saracini”, il prodotto di punta.

“So che i ragazzi hanno in mente qualcos’altro – chiosa Franco Lunelli – ma questo ve lo racconteremo la prossima volta!”. In realtà, le novità annunciate a vinialsuper non finiscono qui.

IN ARRIVO ANCHE NUOVI VINI ROSSI
La crescita del brand Lunelli si concentrerà anche sul core business: il settore wine. Tenuta Podernovo, in Toscana, si prepara di fatto alla presentazione di due nuove etichette di vino rosso fermo.

Il tutto avverrà tra la fine di settembre 2018 e i primi mesi del 2019, per un totale di 7-8 mila bottiglie complessive. Si tratterà di un Cabernet Franc (vinificato in barrique nuove) e di un Sangiovese (tonneaux, barrique, botte grande), vinificati in purezza.

“La Denominazione sarà ‘Igt Costa Toscana’, che affiancherà l’Igt Toscana e comprende i territori di Massa, Lucca, Livorno, una parte della provincia di Pisa e Grosseto”, anticipa l’enologo trentino Corrado Dalpiaz, emissario dei Lunelli nel pisano dal 2001 e colonna portante dell’enologia italiana.

Le due etichette saranno delle vere e proprie “chicche” destinate all’Horeca, che affiancheranno gli ormai collaudati “Aliotto” e “Teuto”, presenti anche in Gdo (Esselunga e Il Gigante). “Due vini ottenuti da selezioni delle migliori uve dei nostri vigneti di 15 anni, in occasione della vendemmia 2015 a Tenuta Podernovo”.

IL GRUPPO
Ferrari Trento, azienda che da sola rappresenta la fetta più importante del Gruppo Lunelli, è ormai simbolo del Made in Italy e dello stile di vivere italiano nel mondo. Conta oggi 5,4 milioni di bottiglie prodotte, con l’export al 15%.

Ferrari fu pagata 30 milioni di lire al momento del suo acquisto. Oggi il fatturato si assesta su 71 milioni di euro (+12% rispetto al 2016). Sale a 100 milioni il fatturato complessivo del Gruppo Lunelli, che cresce del 7% rispetto al 2016 e commercializza, in totale, 11 milioni di bottiglie.

Un impero che comprende anche la casa prosecchista Bisol di Valdobbiadene, la storica distilleria trentina Segnana e Surgiva, brand di acqua che sgorga nel Parco Naturale Adamello Brenta, scelta dall’Associazione Italiana Sommelier (Ais) e destinata alla migliore ristorazione.

Tra i recenti successi riconducibili alla famiglia Lunelli, anche la freschissima elezione di Mirko Scarabello (prima responsabile di produzione e poi direttore tecnico e mastro distillatore di Segnana) a presidente dell’Istituto di Tutela Grappa del Trentino.

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Juve, brindisi Ferrari per lo scudetto dei record

La Juventus, alla penultima giornata del Campionato, conquista il settimo scudetto consecutivo, celebrato con le bollicine Ferrari Trentodoc.

Anche in questa stagione un traguardo sudato, grazie a una squadra che non ha mai smesso di crederci e di lottare e che, con il pareggio contro la Roma nella serata del 13 maggio all’Olimpico ha regalato ai tifosi un’altra grandissima gioia (dopo la conquista della Coppa Italia solo 4 giorni prima).

In spogliatoio erano già pronti i grandi formati di Ferrari Trentodoc dedicati a questo storico traguardo. Sull’etichetta campeggiano il disegno dello scudetto, il logo Juventus e l’hashtag #MY7H.

La festa della squadra ha visto per il terzo anno consecutivo suggellare i festeggiamenti con le bollicine Ferrari, grazie a una partnership “sinonimo di un orgoglio tutto italiano, nel segno della storia e dello stile che entrambe le società rappresentano a livello internazionale”.

Questo storico successo arriva, inoltre, nell’anno in cui Juventus festeggia i 120 anni dalla sua fondazione, celebrati dalla cantina della famiglia Lunelli con “Ferrari Selezione Juventus 120“.

Un Trentodoc esclusivo, presentato in un cofanetto dedicato, proposto in soli 1897 esemplari, come l’anno di fondazione della squadra. E’ possibile acquistare la bottiglia “Ferrari Selezione Juventus 120” scrivendo a enoteca@ferraritrento.it.

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