Cantina Ripa della Volta ha presentato i propri vini e il proprio progetto legato alla sostenibilità con una degustazione presso la propria sede di Verona, lo scorso 15 ottobre. Un’occasione propizia anche per approfondire l’espressione della Valpantena, sottozona della Valpolicella sempre più in auge. Nata nel 2015 dalla volontà del giovane imprenditore Andrea Pernigo, Ripa della Volta punta a unire territorio, vino e cultura. L’idea è quella di una “Creative Organic Farm“: un’azienda agricola guidata dal rispetto per la terra. Un rispetto che si concretizza in una coltivazione biologica mirata a preservare il suolo e ad arricchirlo nel tempo.
RIPA DELLA VOLTA E IL SUO APPROCCIO SCIENTIFICO E SOSTENIBILE
Nei 25 ettari di proprietà, di cui 15 vitati, non si coltivano solo i vigneti ma anche ulivi ed erbe aromatiche. Un ecosistema agricolo in cui, grazie al riutilizzo degli scarti delle singole produzioni, si contribuisce al circolo virtuoso della sostenibilità. Le circa 50 mila bottiglie prodotte diventano così espressione di una filosofia artigianale, rispettosa della terra e volta alla sostenibilità. Le fasi della produzione sono seguite direttamente dalla cantina, a partire proprio dalla cura dei vigneti, gestiti non solo in “bio” ma soprattutto attraverso un approccio scientifico. Ripa della Volta letteralmente “misura” i propri vigneti attraverso l’Indice Bigot. Un metodo brevettato, che consente di valutare il potenziale qualitativo di ogni singolo vigneto.
L’Indice Bigot misura 9 parametri di ogni appezzamento (produzione, superficie fogliare esposta, rapporto fra metri quadri di foglie e uva per ceppo, sanità delle uve, tipo di grappolo, stato idrico della pianta, vigore vegetativo, biodiversità, età del vigneto) che prendono in considerazione il vigneto nel suo insieme, come un organismo vivente. Oltre 10 mila dati all’anno, che permettono di ottimizzare la produzione e la gestione delle uve.
LA VALPANTENA DI RIPA DELLA VOLTA
Ripa della Volta si candida così a un ruolo primario tra le cantine che intendono valorizzare la Valpantena. Situata nel cuore della Valpolicella, la Valpantena è una valle che nasce a ridosso della città di Verona e che conduce ai Monti Lessini. I suoi suoli marnosi e calcarei sono ricchi di elementi che conferiscono ai vini una spiccata mineralità e complessità. La disposizione nord-sud della valle e la presenza dei Monti Lessini favorisce inoltre la ventilazione, a beneficio della sanità delle uve. Le quote mediamente più alte rispetto al resto della Valpolicella, inoltre, garantiscono un clima più fresco ed una buona escursione termica fra il giorno e la notte.
I VINI DI RIPA DELLA VOLTA
«Svincolarsi dallo stereotipo dell’Amarone come “vino di metodo”» e «realizzare vini che siano identitari e rappresentativi del territorio». È con questa idea che nascono i vini di Ripa della Volta. Una scelta che si traduce anche nei vitigni utilizzati: accanto ai classici Corvina, Corvinone, Rondinella e Oseleta troviamo così anche Spigamonte e Turchetta (vitigno, quest’ultimo, che sta trovando spazio anche nella zona di Rovigo). Vitigni ormai pressoché dimenticati.
VALPOLICELLA SUPERIORE DOC 2022
Un vino fresco, asciutto, snello. Già dal colore rubino brillante tradisce la sua agilità. Al naso apre floreale su note di violetta, rosa e lavanda. Seguono sentori di frutto rosso, ciliegia matura e melograno arricchite da una piacevole nota pepata. Al palato è scorrevole, con una freschezza scalpitante. Verticale e sapido con tannini setosi.
VALPOLICELLA RIPASSO DOC 2021
Due anni di affinamento in botti grandi per il Valpolicella Ripasso Doc 2021 di Ripa della Volta. Quel tanto da arrotondare il vino, quel poco da non marcare troppo coi sentori terziari e perdere l’identità territoriale. Al naso affianca ad un frutto rosso giovane, delicato e goloso un frutto più scuro come mora e prugne essiccate. Leggera nota tostata e speziata. Il tannino è più vivo e presente che nel Superiore ma non per questo invasivo o troppo “asciugante”. La viva freschezza resta come marchio distintivo della Cantina.
AMARONE DELLA VALPOLICAELLA 2019
Tre anni in botte grande, come da disciplinare. Tempo sufficiente alla polimerizzazione dei tannini senza spingere sui sentori. Ne risulta un Amarone fresco e dalla grande bevibilità nonostante i 15% vol. Al naso non sono in sentori legnosi, vanigliati e di tostatura, a dominare. Ciò che guida il quadro olfattivo sono le note di frutta matura, di rosa, di ciliegie sotto spirito, note agrumate ed un tocco balsamico-mentolato. In bocca è ricco, con l’alcool molto ben integrato ed un’acidità vibrante. Beva asciutta, contemporanea, verticale e con tannini vellutati.
AMARONE DELLA VALPOLICELLA RISERVA 2016 (ANTEPRIMA)
Attualmente non in commercio e prodotto in sole mille bottiglie, l’Amarone della Valpolicella Riserva 2016 di Ripa della Volta affina per circa 3 anni e mazzo in botti piccole. Naso ricco che spazia dalla rosa canina alla frutta sotto spirito ed al ribes nero, dal cioccolato fondente al pepe al chiodo di garofano fino a note tostate. Bevuta importante, quasi in controtendenza rispetto agli alti vini di Ripa della Volta. Corpo pieno e tannini risolti che avvolgono il palato. Resta il marchi di fabbrica della cantina: la viva acidità che sembra quasi voler tagliare a metà il corpo. Finale lungo.
Ca du Ferra Miglior cantina italiana 2025 Davide e Giuseppe un esempio per il settore Davide Zoppi e Giuseppe Luciano Aieta 1
Prendi un sogno, credici davvero. Trova qualcuno che sogni con te. Chiudi gli occhi. E tutto sembrerà in discesa. Non c’è immagine che spieghi meglio il progetto ad ampio respiro di Davide Zoppi e Giuseppe Luciano Aieta, dei loro vigneti verticali, a picco sul mare della Liguria: dipende da dove li guardi. Cà du Ferrà è questo. Molto più di una cantina: uno stile di vita.
Flashback, utile a rimettere insieme i pezzi di una storia senza pari nel mondo del vino italiano, fatta di preparazione, coraggio, spirito imprenditoriale. Amore per le proprie radici, voglia di cambiare il mondo con tenacia, un pezzo alla volta. Realtà e sogni. Davide, laureato in Giurisprudenza, incontra Giuseppe, laureato in Ingegneria, con un Master in Finanza.
Se ne innamora e lo convince, a suon di tramonti mozzafiato, a cambiare vita. Anzi, orizzonte. Da Milano, i due si trasferiscono a Bonassola (La Spezia), noto borgo della Liguria di Levante dove i genitori di Davide, Antonio Zoppi e Aida Forgione, gestiscono dal 2000 una piccola cantina famigliare con agriturismo per l’ospitalità, chiamata Cà du Ferrà (“Casa del Fabbro”).
DAVIDE ZOPPI E GIUSEPPE LUCIANO AIETA, UNITI NELLA VITA E NEL VINO CON CÀ DU FERRÀ
Il matrimonio civile tra Davide e Giuseppe, officiato il 12 novembre 2016 nel castello di Bonassola, finisce addirittura in tv, protagonista di una puntata di “Real Time”. L’unione viene celebrata dalla più nota matrimonialista italiana, l’avvocata e saggista Annamaria Bernardini de Pace. Ospite speciale Enzo Miccio, il più noto Wedding Planner d’Italia. È la base per la “seconda vita” di Cà du Ferrà, con Davide e Giuseppe pronti ad entrare nell’organico dell’azienda agricola, rivoluzionandola sotto ogni aspetto.
«Abbiamo semplicemente continuato ad essere quello che eravamo a Milano», riferisce la coppia ricordando il trasferimento in Liguria. Nel 2017 viene costruita l’attuale cantina, che ospita una produzione di circa 28 mila bottiglie e che presto sarà ampliata, per consentire alla coppia di dedicarsi ancora meglio alla produzione e alle visite in cantina e in vigna. Ciliegina sulla torta è la collaborazione di Cà du Ferrà con una delle enologhe italiane più note: Graziana Grassini.
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CÀ DU FERRÀ MIGLIOR CANTINA ITALIANA 2025 PER LA GUIDA WINEMAG
«L’aspetto umano nel mio lavoro è fondamentale – racconta la winemaker – e l’incontro con Giuseppe e Davide è stato tra i più belli, perché ci siamo affidati l’una agli altri naturalmente, senza forzature. Fare l’enologa vuol dire rendersi interprete della filosofia del produttore e di un territorio, fonderli insieme e saperli tradurre in caratteristiche sensoriali e nell’aspetto più emozionale del vino. Se manca il piacere di stare insieme, manca tutto».
Bonassola, grazie all’impegno delle anime belle di cui profumano tutti i calici di Cà du Ferrà – dal Vermentino al “Vino dolce dell’anno” della nostra Guida 2025, prodotto con l’antica e riscoperta uva Ruzzese – diventa simbolo della riscossa della viticoltura italiana dei piccoli borghi, spesso abbandonati alle proprie sorti.
Il teatro di una riscossa sociale, con la storia d’amore tra Davide Zoppi e Giuseppe Aieta che diventa impresa, nel duplice senso del termine, all’insegna di un approccio alla vita e al lavoro che brilla come un esempio. Non ultimo, Bonassola è la sintesi della forza delle idee e dei grandi progetti, tanto forti da richiamare e convincere grandi personalità come Graziana Grassini diventando realtà. Senza smettere mai di essere anche un bel po’ “sogni”.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Livon nuova cantina 60 anni a San Giovanni al Natisone
Livon festeggia i propri 60 anni in perfetta continuità col passato e guardando al futuro con fiducia. Entro la prima metà del 2025 sarà inaugurata a San Giovanni al Natisone (Udine) la nuova cantina delle Aziende agricole Livon. Uno spazio di 1.500 metri quadrati – alle spalle dell’attuale edificio, in frazione Dolegnano – che ospiterà, oltre agli uffici amministrativi, anche le sale per la produzione del vino. Si tratta dell’ennesimoinvestimento della famiglia Livon, diventata dal 1964 sinonimo e brand internazionale dei vini del Friuli Venezia Giulia. La nuova cantina Livon sarà un luogo che privilegerà la praticità e l’ospitalità, con una nuova sala degustazione. Senza dimenticare il design.
Il progetto è stato infatti affidato all’architetto Enrico Franzolini, noto per le sue collaborazioni con icone del settore del mobile come Alias, Cappellini, Foscarini, Knoll International e Moroso. Un’operazione di riqualificazione di alcuni edifici abbandonati – demoliti e ricostruiti all’insegna della sostenibilità, con 80 kilowatt di impianto fotovoltaico – per una spesa che si aggira attorno a 1,5 milioni di euro, escluso il costo delle nuove attrezzature. In arrivo diverse botti di legno grande da 25 ettolitri, di svariate tostature, prodotte dal noto brand Garbellotto. Nonché dieci “uova” di cemento da 100 litri.
LIVON, NUOVA CANTINA E CAMBIO DI PASSO STILISTICO
La scelta di nuovi legni grandi – e non di barrique – sottolinea il cambio di passo della cantina friulana, anche sul fronte enologico-stilistico. In occasione dei festeggiamenti dei 60 anni andati in scena a metà settimana, la verticale 1997/2021 di Braide Alte – vino bianco icona della Linea Gran Cru Livon – ha evidenziato un certo desiderio di venire incontro ai nuovi trend di consumo, con una nuova annata (la 2021, per l’appunto) meno opulenta e “grassa” rispetto alle precedenti, ancor più incentrata sulla freschezza e sulle note tipiche di una delle varietà più diffuse e apprezzate al mondo, il Sauvignon Blanc (la varietà principale del “cru misto” Braide Alte, che comprende anche Chardonnay, Moscato Giallo e Picolit).
Un vino che si conferma portabandiera del Collio – pur non essendo etichettato come Doc, bensì come Igt Venezia Giulia – capace di affrontare il tempo con la disinvoltura dei grandi vini bianchi internazionali. Su tutte, strepitosa la performance di annate come la 2000 e la 2007 di Braide Alte. Segnali di grande attenzione a vini dai profili stilistici più “moderni” arrivano anche dalla Toscana e dall’Umbria, regioni in cui le Aziende agricole Livon sono presenti con due cantine, Borgo Salcetino e Fattoria Colsanto.
COME SARÀ LA NUOVA CANTINA LIVON
Fatturato complessivo di 6 milioni di euro per il gruppo, capace di tenere sui mercati anche a fronte della sofferenza (generalizzata) dei vini rossi di Montefalco, non a caso quelli più “alleggeriti” nel corso delle ultime annate, come è parso evidente all’ultima anteprima Sagrantino. Valneo Livon è fiducioso e ricorda i passi compiuti dalla famiglia: «Siamo partiti dal Collio e anche se oggi i nostri vini sono distribuiti e conosciuti in più di 50 Paesi del mondo. Ci piace mantenere sempre vivo il legame con questa terra e il ricordo del primo vigneto e della prima cantina Vencò a Dolegna, da cui tutto è partito».
«L’idea di realizzare una nuova cantina – spiega a winemag l’amministratore delegato Matteo Livon – è nata prima del periodo del Covid. Volevamo ingrandirci, ma non a livello di produzione e di numeri, ma di possibilità offerte ai nostri ospiti, ai nostri clienti, ai nostri collaboratori, di poterci venire a visitare in un ambiente più tecnologico, più moderno». La famiglia ha così deciso l’abbattimento dei vecchi casolari agricoli abbandonati e inutilizzati, al centro della frazione di Dolegnano di San Giovanni al Natisone, già all’interno della proprietà, per costruire ex novo un edificio multifunzionale.
«Il progetto curato dall’architetto Enrico Franzolini – continua il giovane amministratore dell’azienda – prevede una zona a soppalco, dedicata agli uffici commerciali e amministrativi e alla nuova sala degustazione. Gli altri spazi ospiteranno al produzione, con i nuovi legni grandi e le cosiddette “uova” di cemento per l’affinamento. È anche prevista la realizzazione di una bellissima cucina con vista, per enfatizzare ed esaltare il concetto di abbinamento dei nostri vini con il food. Un’altra zona importante sarà quella del wine shop».
LIVON E IL FUTURO, TRA FRIULI, TOSCANA E UMBRIA
L’attuale cantina, che ospita il marchio Livon e l’altro marchio di vini friulani Villa Chiopris, sarà convertita quasi interamente a magazzino e zona di stoccaggio. Sarà conservata un’area per la vinificazione delle uve, oltre al laboratorio per le analisi e agli uffici tecnici. Le due aziende friulane della famiglia Livon producono rispettivamente 350 e 300 mila bottiglie, con due gamme ben distinte tra collina (Doc Collio, che include i cru, e Friuli Colli Orientali), e zone più pianeggianti (con vinificazione in solo acciaio).
In Toscana, Borgo Salcetino sfiora una produzione complessiva di 100 mila bottiglie. Infine, a Montefalco, la cantina Fattoria Colsanto della famiglia Livon si assesta sulle 50 mila bottiglie. Duecento gli ettari vitati complessivi di proprietà delle quattro Aziende agricole. Oltre 170 si trovano Friuli, la regione in cui l’azienda continua a investire con la passione di sempre, a distanza di 60 anni dalla fondazione e in memoria del capostipite, Dorino Livon.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Manzoni Bianco e Turchetta Carezzabella Winery lancia i vini del Polesine sulla scena nazionale enologo francesco mazzetto agriturismo corte carezzabella rovigo
Due vitigni su cui puntare, Manzoni Bianco e Turchetta, e un arcipelago di etichette attorno alle quali costruire una nuova storia del vino italiano. Sono gli assi nella manica di Carezzabella Winery, cantina di San Martino di Venezze che ha tutte le carte in regola per lanciare i vini del Polesine e del Delta del Po sulla scena nazionale e internazionale. Siamo in provincia di Rovigo, terra di mezzo incastonata tra il Veneto e l’Emilia Romagna, a metà tra Padova e Ferrara. Quelli di Carezzabella Winery – nome che identifica il progetto enologico dell’AgriturismoCorte Carezzabella, guidato dal giovane e talentuoso winemaker Francesco Mazzetto (ex Duemani) su incarico della famiglia Reato – sono vini che raccontano bene suolo e varietà. Tutti certificati biologici. Cosa aspettarsi? Freschezza e agilità di beva, senza rinunciare appunto a tipicità e carattere.
Caratteristiche che sono valse al Veneto Igt Turchetta 2020 il riconoscimento di “Vino quotidiano” nella Guida Top 100 Migliori vini italiani 2024 di winemag.it. Lo stesso vale per il Bianco Veneto Igt “Brillo“, il rifermentato in bottiglia (pét-nat) di casa Carezzabella Winery, ottenuto da uve Trebbiano, con un saldo del 15% di Pinot Grigio. La scoperta ancora più recente è il Manzoni Bianco 2022, vero e proprio emblema dei “vini di sabbia” (o “di fiume”) di questa giovane cantina veneta. Il vitigno nato negli anni Trenta presso la Scuola Enologica di Conegliano (TV) dall’incrocio tra Riesling Renano e Pinot Bianco si è adattato molto bene nel Polesine. È il risvolto della medaglia della varietà autoctona a bacca rossa Turchetta, che offre molteplici opportunità interpretative in termini di vinificazione (dall’acciaio all’anfora, senza dimenticare il legno) tanto da ricordare la Recantina del Montello.
VINI DEL POLESINE E DELTA DEL PO: UN’IDENTITÀ DA COSTRUIRE
Una “doppietta” destinata a diventare portabandiera di un territorio poco raccontato dalle cronache enologiche e dalle carte dei vini, ma già maturo al punto da confrontarsi col resto del mondo. Lo dimostra la degustazione organizzata il weekend scorso da Carezzabella Winery nella sala conferenze dell’Agriturismo, in collaborazione con i sommelier Ais Rovigo e Veneto. Manzoni Bianco e Turchetta non hanno sfigurato accanto a bianchi e rossi provenienti da Loira, Mosella, Reno, Douro e Trentino, in una sorta di gemellaggio tra zone vinicole caratterizzate dalla presenza di fiumi. Preziosa, in particolare, l’assonanza dimostrata dai calici di Manzoni Bianco e Turchetta rispettivamente con il Riesling del Rheingau targato Bibo Rung e con l’Igt Vallagarina Foglia Frastagliata Enantio Vigneto Storico dell’Azienda agricola Vallarom.
Meritevole di assaggio anche il Pinot Grigio di Carezzabella (in termini di confronti internazionali rappresenterebbe il perfetto contraltare al Muscadet della Loira, da abbinare alle ottime ostriche rosa Scardovari, tipiche della zona), oltre a Cabernet Franc e Merlot, già con qualche accenno alla stilistica della Loira. A incuriosire è anche il Rosso Veneto Igt “Temetum“, una sorta di “taglio Polesine” tra la Turchetta e i bordolesi Merlot e Cabernet Franc. L’ennesima riprova che la sfida di Carezzabella Winery e dell’enologo Francesco Mazzetto per un’interpretazione sempre più autentica e riconoscibile dei vini dei Polesine e del Delta del Po sia appena cominciata, ma già decisamente credibile. Prosit.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
La Vigna del Re della Reggia di Caserta e quel Pallagrello d Oro che sa di storia tenuta fontana
Nel cuore dell’Oasi WWF Bosco di San Silvestro, che lambisce il parco della Reggia di Caserta, ha ripreso vita la Vigna del Re. Nasce qui il Pallagrello “Oro Re” di Tenuta Fontana, che nel 2018 ha reimpiantato una parte del vigneto di 5 ettari un tempo di proprietà del Re Ferdinando di Borbone, grande estimatore della vitigno autoctono della Campania. Con la caduta dei Borboni, a seguito dell’Unità d’Italia, il bosco aveva preso il sopravvento sui filari, invadendo lo spazio dove erano impiantate le viti. Tutto era stato sommerso da arbusti e vegetazione spontanea, che hanno finito per cancellare quel pezzo di storia della viticoltura italiana.
La Vigna del Re ha ripreso vita col recente impianto di barbatelle di Pallagrello bianco e nero, in aree distinte, su una superficie di poco più di un ettaro. Uno spazio sufficiente per rendere ancor più suggestivo questo angolo dell’Oasi WWF di San Silvestro, che sovrasta la Reggia di Caserta. Lasciandosi alle spalle la città, si giunge alla vigna del Re tramite un sentiero sterrato, che conduce alla sommità della collina. Si procede per un paio di chilometri prima di giungere ad uno spazio arioso, soleggiato, aperto alla vista, costellato da migliaia di viti che si susseguono incalzanti, di fronte a un ingresso solenne del quale rimangono solo le due colonne di pietra.
ORO RE DI TENUTA FONTANA, IL PALLAGRELLO DELLA REGGIA DI CASERTA
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Il merito della rinascita della Vigna del Re va a Raffaele Fontana della cantina beneventana Tenuta Fontana, che ha vinto l’appalto per far tornare in vita un patrimonio che sembrava ormai perso. Merito anche della direttrice del Palazzo Reale Tiziana Maffei e del suo predecessore Mauro Filicori, convinti che la Reggia di Caserta fosse stata concepita come «parte di un articolato sistema produttivo territoriale». Nell’ottica di far tornare quel luogo una “casa vivente”, uno dei primi passi riguardò proprio la Vigna del re, affidata per l’appunto a Tenuta Fontana.
La vigna originaria era quella che serviva le tavole e la cantina reale. I circa 5 ettari si estendevano di fronte alla Casina di San Silvestro, nel bosco omonimo, oggi Oasi WWF. L’altra vigna reale conosciuta era quella del Ventaglio, che aveva però un valore puramente coreografico. Col tempo, il bosco aveva inglobato tutto il vigneto tranne l’ettaro situato davanti al cancello d’ingresso della Casina. Quell’ettaro che ora è tornato a nuova vita. «I lavori per preparare il terreno, nel 2018, furono lunghi e complessi; visti gli anni di abbandono, il terreno aveva bisogno di opere di scavo e di ripristino», spiega a winemag.it Raffaele Fontana, che con la figlia Maria Pina e il figlio Antonio gestisce la Vigna del Re.
Furono necessari due o tre mesi di lavoro, ma nello stesso anno riuscimmo a installare i primi impianti e a impiantare le prime barbatelle di Pallagrello. L’abbiamo fatto per amore del territorio, per passione e per far conoscere la storia di questo vino che era andato, con gli anni, un po’ in disuso. Alla fine abbiamo vinto questa sfida e al Vinitaly del 2022 abbiamo presentato “Oro Re”, Igt Terre di Volturno, protagonista anche a Place de Fontenoy, quartier generale dell’’Unesco a Parigi».
L’EPOPEA DEL PALLAGRELLO, DALL’OBLIO ALLA VIGNE DEL RE
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Un vino che fermenta ed è affinato in anfore di terracotta per sei mesi, con permanenza sulle fecce fini. Protagonista assoluto il vitigno Pallagrello, vitigno autoctono della Campania molto diffuso in provincia di Caserta nelle due varianti a bacca bianca e nera. Il grappolo si presenta piccolo, con acini perfettamente sferici. Da qui cui il nome Pallagrello, cioè “piccola palla”, in dialetto locale “U Pallarel“. Una varietà di uva che ha origini antichissime, secondo alcuni riconducibile all’epoca della Pilleolata Romana.
Famosissimo fino a tutto l’Ottocento, era uno dei vini più apprezzati dai Borbone. Le infestazioni di oidio e fillossera nei primi anni del Novecento, assieme alla decadenza sociale e politica delle regioni meridionali, ne decretarono una veloce e prematura scomparsa e un sostanziale oblio, nonostante le indubbie qualità esprimibili in vinificazione. Il Pallagrello, ben coltivato nelle vigne dei contadini campani, fu utilizzato come uva da taglio, fino alla sua riscoperta e al suo allevamento, anche in luoghi esclusivi come la Vigna del Re.
Giornalista, ex direttore di giornali e riviste, autore di due libri, blogger, sommelier e da qualche anno viticoltore sulle colline di San Colombano al Lambro. I miei interessi sono focalizzati sul mondo del vino e del buon cibo. Proprio per questo motivo presto molta attenzione ai giusti abbinamenti.
La Sicilia del vino sempre piu matura e di qualita radiografia di Sicilia en Primeur davide bortone winemag
È una crescita qualitativa generalizzata quella dei vini siciliani. A dimostrarlo, con una certa evidenza, sono gli assaggi alla cieca compiuti a Sicilia en Primeur 2023, annuale rassegna organizzata da Assovini Sicilia che raccoglie la quasi totalità delle eccellenze isolane. L’edizione andata in scena dal 9 al 13 maggio tra Taormina e Radicepura ha saputo rendere onore al claim voluto quest’anno dall’entourage del presidente Laurent Bernard de la Gatinais, “Ambasciatori e Custodi di Cultura e Territorio”. Chi più, chi meno, tutte le denominazioni siciliane rivelano l’ottimo lavoro dei produttori al cospetto di un’annata sfidante, dal punto di vista delle insidie climatiche. Oltre alla qualità in netta ascesa, quel che emerge è l’impulso dato dall’istituzione della Doc Sicilia a diversi territori.
Sull’isola, in maniera capillare, da Est a Ovest, da Nord a Sud, sono rinate denominazioni dimenticate (emblematico il caso del Mamertino) e altre stanno man, mano (ri)prendendo forma (su tutte, le maggiori attese si concentrano sull’eterna promessa Marsala). È una sorta di moto d’orgoglio “localista” quello scaturito dalla formalizzazione della Doc regionale, avvenuta il 22 novembre 2011. Undici anni in cui la viticoltura siciliana è cambiata radicalmente. Perdendo ettari (e non pochi: 40 mila, solo dal 2008 al 2018). Puntando su comunicazione e biologico (42 mila ettari “sostenibili” su 110 mila non sono pochi, anche se il “bio” è un dovere in regioni baciate da Dio come la Sicilia).
Riposizionandosi sui mercati, ben al di là degli sforzi compiuti “privatamente” dalle tante cantine-brand presenti sull’isola (Planeta, Donnafugata, Tasca d’Almerita, Florio e Pellegrino per citarne solo alcune). Partendo dai territori e dai terroir (il sempre più trainante Etna, su tutti). E, non ultimo, proponendosi con rinnovato orgoglio come meta per gli enoturisti nazionali e internazionali, senza il timore reverenziale di dichiarare – apertamente, come ha fatto il presidente Assovini Laurent Bernard de la Gatinais – che «il modello è la California», per le vincenti strategie di marketing dell’accoglienza adottate dallo stato Usa», da coniugare e rimodellare «sull’unicità e sulla ricchezza del patrimonio storico, culturale, archeologico e produttivo siciliano».
SICILIA EN PRIMEUR 2023: BENE GRILLO, NERO D’AVOLA, ZIBIBBO E INSOLIA
Quanto ai calici, con la vendemmia 2022, la Sicilia si conferma isola-continente del vino per tutte le stagioni. Grillo e Nero d’Avola risultano in grande spolvero in tutti gli angoli della regione. Stessa sorte per Carricante, Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio, i vitigni principali dell’Etna Doc. Sempre più chiara – ed è un’altra gran bella notizia – la profilazione dell’Insolia / Inzolia che perde – nella maggior parte dei casi – i tratti verdi e duri che ne caratterizzavano il profilo, nelle annate precedenti.
Una varietà che ha ottime chance di potersi ritagliare spazi di mercato in qualità di “Sauvignon siciliano“, per i suoi tratti aromatici ed erbacei. Nuova vita anche per lo Zibibbo. Nella sua terra d’origine, l’isola di Pantelleria, si registra una crescita esponenziale degli spumanti e dei vini fermi, rispettivamente del 68 e del 25% rispetto al 2018. Il tutto, senza che il Passito di Pantelleria ne risenta più di tanto. Cresce, anzi, anche lui, del 10% rispetto a 5 anni fa, secondo i dati forniti a winemag.it dal presidente del Consorzio, Benedetto Renda.
ANTEPRIMA VINI SICILIANI: LA SCOMMESSA PERRICONE
La vera sorpresa è però il Perricone, vitigno autoctono che, dagli assaggi in anteprima a Sicilia en Primeur 2023, risulta quello maggiormente cresciuto dal punto di vista qualitativo. La riscoperta del vitigno da parte di diverse cantine sta dando nuovo lustro alla varietà originaria della Sicilia occidentale, tanto da aprirgli nuove strade e opportunità anche sui mercati internazionali. Ottima e poliedrica l’interpretazione di Assuli, anche se il suo perfetto compimento è nell’interpretazione magistrale della cantina Feudo Montoni, capace di dare del tu a un vitigno burbero, ribelle, spigoloso, per certi versi selvatico, solo apparentemente da addomesticare, in vigna.
Grappolo grosso, buccia spessa. Il Perricone non ha paura delle malattie fungine e sembra voler quasi sfidare la grandine, con la sua attitudine alla maturazione tardiva. Nel calice ha tutte le carte in regola per diventare la “storia nuova” della viticoltura siciliana, capace di farsi amare per i tratti giovanili, fruttati; tanto quanto per il fascino nell’invecchiamento, al pari dei grandi vini rossi. Certo, aiutano vigneti come quello di Fabio Sireci (nella foto con Melissa Muller), a 800 metri sul livello del mare, vero orgoglio del titolare di Feudo Montoni, che è tra i viticoltori siciliani più disposti a scommettere sulle potenzialità ancora nascoste (ai più) del Perricone.
L’ETNA SI RIPOSIZIONA SUI BIANCHI DEL VERSANTE EST
Per una novità, una certezza in trasformazione, senza perdere identità: l’Etna. Sul vulcano siciliano stanno tuttavia cambiando i rapporti di forza tra i versanti. Se fino a ieri era il versante Nord quello più in vista e blasonato, i nuovi trend di consumo – che privilegiano vini bianchi e spumanti rispetto ai vini rossi – stanno dando grande visibilità al versante Est, in cui si trova in particolare il piccolo comune di Milo. I vigneti, che si estendono dai 700 metri sul livello del mare, svettano tutto attorno a piazza Belvedere, punto panoramico del paese di 1.072 abitanti da cui è possibile ammirare Taormina e, addirittura, scorgere il golfo di Catania e la Calabria.
La crescita dell’Etna Bianco Superiore di Milo sta assorbendo, per certi versi, il calo dell’Etna Rosso Riserva (-26,30% nel 2022, rispetto al 2021). Un exploit che ha il volto di Carla Maugeri (nella foto), vignaiola che insieme alle sorelle Paola e Michela ha ridato nuova vita all’azienda di famiglia, proprio a Milo. Al loro fianco, sin dagli esordi nel 2015, l’enologo Emiliano Falsini e l’agronomo Stefano Dini. Due le interpretazioni di “Contrada Volpare” 2021 degustate in anteprima durante il programma di Sicilia en Primeur 2023. Entrambe risultano capaci di abbinare note di erbe montane a una sapidità iodica, marina, unite a ricordi di agrumi come il bergamotto e di frutta a polpa bianca croccante (mela, susina bianca).
“Contrada Volpare Frontebosco” 2021 affina più a lungo in legno grande ed è un vino che esalata il grande potenziale dell’Etna nella produzione di vini bianchi tesi ed elettrici che, con il giusto apporto di terziari, possono diventare ancora più gastronomici e golosi, di gran persistenza aromatica. Vini che nascono da un vero e proprio museo a cielo aperto, frutto di un lavoro che Carla Maugeri definisce di «ristrutturazione conservativa». Il riferimento è al colpo d’occhio offerto dagli 83 terrazzamenti che circondano il caseggiato, a Milo, donando colore ai 2,8 chilometri di muretti a secco in pietra lavica nera che si snodano nei 7 ettari di proprietà.
ETNA DOC: LA CRESCITA DEGLI SPUMANTI E LA SCELTA DI BENANTI
Una terra, l’Etna, che invita oggi a investire (e a scommettere) sulla crescita internazionale di bianchi e spumanti da uve autoctone. Lo dimostra anche l’ultimo progetto di Mario Piccini, patron della «famiglia del vino toscano» che sul vulcano detiene la tenuta Torre Mora. È da poco sul mercato lo Spumante Metodo Classico Rosé 2018 “Chiuse”, prime 3 mila bottiglie di Nerello Mascalese in purezza vinificato in rosa, dosaggio zero. Quarantotto mesi sui lieviti e sboccatura a febbraio 2023 per una bollicina destinata a raccontare il vulcano siciliano in giro per il mondo, accanto ad altri fulgidi esempi.
Il riferimento è al “Sosta Tre Santi” di Cantine Nicosia, o a “Noblesse” e “Lamorémio” di Benanti, cantina che tuttavia ha scelto di non rivendicare la Denominazione di origine controllata (Doc) per i suoi spumanti, riservata invece ai suoi grandi bianchi e rossi. «L’Etna Doc è piccola – spiega Salvino Benanti (nella foto) a winemag.it – contando solo 1.200 ettari. Il mio timore è che la crescita della categoria “spumanti” finisca per mangiarsi “quote uva” utili alla produzione di vini fermi di qualità. Peraltro, l’Etna non ha storicità o reputazione nella produzione di sparkling. Fosse stato per me, avrei lasciato fuori gli spumanti dalla Denominazione, sperimentando su vigneti di quota non inclusi nel territorio della Doc».
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Vitematta rivincita Asprinio Casal di Principe vino piu forte Camorra
Nel cuore di Casal Di Principe , su terreni confiscati alla Camorra, da alcuni anni è attiva una cantina che fa del vitigno autoctono campano Asprinio la sua mission. Si tratta di Vitematta, guidata dalla famiglia di Vincenzo Letizia. Gli ettari complessivi sono circa 20, di cui 7 vitati. I vigneti si trovano anche a Villa Literno e Santa Maria La Fossa, oltre che nel Comune tristemente noto per le vicende mafiose. Gli altri tredici ettari sono gestiti dalla Cooperativa Eureka, che qui qui coltiva albicocche, pesche, mele annurche e prugne e vendute a “Chilometro zero”.
“Vitematta” ha alcune peculiarità che la contraddistinguono e che la fanno emergere nel panorama italiano. In primo luogo la coltivazione quasi esclusiva dell’Asprinio. Buona parte dei vini sono ottenuti da uve cresciute sulle secolari “alberate”: la vite si arrampica sino a 12 metri di altezza su intricati cavi d’acciaio, tirati tra un pioppo secolare e l’altro. La parete di foglie e di grappoli deve essere lavorata e vendemmiata con l’ausilio di strettissime scalette appoggiate ai cavi. Un’impresa non facile, ma molto suggestiva che viene svolta secondo la tradizione.
«Perché coltiviamo quasi esclusivamente Asprinio? Perché vogliamo preservare la tradizione – risponde Vincenzo Letizia – e per dare uno spunto al nostro territorio. Noi vogliamo che la zona di Casal di Principe e Villa Literno siano caratterizzate dall’Asprinio, vitigno non molto utilizzato in precedenza, ma molto versatile. Con questo vitigno si possono infatti produrre, oltre ai vini bianchi, anche spumanti, passito e grappa».
VINO E FRUTTA SUI TERRENI CONFISCATI ALLA MAFIA
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Il valore aggiunto dei vini di Vitematta va ben oltre le sensazioni regalate da un calice di vino. La produzione di Asprinio nasce su due terreni confiscati alla Camorra nel territorio di Casal Di Principe. I vigneti sono stati affidati nel 2009 alla Cooperativa Eureka, creatrice di Vitematta, cooperativa sociale mista A/B aderente al Consorzio di cooperative sociali N.C.O. – Nuova Cooperazione Organizzata. Su questi terreni Eureka ha dato vita al Centro di agricoltura sociale “Antonio di Bona”, agricoltore di Casal Di Principe, vittima della Camorra.
Cogliendo la sfida del riutilizzo sociale e produttivo dei beni confiscati alle mafie, la cooperativa include nel suo team persone svantaggiate con problemi di salute mentale ed ex detenuti. Il fine è quello di contribuire al loro percorso di emancipazione e recupero. Paola D’Angelo è la collaboratrice di Letizia, responsabile della cooperativa Eureka che racconta così il progetto: «In cantina operano attualmente una decina di ragazzi, alcuni di questi assegnatici dal magistrato e che scontano la loro pena carceraria lavorando nella nostra struttura. Gli altri invece hanno problematiche psichiche e il loro impegno è davvero encomiabile. La nostra collaborazione con “Vitematta” è notevole, siamo molto orgogliosi di questa esperienza»,
Il nostro scopo è di portare avanti un’attività che non sia assistita da soldi pubblici – chiosa Vincenzo Letizia – ma che possa mantenersi con un’adeguata gestione imprenditoriale. Ed è proprio questa mentalità che noi perseguiamo. Vogliamo abbinare la qualità dei nostri prodotti, tenendo in vita la tradizione ancestrale dell’Asprinio ad una efficace mentalità imprenditoriale che possa attecchire ed emergere adeguatamente. Il tutto per rendere un favore al nostro territorio, che deve essere caratterizzato e individuato per la qualità dei suoi prodotti».
I VINI DI VITEMATTA: TUTTE LE SFUMATURE DELL’ASPRINIO
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I vini di Vitematta, prima di essere imbottigliati, affinano nelle tipiche grotte secolari dell’Agro Aversano, scavate nel tufo. Così acquisiscono quel sapore marcatamente mediterraneo, leggermente aspro ma elegante, piacevole, schietto e autentico. L’Asprinio Doc Aversa 2021si presenta con un color oro molto intenso e con profumi che ricordano la frutta fresca. Al palato è fresco e gentile, ha un poco d’asprezza nel retrogusto, ma nel complesso è decisamente piacevole.
“Principe“, lo spumante Metodo classico di Vitematta, ha una produzione limitata di circa 6 mila bottiglie. Asprinio in purezza, trascorre 24 mesi sui lieviti. Viene realizzato interamente in cantina, con il metodo caro allo Champagne. Le bottiglie sono impilate sulle pupitres e gli addetti se ne occupano ogni giorno. Nessun giro pallets automatico per questa limitatissima e splendida produzione, che si presenta al calice con un colore giallo molto intenso e alla bocca con il classico aroma di crosta di pane al quale si unisce una particolarità leggermente asprigna, tipica del vitigno.
“Marhitate” è invece il Metodo italiano / Charmat di Vitrematta (la tecnica con la quale si ottiene, per esempio, il Prosecco), che conta invece su una produzione più consistente, circa 50 mila bottiglie. Il mosto trascorre quattro mesi in autoclave e il risultato è sorprendente. Il colore è giallo paglierino, più scarico del metodo classico “Principe”. Al palato sorprendono i sapori fruttati che quasi nascondono l’aspro del vitigno base. Ottimo come apritivo.
“Edonè” è il passito di Vitematta, ennesimo vino sorprendente e più che mai convincente. Alla vista si presenta di un bel giallo paglierino e al naso e in bocca scatena intensi ricordi di mandorla e miele. Un vino elegante, non certo sulla scia dei passiti “chiassosi” e stancanti. Il residuo zuccherino è molto ben bilanciato, tanto da consentirne una beva agile. Un vino dolce molto indicato per l’abbinamento con formaggi e pasticceria.
Vitematta Cantine
Via Treviso, I Traversa 81033 Casal di Principe (Caserta) info@vitematta.it +39 081 892 3880
Giornalista, ex direttore di giornali e riviste, autore di due libri, blogger, sommelier e da qualche anno viticoltore sulle colline di San Colombano al Lambro. I miei interessi sono focalizzati sul mondo del vino e del buon cibo. Proprio per questo motivo presto molta attenzione ai giusti abbinamenti.
vigneto centenario della Barbera d Alba Pre Phylloxera Elvio Cogno valter fissore
Nascosto, protetto, inarrivabile. Il vigneto centenario in cui prende vita la Barbera d’Alba “Pre-Phylloxera” di Elvio Cogno sembra la congegnata antitesi dei vigneti di chi ha messo Ravera sulla mappa del Barolo. Non ci arrivi, se non accompagnato. Preso per mano da chi ne ha voluto, fortemente, il salvataggio. L’esatto opposto delle vigne di Nebbiolo che circondano fiere, quasi a girapoggio, la cantina di Novello (CN).
La Barbera “Pre-Phylloxera” di Elvio Cogno, del resto, è un manifesto al vivere lento. Fuori dai radar. Fuori dalle rotte del vino comune, mainstream. Un po’ opera d’arte. E un po’ follia. In pochi avrebbero deciso di preservare quel mazzo di filari – nove, per l’esattezza, a 520 metri di altitudine in località Berri, nel Comune di La Morra – capaci di restituire appena 20-30 quintali di resa di qualità eccezionale.
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Eppure, basta guardare come s’illuminano gli occhi di Giacomo Vaira (nel video, sotto) tra i più giovani del team di Elvio Cogno, per capire quanto la scelta di non estirpare sia stata azzeccata. Anzi proiettata, paradossalmente, al futuro. Poco più di tre mila metri di superficie su suoli prevalentemente di sabbia, con limo e calcare, sono il segreto della longevità di questo “museo a cielo aperto”.
Le viti a piede franco e maritate arrivano a superare i 120 anni, regalando una produzione di 1.800 bottiglie di Barbera d’Alba “Pre-Phylloxera” l’anno. Una «vendemmia speciale» per chiunque abbia «la fortuna e l’onore» di poter scegliere i grappoli migliori, da piante divenute monumenti alla natura e alla sua resilienza. Per tenerle in vita, la Elvio Cogno adotta costosi accorgimenti.
L’ENDOTERAPIA PER SALVARE IL VIGNETO CENTENARIO DI BARBERA
Le piante che mostrano segni di flavescenza dorata e mal dell’esca vengono sottoposte a una sorta di “lavanda gastrica”. «Attraverso un tubicino innestato nel tronco – spiega Valter Fissore, Deus ex machina della Elvio Cogno – mettiamo in circolo una soluzione di rame ed oli essenziali di alghe che entrano nei vasi linfatici, a una pressione di 10-15 bar».
È una tecnica agronomica innovativa e molto costosa, chiamata endoterapia. Un 40% delle piante trattate negli ultimi anni si è ripresa bene. Salvare questi monumenti naturali ha molto più valore che rimpiazzare le piante malate con nuove barbatelle: è un dovere, che risponde anche a criteri di sostenibilità economica, viste le incognite del reimpianto».
Nell’area adiacente al vigneto “Pre-Phylloxera”, Elvio Cogno si appresta a impiantare qualche filare di Barbera a piede franco ottenuta dalla selezione del vigneto centenario originario. Un modo per preservare il patrimonio della vecchia vigna, giunto fino ai nostri giorni. E continuare a produrre un vino unico nel panorama piemontese, italiano ed internazionale.
Come spiega Valter Fissore (nella foto, sotto), l’etichetta incuriosisce tanto i buyer italiani quanto quelli esteri. In Italia è Sarzi Amadè a curarne la distribuzione. Circa 600 le bottiglie che rimangono nel Bel paese, assegnate con dovizia dalla Elvio Cogno. Ma la Barbera d’Alba “Pre-Phylloxera” è una chicca che piace anche negli Usa, così come nei Paesi del Nord Europa, Norvegia in testa, e in Giappone.
Il vigneto centenario della Barbera d Alba Pre Phylloxera Elvio Cogno valter fissore bottiglia vendemmia 2020 1
Il vigneto centenario della Barbera d Alba Pre Phylloxera Elvio Cogno valter fissore bottiglia vendemmia 2020 2
La vendemmia 2020 è in esaurimento e la 2021 sarà disponibile a partire dalla prima metà del 2023. Il vino affina un anno in botte grande di rovere, senza perdere alcuna caratteristica che la rende unica. Al netto delle differenze tra annata ed annata, all’assaggio alla cieca può confondere.
Il fil rouge che lega le varie vendemmie (winemag.it ha potuto degustare la verticale 2018, 2019, 2020) sono i rimandi a note pepate (pepe nero) che stuzzicano la straordinaria integrità del frutto, scuro e rosso. Un tocco di elegantissima tannicità guida il sorso, accompagnando freschezza e bevibilità eccezionale, segno tipico di tutti i vini di Elvio Cogno.
L’ottima stratificazione e, ancor più, la profondità, rischiano di confondere nel blind tasting, avvicinando questa Barbera d’Alba ad alcuni dei tratti tipici del Rodano francese, tra il frutto goloso e croccante del Grenache e la spezia scura del Syrah. La verità, invece, è un’altra: la Barbera d’Alba “Pre-Phylloxera” di Elvio Cogno è un vino uguale solo a se stesso. Specchio fedele di quel vigneto centenario da cui prende vita. Nascosto, protetto. Inarrivabile.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Le vigne eroiche del Buttafuoco storico tra pendenze e basse rese abbinamento col pesce si puo 2
In fondo, basta un po’ di fantasia. A ovest il Torrente Scuropasso: la Garonne. A est il Torrente Versa: la Dordogne. Con le dovute proporzioni, Buttafuoco storico e Bordeaux condividono l’abbraccio di due corsi d’acqua. Ma è l’approccio alla singola vigna, più unico che raro in Oltrepò pavese, a rendere meno azzardato il parallelismo tra lo “Sperone di Stradella” – l’areale di produzione del Buttafuoco Storico – e una porzione della mitica regione vinicola francese.
Solo 22 ettari, compresi nei comuni di Canneto Pavese, Montescano, Castana e parte dei comuni di Broni, Stradella, Cigognola e Pietra de’ Giorgi. Tutti in provincia di Pavia, a sud del fiume Po. Si trovano qui le vigne del Buttafuoco Storico, molte delle quali presentano pendenze esasperate e basse rese, tipiche della viticoltura eroica.
Una zona di eccellenze, tanto nel calice quanto nel piatto. La riprova grazie al (provocatorio) menu ideato dallo chef Alessandro Folli del Ristorante Ad Astra di Santa Maria della Versa. Piatti a base di pesce, crostacei e molluschi, ingredienti lontani dalla tradizione locale, dimostrano una certa poliedricità nell’abbinamento del Buttafuoco storico, oltre a confermare il buon livello della ristorazione pavese.
UNA «DOCG PRIVATA» ALLA SFIDA DEI TEMPI
Ad accettare la sfida, uscendo dalla comfort zone della classicità del pairing, sono i 17 produttori aderenti al Club del Buttafuoco Storico, desiderosi di allargare i confini di un vino prodotto in tiratura limitatissima – appena 90 mila bottiglie all’anno – assimilabile, per definizione degli stessi vignaioli pavesi, a una sorta di «Docg privata» (se ne era parlato prima del Covid-19).
La guida del Club, prossimo a inaugurare una nuova sede con wine-bar proprio accanto a quella attuale, in frazione Vigalone a Canneto Pavese (PV), è affidata al produttore Davide Calvi. Una mente curiosa e lucida, affiancata nella direzione dal manager Armando Colombi e dall’esperienza del vice presidente Giulio Fiamberti.
Per l’abbinamento, Club e chef hanno scelto due annate (2017 e 2012) della bottiglia consortile “Vignaioli del Buttafuoco storico“, frutto della volontà dei produttori di condensare, in un unico vino, le caratteristiche delle vigne iscritte al rigido “disciplinare” di produzione.
Una “cuvée speciale” ambasciatrice del Buttafuoco storico, assemblata ogni anno, sin dal 2011, da un enologo italiano esterno (l’ultima in commercio, la 2017, è firmata da Michele Zanardo, vicepresidente vicario del Comitato Nazionale Vino Dop e Igp). Per il dolce, un’altra chicca: il Buttafuoco storico chinato.
LE VIGNE DEL BUTTAFUOCO STORICO: GHIAIE, ARENARIE E ARGILLE
I 20 “cru” sono suddivisi da nord a sud in tre macro areali, definiti dalle caratteristiche del suolo. Ghiaie a nord, Arenarie al centro e Argille nella parte meridionale. Sei le espressioni delle Ghiaie: Badalucca, Casa del Corno, Solenga, Beccarie-Carì, Pianlong e Sacca del Prete.
Per le Arenarie ecco gli otto Buttafuoco Storico Bricco in Versira, Pregana, Montarzolo, Canne, Pitturina, Costera, Rogolino e Poggio Ca’ Cagnoni. Meno “congestionata” la sottozona delle Argille con le altre 6 espressioni delle vigne Frach, Catelotta, Garlenzo, Ca’ Padroni, Poggio della Guerra e Casa Barnaba.
Buttafuoco storico dalle Ghiaie: alcolicità e acidità
Territorio più a nord della zona di produzione del Buttafuoco Storico con fondo di ghiaie inglobate in sabbie. Sottozona caratterizzata da vigne molto ripide che esprimono il meglio a monte della metà collina. Le uve raggiungono elevati gradi di maturazione e si trasformano in vini ricchi, leggermente spigolosi da giovani, ma con elevata longevità.
Producono qui:
Azienda Agricola Fiamberti Giulio
Azienda Agricola Il Poggio di Alessi Roberto
Giorgi
Cantina Scuropasso
Azienda Agricola Bruno Verdi
Buttafuoco storico dalle Arenarie: alcolicità e tannicità
Territorio centrale della zona di produzione del Buttafuoco Storico con fondo di arenarie compatte in alcuni punti quasi affioranti. Le vigne di questa sottozona sono esposte prevalentemente a Sud-Ovest. La compattezza delle arenarie ostacola la crescita della pianta nei primi anni per dare però alla vite matura una forte resistenza alla siccità. Le uve concentrano la mineralità del sottosuolo e la trasmettono ai vini che si presentano in gioventù leggermente aspri, ma che evolvono in complessa austerità.
Producono qui:
Azienda Agricola Poggio Rebasti
Azienda Maggi Francesco
Azienda Agricola Piovani Massimo
Azienda Agricola Riccardi Luigi
Azienda Vitivinicola Calvi
Buttafuoco storico dalle Argille: alcolicità e corpo
Territorio più a sud della zona di produzione del Buttafuoco Storico con fondo di argille stratificate. In questa sottozona la pendenza delle vigne è inferiore alle altre due, il fondo è generalmente più fresco e dona alla pianta particolare robustezza. Le uve, favorite da un decorso vegetativo di solito costante, maturano perfettamente. I vini si presentano da subito rotondi e intriganti pur evidenziando notevole struttura e corposità.
Producono qui:
Azienda Agricola Diana
Azienda Agricola Quaquarini Francesco
Tenuta La Costa
Azienda Agricola Giorgi Franco
Azienda Agricola Cignoli Doro
Azienda Agricola Colombi Francesco
Piccolo Bacco dei Quaroni
LE UVE DEL BUTTAFUOCO STORICO: CROATINA, BARBERA, UGHETTA E UVA RARA
L’infernòt dell’Azienda agricola Massimo Piovani, a Monteveneroso (PV)
Come a Bordeaux, anche in quest’angolo posto all’estremo nord-est della denominazione oltrepadana si produce un vino rosso da uvaggio. Al posto di Cabernet e Merlot, il Buttafuoco Storico nasce dal sapiente assemblaggio di Croatina, Barbera, Ughetta di Canneto e Uva Rara.
La prima varietà definisce l’impronta tannica, il colore e i sentori di frutta; la seconda apporta acidità. Le ultime due – spesso raccolte in sovra maturazione, per evitare astringenze ed eccessiva rusticità – regalano ricordi pronunciati di spezie, liquirizia e uvetta passa. Un matrimonio tra uve che, almeno sulla carta, rischia di spaventare il consumatore moderno, sempre più alla ricerca di vini che non eccedano in sovraestrazioni e tenore alcolico. Eppure, non sempre è così.
A dispetto del nome, che richiama l’espressione del dialetto pavese «Al buta me al feüg», ovvero “brucia come il fuoco“, il Buttafuoco storico sa essere elegante e fresco. Nelle migliori espressioni, la potenza dell’uvaggio è attenuata dal savoir-faire dei produttori locali, riuniti sin dal 1996 nel Club del Buttafuoco Storico.
BUTTAFUOCO STORICO E ABBINAMENTO COL PESCE
Gioca tra terra e mare il menu pensato dallo chef Alessandro Folli del Ristorante Ad Astra di Santa Maria della Versa. La vendemmia 2017 dei Vignaioli del Buttafuoco storico non sfigura affatto al cospetto dell’entrée. Nel piatto, tre morsi: un bignè ripieno di robiola, con basilico e caviale di salmone; una carotina in Giardiniera, ricotta di pecora filtrata e perlage di basilico; e una polpetta di tonno alletterato, erbette amare e calemansi (calamondino).
Si osa ancora di più con la portata successiva: capesante scottate con ‘Nduja, mela marinata nel limone, caviale di acciughe, cedro candito e nasturzio. Sorprendente la risposta del Buttafuoco storico alla leggera piccantezza e al gusto delicato ma deciso del mollusco, nella sua componente “dolce”. Chiave del pairing è l’acidità, oltre al lavoro sottile di tannini già piuttosto amalgamati.
Il carico aumenta quando nei calici viene viene versato il millesimo 2012 dei Vignaioli del Buttafuoco storico. Qui spazio alla carne al posto del pesce, come a suggerire che siano le versioni più “recenti” del Buttafuoco storico quelle più adatte ai pairing meno convenzionali. Perfetto, di fatto, l’abbinamento con gli agnolotti che lo chef Alessandro Folli definisce «tra passato e presente».
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Per la preparazione ha fatto ricorso a due tecniche di cottura. Il ripieno cucinato in maniera classica, ottenendo il brasato. Il sugo cuoce invece a bassa temperatura, sottovuoto, per 16 ore. Viene poi passato a mano, a coltello, prima di essere unito alla pasta con olio all’alloro macerato 20 giorni e il fondo ottenuto dalle ossa. Un tocco di agrume lega ancor più il piatto al vino.
Perfetto anche l’abbinamento tra il Buttafuoco storico Chinato, vera e propria chicca del territorio, e il gelato al Pepe di Timut, noto anche come Pepe selvatico di Szechuan. Un omaggio dello chef Alessandro Folli al suo maestro Alain Ducasse e al suo sorbetto al limone. Il vino, vendemmia 2017 con infusione di spezie e affinamento per 6 mesi in legno, convince anche con il secondo dessert.
Si tratta di una Mela di Soriasco rivisitata. Dell’originale conserva la forma e il tipico colore rosso dell’involucro di cioccolato bianco e burro di cacao. All’interno uno strudel ottenuto dalla varietà di mele tipica della zona di Santa Maria della Versa e dall’emulsione di tutti gli ingredienti tipici del dolce austro-ungarico.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
“Fanculo“. Sfondo blu, scritta bianca. In maiuscolo. È un cartello. Ma ha più l’aria del manifesto. Della sintesi. Del collante di una vita spesa a difendere ideali. Convinzioni. Princìpi scomodi, appiccicosi. Fanculo, sì. In fin dei conti, più che un insulto, una corazza. Quella di cui Fulvio Bressan ha bisogno per stare al mondo. Dentro e, forse, ancor più fuori da una cantina che è diventata negli anni covo carbonaro, laboratorio di idee liquide.
Fucina di vini uguali solo a se stessi. Microcosmo di un vignaiolo che è i suoi vini. E per il quale i suoi vini parlano. Dicono così, anche loro: “Fanculo”. Conchiglie incazzate da avvicinare al naso e alla bocca, al posto dell’orecchio. Per sentire il mare che hanno dentro. E andare oltre, persino all’apparenza.
Piaccia o no (lui) e piacciano o no (i suoi vini), a Fulvio Bressan poco importa. Quella freccia, quel cartello. Quel “fanculo” maiuscolo, con la punta in direzione opposta, critica, contraria all’ingresso della cantina, sta lì a sintetizzare un approccio più filosofico che pragmatico e volgare.
FULVIO BRESSAN, PSICOLOGIA E VIGNA
Liceo Classico, diverse esperienze in cantina a Bordeaux. Prima ancora di dedicarsi vita, anima, schiena, mani e corpo alla vigna, una laurea in Psicologia clinica che lo ha portato a lavorare per 5 anni in un centro oncologico infantile, dove ha «visto morire 484 bambini». «Facevo terapia del dolore», spiega a un paio di metri da quel “manifesto”, con la voce che si fa ancora più profonda, penetrante.
Un’esperienza che mi ha portato a una conclusione molto semplice: in una vita che dura troppo poco per essere vissuta male, posso sopportare chi sta male, ma non chi sta bene. Ergo: se non ti sopporto te lo faccio capire e arrivano i vaffanculo col camion. Il fanculo ha un sapore dolce. Specie se lo dai col “lei”, condendolo con qualche altra parola dolce…».
Sono passati appena dieci minuti da quando Fulvio Bressan è entrato nel cancello dell’azienda di via Conti Zoppini 35, a Farra d’Isonzo, stropicciando di 90 gradi il volante del suo fuoristrada. Pochi convenevoli, mentre alle sue spalle si abbassa la polvere del selciato, graffiato da gomme giganti. A parlare, adesso, è il vino.
Nel calice c’è Carat 2018, appena imbottigliato: Tocai Friulano, Malvasia Istriana e Ribolla Gialla. «Di solito lo imbottiglio dopo 4 anni – spiega – ma questo lo sentivo pronto prima e abbiamo fatto uno strappo alla regola». Del resto, i vini di Fulvio Bressan sono merce rara.
«Ho richieste pari a quattro volte la produzione. Ma l’azienda – si affretta a precisare – non crescerà più dei 20 ettari attuali. Più di così, cadrei nell’industria. Chi mi conosce dice che non potrei fare un vino diverso da quello che faccio. E chi mi conosce solo dopo aver bevuto i miei vini diverse volte, finisce sempre per dire che ci assomigliamo, io e loro. Anzi, che siamo proprio uguali».
CARAT 2018, COME SETA
Carat è un vino generoso, deciso. Sa di frutta matura a polpa gialla. Spazia dalla pesca all’ananas maturo, dall’albicocca al melone retato. Svolgimento orizzontale, ma anche una discreta dose di profondità, data da qualche accenno di spezia ed erba aromatica. Il sottofondo è di magistrale cremosità. Tanto da avvolgere il palato su tinte mielate che solleticano gli accenni di tannino, in chiusura di sipario.
Più passano i minuti, più Carat si apre nel calice. E più il telefono di Fulvio Bressan squilla. È un susseguirsi di “no” a potenziali clienti. Manca la materia prima, in bottiglia: «Guardi, mi spiace. Siamo senza vino, richiami a gennaio».
Eppure, cavare un complimento da papà Nereo è un’impresa. «La natura è ingiusta: le zucche più grosse vengono sempre ai contadini più stupidi», scherza il 90enne, entrato nel frattempo in cantina come un gatto silenzioso, in punta di piedi. «Ci voleva un mona laureato come te per fare i vini buoni», rincara la dose. Poi si fa serio.
«Parlare di vino è pesante, gente mia. Il vino, è vino. Ormai i vini sono tecnici. In cantina ci sono i tecnici: sale, pepe, aggiungi, togli. E la gente beve le ricette. Questi vini piacciono? Sì? Bene. Non piacciono? Quella è la porta. Finita la commedia! Ma questo è vino – aggiunge poi Nereo Bressan, per la felicità del figlio – perché è fatto in vigna, senza diserbi, polveri e veleni».
Uno dei segreti dei vini dei “Mastri Vinai” Bressan, di fatto, è la maturità delle piante, che raggiungono anche i 120 anni di vita. «L’industria fa vino a 3 anni dall’impianto – chiosa Fulvio -. Quando secondo noi la pianta sta iniziando a dare il meglio, ovvero attorno ai 20-25 anni, le grandi cantine estirpano, perché la vigna non produce più le quantità desiderate, ormai spremuta all’osso».
L’ALTRA VARIABILE BRESSAN: I LEGNI
Il tempo è un valore, non un nemico in quest’angolo di Friuli Venezia Giulia. Ne è una riprova il Pignol 1997 “Nereo”, in magnum. Del capostipite, a cui questo vino è dedicato, ecco l’energia vitale e la tensione. Il nerbo, il carattere. L’allungo bellissimo ed elegante, nella sua autenticità.
Stratificazione infinita, giocata sull’alternanza di frutto e macchia mediterranea (netto l’alloro, ma anche l’origano), fiori e spezie. Un vino ulteriormente incomplessito da terziari conferiti dalla micro ossigenazione in affinamento, che denotano l’attenzione maniacale di Fulvio Bressan alla delicatezza aromatica dei legni.
In cantina, mezzo bosco: gelso, castagno, ciliegio selvatico, pero selvatico, acacia e frassino. Doghe da 50 millimetri, stagionate per minimo 8 anni, ovvero un anno e mezzo a centimetro. Tutte piegate a vapore, perché da Bressan sono bandite le tostature. La variabile tra legno e legno risiede solo nella quantità d’aria trasmessa, in base alla porosità.
E non è detto che un vino non passi in due legni, prima di essere messo in bottiglia. Il colpo di genio, in grado di stravolgere un vino già di per sé buono ma non perfetto, vede protagonista un’altra chicca della cantina di Farra d’Isonzo: il Moscato Rosa “Rosantico”.
CAPOLAVORI DI VIGNA E DI STILE
Strepitosa la vendemmia 2016, che sta per andare in commercio: la migliore di sempre, per pulizia e per capacità di annullare i sentori pirazinici (tendenti all’amaro), in favore di un allungo sapido infinito, su cui torna a danzare croccante la frutta rossa d’ingresso.
Resta in bocca fino a che non ci entra l’ultima chicca: lo Schioppettino 2016. C’è molto più della mora di gelso tipica del vitigno (Ribolla Nera) in questo concerto di lavanda, pino, resina, rosa, violetta, unita al corredo d’archi dei piccoli frutti di bosco a bacca rossa e nera, dal ribes al mirtillo.
C’è Fulvio stesso in quest’altro capolavoro. La sua determinazione, la profondità della sua voce. Il suo fisico, anzi la sua stazza. Il carattere indomito e solo apparentemente rude, ingentilito dalla vicinanza di una donna e moglie raffinata come Jelena Misina.
C’è tutto Fulvio Bressan nello Schioppetto, più che in qualsiasi altro nettare della cantina. C’è anche il suo “fanculo”: questa volta indirizzato alle lancette dell’orologio, contro le quali vincerà a mani basse la prova del tempo. Dandogli del lei, s’intende. Prosit.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Fenomeno Pet nat anche in Campania la storia di successo di Casebianche Pasquale Mitrano ed Elisabetta Iuorio
«Un Pét-nat. Ma cos’è, poi, un Pét-nat?», se non «l’apostrofo roseo» (ma pure bianco ed orange) tra le parole “vino frizzante” e “birra artigianale“? Tralasciando voli pindarici e mettendo da parte – almeno per un attimo – Cyrano de Bergerac, quello dei Pétillant naturel è un fenomeno internazionale che non può (più) passare inosservato. Un trend che, tra punte di qualità e casi organoletticamente “disperati”, ha finito per convincere anche diverse cantine italiane. In Campania, la storia di successo è quella di Casebianche.
I 14 ettari della cantina di Torchiara, in provincia di Salerno, si sono riscoperti terra fertile per la produzione di tre “bollicine”, nel solco del boom mondiale dei Pét-nat. «Tutto è iniziato nel 2010 – spiegano a WineMag.it Pasquale Mitrano ed Elisabetta Iuorio, durante Campania Stories 2021 – anno in cui abbiamo iniziato a produrre “La Matta”, da uve Fiano».
LA CRESCITA DEI PÉT-NAT
Appena mille bottiglie, che il mercato ha assorbito in pochi mesi. Nel 2012, la stessa sorte è toccata a 6 mila bottiglie di “La Matta”, volatilizzate in un batter d’occhio. «Oggi – anticipano i titolari di Casebianche – l’obiettivo è arrivare a produrre 10 mila bottiglie, dopo aver toccato la quota record di 7 mila bottiglie ormai da diversi anni».
Stesso target per gli altri due Pét-nat che si sono aggiunti alla gamma, registrando un successo pari a quello del primo nato della cantina salernitana. Si tratta de “Il Fric“, Paestum Igt frizzante ottenuto da uve Aglianico in purezza, introdotto nel 2015. E dell’ultimo arrivato “Pashkà“, Paestum rosso frizzante sur lie Igt prodotto a partire dal 2017, da una cuvèe di Aglianico e Barbera campana.
«Pashkà – sottolineano Pasquale Mitrano ed Elisabetta Iuorio – è il punto di approdo finale del nostro percorso nella produzione di questa tipologia di vini conosciuti a livello internazionale come Pét-nat, che tanto stanno riscuotendo successo per la loro grandiosa accessibilità e facilità di beva».
Al di là del numero di bottiglie, in crescita costante, questo vino nasce dalla necessità e dal desiderio di recuperare una tradizione che in Campania si era persa: quella del Gragnano, rosso frizzante che è finito per essere prodotto poco e principalmente in autoclave. Pochi fanno rifermentazione in bottiglia, proprio come si faceva anticamente in Campania e come fanno ancora molti produttori di Lambrusco».
LE RAGIONI DEL SUCCESSO
Prima di trovare la quadra, Pasquale Mitrano ed Elisabetta Iuorio hanno dovuto «lottare» con le uve scelte per Pashkà. «Oltre al Gragnano – spiegano i due coniugi vignaioli – Pashkà guarda ai mitici Colli Piacentini dove si produce il Gutturnio, mix di Bonarda e Barbera. Qui in Cilento abbiamo la Barbera. Al posto del Bonarda, abbiamo pensato di ricorrere all’uva rossa principe delle nostre terre: l’Aglianico. Abbiamo dovuto bilanciare durezze e pressione delle bollicine, sino a ottenere il risultato perfetto a 1,8 bar. Uno in meno rispetto a “Il Fric”».
I prezzi di listino Horeca dei Pét-nat di Casebianche? Incomparabili a quelli di molti “frizzanti” come Gutturnio e Lambrusco, facilmente reperibili nella Grande distribuzione organizzata. Il distributore italiano (Proposta Vini) li vende a circa 9,50 euro. All’estero, i buyer acquistano le “bolle” di Pasquale Mitrano ed Elisabetta Iuorio per non meno di 6,50 euro.
Un successo che va dal Nord Europa – Danimarca, in primis – al Canada, passando per Paesi dell’Est come l’Ucraina, curiosi di sperimentare nel mondo dei “vini naturali“. In fondo, ovunque si trovino, il bello di certi Pét-nat è che non ci sia bisogno di alcun Cyrano de Bergerac per spiegarli. Né tantomeno di aspettare Rossana, per berli.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Agricola Mos Miglior cantina Nord Italia 2022 Winemag.it il Trentino del futuro 1
Valle di Cembra, profondo Trentino. Sponda sinistra del fiume Adige, su per le viottole strette che si aprono su un palco di vigneti eroici, a picco sul torrente Avisio. È qui che Luca Moser e il cugino Federico Ferretti hanno deciso di realizzare il sogno della loro vita: una cantina artigianale, capace di valorizzare terroir, varietà, filosofie e persone come loro: genuine.
AGRICOLA MOS: IL TRENTINO DEL FUTURO
Agricola Mos è una realtà relativamente nuova. È stata fondata nel 2018 dai due giovani cugini, che lavorano a mano tutti e 5 gli ettari di vigneti di proprietà. Terre aspre, dure, difficili, impossibili da immaginare “a frutto” senza passione, quelle che si trovano a Cembra-Lisignago. Un gioco da ragazzi, in confronto, condurre l’altro appezzamento più a valle a Terre d’Adige (Zambana).
È con i propri vini di montagna che Mos guadagna il riconoscimento di cantina dell’anno Nord Italia 2022 per Winemag.it, all’interno della Guida Top 100 Migliori vini italiani 2022. Schiava, Riesling Renano e Chardonnay convincono per la verticalità moderna del sorso, la lavorazione autentica, la precisione enologica che diventa caposaldo per proporre un terroir ancora poco noto al grande pubblico.
È il Trentino del futuro, quello di Luca Moser e Federico Ferretti. È il Trentino dei giovani che fanno impresa col sudore e la fatica. Il Trentino che crede nelle proprie forze e parte da zero, dalla vigna alla rete commerciale
ancora pressoché inesistente.
È il Trentino che noi di WineMag.it ci auguriamo di vedere nei migliori ristoranti e winebar della nostra Milano, così come a Roma, Firenze, Palermo… Non sarà un gioco da ragazzi. O forse sì.
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Marco Battaglino Osteria cantina BriccoBracchi Dogliani da favola aspettando Timorasso e Freisa
C’è chi sogna e chi fa. Chi blatera e chi costruisce futuro, mattone per mattone. Dopo aver dato vita 9 anni fa a Osteria Battaglino, insieme «storia d’amore», «luogo dell’anima» e «favola snob», il ristoratore piemontese Marco Battaglino ha deciso di giocare a fare (anche) il vignaiolo. Un «gioco fatto bene, però», tiene a sottolineare. A dargli ragione è un Dogliani Docg 2020 da favola, dal nome di fantasia inequivocabile: “Diavolo Rosso“. E un Timorasso macerato 2021 che promette faville, dopo le prove del 2019 e 2020. Lo ha chiamato “Vento in faccia“. E neppure questo è un caso.
Un amore grande per le poesie in musica di Paolo Conte; e una fidanzata, Sara Calcagno, che è piombata nella vita di Marco Battaglino al momento giusto. Ma soprattutto dal posto giusto. Le prime vinificazioni di uno degli ultimi vignaioli provetti italiani risalgono a cinque anni fa. A ospitarle proprio San Fereolo, la cantina-icona di Dogliani guidata da Nicoletta Bocca, dove Sara lavora.
A far battere forte il cuore a Battaglino è il Timorasso, sovrainnestato a BriccoBracchi – vecchio podere che domina una collina, a 500 metri di altitudine – su piante di Dolcetto di 60 anni. Una parte del vigneto che dà vita al Dogliani “Diavolo Rosso” è stata sacrificata nel nome di un sogno. Anzi, di una visione.
«Se penso ai vini che mi piacciono davvero – rivela il ristoratore Marco Battaglino – non posso non citare quelli del Carso e della Slovenia, in particolare i vini bianchi macerati. Per questo, contro il parere di tutti, ho piantato Timorasso in una vigna esposta a sud-sud ovest, il cui punto forte sono i terreni magri, marnosi. L’ideale per proporre un vino di Langa diverso, che si avvicini a certe interpretazioni dei Colli Tortonesi o ai bianchi di altre zone a me care, in attesa peraltro dell’arrivo delle anfore Artenova da Impruneta».
BRICCOBRACCO: DOLCETTO, TIMORASSO E (DOMANI) LA FREISA
Da qui il nome “Vento in faccia”. Sull’etichetta, due cani razza Bracco in sidecar. «Sono i miei due Bracchi, i due difensori di BriccoBracco, il nostro podere. In realtà, un modo per simboleggiare il nostro sogno. Il “vento in faccia” ce l’abbiamo noi, in quest’avventura da produttori di vino. È l’dea di un progetto nuovo, che parte. È il sentirsi vivo, la voglia di fare».
Nel nome di fantasia, anche l’ennesimo richiamo agli amati Colli Tortonesi, territorio dal quale Marco Battaglino ha attinto le uve per le prime prove di vinificazione, che oggi trovano spazio da Gabriele Cordero, a Priocca (CN).
«Il “vento in faccia” – aggiunge Battaglino – è lo stesso che bacia le vigne di Timorasso nella loro zona d’elezione, l’Alessandrino. Mentre il “Diavolo rosso” non poteva che essere il Dolcetto: il vino di Dogliani che non si “degusta”, si “beve”. Un rosso che sporca le labbra, riempie la bocca. E non sta lì a farsi girare troppo nel calice».
L’immediatezza, modernità e spensieratezza – tutto tranne che banale – del calice di Diavolo Rosso spingerà il neo vignaiolo e ristoratore di Dogliani a inserire una terza varietà nel parco vigneti della cantina BriccoBracchi.
«Io e la mia fidanzata – annuncia Marco Battaglino a WineMag.it – ci siamo dati come obiettivo quello di raggiungere un massimo di 1,5 ettari, tra cui non potrà mancare qualche filare da dedicare alla Freisa. È un’altra varietà in cui crediamo molto, che potrà completare la gamma dando profondità. Un vino da attendere negli anni, a differenza dell’immediata godibilità del Dolcetto».
Altro “vento in faccia”, insomma. E il compare perfetto per quel “Diavolo rosso” da bere a canna. Il tutto mentre la cantina ha già trovato un distributore: l’attentissimo Graziano Cipriano di Darvin Selezione (Torino). Una storia nella storia, tutta da scoprire.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Giacomo Fenocchio verticale storica 1978 2020 per la nuova cantina Barolo en primeur per i turisti Claudio Fenocchio 1
Claudio Fenocchio era ancora un bambino mentre il padre, Giacomo Fenocchio, mandava in pensione i vecchi tini di legno sino allora utilizzati dal nonno. Assieme a lui introdusse in cantina l’acciaio, per le vinificazioni del Nebbiolo atto a divenire Barolo. «Grande modernità e più tecnologia, in aiuto al lavoro», ricorda con tono deciso quel bambino che nel frattempo è diventato grande. Lo stesso che oggi è chiamato a dare l’ennesima impronta decisiva alle sorti dell’azienda di Monforte d’Alba (CN), fondata nel 1864.
L’inaugurazione della nuova cantina, il cui biglietto da visita è un’ampia terrazza che invita a tuffarsi sul materasso di colline delle Langhe, arriva in un periodo cruciale. Quello in cui le figlie Letizia ed Eleonora, 19 e 17 anni, muovono i primi passi sulle orme del papà. Ovvero tra quei pochi tini del nonno rimasti dov’erano. E le idee che hanno rivoluzionato una delle più grandi denominazioni del vino italiano. Passi piccoli ma decisi, tra ciò che fu e ciò che è. Ancor più, tra ciò che sarà.
«Il Barolo da allora è cambiato tantissimo, tantissimo», ripete Claudio Fenocchio, quasi a voler esorcizzare il concetto e il tempo. «Noi siamo rimasti gli stessi – si affretta a precisare – ovvero quelli che propongono un Barolo legato alla tradizione. Questo non significa tarparsi le ali, o non voler crescere. La nuova cantina? È un passo necessario in quest’ottica. Ma ancor più un modo per poter accogliere nel migliore dei modi i tanti turisti e appassionati che vogliono conoscere i nostri vini. Permetteremo loro, per esempio, di assaggiare le nuove annate dalle botti».
È una sorta di democratizzazione inversa del Barolo, quella che propone Claudio Fenocchio. Una “liberalizzazione” che non parte dai “prezzi per tutti”. Bensì dall’en primeur quotidiana. Qualcosa che, da altre parti, è appannaggio di una cerchia ristretta di professionisti del settore, o addetti ai lavori, diventa pressoché la norma nel nuovo corso della Giacomo Fenocchio.
La prima vendemmia in questa struttura – spiega – è stata nel 1989. L’abbiamo ampliata ulteriormente con una nuova bottaia, all’interno della quale abbiamo insediato la ricezione. Tutti i clienti potranno assaggiare dalle botti e fare le degustazioni in cantina, ovvero nell’ambiente più adatto al vino. È un investimento nei turisti, che potranno scoprire man mano le nuove annate dei nuovi Barolo. I Barolo del futuro».
Diciassette ettari per circa 100 mila bottiglie e numeri destinati a crescere dalle 45 mila bottiglie riservate al Re dei vini del Piemonte. A seguire, nell’ordine, Nebbiolo, Barbera, Dolcetto e Freisa. Senza dimenticare che qui, dal 2010, si producono anche due vini bianchi da uve Arneis in purezza (un Roero Docg e un Orange wine) e uno spumante metodo italiano, base Freisa.
La fiducia è tanta. «Il Barolo – chiosa Claudio Fenocchio – resta una delle denominazioni italiane di maggiore appeal. Credo che il Consorzio stia facendo molto bene sotto tutti i punti di vista, specie con lo slancio dato dall’evento a New York, prima della pandemia. Avanti così».
“Indietro”, sembra voler suggerire il vignaiolo di Monforte d’Alba, solo per le verticali. Come quella preparata per la stampa ieri, giorno dell’inaugurazione della nuova cantina. Dal 1978 al 2020. Spaziando tra i cru.
IL BAROLO GIACOMO FENOCCHIO DAL 1978 AL 2020
Barolo Doc Riserva 1978
Nella massa finale per lo più Bussia, seguito da Castellero e Cannubi. Bottiglia straordinaria (la seconda aperta), esprime ancora un frutto rosso pieno, accostato da riverberi di radici. Il tannino è morbido, ma non arreso.
La freschezza è disarmante per gli anni sul groppone. L’abbraccia una vena glicerica che, per gli “usi e costumi” dei tempi, va ben oltre i soli 13.5 gradi d’alcol in volume. In un calice, la storia di una famiglia Fenocchio, che non ha smesso di proporre vini di territorio, incollati alla tradizione.
Barolo Docg Bussia 1994
Tanto fiore, rosa, violetta. Frutto rosso timido appena versato, pronto poi a donarsi in tutta la sua integrità, generoso. Si apre bene, ma piano, anche in gustativa. Scivola lungo, su ricordi di radice che accompagnano il frutto croccante e un tannino ancora vivo, pur integrato.
Barolo Docg Bussia 2000
Annate molto calda in cui la Giacomo Fenocchio, con Claudio Fenocchio, inizia seriamente a proteggere l’uva dai raggi del sole. «Anziché defogliare, come si faceva per nelle annate fredde, decidemmo di non fare nulla, lasciando anche il cordone alto, per ombreggiare».
Il calice racconta alla perfezione l’andamento climatico del 2000. Naso largo sul frutto, che sfiora la lascivia d’uno sciroppo. Freschezza e tannino giocano a riequilibrare un sorso in perfetta corrispondenza, riuscendoci al meglio.
Barolo Docg Bussia 2004
Annata regolare, segnata da una vendemmia delle uve Nebbiolo andata in scena nel corso della terza settimana di ottobre. Naso profondo, sulle spezie e sulla liquirizia, che si ritrova nettamente anche al palato. Superlativa la gustativa, che si divide tra frutto preciso, pieno, e ricordi assieme caldi e freschi, speziati. Netto goudron e qualche sbuffo vago di zafferano mentre incede un allungo da favola, asciutto e giustamente tannico. Tra i migliori vini in assoluto della verticale voluta da Claudio Fenocchio.
Barolo Riserva Docg Bussia 2008 “90 dì”
Prima annata in cui viene riproposta, senza mai essere immessa sul mercato, una piccola partita di Nebbiolo “fatto come una volta”. Ovvero come lo faceva il padre di Giacomo Fenocchio: con “90 dì”, ovvero “90 giorni” (3 mesi circa) di macerazione (seguiti da 4 anni in botte grande e uno di vetro). Il risultato è una chicca prodotta in sole 300 bottiglie, di cui ne restano ormai ben poche.
Un esperimento servito tuttavia per ripensare la Riserva di Fenocchio, a partire dal 2010. La macerazione lunga non appesantisce il calice. Si crea anzi un scambio di battute tra finezze e tensioni, tra polpa e spezia (con la prima che prende il sopravvento). Siamo al cospetto di un vino che si discosta di molto dalla linea di rigore ed elegante essenzialità dei vini di Claudio Fenocchio.
Un nettare più largo, quasi interamente giocato sul frutto e su un’armoniosa beva, al limite del “rotondo”. Chiaramente il tutto è controbilanciato da una buona freschezza e da un tannino che rispecchia fedelmente i canoni dei Barolo di Bussia.
Barolo Docg Cannubi 2009
Liquirizia nera a primo naso, frutto succoso, ricordi sanguigni, ferrosi. Perfetta corrispondenza al palato, dove tuttavia si rivela – tra i vini in degustazione – quello meno equilibrato e in una fase di scombussolamento. Il sorso è diviso in maniera piuttosto marcata tra fenolico e frutto. La speranza è che scenda dall’altalena.
Barolo Docg Villero 2010
Molto balsamico, speziato. Goudron. In bocca si conferma vino profondo, fresco e speziato, ancora molto giovane. In chiusura esalta un frutto succoso, unito a un tannino vivo, elegante. Prima avvisaglia di quello che sarà, a partita chiusa, il cru più convincente della cantina.
Barolo Docg Castellero 2011
È l’anno dell’esordio per il cru fortemente consigliato a Claudio Fenocchio dal consulente della comunicazione, il pr Riccardo Gabriele. Sino ad allora (e dal 1952) Castellero finiva in blend nel Barolo d’entrata della linea. Sorprende (e pure tanto) per le note di frutta bianca, come melone bianco, pesca, albicocca.
In bocca risulta pieno, molto agile, a dimostrazione di quanto le sue caratteristiche marcassero il “Barolo quotidiano” della gamma. Alcol (15% vol.) integratissimo, gran bella freschezza e tannino levigato, splendidamente integrato. Grande intuizione.
Barolo Docg Castellero 2011 (magnum)
Le due bottiglie parlano la stessa lingua, ma la maggiore superficie di vetro sembra distendere ulteriormente il nettare, specie nella componente fruttata e, ancor più, in quella tannica. Curiosa la nota salmastra che mancava alla 0,75, così come mancavano risvolti sanguigni, qui pur percettibili col microscopio. Riecco la consueta freschezza, con un tocco in più di liquirizia nera che rende il nettare molto gradevole e dalla beva spasmodica.
Barolo Docg Cannubi 2017
Si ritorna su Cannubi e il naso si sofferma, come nel precedente assaggio, dapprima sulla spezia. All’accenno iniziale d’origano fa eco un frutto rosso godurioso, che prende sempre più spazio nel quadro complessivo. In retro olfattivo largo a terziari da legno quali fondo caffe e caramella mou, pur smorzati da una pregevole venatura salina e da un tannino vivo, ma molto elegante. L’annata è stata molto calda (non certo quanto la 2003).
Barolo Docg Castellero 2017
L’ultimo (in ordine temporale) dei cru della Giacomo Fenocchio si riconoscerebbe tra mille. Riecco il melone, la pesca bianca, i ricordi di albicocca. Vino croccante, quasi da morsicare. Materico, ma ancor più fresco e beverino.
Barolo Docg Villero 2017
Anche nell’annata 2017, il cru Villero si conferma ad altissimi livelli. Ancora una volta profondo, speziato, sanguigno, agrumato d’arancia rossa. In bocca riecco una prosa fresca, che gode dell’elegantissimo apporto fruttato-croccante, ma sceglie la spezia come compagna di vita. Tutto ciò tra l’ingresso e il centro bocca. Perché il finale riserva un’amarena netta, da fuochi d’artificio nel gioco prezioso con la scontrosità amaricante del tannino. Vino da applausi scroscianti per larghezza e profondità, verticalità e polpa.
Barolo Docg Bussia 2017
Si conferma succoso e speziato, in grandissimo equilibrio. Del resto è il vigneto più grande di Fenocchio, che consente di portare in cantina uve con maturazioni forse non omogenee al millimetro, perfette nel mix tra fenoliche e zuccherine.
Barolo Docg Cannubi 2018 e 2019
Annata segnata da molta pioggia tra agosto e l’inizio settembre. Il risultato è una vendemmia particolare, che sarebbe stata invece “classica”, in termini di tempi di raccolta. Venendo al calice, il Cannubi 2018 non sarà certo un campione di longevità. Sarà però uno di quei vini importanti e, al contempo, facili da bere. Scherziamo con Claudio Fenocchio e chiediamo se ha proceduto a una macerazione carbonica.
Sorride e poi conferma quando, tornati seri, usiamo l’aggettivo “diluito”: l’annata è di quelle in cui il rapporto tra succo e buccia è nettamente in favore del primo, proprio a causa delle piogge abbondanti in un periodo tanto delicato. Arriva poi l’assaggio da botte del 2019, vino ricco, sul frutto, ma al contempo pieno di energia, tra spezia e apporto fresco-acido. Un altro nettare di grande accessibilità e immediatezza.
Barolo Docg Castellero 2018, 2019, 2020
Oltre ai classici sentori di frutta a polpa bianca, che costituiscono il fil-rouge del cru, qui si centra forse una maturazione – o, meglio, un’epoca di raccolta – che regala alla particella maggiore complessità e rigore. Il salto di qualità definitivo sul cru Castellero è definitivamente compiuto, a 8 anni dall’esordio sul mercato, con la 2011. L’ulteriore assaggio da vasca della 2019 conferma le impressioni.
Anzi, esaspera ancor più il concetto di una quadra definitivamente trovata sul Castellero, nonostante la concentrazione d’aromi risulti maggiore rispetto alla 2018. Arriva poi il 2020 a suggellare la consacrazione di un Barolo dalla bevibilità disarmante, che non rinuncia tuttavia alla complessità.
Barolo Docg Villero 2018
Chi non ha bisogno alcuno di “aggiustamenti” e si è sempre espresso su livelli altissimi è invece il cru Villero della Giacomo Fenocchio. Naso elegantissimo, tra fiori, frutto e spezia. Si ritrova la stessa matrice al palato, dove un frutto pieno e succoso gioca a irritare un tannino in cravatta, che non perde le staffe. Neppure quando la liquirizia prova a imbalsamarlo, avvolgendolo. Alleata, in chiusura, una vena salina preziosissima che da un lato inspessisce ulteriormente il quadro e, dall’altro, chiama il sorso successivo.
Barolo Docg Bussia 2018 e 2019
Ancora una volta gran completezza nel Bussia che, nonostante la gioventù raccontata da un frutto tanto succoso quanto esuberante e preponderante, mostra ampissimi margini di evoluzione, nel segno della complessità. Scalpitano tannino e spezie, mentre la freschezza riequilibra morbidezze i cui contorni sono in decisa evoluzione. Salto oltre l’ostacolo con la vendemmia 2019, che regala un nettare dalle spiccate note floreali e dal tannino leggermente meno spigoloso, sempre all’insegna dell’eleganza.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Campania Stories 2021 e lanno del Piedirosso. Pere Palummo nuovo asso dei produttori campani Agnanum Campi Flegrei Raffaele Moccia 1
Tesi e di prospettiva i vini del 2019. Pieni di frutto e più pronti quelli del 2018. Tra i due estremi l’annata 2020, destinata a collocarsi a metà tra la 2018 e la 2019, sbilanciandosi verso quest’ultima. Sono soprattutto i vini bianchi a definire l’andamento delle ultime vendemmie in degustazione a Campania Stories 2021. Meno sbalorditiva la qualità media dei vini rossi campani.
Capaci però, con qualche gemma, di dettare la strada verso un futuro altrettanto luminoso. In particolare è l’autoctono Piedirosso a brillare tra tanti Aglianico, eterno vitigno simbolo della Campania che sta trovando nuove grandi interpretazioni anche nel Cilento (Guido Lenza, Luigi Maffini e Viticoltori de Conciliis), accanto a quelle più note dell’Irpinia del Taurasi.
NUOVE PROSPETTIVE PER IL PIEDIROSSO O PER’ E PALUMMO
L’edizione 2021 di Campania Stories può essere considerata, a tutti gli effetti, quella della sua definitiva consacrazione. Sarà forse perché il Per’e Palummo – nome locale della varietà, il cui tralcio e peduncolo ricorda il piede del piccione – è il più “bianco” tra vitigni a bacca rossa campani?
Fatto sta che gran parte dei produttori, specie nei Campi Flegrei ma anche sul Vesuvio e, in qualche caso, nel Sannio, sembrano aver trovato la dimensione ideale in vinificazione, dopo le necessarie cure in vigna (il Piedirosso è produttivamente incostante e presenta una forte propensione all’acinellatura verde, ovvero una mancanza di uniformità di colorazione/maturazione degli acini).
Quella, cioè, di un vitigno-vino che, nei prossimi anni, può diventare il vero e proprio “Cavallo di Troia” dell’intera produzione campana, sul mercato nazionale e internazionale.
IL PIEDIROSSO: VITIGNO-VINO MODERNO CHE CONQUISTA I MERCATI
Con le sue note di frutta croccante, il profilo fresco, l’agilità di beva, l’alcol moderato e, soprattutto, con la sua capacità di riflettere nel calice le caratteristiche del terroir (esaltante l’interpretazione vulcanica di Agnanum – Raffaele Moccia) può fungere da apripista ai vini più “importanti” e da lungo affinamento.
Volendo estremizzare, il Piedirosso potrebbe fungere da alternativa concreta alla “bollicina”, a cui non tutte le cantine della Campania hanno ancora ceduto (l’Italia è ormai piena di tanti, troppi, inutili “Wannabe Prosecco“, spumanti senza testa né anima che piacciono tanto ai buyer innamorati più dei soldi facili che della cultura del vino).
Ma c’è di più. Per le sue caratteristiche scontrose, il Per’e Palummo è una scelta di campo e di sacrificio per i viticoltori. Premierà dunque – anche agli occhi dei buyer nazionali e internazionali – solo i più coraggiosi e convinti. Senza il rischio di diventare un vino faciletout-court o di massa.
IL PER’E PALUMM TRA CAMPI FLEGREI E VESUVIO
Chiedere per credere a Cristina Varchetta di Cantine Astroni, che sul Piedirosso ha incentrato la propria tesi di laurea. «La nostra riscoperta del vitigno è iniziata in vigna – commenta a WineMag.it – con il ricorso al doppio capovolto. Anche l’approccio in vinificazione è cambiato, evitando le sovra estrazioni».
Se per l’Aglianico occorrono 7-14 giorni, per il Per’e Palummo ci si ferma cioè a quattro. Un trend che, come conferma Cristina Varchetta, non riguarda solo Cantine Astroni e i Campi Flegrei, ma anche altri vignaioli dell’area del Vesuvio.
Il Piedirosso ha bisogno di tanto ossigeno durante la vinificazione perché soffre di riduzione, problema che gli ha tarpato le ali sui mercati. Noi procediamo a due o tre travasi, mentre sul Vesuvio qualcuno in più. Infine, abbiamo trovato una quadra anche sulle tappature: quelle in sughero tecnico hanno ridotto drasticamente le riduzioni e consentito la corretta micro ossigenazione».
LA «SECONDA VITA» DEL PIEDIROSSO
Varchetta non usa giri di parole e ammette che «grazie a tutti questi accorgimenti, il Piedirosso sta vivendo una seconda vita». Anche, anzi soprattutto, sui mercati. «Da vino difficile da vendere e da far comprendere anche a livello locale – commenta a WineMag.it – oggi ha trovato una sua identità, sia come prodotto sia a livello di mercato».
«È quel vino con bevibilità e semplicità, ma non per questo banale – sottolinea ancora l’esponente di Cantine Astroni – il cui successo è testimoniato della nostra storia aziendale. Dieci anni fa creammo un blend per il mercato internazionale, in cui il Piedirosso affiancava Aglianico e Primitivo. Oggi, specie all’estero, vendiamo con grande facilità il nostro Piedirosso in purezza, subito dopo la Falanghina».
Un altro produttore che ha compreso le potenzialità del Per’e Palummo è Raffaele Moccia (nella foto, sotto) dell’Azienda agricola Agnanum di Agnano (NA). Un vero e proprio custode silenzioso e solitario del Parco Naturale degli Astroni, Riserva e Oasi tutelata dal WWF lungo la quale si snodano circa 10 ettari di vigneti eroici.
RAFFAELE MOCCIA (AGNANUM): IL VIGNAIOLO EROE DEI CAMPI FLEGREI
Moccia conosce e comunica con ogni singolo ceppo. Sollevato e rimesso a dimora su terrazzamenti tuttora precari. Baluardi della viticoltura angioina, ricostruiti con zappa, fatica, sudore. E una buona dose di (sana) follia, che ha convinto all’acquisto di un piccolo escavatore solo negli ultimi mesi.
Tra le «piste» carrabili che intervallano i filari di Agnanum – riservate al vecchio ma inossidabile fuoristrada di famiglia, o ai quad – si scorge tanta Falanghina (nella foto, sopra), qualche grappolo di Barbera napoletana e altri autoctoni a bacca bianca e rossa. Ma anche e soprattutto il Piedirosso.
L’idea di Raffaele Moccia è quella di valorizzare l’antica forma di allevamento del tendone (o, meglio, della pergola puteolana), nonché il sistema cosiddetto “pratese“. La pianta si esprime in maniera pressoché naturale, libera. Intrecciandosi ed espandendosi orizzontalmente e fruttificando principalmente sull’estremità. Lontana dal ceppo.
Tutte caratteristiche che riducono la produzione, ma consentono al vignaiolo eroe dei Campi Flegrei di conservare il patrimonio di vecchie viti ereditate e acquistate nel corso dei decenni dai parenti. Già, perché nelle vigne e nei vini di Raffaele Moccia c’è un po’ di Gattopardo («Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi») e un po’ di Cronache marziane, alla Ray Bradbury.
LA VERSATILITÀ DEL PIEDIROSSO DEI CAMPI FLEGREI
Strabiliante la Falanghina 2006 “Vigna del Pino”, al pari del Piedirosso “Vigna delle volpi” 2015. Una prova di quanto il Per’e Palummo possa andare ben oltre il semplice vino d’annata, da “sbicchierare” senza troppi pensieri. Esattamente quello che rivela l’annata 2020 dell’autoctono, tra i migliori vini rossi di Campania Stories 2021.
Ho fatto sì che la manualità restasse protagonista tra le mie vigne – commenta il patron di Agnanum a WineMag.it – permettendo alla natura di abusare di me, che provo ad addomesticarla e condurla, per certi versi stravolgendola. Chi comanda è il suolo, il territorio. Per questo i terrazzamenti restano in piedi solo se curati quotidianamente».
Parole proferite mentre il fuoristrada sobbalza tra un costone e l’altro, muovendosi come una biglia in un circuito stretto, disegnato tra i filari. Le viti, tutt’attorno, paiono stese come panni a un filo invisibile, teso tra la Solfatara di Pozzuoli e il Lago di Agnano.
Anni fa, qualcuno propose a Raffaele Moccia di vendere tutti i terreni per realizzare delle palazzine. Disse no, pensando anche al futuro del figlio Gennaro, che ha già deciso di continuare l’opera del padre. Un’altra garanzia per i vecchi vigneti dei Campi Flegrei. Prosit.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Cantina Ninni Spoleto Miglior cantina Centro Italia 2022 Winemag.it lanima bianca dellUmbria 3
«Un vino fatto con l’uva vera, dedicato alla mia famiglia». Gianluca Piernera, ex elettricista, è l’uomo che ha acceso la luce su uno dei vitigni italiani di maggior prospettiva: il Trebbiano Spoletino.
La sua Cantina Ninni Spoleto – cantina dell’anno Centro Italia 2022 per Winemag.it, all’interno della Guida Top 100 Migliori vini italiani 2022 – è una realtà relativamente giovane. Il primo vino è infatti frutto della vendemmia 2012.
MONTEFALCO E SPOLETO: L’UMBRIA DEL VINO FA SQUADRA
Una piccola realtà che è riuscita in pochi anni in un vero e proprio miracolo: portare la Doc Spoleto sotto l’egida del Consorzio di Tutela Vini Montefalco. Si è così incrementato il valore delle uve, consacrando il Trebbiano Spoletino quale alter ego di uno dei vini rossi italiani più longevi: il Sagrantino.
Una contrattazione delicata quella che ha visto coinvolti i produttori di Spoleto con i vicini di casa di Montefalco. Tra i quali il vignaiolo di frazione Terraia ha giocato un ruolo simbolico e decisivo. Del resto, Gianluca Piernera si è ritagliato uno spazio da leader ben prima di fare il suo ingresso nelle stanze della “politica del vino”.
È diventato in pochi anni un riferimento nella produzione del Trebbiano Spoletino, grazie all’esperienza nelle pratiche agronomiche maturata dall’amico Marco Casolanetti di Oasi degli Angeli. È stato proprio il padre di un’icona del vino italiano come Kurni a dare a Piernera lo slancio definitivo per cambiare vita, investendo tutto sulla viticoltura.
Oggi la produzione della cantina Ninni – che comprende anche due vini rossi da uve Montepulciano, Sangiovese, Merlot, Barbera e Aleatico e due ancestrali – si inserisce nei canoni del cosiddetto “vino naturale“, ma con grande coscienza e precisione enologica, anche grazie ai consigli di un consulente esterno all’azienda.
Le vigne, alcune delle quali a piede franco, con età media di 80 anni, vengono gestite senza prodotti sistemici. Il vino prosegue il suo percorso verso il calice con il minimo intervento possibile, imbottigliato senza essere filtrato.
In ogni etichetta la mano invisibile di Piernera, capace di rendere omaggio di volta in volta al terroir di Spoleto, a un vitigno o a un uvaggio. In una parola, alla natura.
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Sedilesu famiglia del vino di Mamoiada lazienda si fa in tre con Mulargiu Malarthana e Teulargiu salvatore sedilesu 1
Due progetti indipendenti, frutto di un delicato passaggio generazionale nella Sardegna del vino più autentica e profonda. Sedilesu si conferma “famiglia del vino” per eccellenza di Mamoiada (o Mamojà), con la nascita di Mulargiu Malarthana e Teularju. Questi i nomi delle due nuove cantine indipendenti, pur sempre legate a doppio filo alla casa madre.
Due «gemme», come piace definirle Salvatore Sedilesu, nate per dare spazio ai sogni e alle aspirazioni da vignaioli dei numerosi membri della famiglia sarda, nella Barbagia di Ollolai. A spiegare i dettagli dell’operazione è proprio il numero uno della cantina di via Vittorio Emanuele II.
«Io ho cinque figli – chiarisce – mio fratello e mia sorella rispettivamente quattro. Ci siamo dunque ritrovati nella condizione di dare all’azienda continuità generazionale. Per questo abbiamo “gemmato” da Cantina Giuseppe Sedilesu altre due aziende. Abbiamo diviso i corpi dei vigneti, continuando a lavorare stretto tra di noi. Tutta la materia prima che avanza ci viene conferita».
LA CANTINA MULARGIU MALARTHANA
Nel dettaglio, la cantina Mulargiu Malarthana è gestita da Francesco Mulargiu, figlio di Antonietta Sedilesu ed Emilio Mulargiu. Il giovane, da sempre immerso a pieni polmoni nella realtà di Mamojà, gestisce il ristorante Su Tapiu di Mamoiada ed è ormai pronto al vero salto di qualità, nella terra d’elezione del Cannonau di Sardegna.
La denominazione della nuova cantina unisce il cognome di famiglia – Emilio Mulargiu è tra i fondatori della stessa Sedilesu – e il nome della località in cui si trova la vigna di proprietà, Malarthana. «Con la vendemmia 2018 abbiamo prodotto solo 500 bottiglie – spiega Francesco Mulargiu a WineMag.it – ma nel 2019 il numero è salito a circa 4 mila. Con l’entrata in produzione della Riserva, arriveremo a 5 mila totali».
LA CANTINA TEULARJU DI MAMOIADA
«Le due “gemme” nate da Cantina Sedilesu – evidenzia ancora Salvatore Sedilesu – rispecchiano appieno il progetto di zonazione che l’associazione Mamojà vuole portare avanti sul Cannonau. Non a caso, anche la seconda cantina, denominata Teularju, porta il nome della vigna in cui si trova il terreno vitato, ovviamente nel territorio di Mamoiada».
La cantina è gestita da Francesco Sedilesu, fratello di Salvatore. Diecimila le bottiglie prodotte, su due etichette. Due progetti indipendenti, che sposano appieno la filosofia aziendale della casa madre Sedilesu.
«Faranno comunque la loro strada – precisa Salvatore Sedilesu – pur vinificando le proprie uve qui da noi, in cantina, come committenti. Sono due aziende nuove, che sapranno spiegare attraverso i loro vini l’intima interpretazione del territorio di Mamojà».
LA CANTINA SEDILESU
I dati più recenti della “casa madre”, fondata oltre 40 anni fa a Mamoiada, parlano dell’azienda simbolo del territorio, se non altro dal punto di vista dei numeri. Circa 120 mila le bottiglie prodotte in media ogni anno, grazie a 12 ettari di proprietà, 3 in affitto e alle uve di svariati conferitori, che allevano un totale di 5 ettari di vigneto.
Il mercato principale della Cantina Sedilesu è quello della Sardegna, regione in cui viene venduto il 50-60% della produzione. Il 40% circa restante finisce in Europa, con la Svizzera che guida la classifica dell’export. A seguire, Paesi del centro del continente come Germania, Austria e Olanda. Più di recente, la nota cantina di Mamoiada ha aperto sbocchi soddisfacenti negli Usa, in Canada e in Ucraina.
Spazio anche per il “nuovo mondo”, rappresentato dal Brasile. Il 2021, dopo la batosta del Covid-19 che ha segnato il 2020, ha convinto Sedilesu a spingersi verso Oriente, trovando un nuovo importatore in Corea. Vie infinite, insomma, quelle di Mamojà. Una volta di più se, dietro, c’è un’intera famiglia. Due fratelli, una sorella e 13 figli. Tutti nati sotto la stella del Cannonau.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Quindici ettari vitati, quasi tutti a circa 300 metri dal corpo dell’azienda. Una masseria nel cuore della Daunia, a poca distanza dal suo luogo simbolo: il castello di Lucera. Una famiglia dedita alla viticoltura. Più di trent’anni di esperienza. Cantina La Marchesa è tutto questo, in uno: cantina dell’anno Sud Italia 2022 per WineMag.it, all’interno della Guida Top 100 Migliori vini italiani 2022.
Una realtà che si fa custode di un tratto di Puglia aspro, generoso. Fin troppo spesso dimenticato. Lo racconta al mondo attraverso i suoi vini. A condurre le vigne è Sergio Lucio Grasso, un vignaiolo vulcanico ed instancabile, legato alle proprie viti come se fossero un’estensione del proprio corpo.
CANTINA LA MARCHESA SUL PODIO DEL SUD ITALIA
A tratti ruvido nei modi, sempre schietto nelle parole, trasmette la sua energia e la vera essenza del territorio nei suoi vini. A fargli da contraltare è la moglie, Marika Maggi. Solare, aperta, fantasiosa donna del vino pugliese. È lei l’anima comunicativa della cantina La Marchesa. I due, insieme, sono una forza della natura.
Una voce unica, all’insegna dell’autenticità della produzione, divenuta l’ennesima ragione di vita comune. Nero di Troia, Montepulciano, Fiano e Bombino Bianco i vitigni coltivati con passione da Cantina La Marchesa e da cui nascono i cinque vini dell’azienda. Custodi di un territorio che merita un posto d’onore nel panorama vitivinicolo italiano.
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
L unicita del Brunello Vigna Schiena d Asino di Mastrojanni il cru senza toponimo 1
Dicono sia un errore voler dare un nome a tutte le cose. Catalogarle. Racchiuderle nei confini dell’umana comprensione. Dicono. Ma se così non fosse, la vigna Schiena d’Asino di Mastrojanni non esisterebbe. Chiedere per credere ad Andrea Machetti, deus ex machina della cantina di Montalcino, oggi fiore all’occhiello del Gruppo Illy. La storia di uno dei cru di Brunello più noti e apprezzati al mondo affonda le radici nel 1992.
«Ero appena approdato a Matrojanni, dopo l’esperienza a Villa Banfi – racconta l’ad Machetti a WineMag.it – quando in cantina vidi una singola botte accantonata, con una scritta: “Vigna Schiena d’Asino”. Chiesi all’avvocato Giuseppe Mastrojanni di cosa si trattasse. Poi assaggiai il vino e capii che era speciale».
Quel nettare, ottenuto dalla vigna piantata nel 1975 da Mastrojanni nella frazione Castelnuovo dell’Abate di Montalcino, era noto anche a Gualtiero Marchesi. L’interprete rivoluzionario della nouvelle cuisine lo serviva come “Vino Rosso da tavola Schiena d’Asino”.
«Feci di tutto per registrare ufficialmente quel nome – rivela Andrea Machetti – approfittando dello scollamento che c’era all’epoca tra le attività della Camera di Commercio e l’amministrazione provinciale. Oggi il Brunello di Montalcino “Vigna Schiena d’Asino” è l’unico vino da cru senza toponimo in Italia e forse al mondo, regolarmente riconosciuto come tale».
Il nome non è legato ad una località, ma alla caratteristica forma “a dorso d’asino” di una porzione del vigneto, pari a 1,1 ettari dei 2,6 complessivi. La conformazione garantisce un’esposizione a Est e a Ovest, a un’altezza di 390 metri sul livello del mare. Le particolarità della Vigna Schiena d’Asino sono nascoste anche nel sottosuolo.
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«Si tratta ovviamente di Sangiovese grosso da Brunello – spiega Machetti – di età media di 45 anni, le cui radici affondano in un terreno di tipo argilloso e sassoso, con una presenza di calcare che non si ravvisa negli altri 40 ettari della tenuta. In presenza di fallanze, si reimpiantano le barbatelle ottenute dalla selezione interna al vigneto».
Le viti, grazie ad un «approccio più biodinamico dei biodinamici certificati», come ama descriverlo Andrea Machetti, hanno raggiunto un equilibrio naturale e sono in grado di regalare uve sane, vinificate come cru solo negli anni migliori. Oggi a disposizione la 2015 in 6 mila bottiglie, dopo 2007, 2008, 2010, 2012 e 2013.
Una volta in cantina, il lungo affinamento in legno grande (42 mesi) e l’ulteriore anno di bottiglia conferiscono al Brunello di Montalcino Schiena d’Asino di Mastrojanni note uniche, anche (anzi, soprattutto) nel tempo.
Esemplare l’assaggio di un vendemmia 1997 perfettamente integro, preciso nella succulenza del frutto e freschissimo. Tutto questo per la voglia di dare un nome alle cose di Andrea Machetti. L’uomo che ha cambiato il futuro di Mastrojanni, con appena tre lettere. Cru.
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Vigne al colle Montegrande Reassi tris sui Colli Euganei e1613491016961
Il palco ideale sul quale l’Italia del vino potrebbe annunciare al mondo intero di essere ripartita più forte di prima, una volta superata la pandemia? Senza dubbio il Veneto dei Colli Euganei.
Un pezzo minuscolo del puzzle della viticoltura del Bel paese, balzato alla velocità della luce agli onori delle cronache internazionali quale epicentro del Coronavirus, avrebbe così l’opportunità fenicea di raccontarsi, nel solco dei terroir vulcanici italiani e mondiali.
A guardar bene, non ci si spiega come mai dei Colli Euganei si parli così poco negli ambienti del vino e della ristorazione. I mille ettari rivendicati a Doc su un totale di 2.300, aiutano a comprendere quanto ricercata sia la produzione enologica locale, resa particolare dalla presenza nel terreno di trachite, riolite e lalite.
Il ventaglio ampelografico è ampio, ma ben circostanziato sulle eccellenze. Si passa dai vini bianchi e rossi prodotti da vitigni autoctoni e da internazionali presenti sin dal 1870 nella zona (Serprino, Merlot e Cabernet), ai vini dolci, spumanti e passiti da uve Moscato Giallo (il Colli Euganei Fior d’Arancio è Docg dal 2011).
Anche il territorio offre ogni genere di attrattività al turista e all’enoturista moderno. Tra possibilità di escursioni nel verde dei colli vulcanici, visite a luoghi di culto e di cultura centenaria e ristoranti di ottimo livello, il nesso tra terra e cielo che fa dei Colli Euganei un vero e proprio paradiso sono gli impianti termali, presenti nel Parco Regionale. Luoghi in cui cullarsi, magari proprio tra una visita e l’altra in cantina. Eccone tre da non perdere.
COLLI EUGANEI, TRE CANTINE (E VINI) DA NON PERDERE
«In una fredda notte d’inverno il Carro Minore, il Colle e la Luna si incontrano, un sogno, uno stile, un’emozione che si trasferisce nell’aroma dei propri vini». Il romanticismo all’ennesima potenza del logo di Vigne al Colle si mescola col pragmatismo e la grande competenza di Martino Benato, che conduce con la moglie la cantina di Rovolon.
Il vino da non perdere: Merlot 2018 “Poggio alle Setole”
Agricoltori da una vita, i Cristofanon vendevano un tempo solo vino sfuso, facendo la spola tra le province di Padova e Vicenza, con sconfinamenti in Lombardia, tra Milano e Varese. Dal 1995 il cambio di rotta, grazie all’avvento di Raffaele e Paola Cristofanon, fratello e sorella alla seconda generazione, e all’esperienza dell’enologo Lorenzo Caramazza.
Il vino da non perdere: Colli Euganei Docg Fior d’arancio passito 2012
Per comprendere la grande chance che hanno i Colli Euganei nel panorama presente e futuro basta farsi un giro da Reassi. Diego Bonato, classe 1982, ha raccolto l’eredità dei genitori che vendevano al 95% vino sfuso, trasformando la cantina e i suoi 6 ettari di vigneti in una chicca imperdibile. Vincitore del premio Giulio Gambelli nel 2017, quale enologo under 35 alla Tolaini di Castelnuovo Berardenga, ha lasciato il “posto fisso” per tornare a casa. I Colli Euganei ringraziano.
Il vino da non perdere: Vin bastardo 2016 (Marzemina bastarda grossa, Turchetta e Corbina)
***DISCLAIMER*** Si ringrazia il Consorzio per la copertura delle spese in loco, per la realizzazione del reportage
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Antonelli San Marco ritorno al cemento Sagrantino e Trebbiano Spoletino nascono dai tulipani
«Cementificazione in corso». Scherza Filippo Antonelli riguardo ai quattro nuovi serbatoi di cemento che hanno trovato casa nella storica cantina di località San Marco, a Montefalco. Si tratta di Tulip, “tulipani”, nome scelto dall’azienda produttrice – la Nico Velo Spa di Fontaniva, in provincia di Padova – per gli speciali contenitori da 45 ettolitri.
La forma ricorda infatti il calice a tulipano, nell’unione ideale tra la genesi e lo zenit di un vino, ovvero il suo (entusiastico) consumo. Un accorgimento tecnologico significativo, soprattutto nell’ambito di una Denominazione – il Sagrantino di Montefalco – che sta cambiando nel tentativo di non perdere il treno dei nuovi consumatori, pur rimanendo fedele ai canoni di tipicità di uno dei vitigni più tannici al mondo.
«In cantina sperimentiamo da anni diversi materiali – spiega Filippo Antonelli a WineMag.it – con l’obiettivo di ottenere vini che piacciano in primis a noi e poi al mercato. Uno degli aspetti che ci ha spinto ad acquistare quattro nuovi “tulipani” di cemento, affiancandoli ai due già presenti in cantina da 5 anni, è la qualità che conferiscono ai nostri vini».
Secondo Antonelli, i mosti godrebbero di benefici in una fase delicatissima della vinificazione: «Abbiamo ravvisato miglioramenti soprattutto durante la coda della fermentazione. La temperatura scende molto lentamente nel Tulip, a differenza di quanto avviene nell’acciaio, in cui lo scambio termico è maggiore. Ciò facilita reazioni chimico-fisiche che conferiscono qualità».
Ma il punto è che assaggiamo e riassaggiamo i nostri vini sperimentali da diversi anni e, con il passare delle vendemmie, le nostre scelte diventano sempre più consapevoli. Quello che ci ha convinto a investire ancora nel cemento non vetrificato è il risultato empirico: ci piace quello che è capace di dare al vino. La nostra, dunque, non è una scelta religiosa, ma laica e pragmatica».
Che Antonelli creda in questi contenitori troncoconici per le fermentazioni lo dimostrano i vini che nascono dai “tulipani”. Si tratta infatti di alcune tra le etichette top di gamma della cantina, molto richieste anche all’estero: il Trebbiano Spoletino “Anteprima Tonda” e il nuovo cru di Sagrantino di Montefalco “Molino dell’Attone“, da poco in commercio con l’annata 2015.
«A questi – anticipa a WineMag.it il vigneron umbro – andrà ad aggiungersi, proprio grazie ai nuovi tulipani, anche Chiusa di Pannone», l’altro grande Sagrantino di Montefalco Docg firmato Antonelli San Marco.
Lo stesso Trebbiano Spoletino macerato del cru storico “Vigna Tonda“, ormai pronto a prendere il posto dello sperimentale “Anteprima Tonda”, sarà fermentato nei tulipani. Del resto, tra le cantine che investono da anni in questo tipo di contenitori in cemento c’è Château Cheval Blanc di Bordeaux.
Ed è proprio nel regno dei grandi vini rossi francesi che l’azienda produttrice italiana ha presentato per la prima volta questa novità, al salone Vinitech. In fondo, il vino è come la vita: certe storie fanno il giro largo, per tornare dove sono iniziate. O finire un po’ più a sud.
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I Marchesi Guerrieri Gonzaga del vino Tenuta San Leonardo compie 250 anni in Trentino Gonzaga
Il motto di famiglia recita “Belli ac Pacis Amator“, ovvero “Amante della Guerra e della Pace”. Deposte definitivamente le armi, la famiglia Guerrieri Gonzaga può festeggiare in questo 2020 un traguardo importante: Tenuta San Leonardo ha infatti compiuto 250 anni di età, il 5 dicembre scorso.
Impossibile immaginare che i Terzi, antico cognome della famiglia, avrebbero un giorno dato vita a una delle cantine più prestigiose d’Italia. Uomini d’arme con la pace nelle vene, capaci con Niccolò figlio di Ottobono di guadagnarsi sul campo di battaglia il soprannome di “Guerriero”. Cognome aggiunto nel 1506 a quello di Gonzaga, in segno di riconoscenza da parte del Marchese Francesco, signore di Mantova.
La storia di Tenuta San Leonardo è poco più recente. Era il 5 dicembre del 1770 quando il possedimento di Avio, in provincia di Trento, venne ceduto alla famiglia da parte della Chiesa Tridentina.
“Ancora oggi, dopo ben 250 anni – spiega il Marchese Anselmo Guerrieri Gonzaga – lo stesso sentimento ci lega a questa enclave del Basso Trentino baciata dal sole, accarezzata dal vento e protetta dagli imponenti bastioni dei Monti Lessini e del Monte Baldo, dove la vigna ci regala grandi vini che parlano di Terroir e amore per la terra”.
Più di mille anni fa, Tenuta San Leonardo era un monastero; oggi la residenza dei Marchesi Guerrieri Gonzaga. Più che un vigneto, un giardino di vigne e rose. Le montagne, a nord, proteggono dai venti freddi. E a fondovalle il campo è aperto per accogliere il tepore del lago di Garda.
Una cantina che è molto più del mero business. Le prime tracce della famiglia Guerrieri Gonzaga in qualità di viticoltori a San Leonardo risalgono al XVIII secolo e vengono gelosamente custodite dall’attuale proprietà.
Una prima riorganizzazione della tenuta avvenne tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, grazie al padre del Marchese Carlo, appassionato di enologia. Ma è proprio Carlo il primo vero enologo della famiglia.
Appassionato di grandi vini, da cinquant’anni dedica a San Leonardo gran parte delle sue attenzioni e del suo tempo. Ha trasmesso passione e amore per la vite e il vino anche al figlio Anselmo, che oggi amministra l’azienda in Trentino “ascoltando in ogni scelta sempre il cuore che batte per questa Tenuta amata da tutta la famiglia”.
La formazione di Carlo Guerrieri Gonzaga risulta fondamentale per la storia moderna di San Leonardo. Fu dettata non solo dalla prospettiva di gestire in prima persona il patrimonio agricolo familiare, ma soprattutto da una viva curiosità per i grandi vini, Bordeaux in primis.
Decise così di studiare enologia a Losanna e di approfondire le sue conoscenze con viaggi di studio in Francia ed in Toscana. Proprio presso la Tenuta San Guido di Bolgheri, madre del Sassicaia, iniziò il lungo e proficuo rapporto con Mario Incisa della Rocchetta, che lo introdusse a tutti i segreti del blend bordolese e divenne a tutti gli effetti il suo “padrino enologico”. Una storia con molti capitoli ancora tutti da scrivere.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Cantina Bolzano la winery al cubo Alto Adige KBZ outdoor
Sono 223 i soci viticoltori protagonisti di Cantina Bolzano, una realtà che dalla sua fondazione persegue lo stesso obiettivo: produrre e commercializzare i migliori vini dell’Alto Adige, in particolare gli autoctoni Lagrein e Santa Maddalena.
Una “winery” che è divenuta simbolo della città, ancor più dalla realizzazione del cubo, la struttura che la contraddistingue e la rende riconoscibile tra mille, a livello internazionale. L’unica parte visibile di un nuovo edificio produttivo perfettamente integrato nella natura, ai piedi delle montagne del quartiere San Maurizio di Bolzano.
“La tradizione che si rinnova, per inseguire nuovi traguardi di eccellenza”, come amano sintetizzare all’unisono il presidente Michael Bradlwarter, il direttore Klaus Sparer e l’enologo Stephan Filippi.
UNA STORIA DI OLTRE UN SECOLO
La storia di Cantina Bolzano inizia nel 1908, quando 30 viticoltori del quartiere bolzanino di Gries decisero di fondare una cooperativa vinicola con lo scopo di vinificare uno dei vitigni più importanti della zona: l’autoctono Lagrein.
Qualche anno dopo, nel 1930 viene fondata da 18 viticoltori un’altra piccola cooperativa a Santa Maddalena, all’interno della quale i soci riuscirono a produrre da uve Schiava un vino di grande pregio: il Santa Maddalena.
Dalla fusione di queste piccole realtà vinicole nel 2001 nasce Cantina Bolzano, la cantina di produttori che si fa portavoce delle due varietà autoctone principi della zona: il Lagrein e il Santa Maddalena.
Di pari passo alle due realtà riunite sotto il nome di Cantina Bolzano, cresce anche il numero di soci, ad oggi 224, e si rende necessario unificare anche fisicamente le due sedi produttive. Nel 2015 viene posata la prima pietra della nuova cantina nel quartiere di San Maurizio alle porte della città di Bolzano.
L’edificio produttivo, costruito rispettando i più moderni principi di sostenibilità, viene completato nel 2018 quando per la prima volta le uve vengono consegnate e lavorate all’interno della nuova cantina.
LA “NUOVA” CANTINA BOLZANO
Il nuovo sito produttivo è perfettamente integrato nella superficie collinare circostante. Grazie alla sua strutturazione su 5 livelli, sfrutta la gravità per realizzare il processo di lavorazione a caduta dell’uva.
L’edificio unisce i principi di funzionalità e valorizzazione del vino a quelli di ecosostenibilità e tutela del paesaggio. Cantina Bolzano è infatti la prima cantina produttori certificata CasaClimaWine®.
Lo stabile è costruito sotto il livello del terreno ed è coperto in superficie da terrazze coperte da vigneti, per mimetizzare totalmente la struttura. L’unica costruzione in superficie è la parte centrale, dominata dal cubo che è diventato il simbolo della nuova Cantina Bolzano, anche grazie ai “filamenti” che ricordano una foglia di vite.
L’aumento dello spazio di lavoro con il nuovo stabilimento ha permesso di valorizzare maggiormente le caratteristiche delle selezioni. I vari “Cru” sono infatti lavorati in serbatoi separati per esaltare al meglio le proprietà di ciascuna zona di produzione.
CANTINA BOLZANO IN SINTESI
Fondazione: 1908 Cantina di Gries, 1930 Santa Maddalena, 2001 fusione in Cantina Bolzano, 2018 trasferimento nella nuova sede di San Maurizio
Posizione & territorio: Bolzano e dintorni. La zona vinicola di Bolzano è una delle principali aree vinicole della regione. I terreni di fondovalle sono ben ventilati, caratterizzati da forti escursioni termiche tra il giorno e la notte e beneficiano della vicinanza ai fiumi Adige e Isarco. Qui le uve, che crescono sui pendii ai piedi delle Dolomiti ad un’altitudine che va dai 200 ai 1000m. s.l.m., acquisiscono caratteristiche d’eccellenza. Ne sono esempio i due vini di punta della regione vinicola: Lagrein e Santa Maddalena (Schiava).
Modello aziendale: Cooperativa di produttori
Direttore: Klaus Sparer
Presidente: Michael Bradlwarter
Enologo: Stephan Filippi
Soci: 224
Superficie vitata: 340 ettari
Impianto: sistema a pergola per alcuni vigneti di Santa Maddalena; sistema a spalliera per la maggior parte dei vigneti.
L’Alicante? Un vitigno da “apnea”. Chiedere per credere a Gurrida, cantina proprietaria di un vigneto “subacqueo”. Da circa 200 anni, da novembre ad aprile, le piante “a piede franco” vengono sommerse dall’acqua. Non siamo su un nuovo pianeta scoperto dalla Nasa, ma a Randazzo. Sul versante nord dell’Etna.
Dopo dodici anni – spiega fiero a WineMag,it Gaetano Cesarò, patron di Gurrida – la vendemmia in azienda è stata ripresa ed abbiamo raccolto circa 60 quintali di Alicante dalle nostre vigne secolari”.
Qualità o quantità? Non scherziamo: “È stata una vendemmia discreta, caratterizzata da una quantità minima ma di ottima qualità: come prima annata non si poteva pretendere più di tanto”, chiosa ancora Gaetano Cesarò.
Una realtà che non è solo un’azienda vinicola, ma un vero e proprio concentrato della storia vitivinicola della Sicilia. Il vigneto di Alicante fu voluto dall’ammiraglio Horatio Nelson, che lo fece realizzare dopo essere stato nominato Duca di Bronte dal Re di Napoli. Un riconoscimento per aver sedato una rivolta nella città partenopea.
Nelson, la cui idea era di costituire un nuovo polo vinicolo nell’isola, ben nota agli inglesi che controllavano il commercio del Marsala, fece impiantare dall’enologo francese Fabre mille ettari di Alicante.
Un vitigno noto anche come Grénache. Tra queste nuove piantagioni, ecco il vigneto di Gurrida, sopravvissuto all’arrivo della fillossera grazie ad un fenomeno unico nel suo genere, che ne rivela le doti da “subacqueo”.
Ogni anno, da novembre ad aprile, le viti finiscono in apnea, ricoperte dall’acqua piovana che poi, lentamente, si riversa nei fiumi Alcantara e Simeto grazie alla porosità del terreno. Ancora oggi, seppur con qualche difficoltà dovuta alla riduzione delle piogge, è possibile ammirare il fenomeno.
All’interno dell’azienda, che si presenta con una particolare cantina posta su tre livelli, anche un piccolo museo rurale, che offre la possibilità di vedere le vecchie botti grandi dove veniva custodito il vino negli anni ’40.
“Le hanno forate a colpi di pistola i soldati tedeschi di stanza sull’Etna- spiega ancora a WineMag.it Gaetano Cesarò – per sversare gli oltre 3 mila ettolitri di vino durante la Liberazione da parte delle forze alleate”. Una storia di resistenza che si mescola a quella del vigneto subacqueo di Alicante.
All’interno dell’azienda di Randazzo, anche una fermata della ferrovia Circumetnea, la seconda linea ferrata italiana costruita dopo quella di Napoli, oltre a un vastissimo parco dominato dal lago Gurrida. Un gioiello incastonato nel territorio del Parco dell’Etna, che è possibile visitare grazie ad un sentiero immerso. Nella natura, s’intende.
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Terre di Leone leggerezza e modernita nella Valpolicella Classica Federico Pellizzari e Chiara Vassanelli 2
C’è chi è nato per sfoggiare borse eleganti e chi per portare zaini pesanti sulle spalle, con la stessa agilità di una pochette. I vini della Valpolicella di Terre di Leone colpiscono per leggerezza e modernità, costruite sulla consapevolezza di scelte difficili. Persino evitabili.
Una coerenza rara nell’Italia del vino anni Duemila, sancita dal matrimonio inscindibile tra la vita privata e quella professionale di Federico Pellizzari e Chiara Turati. Mr e Miss Terre di Leone.
Rese striminzite in vigna. Massima attenzione all’ambiente. E, soprattutto, autocritica alle stelle. Tanto da poterla scambiare, di primo acchito, per falsa modestia. Un perfezionismo attestato da anni e anni di prove, prima dell’esordio sul mercato, nel 2010.
Siamo a Marano, nella Valpolicella Classica. Ma potremmo essere a Minsk o Addis Abeba. La vita e il lavoro di Federico Pellizzari e Chiara Turati paiono un’opera d’arte. Un quadro originale, che starebbe bene al Louvre di Parigi. Come al Moma di New York.
Passano anche per la Bielorussia e l’Etiopia le storie “pesanti” della coppia, attorcigliate come vivide radici ai calici di Terra di Leone. La coppia di vignaioli ha deciso di adottare in questi due Paesi i propri figli, oggi ormai felici adolescenti, cresciuti in un Veneto non sempre aperto ad accogliere.
Sembra di ritrovare nel calice, all’unisono perfetto, quell’influsso di un Est Europa dagli inverni gelidi, che non perdonano errori di calcolo e misura; e quell’Africa calda e imprevedibile, capace di emozionare con un gesto semplice o un sorriso.
Berreste, voi, Amarone dal lunedì al venerdì? Probabilmente no, ma è questo il senso di una linea che solo chi ha dentro un mondo potrebbe immaginare: si chiama “Il Re Pazzo” ed è la gamma di “vini quotidiani” con cui Terre di Leone prova a spiegare in maniera semplice, disinvolta ma vera, una Valpolicella di straordinaria modernità e leggerezza.
Grandi profumi. Integrità assoluta del frutto. La stessa che si ritrova anche nel rosso Igt “Dedicatum“, ottenuto dall’assemblaggio di 14 uve della Valpolicella: l’emblema della passione di Federico Pellizzari per lo Châteauneuf-du-pape.
Fiore all’occhiello della produzione, l’Amarone Riserva che – se ce ne fosse bisogno – dà ancora una volta la tara a Terre di Leone: “Avremmo sempre avuto, a rigor di disciplinare, la possibilità di indicare la Riserva, visti i lunghi tempi di affinamento. Ma all’inizio ci sentivamo fuori posto“. Oggi non più. Ed è solo l’inizio, per una delle massime espressioni del vino della Valpolicella. Classica e non.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Nicosia punta sullEtna Doc con nuove etichette di Contrada 8
Dalla fine dell’Ottocento (1898) e da cinque generazioni, la famiglia Nicosia si dedica alla viticoltura. Alle pendici dell’Etna, la cantina oggi guidata da Carmelo Nicosia e dai figli Francesco e Graziano, sembra aver trovato il suo habitat naturale. Un progetto enologico in crescita.
Nel futuro di Nicosia c’è infatti l’avvio della produzione di altri “vini di Contrada“, ottenuti da vigne storiche di proprietà e di recente acquisizione, nei Comuni di Zafferana Etnea, Santa Venerina e Linguaglossa. Etichette che andranno a consolidare una produzione già ricca di sfaccettature e sfumature.
Siamo nel territorio di Trecastagni, nella zona Sud-Est del vulcano, a circa 600 metri sul livello del mare. Le vigne si estendono per 10 ettari ai piedi di uno dei tanti crateri etnei inattivi, Monte Gorna e sul Monte San Nicolò (8 ettari), situato a un chilometro di distanza. Completano il parco vigneti alcune piccole proprietà nei dintorni.
In queste zone, che ricadono nei territori della Doc Etna, Nicosia alleva Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio per i rossi; Carricante, Catarratto e Minnella per i bianchi. Piccole parcelle costituiscono i Cru, destinate al Bianco Riserva e al Rosso Riserva che i portano i nomi della zona.
La cantina di 6 mila metri quadrati coperti – 33 mila totali – gioca sul binomio tra modernità e tradizione. All’interno si trovano un negozio e l’accogliente Osteria, che offre ristoro agli amanti dei piatti della Regione e non solo. Il sommelier Santi Natola accompagna alla scoperta del territorio.
Il tutto attraverso piatti e vini che lo raccontano, secondo i principi e i valori della famiglia Nicosia. Di particolare interesse è l’uso delle botti (di primo e, soprattutto, secondo e terzo passaggio) ricavate sia da rovere francese che americano e acacia, in grado di cedere ai vini sensazioni speziate e mielate di grande piacevolezza.
Tutti gli imbottigliamenti godono di certificazione biologica, alcuni dei quali attestati bio-vegan. La gestione delle vigne è affidata all’agronomo Alessandro Logenco, che opera in sinergia con l’enologa, nonché compagna di vita, Maria Carella.
LA DEGUSTAZIONE
Etna Doc Bianco 2019 Monte San Nicolò (13%)
L’uvaggio che lo compone è Carricante per il 95% e Minnella per il restante 5%. Affinato in vasche d’acciao per 7/8 mesi e, successivamente, in bottiglia per 3/4 mesi.
Alla vista si presenta di colore giallo paglierino con riflessi verdolini, cristallino. Al naso sono percepibili profumi floreali e fruttati, di pera e mela, agrumi. Vino giovane, al palato spicca una comprensibile e notevole acidità, sapido, dalla velata mineralità. Un vino non ancora in commercio.
Etna Doc Bianco 2018 Monte Gorna 2018 (13%)
Costituito da un blend di Carricante per l’80% e Catarratto per il 20%. Affinamento in vasche d’acciaio, breve passaggio, pari a 3/4 mesi, in tonneaux d’acacia, stesso periodo ma in bottiglia, per finire.
Alla vista giallo paglierino, riflessi verdolini, brillante. Al naso fine, più floreale che fruttato, delicato miele, agrumi e, col tempo, in successione, note di frutta secca e balsamiche di alloro. Al palato, assai gradevole l’evidente nota minerale, ottima acidità, accompagnata da ben presente sapidità. Un vino ben Fatto.
Etna Doc Bianco Riserva 2016 Monte Gorna 2016 (13%)
Prevalente presenza di Carricante, il 90%, in blend con una minore quantità di Catarratto per il 10%. Affinamento: metà produzione sosterà sei mesi in barrique di secondo passaggio, mentre, l’altra metà farà sei mesi in barrique di terzo passaggio. Seguirà ulteriore elevazione, per circa un anno, in bottiglia.
Colore giallo dorato. Il naso è complesso, fruttato, ricorda la mela cotogna, delicatamente mielato. Al palato regna una notevole acidità, nonostante l’annata non recentissima, è sapido, con una gentile nota minerale. Di ottima struttura, grande equilibrio. Imperdibile.
Spumante Doc Sicilia Brut Carricante 2017 (sbocc. 2019 – 12%)
Concepito con solo Carricante, farà affinamento esclusivamente in acciaio e, almeno, 18 mesi in bottiglia sui lieviti. Perlage fine, di buona persistenza. Colore giallo paglierino, riflessi verdolini, cristallino.
Al naso ricorda molto, soprattutto nel tempo, la matrice comune ai bianchi fermi: profumi floreali e miele che, insieme a sentori di lievito, trovano conferma al palato. Ricchissima acidità, per caratteristica dell’uva d’origine, il Carricante si rivela vitigno ostico per la spumantizzazione.
Merita indubbiamente l’assaggio, per carpirne le peculiarità. Nei prossimi anni si punta alla realizzazione di espressioni più mature, che raggiungeranno i 36 e i 60 mesi sui lieviti.
Spumante Doc Etna Brut 2016 (sbocc. 2019 – 11.5%)
Nessun blend per questo spumante, previsto l’utilizzo di solo Nerello Mascalese. Un Blanc de Noir affinato non meno di 24 mesi sui lieviti, dal perlage fine e persistente.
Colore giallo paglierino. Al naso complesso ed elegante, si alternano sentori floreali e fruttati, immancabili lievito e crosta di pane. Acidità persistente, sostenuta da una, molto presente, mineralità. Equilibrato.
Etna Doc Rosso 2017 Monte Gorna (13%)
Le uve utilizzate, per questo vino convincente, sono Nerello Mascalese 80% e Nerello cappuccio 20%, per il più classico dei blend della Doc Etna Rosso. Circa la metà della produzione, dal 40 al 50%, sarà destinata alla botte grande (3-4 mesi), per poi sostare ulteriormente in barrique di 2° e 3° passaggio (5/6 mesi). La restante parte affinerà in acciaio. Seguiranno sei mesi da trascorrere in bottiglia.
Dal colore rosso rubino, con gli anni tenderà a degradare verso toni granati, in linea con le caratteristiche dei vini da Nerello Mascalese. Al palato si distingue subito per le note di frutta rossa, spezie, capperi, liquirizia nel finale. Piacevole beva, per via della buona freschezza, si sente il legno ma senza eccessi. Buona struttura generale.
Etna Doc Rosso Riserva 2013 Monte Gorna (13.5%)
Realizzato con Nerello Mascalese per il 90% e Nerello Cappuccio per il 10% , la Riserva gode di un periodo di quiescenza in cantina di quattro anni (almeno) dalla vendemmia e, secondo disciplinare di produzione, dodici mesi di botte. Per il proprio vino, Nicosia ha previsto due anni di barrique di rovere francese di 2° e 3° passaggio.
Colore rosso rubino, tendente al granato. Al naso sono piacevoli le sensazioni olfattive di erbe aromatiche e spezie, di cannella, macchia mediterranea, rosmarino. Complesso. In bocca domina il tannino che pervade il palato. Molto evidente l’uso della botte. E’ buona la freschezza, persistenza notevole. Strutturato.
Igt Sicilia Nerello Mascalese 2014 “Sosta Tre Santi” (13.5%)
Nato per celebrare il legame della cittadina etnea ai Tre Santi protettori (Alfio, Filadelfo, Cirino), che qui fecero il loro passaggio e ai quali viene riconosciuta devozione, il vino è ottenuto da uve Nerello Mascalese provenienti da diverse vigne della proprietà.
Molto caratterizzato dalle botti di provenienza, determinato dalla permanenza di dodici mesi in barrique di rovere francese, seguiranno dodici mesi in bottiglia. Forte personalità, in bocca svela una inclinazione verso profumi fruttati e speziati legati al territorio. Strutturata la trama tannica, di buona freschezza e persistenza.
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Vacanze 2020 in vigna la Germania sinventa la mappa delle piazzole per camper
[Weingut Gehring Nierstein]Vacanze 2020? Dove, se non in vigna? L’idea arriva dalla Germania. Il German Wine Institute (Dwi) ha pensato di mettere a punto una mappa delle cantinecamper friendly, ovvero che hanno la possibilità di ospitare i camper. Un progetto che interessa tutte e 13 le regioni vinicole tedesche, senza eccezioni.
Secondo un primo sondaggio effettuato del German Wine Institute tra i produttori di vino tedeschi, sono 35 le cantine già in grado di offrire ai viaggiatori almeno una piazzola per camper. “Pensiamo che ci siano molte più aziende che offrono questo servizio, ma non tutti hanno partecipato al nostro sondaggio”, ammette Frank Schulz dal quartier generale di Wines of Germany.
Per un numero minimo di tre piazzole, alle cantine basterà richiedere un “permesso di costruzione” alle autorità tedesche per realizzare un’area di sosta per camper, realizzabile già in vista delle vacanze 2020.
Generalmente viene garantita una connessione elettrica e idrica. Una soluzione che, grazie all’iniziativa del Dwi, è destinata a diventare sempre più popolare in Germania. Non solo tra i winelovers tedeschi.
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Le Driadi Slow Farm i gioielli targati Colleoni Doc di Gabriella e Luciano Chenet valcalepio bergamo 1
Abbandono e recupero: di un vigneto, di un eremo, di una comunità locale, dei ritmi di una vita. E di un altro vigneto ancora, continuando a investire tempo e risorse per sottrarre un angolo di paradiso al caos dell’incuria. Le parole e gli occhi di Gabriella e Luciano Chenet, ex biologa lei, ingegnere part-time lui, insieme per la vita e dal 2014 per Le Driadi Slow Farm, parlano di tutto ciò. Prima ancora che della passione per il vino e per Steiner, il padre della biodinamica.
Siamo a Palazzago in Val Pontida, ad ovest dei confini della Valcalepio, nella bergamasca, dove la coppia produce per ora solo due vini: “Driade Felice” Colleoni Doc (Merlot in 90% acciaio e 10% barrique usate) e “Alto della Poiana” Colleoni Doc (Merlot in 100% barrique di vario passaggio).
Il territorio che circonda la cantina è collinare, percorso da numerose piccole vallate, in cui le esposizioni si alternano a est e ad ovest a seconda degli impianti, taluni curvati verso sud. Li accomunano ripide pendenze e altezze tra 300 e i 600 metri, oltre ai terreni ricchi di arenaria e del cosiddetto ‘Flysch di Pontida’. Un composto ricco di silice, molto friabile, che si estende fino a 60 metri di profondità.
In particolare, la cantina Le Driadi Slow Farm sorge sul cosiddetto Eremo della Suora ed è stata completata nel 2018. A ridosso delle sue porte, il vigneto principale. Un ettaro circa di Merlot, 6400 piante in totale, allevate a cordone speronato su pendenze che arrivano al 50% nei punti più ripidi, a cui si aggiunge un impianto sperimentale con 500 piante di Bronner, uno dei vitigni resistenti Piwi più diffusi in Italia, specie in Alto Adige.
In dirittura d’arrivo anche altri nuovi vigneti, tutti recuperati dall’abbandono: un ettaro di Cabernet Sauvignon – che entrerà in produzione dall’annata 2020 – mezzo ettaro di Marzemino e un ulteriore ettaro misto detto “Vigneto del nonno” proprio a ricordare le tradizioni contadine del “vinificare tutte le varietà insieme”.
La certificazione biologica arriva solo a partire dall’annata 2019, ma l’approccio è chiaro fin dall’inizio nella mente di Gabriella e Luciano Chenet. Massimo rispetto per la biodiversità e per il territorio che li ospita, ma con un approccio ragionato e razionale.
“Preferiamo dire che seguiamo un metodo ‘Steineriano’ piuttosto che biodinamico”, sottolinea Luciano, specificando che non hanno alcun piano né interesse nel perseguire la certificazione di quest’ultima filosofia.
Non facciamo il trattamento con il preparato 501, il Cornosilice, per un semplice motivo: le nostre piante, già vigorose, godono di un’esposizione perfetta per il sole, che in estate arriva molto presto al mattino, e preferiamo evitare un eventuale stress solare”.
Sì, invece, ad altri trattamenti previsti da tale pratica, come il preparato 500 (Cornoletame), il tannino di castagno utilizzato al posto del rame per combattere la peronospora, oppure il macerato di ortica ed equiseto. L’impianto di Merlot risale al 2002, per venir poi abbandonato nel 2010 fino all’arrivo di Luciano e Gabriella nel 2014, che escono con la prima etichetta nel 2015.
“Prima ci appoggiavamo ad un’altra cantina, in affitto, ma non riuscivamo a seguire completamente tutti i singoli passaggi della vinificazione. Ora invece siamo autonomi, e in vendemmia dal vigneto alla diraspatrice passano solo pochi metri”, commenta orgoglioso Luciano.
La cantina è stata progettata da un architetto locale, con l’obiettivo di aver il minor impatto possibile sull’ecosistema, occupando solo lo spazio realmente necessario e utilizzando pietre locali come materiali.
In cantina prosegue un approccio ragionato e mai estremista. Le fermentazioni sono spontanee, con i lieviti indigeni, ma tenute sotto osservazione periodicamente per evitare l’insorgere di problemi e poter eventualmente intervenire in caso di necessità.
Vengono aggiunti il minimo indispensabile di solfiti e la temperatura non viene controllata. Il vino non viene stabilizzato, ma viene effettuata una chiarifica e una leggera filtrazione, tanto da lasciare comunque dei residui in bottiglia.
LA DEGUSTAZIONE
Colleoni Doc 2017 “Driade Felice”, Le Driadi Slow Farm Merlot raccolto da tutto il vigneto, l’annata promette una grande maturità fenolica e la presenza di aromi primari, soprattutto fruttati, è tale che Luciano e Gabriella decidono di non produrre la controparte in solo legno.
Al naso è intenso, emergono note di ciliegia fresca, un accenno di amarena e una vena speziata che ricorda la liquirizia. Il sorso è potente e di gran corpo, materico, il tannino è morbido ma fisso sulle gengive.
L’acidità regala una sensazione di accesa freschezza. In bocca tornano le sensazioni organolettiche varietali, in un’esplosione di frutta che solo sul finale lascia ricordi di spezia dolce.
Colleoni Doc 2018 “Driade Felice”, Le Driadi Slow Farm Annata in cui si avverte un cambio di rotta, non solo per la cantina nuova. Il vigneto è parcellizzato e per questa etichetta vengono utilizzati solo i frutti delle piante delle fasce esterne, dove si dimostrano più vigorose e produttive. Al naso si rivela un po’ chiuso e solo con il passare dei minuti si apre, lentamente.
È più scuro dell’annata precedente, prugna surmatura, susina nera e amarena. In bocca il corpo è pieno, denso, con un tannino potente e ancora da ammorbidire. Il finale è lungo e ricorda le prugne secche. Vino giovane, che comincerà a dare soddisfazioni tra uno o due anni.
Colleoni Doc 2016 “Alto della Poiana”, Le Driadi Slow Farm Un anno e mezzo di barrique usate di varia provenienza per questo Merlot, in cui il vino base non segue ancora il procedimento di parcellizzazione del vigneto ma è lo stesso per entrambe le etichette.
Il naso è potente e diretto, balza fuori dal calice con toni dolci di caramello e confettura di ciliegie, prugna cotta, marasca sotto spirito, una spezia dolce che ricorda la cannella.
Il sorso è grosso, acidità giusta e tannino fitto, quasi polveroso, ma maturo. Un vino che deve trovare ancora il suo perfetto equilibrio. Il passaggio in legno emerge con note di cioccolato, caffè e una vena dolce di liquirizia. Note amaricanti sul finale.
Colleoni Doc 2018 “Alto della Poiana”, Le Driadi Slow Farm Come per la variante a prevalenza acciaio, nel 2018 il vigneto è parcellizzato e vengono utilizzati solo i frutti dalle piante centrali, meno produttive e con maggiore concentrazione: la corretta gestione delle uve è ancora più evidente.
Si tratta inoltre di un’anteprima, le bottiglie sono etichettate sul momento e sono ancora a riposo. L’armonia organolettica è già molto buona, il vino si apre lentamente e sprigiona aromi di frutta fresca, torna la prugna ma in una veste elegante, che chiosa con sensazioni dolci di liquirizia e cannella e chiude con pizzichi di pepe nero.
Il corpo è bilanciato, il tannino è intenso ma integrato, l’acidità dona freschezza a un vino che mantiene una struttura importante, che si protrae a lungo con intensità. Pronto già per fine 2020, potrà stupire tra qualche anno.
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Piacere Italia Mr Heimann Sagrantino Szekszárd Ungheria Családi Birtok wines 6
Szekszárd, Ungheria meridionale: 160 chilometri a sud di Budapest, giù in linea retta. Meno di un’ora di strada dal confine con Serbia e Croazia. È qui che Zoltán Heimann ha deciso di piantare un ettaro di Sagrantino. L’uva che ha reso noto in tutto il mondo il borgo medievale umbro di Montefalco si è adattata bene al microclima e al terreno ricco di loess della regione vitivinicola ungherese di Tolna, di cui Szekszárd è capoluogo.
Un groviglio di valli soleggiate, che si distende a mano aperta lungo il 46° parallelo. Lo stesso di Egna e Montagna, in Alto Adige. Della Borgogna, in Francia. O della Willamette Valley, nell’Oregon. Una delle zone più vocate alla produzione dei vini rossi ungheresi, che qui risultano eleganti, speziati, generalmente agili e “pronti”.
Il tannino del Sagrantino, unito alla sua capacità di dare vita a vini da lungo affinamento, fa da spalla alle varietà Cabernet Franc e Kékfrankos in “Franciscus” e in “Grand“, due delle etichette top di gamma di Heimann Családi Birtok.
Ma si trova anche in “Sxrd“, vino fresco e moderno che suggella il cambio generazionale in corso tra i coniugi fondatori della cantina, Zoltán e Ágnes, e il figlio enologo Zoltán Jr, artefice della nuova e accattivante linea “Heimann & Fiai” (vini in vendita anche in Italia dal 2021, sull’e-commerce vinoungherese.it, di cui WineMag.it è Media partner).
Il tutto grazie al consiglio del consulente francese della cantina ungherese, che agli esordi del progetto – nel 1998 – suggerì a Zoltán Heimann di piantare a Szekszárd anche mezzo ettaro del vitigno tipico dell’Umbria, oltre a qualche filare di Tannat.
A distanza di 18 anni dal primo impianto, avvenuto nel 2002 grazie alle barbatelle giunte dall’Alto Adige tramite i vivai ungheresi Teleki-Kober, entrerà in produzione un altro mezzo ettaro di Sagrantino, che andrà addirittura a sostituire una porzione di Syrah.
“Ho imparato a conoscere nel tempo questa varietà – racconta Mr. Heimann a WineMag.it – e l’occasione di assaggiare per la prima volta il vino di Montefalco è capitata a Lucca, all’inizio del Duemila. Entrai in una wine boutique del centro e chiesi una bottiglia di Sagrantino. Ricordo ancora lo stupore dell’uomo che si trovava dall’altra parte del bancone. Faticò non poco a trovare una, ma alla fine riuscì a soddisfarmi”.
Nel 2012, dopo aver prodotto diverse edizioni di “Franciscus” e la prima di “Grand”, Zoltán Heimann torna in Italia e fa tappa in Umbria. Sempre a caccia di nuovi assaggi di Sagrantino, sceglie due cantine dalle filosofie diametralmente opposte.
“La Arnaldo Caprai – spiega il produttore ungherese – dall’impronta moderna e internazionale, e quella più artigianale di Paolo Bea. Mi trovai molto più a mio agio con la versione meno opulenta del Sagrantino di Bea, che ancora oggi cerchiamo di proporre a Szekszárd, nell’uvaggio con Cabernet Franc e Kékfrankos. Con Marco Caprai ho avuto modo di confrontarmi ancora a ProWein, negli anni scorsi”.
Assaggi che hanno aiutato a trovare ben presto la quadra per la vinificazione del Sagrantino alla Heimann Családi Birtok. La raccolta avviene generalmente a metà ottobre. La fermentazione avviene senza raspi, in acciaio. I rimontaggi, due volte al giorno, aiutano l’estrazione ottimale dei polifenoli.
Il mosto riposa a contatto con le bucce per un periodo compreso fra 20 e 30 giorni. La malolattica, svolta in acciaio, anticipa il trasferimento in botti da 1000 litri. Dopo un anno di riposo viene effettuato il taglio con Cabernet Franc e Kékfrankos. Il nettare, dopo un ulteriore affinamento in legno di circa un anno, viene imbottigliato e messo in commercio.
LA DEGUSTAZIONE
Védett eredetű száraz vörösbor Szekszárd Pdo 2017 “Franciscus”: 92/100 Etichetta che sarà in commercio a partire dalla fine del 2020. Siamo di fronte alla migliore espressione assoluta di Sagrantino di Heimann Winery, in attesa di un’ancor più promettente vendemmia 2018 (94/100) e da una buona 2019 (entrambe degustate da botte, la prima a taglio già effettuato).
Il vino si presenta di un rosso rubino carico, luminoso. Prezioso il gioco tra fiori, frutto e spezia, al naso. Le note fruttate, molto precise e scandite, risultano ben amalgamate ai ricordi vegetali del Franc, con virata netta sullo stecco di liquirizia.
Il tannino del Sagrantino è vivo, ma elegante e integrato, pronto evidentemente ad addolcirsi ulteriormente, negli anni. Un bel modo di raccontare il terroir di Szekszárd tra potenza, eleganza e attitudine al lungo affinamento.
Védett eredetű száraz vörösbor Szekszárd Pdo 2016 “Franciscus” (13,5%): 88/100
Un rosso che abbina potenza e morbidezza, rispecchiando perfettamente il carattere di una vendemmia caratterizzata dalla pioggia, nel periodo della raccolta delle uve.
Manca un po’ di struttura e un po’ di materia nella componente fruttata, come rivelano i richiami verdi leggermente preponderanti del Franc. Nel complesso, un vino che si fa bere con sufficiente agilità, orfano del nerbo riscontrabile nelle altre annate.
Oltalom allat álló eredetmegjelölésű száraz vörösbor Szekszárdi Borvidék 2012 “Grand” (15%): 90/100 Nel 2012, l’uvaggio di “Franciscus” entra nel progetto di costruzione di un’etichetta in collaborazione con altri quattro produttori della zona: un blend in grado di elevare l’immagine dei rossi di Szekszárd. Il risultato è eccellente.
Un vino ungherese dall’anima internazionale, con la potenza del Sagrantino che si fonde con le note profonde del Cabernet Franc e il frutto elegante, preciso e croccante del Kékfrankos.
Oltalom allat álló eredet-megjelölésű vörösbor Szekszárdi Borvidék 2008 “Franciscus” (14,5%): 91/100 È la prova del nove per il Sagrantino di Szekszárd: quella della longevità. Il vitigno umbro dà carattere a un vino che risulta perfettamente intatto, uscito vittorioso dalla battaglia con le lancette, sin dal colore. Il risvolto più “selvatico” del Sagrantino fa capolino per la prima volta al naso, contribuendo ad allargare lo spettro di sensazioni.
Si passa dalla viola appassita a un frutto di bosco di gran precisione, attraverso preziosi richiami di liquirizia e accenti goudron. Perfetta la corrispondenza gusto olfattiva. Tannino perfettamente integrato e sorso piuttosto agile, ma tutt’altro che banale. Buono anche l’allungo, su una preziosa venatura salina che chiama il sorso successivo.
Cuvée 2017 “Sxrd” (13%): 85/100
Il Sagrantino figura in piccola misura nell’uvaggio di “sXRd”, modernissimo vino rosso ottenuto in prevalenza da Cabernet Franc, Merlot e Kékfrankos . Un “moderno”, anello di congiunzione tra lo stile tradizionale di Zoltán senior e consorte e quello nuovo di Zoltán Jr.
Siamo di fronte al classico rosso “da frigo”, di quelli da bere anche d’estate. A canna. È in questa dimensione che dà il meglio di sé, anche a tavola. Un vino che fa facilità di beva uno stile, a prescindere dal vitigno e dalla zona di produzione.
Etichette come questa, capaci come poche di incontrare il gusto dei Millennials internazionali e di introdurli piacevolmente al complesso mondo del vino, meriterebbero una “categoria” a sé, a livello internazionale.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Cesare Lodi Corazza il filosofo del Pignoletto faccia da Vasco e il Bologna nelle vene
Dicono che al mondo ognuno abbia sette sosia. Dicono pure, i ben informati, che ci sia una possibilità su un trilione di condividere appena otto misure del volto con un altro individuo, sulla faccia della Terra. Dicono, dicono quelli che non conoscono Cesare (Lodi) Corazza, il vignaiolo di Zola Predosa che assomiglia a Vasco Rossi e tifa Bologna FC, in curva al Dall’Ara. Un filosofo del Pignoletto con la vigna al posto del palco, pronta a regalare, di vendemmia in vendemmia, spassosi concerti. Da calice.
Undici le etichette, incise come album. Tutte da disco di platino, tra bianchi, macerati (c’è chi li chiama “orange“) e rossi d’autore. Come Vasco, anche Cesare Corazza – 52 anni suonati su un pentagramma decisamente “rock” – parla di “bollicine“: lo spumante Metodo classico da uve Pignoletto “1877” rende omaggio all’anno di fondazione della cantina Lodi Corazza. Altro che Coca-Cola.
Una storia che continua anche oggi, tra le mille difficoltà quotidiane che contraddistinguono la vita del vignaiolo in Italia. Perché Cesare “Vasco” è uno che non molla. E pensa sempre al domani: “Credo nel futuro della Terra e continuo a costruire vignetiper creare paesaggi“, dice mentre tutt’attorno alla cantina “stanno urbanizzando”.
In siccità dal 10 dicembre, mentre affronta una “stagione complicata” non solo da Covid-19, Corazza cerca di salvare la vigna del “Castel Zola” da un virus ben più radicato del Corona. Quello del cemento: “Se non sarà il lockdown a farci capire che la cementificazione ha rotto il cazzo, quando lo capiremo mai?”.
Sul trattore per la prima volta a 7 anni e, da allora, mai più sceso, Cesare impugna l’arma dell’ironia: “Se sono preoccupato? Cosa vuoi che sia? Vado verso la vendemmia numero 30 e per i francesi fino a 33, gli anni di Cristo, non sei nemmeno vigneron. Lo sarò nel 2023 d.C., se conti con Cristo, o 3 d.C. se conteremo il dopo Corona”.
Tra i filari in cui passa “l’80% delle giornate”, il patron di Lodi Corazza lavora e pensa. Pensa e lavora. “Tu scherzi – dice – ma il Bologna calcio è la sintesi di tutto. O, meglio, il gioco del calcio è la sintesi di tutto. Per i brasiliani è arte. Per il grande comandante Walter Massa, una delle rare persone illuminate che ho conosciuto nella vita, il calcio serve per spiegare il vino. Perché? Perché, come il calcio, il vino è un gioco di squadra”.
Il cielo, l’aria, la terra, l’esperienza dell’uomo, della gente, ti consentono di ottenere il prodotto della fermentazione dell’uva. Uva e vigna sono la cosa più importante. E andare in curva allo stadio a tifare Bologna, per me, è un po’ come tornare bambino, almeno per due ore. Perché in questo mestiere si diventa adulti presto“.
La squadra – quella della vita – l’ha scelta presto, Cesare “Vasco”: “Potevo scegliere di stare in officina con mio padre ma mi rompevo il cazzo e scappavo coi vignaioli nelle vigne ereditate da mia madre. È lì che ho imparato tutto quello che so”. Lontano dal papà, che forse sognava una vita da ingegnere per Cesare, come la sua: “La vigna m’ha salvato la vita anche quando a 25 anni facevo l’imbecille in giro”.
È così che Corazza diventa il filosofo del Pignoletto. “Una grande uva, nota anche come Grechetto Gentile perché è proprio dalla Grecia che il Pignoletto è stato catapultato sui Colli Bolognesi dagli etruschi, grandi commercianti che operavano in questa zona, popolata all’epoca dai celti Galli Boi: gente che beveva come una spugna, venuta fin qui proprio per cercare il vino, che non aveva a casa propria”.
Un amore condiviso con la sorella Silvia, che si occupa della cantina: “Io e lei – dice nemmeno troppo sottovoce Corazza – siamo come lo Yin e lo Yang. Lei è il bianco della dolcezza, io il nero della rabbia! Ma assieme siamo un equilibrio rotondo”. Un po’ come la gamma di vini di Lodi Corazza: tutti centrati e sinceri. Specchio di chi li produce.
LA DEGUSTAZIONE
Pignoletto Doc frizzante 2018 (“Una canzone per te” – 1983)
Vino della tradizione. Grande mineralità. “Non parliamo di ‘linea base’, sono gli altri ad essere cru”, chiosa Cesare Corazza. Ingresso minerale e allungo su polpa, freschezza e un accenno di spezia, prima del ritorno sulla mineralità. La leggerezza e la spontaneità di un vino da bere col secchio.
Sorridi e abbassi gli occhi un istante
E dici: ‘Non credo d’essere così importante’.
Ma dici una bugia
Infatti scappi via”
Colli bolognesi Docg Pignoletto frizzante 2017 “Vènti” (“Stupendo” – 1993) Le uve si raccolgono generalmente a metà settembre, belle mature. Poco da fare in cantina: presa di spuma (Charmat lungo), due travasi, stop. Un vino che si esprime intensamente su frutto e fiori, tra naso e bocca. Grande ricchezza e materia al palato, nel gioco divertente con la mineralità. Preziosa la bollicina: fine, elegante, cremosa. Irresistibile.
Ed ora che del mio domani
Non ho più la nostalgia
Ci vuole sempre qualche cosa da bere
Ci vuole sempre vicino un bicchiere!”
Colli bolognesi Pignoletto Superiore Docg 2018 “Zigant” (“Quanti anni hai” – 1998)
In bottiglia da novembre 2019, sta certamente trovando in questi mesi la via per del perfetto equilibrio. Beva resa “pericolosissima” da un 5% di uve botritizzate. La vinificazione in riduzione esalta ancora una volta la pienezza del frutto, i primari e, ancor prima, l’ampiezza dei profumi. Vino da bere oggi e godere nell’evoluzione.
Quello che ti do
Stasera
È questa canzone
Onesta e sincera (onesta e sincera)
Certo che potevo sai
Approfittar di te
Ma dopo come facevo
A fare senza se”
Vino bianco 2017 “Il Dissidente” (“Vita spericolata” – 1983)
“L’idea – spiega il patron di Lodi Corazza – era quella di dare vita a un macerato, o a un ‘orange’ come lo chiama qualcuno, che sapesse di uva e non di aceto. ‘Il Dissidente’ è uno ‘smacerato’, che dematerializza l’idea dei macerati che si trovano spesso in giro”. Game, set, match. Ha detto tutto Cesare. Sei mesi sulle bucce per questo unconventional Pignoletto, prodotto in sole 800 bottiglie. Una chicca, da provare almeno una volta nella vita.
Voglio una vita che se ne frega
Che se ne frega di tutto, sì”
Colli bolognesi Barbera Doc frizzante 2018 (“Eh…già” – 2011)
Bell’equilibrio tra frutto e acidità (freschezza), con prevalenza di un frutto rosso e nero ancora una volta gustoso, ricco, pieno. Vino da mortadella, facile, beverino. Una “diavoleria” di Cesare Corazza, che non stanca mai. Come quella di Vasco.
Eh già
Sembrava la fine del mondo
Ma sono ancora qua
Ci vuole abilità
Eh, già
Il freddo quando arriva poi va via
Il tempo di inventarsi un’altra diavoleria”
Colli Bolognesi Barbera Doc 2015 “Castel Zola” (“Senza parole” – 1999)
Una Barbera in purezza, pensata e lavorata per risultare un grande vino. Tre anni di affinamento in rovere, utili a smussare le asperità del vitigno. In bocca, di fatto, questo rosso si esprime su una gran eleganza, una bella freschezza, frutto e una componente salina non indifferente. Chiude su accenno leggero speziato e su un frutto di grande precisione, connotato da ritorni di preziosi frutti di bosco. Chapeau.
E ho guardato dentro un’emozione
E ci ho visto dentro tanto amore
Che ho capito perché non si comanda il cuore
E va bene così, senza parole”
Vsq Pignoletto spumante Doc non dosato “1877” (“Splendida giornata” – 1982) Vendemmia 2016, 24 mesi sui lieviti, Grechetto gentile in purezza. Nel calice c’è una passeggiata al mare, su una spiaggia che s’affaccia su una terrazza rigogliosa di macchia mediterranea. Su questo sottofondo, le note di lisi si alternano a quelle d’agrumi, prima di tornare protagoniste in un retro olfattivo di ottima persistenza. L’estate, i colori, un aperitivo al calare del sole: in una parola, l’amore spumeggiante di Lodi Corazza per il Pignoletto.
Quello che conta è che sia stata
Una splendida giornata
Stravissuta, straviziata, stralunata
Una splendida giornata
Sempre con il sole in faccia fino a sera
Finché la sera di nuovo sarà”.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
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