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Vinitaly perde pezzi: Banfi-Fantinel. Prowein gioca a Roma, sotto scacco di Wine Paris


EDITORIALE – Tu chiamale, se vuoi, reazioni. A catena. Mentre Vinitaly perde Banfi e Fantinel per l’edizione 2023, Prowein si presenta a Roma per una conferenza stampa definita da molti osservatori “auto-celebrativa”, di quelle incapaci di nascondere un certo nervosismo interno, anzi in grado di amplificarlo. Veronafiere, di fatto, pare non essere l’unica “sotto scacco” in questi anni difficili in cui la parola d’ordine è «snellire» (la gestione, ça va sans dire).

A dimostrarlo è proprio tentativo di contropiede, piuttosto goffo, di Messe Düsseldorf nella capitale italiana, quasi per provare a distrarre il pubblico dal rumore delle “cannonate” provenienti da Parigi, con Wine Paris / Vinexpo Paris – Vinexposium unica fiera internazionale del settore del vino ad aver guadagnato consensi, persino negli anni duri della pandemia (provare per credere chiedendo commenti a chi c’è stato).

Il colpo assestato da Banfi a Veronafiere fa ancora più rumore nel silenzio (complice) calato attorno alla decisione del colosso fondato nel 1978 dai fratelli italoamericani John e Harry Mariani. A riportare la notizia a dovere (oltre a winemag.it, adesso) è solo il portale locale MontalcinoNews, tra i cui sponsor figura proprio Banfi. Difficile dunque pensare a uno scoop giornalistico; più facile ipotizzare la decisione di veicolare solo a livello locale la notizia, per evitare incidenti “politici” (ops!).

BANFI A VINITALY: FORMAT FIERISTICO NON ALLINEATO CON LE ESIGENZE MODERNE

«Dopo tanti anni Banfi non parteciperà alla prossima edizione di Vinitaly» e a «spiegare questa decisione testata toscana è Rodolfo Maralli, presidente e direttore Sales & Marketing Worldwide Banfi. «Sicuramente – si legge – non è stata una scelta facile quella di non partecipare al Vinitaly. Ci siamo sempre stati, ininterrottamente, con grande entusiasmo, portando numerose persone e allestendo anche un grande stand multimediale. Ringraziamo Vinitaly perché se siamo diventati grandi è anche grazie a loro e il rispetto rimane immutato».

Abbiamo però ritenuto di fare un passo indietro perché riteniamo che il format fieristico, in particolar modo nei mercati più maturi, non sia più allineato alle nostre esigenze ed a quelle del consumatore moderno, legato sempre più alle esperienze a contatto con i luoghi di produzione e all’ospitalità su cui punteremo sempre di più».

ANCHE FANTINEL NON PARTECIPERÀ A VINITALY 2023

Banfi si presenterà comunque a Vinitaly il prossimo 3 aprile, ma nei padiglioni della Toscana e del Piemonte, in cui è prevista «una giornata formativa come Fondazione Banfi con un approfondimento sul Sangiovese che da sempre è al centro del nostro progetto Sanguis Jovis». Il gruppo toscano non è comunque il solo a rinunciare a Vinitaly 2023. Tra gli altri, mancherà anche la friulana Fantinel, che non ha tuttavia rilasciato alcuna dichiarazione ufficiale.

Avvisaglie dei malumori del gruppo toscano nei confronti della manifestazione cardine di Veronafiere si erano verificate già lo scorso anno. «Rispetto alle edizioni passate – faceva notare la Ceo Cristina Mariani May – è mancata una buona parte dei mercati asiatici, dell’Est europeo, naturalmente la Russia, e anche dei mercati del Centro America e del Sud America. La nostra azienda è stata visitata da molti clienti italiani ed europei meno dagli Usa e Canada». Tu chiamale, se vuoi, reazioni. A catena.

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Belli gli autoctoni, ma il Cabernet… C’è una falla nella stilistica dei bordolesi in Italia?


EDITORIALE –
Premessa: chi mi conosce sa che assaggio, pressoché quotidianamente, dal vino in brik al top di gamma, col medesimo approccio e rigore. Scollegando, cioè, i neuroni del marketing e dell’etichetta e spremendo, piuttosto, quelli della logica. Lasciando “parlare il calice“. Ed è proprio mentre chiacchieravo con un vino rosso della Loira che mi sono reso conto di quanto sono belli gli autoctoni. Ma il Cabernet

All’epoca della riscoperta dei vitigni autoctoni, fenomeno che riguarda tutti i maggiori Paesi produttori di vino del mondo, accelerato dalle misure restrittive volte ad arginare la pandemia che hanno spinto i winelovers a scoprire varietà e vini presenti “dietro casa”, in Italia stiamo perdendo la grande occasione di produrre versioni di Cabernet moderne, che invece abbondano a livello internazionale. Non solo in Francia.

A scatenare questa riflessione è la piacevolezza (letteralmente “goduriosa”) dell’Aop AnjouUn(e) Tour en Anjou 2021 del produttore “Fivi” francese Domaine des Trottières. Un uvaggio Cabernet Sauvignon – Cabernet Franc senza solfiti aggiunti, capace di ergersi a manifesto assoluto dell’occasione che il nostro Paese sta perdendo nello snobbare versioni delle due varietà bordolesi (e in particolare di Franc) che in Loira definirebbero vin lèger.

CALL TO ACTION WINEMAG.IT: SEGNALATECI I CABERNET GLOU-GLOU!

L’Anjou dei vignerons indépendants della famiglia Gourdon mostra i risvolti più “leggeri”, sbarazzini e golosi dei due vitigni; caratteristiche così difficili da trovare in Italia, anche nelle aree in cui Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon sono più diffusi. Perché perdiamo questa occasione? Vogliamo approfondire il tema, tanto da chiedere aiuto ai lettori.

Chiunque conosca produttori italiani che affrontino i due vitigni (in particolare il Cabernet Franc) in versione glou-glou (tutta beva e spiensieratezza) ce lo segnali con una mail a redazione@winemag.it. Raccoglieremo i vini per una degustazione comparativa e ne daremo notizia su winemag.it, col proposito di essere smentiti su questa “falla” nella stilistica dei bordolesi in Italia. Prosit!

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Vino ed Health Warnings in Irlanda: così il cane si morde la coda su consumo e abuso di alcolici


EDITORIALE – Al netto delle polemiche delle ultime ore sembra incredibile, ma anche in Irlanda si ammette che l’abuso di alcol è diverso dal consumo moderato di alcolici. A dispetto delle generiche avvertenze sanitarie (gli Health Warnings) che il governo irlandese vorrebbe apporre sulle retro etichette di qualsiasi bevanda alcolica, compreso il vino, il portale istituzionale di riferimento sull’alcol in Irlanda fa una netta distinzione tra abuso e consumo.

Un dettaglio non di secondo piano, perché è proprio su questo punto che si concentra la rivolta dell’industria del vino italiano contro il «pericoloso precedente» e «l’effetto cascata» che potrebbe innescare il provvedimento di Dublino, in altri Paesi europei. Senza contare le ripercussioni sul libero scambio delle merci nell’Ue.

CONSUMO O ABUSO? DRINKS CALCULATOR SBUGIARDA LE AVVERTENZE GENERICHE

Basta collegarsi al “Drinks Calculator” del portale askaboutalcohol.ie, sito che risponde all’Health Service Executive (HSE), organizzazione che ha il compito di gestire tutti i servizi sanitari pubblici in Irlanda, sotto l’egida diretta del Ministero della Salute, per rendersi conto che il “consumo moderato di alcolici” è contemplato tra le risposte.

Ho provato ad inserire dei dati e questo è stato il risultato: «You are under the recommended weekly low-risk alcohol guidelines. Low-risk drinking reduces the risk of alcohol-related problems». Tradotto: «Sei al di sotto delle linee guida settimanali raccomandate per il consumo di alcol a basso rischio. Il consumo di alcol a basso rischio riduce il rischio di problemi legati all’alcol».

«CONSUMO DI ALCOL A BASSO RISCHIO» E «BENEFICI A LUNGO TERMINE»

A differenza delle avvertenze sanitarie che il governo irlandese vorrebbe apporre in maniera sistematica su tutte le bottiglie di alcolici, equiparandoli sostanzialmente alle sigarette, il “Drinks Calculator” ammette che esiste una correlazione tra abuso e patologia. E, dunque, una differenza tra consumo (moderato) e abuso. Ma la risposta del “Calcolatore di bevute” del portale che risponde al Ministero della Salute irlandese si spinge oltre.

Sulla base dei dati da me inseriti, ricorda che: «Bere entro le linee guida settimanali raccomandate per l’alcol a basso rischio ha benefici a lungo termine. I benefici includono la riduzione del rischio di pressione alta e ictus, depressione, ansia. Sette tipi di cancro, malattie del fegato, molte altre patologie legate all’alcol».

Una risposta che fa a pugni con gran parte delle «Health warnings» allo studio in Irlanda (potrebbero entrate in vigore entro 3 anni) e che, anzi, fa il paio coi princìpi della Dieta Mediterranea, Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità da ormai 13 anni. Eccone solo alcune: «Bere alcolici aumenta il rischio di sviluppare tumori»; «Bere alcolici causa tumori al fegato»; «C’è un collegamento diretto tra consumo di alcolici e tumori mortali». Insomma, prima di allarmare l’Europa, sarebbe bene che in Irlanda si facesse la pace. Tra burocrati e medici. Prosit.

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Вина – тв сериал: in Bulgaria una serie tv sul vino che fa scuola


EDITORIALE –
“Vino” e “destino” si mescolano in un tutt’uno nella serie tv Вина – тв сериал, in onda in Bulgaria a partire da giovedì 5 gennaio 2023. Il regista Victor Bozhinov gioca con il duplice significato della parola bulgara “ВИНА” – per l’appunto “vino“, ma anche “colpevole” – per creare una trama in cui le vicende umane si intrecciano con quelle vinicole,
in una perfetta cuvée. Perché parlarne in Italia? Perché il risultato è molto più di una semplice “serie tv” sul vino. Вина è un vero e proprio faro sul vino della Bulgaria. Un Paese che oggi, con oltre 70 mila ettari vitati e una produzione di circa 180 milioni di bottiglie annue, aspira a un ruolo da protagonista nel settore. In Europa e nel mondo.

Grazie al coinvolgimento diretto di enologi, sommelier, professionisti del settore e alla partnership con la Bulgarian Winemaking & Export Association guidata da Galina Todorova Niforou, Вина – тв сериал è già una case-history per il modo nuovo di raccontare il vino al grande pubblico. Attraverso le vicende di una cantina in crisi di fatturato e motivazioni, gli spettatori apprendono nuove nozioni di enologia, viticoltura e degustazione, travolti dalle vicissitudini professionali ed umane dei protagonisti della serie tv, promossa dalla televisione nazionale bulgara (Bălgarska Nacionalna Televizija BNT).

Secondo un’indagine Fitch Solutions, la Bulgaria offre uno dei mercati delle bevande alcoliche in più rapida crescita nell’Europa centrale e orientale. Le previsioni a medio termine (2021-2025), vedono la spesa per le bevande alcoliche in crescita a valore del 10,2% all’anno. Il consumo di alcolici dovrebbe crescere in media dell’1,6% all’anno, fino al 2025. La crescita del valore, più marcata rispetto a quella del volume, indica che i consumatori bulgari scelgono sempre più spesso bevande alcoliche di qualità superiore. Tra queste, proprio il vino celebrato dalla nuova serie tv, ambientata nella regione vinicola di Melnik.

ВИНА – ТВ СЕРИАЛ NELLA REGIONE VINICOLA DI MELNIK

Gran parte delle scene sono state girate a Villa Melnik (Вила Мелник), cantina di 120 ettari di proprietà di Nikola Zikatanov (nella foto di copertina). All’enologo Momchil Mikov il compito di rendere più realistiche le interpretazioni degli attori, alcuni dei quali sono stati accompagnati in un vero e proprio percorso di apprendimento tra viticoltura, enologia ed analisi di laboratorio. Ben congeniata la trama di Вина – тв сериал. Philip (Vladimir Zombori), residente all’estero, torna nella natia Bulgaria per vendere la cantina del defunto zio, per conto della madre Zoya. Ben presto, tuttavia, rimane affascinato dai vigneti, dal personale e soprattutto dalla bella e ribelle enologa della cantina, Elina (Elena Telbis).

I piani familiari cambiano e, invece di vendere la cantina, Philip decide di rilanciarla sul mercato. Un’impresa assai difficile. L’azienda sprofonda tra i debiti e la scarsa motivazione di gran parte dei lavoratori, ormai convinti che presto dovranno trovare un’altra occupazione. Philip trova un alleato nella sola enologa Elina. Ma suo padre, presidente del Consiglio municipale – Andrey Bonchev (Mikhail Bilalov) – ha altre intenzioni per la cantina. Philip si mette così alla ricerca di abitanti del posto motivati al rilancio dell’attività vinicola, ma ha bisogno di prolungare la sua permanenza in Bulgaria. Il rapporto con la moglie Marta (Kristina Veroslavova), rimasta all’estero da sola, si deteriora così ulteriormente.

Le cose non vanno meglio con Andrey Bonchev, spregiudicato e materialista. Si scopre così che il legame tra le famiglie di Philip ed Elina ha radici profonde e forti. Segreti e sensi di colpa (ecco appunto il secondo significato della parola “Вина”, in bulgaro) si alternano tra un calice di vino e le difficoltà di mantenere in vita il vigneto in inverno, accendendo fiaccole tra i filari. E che cos’è, la vita, se non un percorso a ostacoli tra primavere di speranza, estati che scaldano il cuore, inverni rigidi e bui e autunni in cui tutto finisce, per ricominciare?

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Così il Consorzio Vitires farà la storia dei vitigni resistenti Piwi italiani


EDITORIALE – Vitires è il nome del «programma di miglioramento genetico» per la costituzione di «nuove varietà emiliano-romagnole resistenti ai patogeni fungini». Un progetto sui vitigni resistenti Piwi italiani che vede l’impegno comune di Cantine Riunite & Civ, Cantina Sociale di San Martino in Rio, Caviro, Terre Cevico e del Centro di ricerche Ri.Nova, riunitesi nell’omonimo Consorzio Vitires.

Un’unione che rappresenta il 70% delle uve prodotte in Emilia-Romagna, l’11% a livello nazionale secondo i dati vendemmiali 2022. Oscilla tra i 2 e i 3 ettari vitati la porzione di terreno impiantata con le nuove varietà, in questa prima fase sperimentale. La portata del progetto è storica e si muove nel solco delle indicazioni dettate più volte dal professor Attilio Scienza – a capo del Comitato nazionale Vini Dop e Igp – per lo sviluppo di Piwi (acronimo di PilzWiderstandsfähige) da varietà italiane.

Tra i punti deboli delle prime sperimentazioni operate su suolo italiano con i vitigni resistenti alle malattie fungine, c’è infatti il ricorso a varietà non solo sostanzialmente sconosciute, ma ottenute da incroci di vitigni non autoctoni italiani. Sauvignon Blanc, Riesling, Cabernet Sauvignon, St. Laurent sono solo alcune delle varietà di vite utilizzate per i crossing diffusi anche nel Bel paese e sviluppati principalmente in Germania, dall’Istituto vinicolo di Friburgo.

VITIRES E LE PRIME VARIETÀ PIWI DA VITIGNI ITALIANI

Vitires mira a cambiare le regole del gioco, in maniera drastica per l’Italia. Le nuove varietà resistenti ai patogeni fungini su cui sta lavorando il Centro di ricerche Ri.Nova saranno frutto di sperimentazioni su 16 varietà, tutte presenti sul territorio emiliano-romagnolo. Si tratta di Trebbiano Romagnolo, Sangiovese, Albana, Grechetto gentile, Lambrusco Sorbara, Lambrusco Grasparossa, Ancellotta, Lambrusco Salamino. E ancora: Bombino Bianco / Mostosa (noto anche come Pagadebit), Terrano / Cagnina (noto anche come Refosco d’Istria / Terrano del Carso), Famoso, Trebbiano Modenese, Lambrusco Maestri, Lambrusco Oliva, Malvasia di Candia Aromatica e Lambrusco Marani.

Piwi: nasce VITIRES, Consorzio per lo sviluppo dei vitigni resistenti dell’Emilia-Romagna

CRESCE LA DOMANDA DI PIWI DEI PRODUTTORI

«Negli ultimi anni – spiega a winemag.it Ri.Nova – il crescente interesse dei produttori emiliano-romagnoli soci del nostro centro di ricerca si è mosso verso un approccio sempre più sostenibile, in tutte le sue declinazioni. Ciò ha portato a investire, con un notevole impegno economico, in numerose attività di ricerca volte a ridurre l’impatto della viticoltura sull’ambiente. Garantendo, al contempo, un’adeguata redditività ai produttori».

Sono al momento attivi a livello regionale, con baricentro nei terreni del Polo di Tebano (centro d’innovazione, formazione e valorizzazione in agricoltura che si trova a Faenza, ndr), importanti progetti di ricerca che riguardano tematiche di interesse strategico per il sistema produttivo regionale.

Tra tutti le attività di miglioramento genetico, il programma VITIRES, volto all’ottenimento di vitigni resistenti partendo da 16 vitigni della tradizione regionale, destinato ad orientare le scelte della vitivinicoltura regionale dei prossimi anni».

VITIRES, IL PLAUSO DEL PROF ATTILIO SCIENZA

I primi incroci sono stati realizzati nel 2017. A partire dal 2021 sono stati impiantati 514 genotipi diversi (circa 6 mila piante) che, già da quest’anno (2022), sono stati oggetto di valutazioni sia dal punto di vista agronomico, sia sul fronte enologico.

Obiettivo? Ottenere, appunto, le prime varietà resistenti Piwi ad uso dei produttori regionali, dal 2026. A partire dal 2025 saranno impiantati almeno 600 genotipi diversi (circa 7 mila piante) che, dopo ulteriori analisi agronomiche ed enologiche, daranno vita a nuove varietà resistenti da mettere a disposizione dei produttori nel 2030.

Nel frattempo, il futuro dei Piwi – italiani e non solo – passa dal loro inserimento nei disciplinari di produzione dei vini Igt e Dop. Una possibilità già avallata dall’Ue, responsabilità nazionale dei Consorzi di tutela e dei loro soci. Richieste che il Comitato nazionale presieduto dal prof Attilio Scienza sembra non vedere l’ora di ricevere.

«La notizia della nascita del Consorzio Vitires – commenta a winemag.it il prof Scienza – è davvero buona. Spero che sia da esempio ad altre Regioni recalcitranti, che rappresenti uno stimolo a creare altri vitigni resistenti a partire dai vitigni autoctoni italiani. E che si possa superare in Italia, unico Paese della Ce, il divieto del loro utilizzo per la produzione dei vini Doc».

Moio e Scienza: «Futuro Piwi nelle Dop Ue passa da ricerca, terroir ed enologia leggera»

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Le opportunità della Recantina tra i bordolesi del Montello Asolo


EDITORIALE –
Tre cloni, uno dei quali iscritto al registro nazionale delle varietà di vite: pecolo / peduncolo scuro, pecolo / peduncolo rosso e Forner. Quest’ultimo porta il cognome della famiglia alla guida della cantina Pat del Colmèl ed è oggi autorizzato, grazie al lavoro compiuto sul Dna. Si parla della Recantina del Montello Asolo. Coltivata dalla notte dei tempi in provincia di Treviso, è uno dei vitigni autoctoni italiani per certi versi più misteriosi e ancora poco “sondati” dai produttori. Una varietà tutta da scoprire, anche dai winelovers.

Definita da Giacomo Agostinetti «una delle migliori coltivate nel trevigiano», in Cento e dieci ricordi che fanno il buon fattor di villa (1679), la Recantina Forner è iscritta al Registro nazionale delle varietà di vite e rientra nella Doc Montello – Colli Asolani. Come ricorda Veneto Agricoltura, le Recantine (il plurale non è un refuso) sono «un gruppo di vitigni citati sin dal Seicento come “Recantina”, “Recardina” o “Recandina”, nella zona del Piave».

Circa un secolo dopo, nella memoria presentata all’Accademia Agraria degli Aspiranti di Conegliano, Domenico Zambenedetti consiglia «la Recaldina tra le varietà da piantare sulle colline» della zona. Chiarita l’identità ampelografica del vitigno, il compito dei viticoltori è oggi altrettanto arduo: dare un’identità ai vini ottenuti da Recantina.

IL FUTURO DELLA RECANTINA DEL MONTELLO ASOLO

Una varietà, come chiariscono gli assaggi di 7 vini prodotti da altrettante cantine aderenti al Consorzio Tutela Vini Asolo Montello (evento Rosso Bordò, Treviso, domenica 16 ottobre 2022), capace di leggere molto bene suolo e microclima, oltre a risentire delle scelte agronomiche ed enologiche compiute dai singoli produttori.

Le opportunità di valorizzazione della Recantina in un territorio come quello del Montello – in cui è prevalente la produzione di vini rossi strutturati, ottenuti da varietà del taglio bordolese – potrebbero essere ricercate nell’esaltazione della freschezza e del bel corredo dei primari del vitigno, tra frutto e spezia, senza ricorrere a sovra-estrazioni e vinificazioni in legno che andrebbero a sovrapporsi alla stilistica dei bordolesi del territorio.

Interessante e visionaria, in questo senso, la scelta dell’enologa toscana Graziana Grassini di vinificare la Recantina in anfora, proprio per esaltare le caratteristiche appena descritte. In questo senso, il vitigno autoctono potrebbe diventare un asso nella manica dei produttori locali, capace di trainare le vendite degli altri vini del Montello sul modello (e la visione altrettanto recente) del Piedirosso in Campania.

  • Montello Asolo Recantina 2021, Bresolin Bio
    Rubino piuttosto profondo. Naso intenso, preciso, su frutta matura tendente alla confettura, soprattutto nera, ma anche rossa. Bella speziatura elegante, che disegna un profilo quasi balsamico. Al palato più teso di quanto avesse fatto presagire il naso. Una freschezza su cui giocano ritorni di frutta matura, ancora una volta più a polpa rossa che scura. Bel finale lungo, pieno, piacevolmente sapido, che invita alla beva. Vino giovane, all’inizio di un buon percorso di crescita.
  • Montello Asolo Recantina 2021 “Cento Orizzonti”, Tenuta d’Asolo Progress Country & Wine House
    Rubino meno carico del precedente, luminoso. Più polpa scura che rossa (ribes), a tratteggiare il ricordo della mora di rovo matura. Elegante speziatura. Al palato il vino entra e si sviluppa sull’acidità. Chiude su leggeri marcatori amari e sapidi. Si tratta della prima prova della cantina, che ha acquistato le uve per dar vita alla nuova etichetta.
  • Montello Asolo Recantina 2020, Ida Agnoletti
    Si torna su un colore rubino più carico. Tocco di selvatico sul frutto, ancora una volta più maturo al naso che al palato. Acidità piuttosto spinta al palato e chiusura su leggero fenolico, oltre al sapido. Il vino, al momento dell’assaggio, è in bottiglia da appena 3 mesi e mostra evidenti segnali della fase giovanile, cui dare fiducia. Sull’etichetta della bottiglia, un rospo stilizzato: nella migliore delle ipotesi diventerà un principe.
  • Montello Asolo Recantina 2020, Commendator Pozzobon Rosalio
    Rubino piuttosto intenso. Naso dal frutto più maturo della batteria di 7 vini. Ancora mora di rovo ma, questa volta, frutta a polpa scura e a polpa rossa si equivalgono al naso, senza dominare l’una sull’altra. Bel palato teso, fresco. Confermata al palato l’acidità tipica del vitigno, ben assistita da una materia polposa. Tannino in cravatta, pur in fase di integrazione. Golosa venatura sapidità che accompagna e distende il nettare, dall’ingresso alla chiusura. Vino giovanissimo, di sicuro interesse in prospettiva.
  • Montello Asolo Recantina 2020, Sartor Emilio
    Altro vino dal colore pieno. Fiori di viola, speziatura intensa, frutto scuro (prugna), più che rosso (ciliegia). Leggero tocco di polvere di caffè che si accosta alla componente erbacea. Al palato acidità evidente, piuttosto ben avvolta e amalgamata da polpa e vena glicerica. Componente fenolica e amara controllata. Tannino dolce, ben disteso ma non arrendevole. È stata imbottigliata ad agosto 2021, più strutturato e ancora più strutturato il 2022.
  • Montello Asolo Recantina 2018 “Augusto”, Giusti Wine
    Colore rubino mediamente intenso. Naso piuttosto condizionato dall’affinamento in legno, che soffoca il varietale. La classica nota di polvere di caffè, qui vira sulla caramella mou. Un naso decisamente “dolce”, tipico dell’espressione di vini destinati al cosiddetto “gusto internazionale”, nonché una delle poche etichette di Recantina presenti anche in Gdo, fuori dai confini del Veneto, in particolare sugli scaffali di Iper, La grande i. Ingresso piuttosto morbido e centro bocca equilibrato, connotato da una gran piacevolezza. Accenti balsamici in chiusura che, assieme a ricordi sapidi, chiamano il sorso successivo. Penultima annata di questo vino, prima dell’avvento della winemaker Graziana Grassini presso la cantina di Nervesa della Battaglia (TV).
  • Montello Asolo Recantina 2016, Pat del Colmèl
    Colore rubino intenso. Naso che condensa divinamente tutte le anime della Recantina, dal frutto fresco e carnoso (rosso e nero) alla speziatura; dalla polvere di caffè, tipica del varietale del vitigno, allo svolgimento – preciso – di acidità e tannino. Al palato, dopo un po’ di ossigenazione, il vino cambia e lascia spazio a note non avvertite negli altri calici. Si aggiunge alla componente fruttata l’agrume rosso: una bella sanguinella, avvertibile dal principio alla chiusura di sorso. Senza dubbio la miglior espressione di Recantina della batteria, a dimostrazione che il vitigno necessiti di essere compreso e, solo in seguito, addomesticato da chi lo produce. A Pat del Colmèl, la prima annata, risale addirittura al 2008.

L’INTERVISTA ESCLUSIVA: «Recantina può diventare vitigno principe del Montello». Parola di Graziana Grassini

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Fivi e la riforma dei Consorzi del vino: perché è il momento giusto con Meloni e Centinaio


EDITORIALE – Cosa c’entrano Giorgia Meloni e Gian Marco Centinaio con la riforma dei Consorzi del vino italiano e dei loro meccanismi di rappresentatività? Apparentemente nulla. In realtà, guardando all’esito delle ultime elezioni politiche, potrebbe essere arrivato il momento giusto per le aspettative della Federazione italiana vignaioli indipendenti. Per capire perché, occorre fare un passo indietro, al Mercato Fivi di Piacenza 2021.

In quell’occasione, Gian Marco Centinaio, in veste di Sottosegretario al Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali del Governo Draghi, fece visita ai vignaioli. Assicurando loro che «il problema della rappresentatività all’interno dei Consorzi di Tutela va affrontato al più presto. Perché troppo spesso pochi decidono per tanti. Serve un tavolo di confronto che coinvolga tutti gli attori della filiera».

Parole messe nero su bianco dall’allora ufficio stampa di Fivi (i veneti di Studio Cru, oggi non più in carica), che a winemag.it confermavano: «Centinaio ha visionato il comunicato prima dell’invio e ha detto che andava bene».

Per i vignaioli, la revisione dei criteri di rappresentatività nei Consorzi di tutela è «una priorità» e ha l’obiettivo di «dare voce a tutti gli attori». Secondo Fivi, «la normativa attualmente vigente (DM 232/2018, art. 8) stabilisce che i voti siano attribuiti in funzione della produzione vitivinicola dell’anno precedente, senza alcuna attenzione al numero di produttori».

CENTINAIO E L’INCONTRO PROMESSO AI VIGNAIOLI FIVI

Non è tutto. In occasione dell’incontro avvenuto al Mercato dei Vini 2021 di Piacenza Expo, domenica 28 novembre 2021, i vignaioli indipendenti hanno presentato al Sottosegretario Gian Marco Centinaio «un dossier d’intervento su alcuni aspetti ritenuti problematici per il lavoro quotidiano della categoria».

I temi principali su cui i Vignaioli hanno cercato il confronto, oltre alla rappresentatività all’interno dei Consorzi, sono stati la semplificazione burocratica e la legge per il contenimento del consumo del suolo agricolo.

«L’incontro con il Sottosegretario Gian Marco Centinaio qui al Mercato dei Vini è stato un importante momento di confronto, che ci auguriamo avrà presto riscontro concreto nell’apertura del tavolo auspicato dal Sottosegretario», commentava Matilde Poggi, allora presidente della Federazione italiana vignaioli indipendenti.

Un incontro che non è mai avvenuto ma che oggi, forse, è più semplice da immaginare rispetto al passato. Il Governo guidato da Giorgia Meloni vede la Lega, partito di Gian Marco Centinaio, tra i principali attori.

Lo stesso Centinaio è stato eletto vicepresidente del Senato della Repubblica, con Francesco Lollobrigida (Fratelli d’Italia) a ricoprire il ruolo di Ministro dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare (che fu di Centinaio nel Governo Conte).

FIVI, LE RICHIESTE AL GOVERNO MELONI E L’INVITO A LOLLOBRIGIDA

È proprio a Lollobrigida che il neo presidente Fivi, Lorenzo Cesconi, ha indirizzato nelle ultime ore una lettera contenente «un nuovo appello alla tutela dei piccoli produttori». Tra i punti salienti, proprio la revisione dei meccanismi di rappresentatività dei Consorzi del vino italiano.

«I criteri di voto al momento favoriscono i grandi gruppi e le cooperative sociali, a causa di un’interpretazione troppo ampia del “voto ponderale” e ad un uso spesso problematico delle deleghe. Fivi chiede dunque un intervento sul  decreto legislativo n. 232/2018, in particolare sull’art. 8 relativo alle modalità di voto, per rafforzare l’effettiva rappresentanza di tutti gli attori della filiera».

«I Vignaioli – si legge ancora sulla lettera indirizzata dalla Federazione al ministro Lollobrigida – rappresentano un modello che orienta la propria produzione verso la più alta qualità, nel pieno rispetto e nella completa espressione del territorio. È necessario che in tutti i Consorzi sia riconosciuta loro pari dignità».

Fivi chiude la sua lettera invitando il ministro Francesco Lollobrigida all’Assemblea della Federazione, che si svolgerà lunedì 28 novembre a Piacenza, durante il Mercato dei Vini dei Vignaioli indipendenti 2022.

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Monferace, il Grignolino del Monferrato che “fa legno”: tutti sicuri ne abbia bisogno?


EDITORIALE –
In un mondo in cui il Barolo si propone sui mercati in versioni sempre più pronte e godibili senza troppe attese, una dozzina di aziende del Monferrato Casalese (una sola dell’Astigiano) si aggroviglia attorno a un «progetto territoriale» denominato Monferace. Ovvero su un vino che nasce da uve 100% Grignolino affinate per almeno 40 mesi, di cui 24 in botti di legno. Fra le 30 e le 40 mila bottiglie complessive, a distanza di 8 anni dalla prima vendemmia, la 2015 (oggi in vendita c’è la 2018).

Un nuovo vino per le colline Unesco del Monferrato, insomma. Legato, tuttavia, al «metodo tradizionale di vinificazione del Grignolino», vitigno che più di tutti rappresenta questa fetta del territorio del Piemonte.

«Affinava in legno quando, in occasione delle Esposizioni Universali della Belle Époque, costava più del Barolo», ha ricordato il presidente dell’Associazione produttori Monferace, l’avvocato Guido Carlo Alleva. Intanto, l’Italia e il mondo intero vanno da un’altra parte.

TUTTI IN UN’ALTRA DIREZIONE

I vignaioli della Valpolicella – altra zona che lavora al riconoscimento Unesco – lavorano al futuro dell’Amarone premiando freschezza e agilità di beva, riducendo concentrazione ed esuberanza alcolica, soprattutto attraverso accorgimenti in vigna.

Più a sud, in Umbria, i tannini del Sagrantino di Montefalco sono al giro di boa, ormai da qualche vendemmia. Il cambio di rotta del mondo del vino e dei suoi nuovi consumatori internazionali, convince i produttori a premiare versioni più immediate, che non perdano comunque di vista la rustica eleganza del grandioso vitigno autoctono perugino.

Da queste parti c’è chi, addirittura, propone di introdurre nel disciplinare l’anfora, come «contenitore alternativo al legno» per l’affinamento del Sagrantino di Montefalco Docg. Le (rare) versioni già prodotte in terracotta, di fatto, danno risultati eccellenti ed esaltano la varietà.

Cambiamo zona ed emisfero: Australia. Qui lo Chardonnay ha ormai perso la dipendenza stilistica dalla barrique francese. E così sta succedendo per il Syrah. Persino negli Usa, per l’esattezza in Napa Valley, l’uso del legno è sempre meno invasivo sul Cabernet Sauvignon, consentendo a microzone come Stag’s Leap di emergere dall’uniformizzazione del gusto, esaltando i suoli di origine vulcanica.

Tutti sicuri, dunque, che il Grignolino abbia bisogno del legno per rilanciarsi sul mercato e, soprattutto, raccontare la vera peculiarità degli antichissimi suoli di limo, calcare e marne del Monferrato? Il sogno (vero) è tornare alla tradizione o avere in casa un (wannabe) Barolo “su misura”?

TRA I MONFERACE SPICCA ACCORNERO

All’evento per la presentazione en-primeur della vendemmia 2018 del Monferace, andato in scena ieri al Castello di Ponzano Monferrato, i campioni (della vendemmia 2018, per l’appunto) erano solo 6, sulla dozzina di aziende che aderiscono all’Associazione.

E a convincere, su tutti (ma proprio tutti, compresi un Monferace 2016, due 2017 e 3 2020 da vasca) è il vino di chi, il Grignolino, lo ha sempre trattato in legno. Ovvero la cantina Accornero, col suo Grignolino del Monferrato Casalese Doc 2018 Monferace (3.861 bottiglie complessive, più 208 magnum), figlio di quel “Bricco del Bosco Vigne Vecchie” prodotto sin dal 2006.

Sulla buona strada anche Angelini Paolo (con il Grignolino del Monferrato Casalese 2018  Monferace Golden Arbian) e Vicara (Grignolino del Monferrato Casalese Doc 2018 Monferace Uccelletta), cantine che – forse non a caso – hanno scelto di rinunciare alla barrique per investire nell’affinamento in tonneau da 500 litri.

Se legno dev’essere, insomma, che sia grande. Per il Monferace. E soprattutto per non scordarsi, a colpi di vaniglia, tostature e fondi di caffè, di essere in Monferrarto. Con in bocca del Grignolino. L’alternativa è riscrivere la storia, senza ricorrere alle botti.

Puntando tutto su Grignolini di grande qualità, che valorizzino – dalla vigna alla cantina – i bei primari del vitigno. Un po’ come la Campania sta facendo col Piedirosso, o la Loira con i Cabernet Franc légere. Ma questa è tutta un’altra storia.

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Il nuovo mercato del vino italiano? È l’Italia. Parola dei bidoni del vetro

EDITOTORIALE – Ieri sera, come ogni domenica, sono sceso a buttare il vetro. Vivo in un condominio. Mi tocca. Il fatto è che ogni volta la vivo peggio. Ogni volta scendo le scale come scendessi all’Inferno. Un po’ come Dante. Ma senza gironi, né tantomeno Virgilio. Scendo solo. E torno solo. Più sconsolato di prima.

Mica perché sia faticoso portar giù una decina di bottiglie. Piuttosto perché, ogni settimana, il mio timore che questo Paese stia sbagliando quasi tutto – nella comunicazione, nel marketing, nel proporre all’estero i propri vini con l’entusiasmo di un bulldog francese, che non conosce in realtà poi così bene i limiti del proprio corpo – si accresce e mi spaventa più della volta prima.

Che il nuovo mercato del vino italiano sia l’Italia stessa, lo dimostrano quei bidoni pieni di birre industriali e vini da una manciata di centesimi di euro che trovo, mentre getto fiero i “cadaveri” delle mie serate e cene da critico enofighetto (che non sono, peraltro!).

Mentre sto per finire il mio Fendant 2011 di Domaine de Beudon, il vicino di casa è già sceso tre volte a buttare 8 lattine di birra. Mentre mi godo l’ultimo sorso del Riesling 2019 di Sepp Moser, quello del piano di sopra è già alla quarta sigaretta, sul tragitto fra l’uscio dell’appartamento e la sala spazzatura, in garage: un’ottima scusa per smettere di sentire i bambini gridare, quelle 6 bottiglie da mezzo litro di birra Moretti da buttare.

Mentre svuoto l’ultima bottiglia di Barbera di Monsupello, alternandola con lo Chinon di Dumnacus Vignerons (chi mi conosce sa quanto apprezzo il Cabernet Franc, anche d’estate!), la famiglia del mio dirimpettaio s’è scolata litri e litri di Ichnusa, litri e litri di Fanta e litri e litri di Carintia, nientedimeno che la “Premium Beer” di Md Discount.

Per non parlare di tutta quella Vodka Orange “Ready to drink Cocktail” con cui devono aver festeggiato quei mattacchioni della finestra di fronte, mentre io bevevo Franciacorta, Meursault e Pinot Nero Metodo classico di quella stessa cantina del Barbera (viva l’Oltrepò pavese della qualità vera), o assaggiavo l’ultimo vino di quel genio di Mario Piccini, “Pinocchio”.

Il tutto mentre cerchiamo di convincere l’estero di essere i migliori, perlopiù con le aziende sbagliate; mentre investiamo centinaia di migliaia di euro in progetti per l’internazionalizzazione (di chi?); mentre invitiamo in Italia buyer esteri travestiti da giornalisti, ai press tour in cui c’è sempre meno spazio per la stampa italiana (quella vera, perché per quella tarocca e prezzolata c’è e ci sarà sempre un posto a tavola); mentre puntiamo tutto sull’export, «perché è più redditizio e quelli pagano, mica come gli italiani»… Dimentichiamo quanto siano tristi, quei bidoni, ogni domenica sera.

Ci dimentichiamo quanto sia triste il bere quotidiano di molti (troppi) italiani, snobbati dalla stampa, snobbati dalla critica, snobbati dalla comunicazione. Snobbati dalle cantine italiane (troppe) che hanno smesso di raccontarsi, nel loro Paese, puntando spesso su fiere e mercati su cui scommettere, come su vere e proprie incognite. Lasciando i bidoni condominiali dei palazzi italiani riempirsi di nient’altro che del vuoto lasciato: l’inferno del vino italiano. Un po’ anche il mio.

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Rimarranno solo loro

EDITORIALE Autoreferenziali, pronti a tutto, estremamente permalosi e vendicativi. Per nulla focalizzati sugli interessi dei clienti. È il ritratto di una certa fetta di pr e addetti stampa del mondo del vino italiano. La fotografia nitida di chi, tra calci in pancia e coltellate alla schiena inferte a quella fetta sempre più anoressica di stampa enogastronomica italiana e internazionale libera – quella di cui ci pregiamo di far parte – continua a farsi strada e a staccare contratti con cantine e Consorzi.

Avanti così, altro che vino e comunicazione: rimarranno solo loro. Iene sugli zombie. Alla faccia dei giornali che arrancano, dei giovani e meno giovani che si aprono un blog per pubblicare (fondamentalmente) solo comunicati stampa, il più delle volte inneggianti a questa o a quell’etichetta mai assaggiata, o ricevuta a casa in omaggio.

Mai una critica, ché se non è tutto bello e tutto buono e tutto giusto, finisci nella lista nera dei polemici. Di quelli da isolare. Gli appestati di libertà intellettuale. Gentaglia che (ancora) si permette di pensare. Di disallinearsi. Rimarranno solo loro, a raccontarsi, tra loro, le balle con cui inzuppano da anni testate compiacenti, che hanno sempre meno lettori ma sempre più follower su Instagram. Sticazzi.

Rimarranno solo loro, tra loro, a prendersi gioco dell’ultimo dei freelance a caccia di inviti ai press tour, da guadagnarsi con la lingua e col sudore che gronda manco sotto al sole del Sahara, quando ci si arrabatta a non far torti a chi conti anche solo un minimo, o che si sia autoproclamato, enoicamente, “qualcuno”. Profeti del nulla.

Rimarranno solo loro, a darsi vicendevoli pacche sulle spalle, affilando le punte degli scovolini, ché i denti si puliscono più facilmente delle coscienze. E con un po’ di bicarbonato risultano pure bianchi e splendenti, mai utilizzati. Illibati. Pronti per il prossimo morso alla giugulare del nemico, prima di sorridere ancora. Dentisti dell’ego.

Rimarranno solo loro, a riempire di parole vuote i rappresentanti di Consorzi e cantine che hanno pure un “nome”, ma sono incapaci di pensare (intimamente) al futuro. Ché i risultati servono oggi, subito, adesso, hic et nunc. Mica a costruire un solido “domani” per tutti. Costi pure caro e qualche strada in salita.

Rimarranno solo loro, o forse no. Ché a fregar loro il lavoro ha iniziato ormai a provarci più d’uno, mixando più d’un deejay collaborazioni con testate e pierraggio per conto di cantine o Consorzi, sapientemente avvicinati e ammaliati durante la presentazione di cataloghi dei distributori, o in occasione di uno dei tanti press tour conquistati dopo aver sopravvissuto ai rigurgiti della propria saliva. Cannucce parlanti.

Rimarranno solo loro. Iene sugli zombie, oppure zombie sulle iene. Soldatini di plastica, in marcia serrata su un mondo della critica enogastronomica italiana che muore male, un brindisi dopo l’altro, ora dopo ora. Colpevole e non vittima, più d’ogni altra cosa, del proprio compiacente, assordante silenzio che sa d’harakiri. Rimarranno solo loro. Ché chi si sente citato qui, di fatto lo è. Cin, cin.

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Il presidente in ciabatte e il vino in camicia

EDITORIALE – Fosse suo, il Sagrantino di Montefalco 2018 cotto, marmellatoso e ossidato che ha popolato in lungo e in largo i tasting in sala consiliare, saremmo tutti autorizzati a gridare allo scandalo. Ovvero al tentativo di far prevalere l’immagine sulla sostanza, nel solco triste e beffardo del marketing distorto dei tempi moderni.

Invece, il presidente in ciabatte Giampaolo Tabarrini, con la sua scelta di presentarsi alla stampa e al pubblico riunito ad Anteprima Montefalco 2022 uguale a se stesso, nonostante l’investitura pesante, da successore del (lui sì) presidente in camicia Filippo Antonelli, non fa altro che stressare, ancor più, il concetto di un’annata andata pressoché storta: la 2018 del Sagrantino.

Una di quelle vendemmie giudicate “così, così” dagli (onesti) produttori locali, che hanno dovuto fare “i conti” – sorpresi ma non troppo, voglio credere – con le (ben) “Quattro stelle” assegnate (invece) dall’annuale commissione di esperti chiamati a giudicare, prima della stampa di settore, nelle segrete stanze del perbenismo enologico italico, l’ultima annata del portentoso rosso umbro.

Fatto sta che Giampaolo Tabarrini che si presenta in ciabatte da mare alla presentazione ufficiale del Sagrantino di Montefalco 2018, tra politici locali di professione (loro sì, c’era pure il presidente della Regione Umbria) e ministri del vino del Bel paese, ha brillato più del Sagrantino di Montefalco stesso, durante i tasting in sala consiliare (25 e 26 maggio).

Quel che resta davvero della vendemmia 2018, di fatto, è un Tabarrini sempre più alieno a casa propria. Un presidente che interpreta e comunica il Sagrantino di Montefalco come nessun altro riesce a fare, attraverso vini che si raccontano molto più che con l’andamento della singola annata. Diventando fenomeno. Volesse Dio, a guardar bene, “regola”.

Se nel 2021, ad Anteprima Sagrantino 2017, le etichette di Tabarrini avevano segnato lo stacco tra l’orizzonte e il presente di Montefalco, ad Anteprima 2022, col Sagrantino 2018, il neo eletto presidente pare aver allargato il gap con molti dei conterranei. Segnando una linea di demarcazione ancora più netta.

Non che questo, immaginiamo, possa fare a lui (o a chiunque) davvero piacere. Soprattutto se a rimetterci, con l’annata 2018 del Sagrantino di Montefalco, sono produttori come Romanelli. Fino a ieri sulle orme del presidente in ciabatte; oggi vittime illustri, vien da dire, di un’annata davvero complicata per il vino rosso simbolo dell’Umbria.

In un quadro di generale delusione, alla faccia delle “Quattro stelle” che, per ammissione pubblica dello stesso Giampaolo Tabarrini, non sembrano convincere o, meglio, “consolare” neppure i diretti interessati (ovvero i locali produttori), qualcuno brilla ancora e qualcun altro sembra aver imbroccato una promettente via.

Chi si conferma, tra le voci fuori dal coro delle ossidazioni e delle “marmellate” del Sagrantino di Montefalco 2018, è certamente Bocale. Vini da assaggiare (tutti) i suoi: dal Rosso di Montefalco al Sagrantino, senza dimenticare l’ottimo Trebbiano Spoletino.

Consola, come la tela di Pelenope, la prestazione del giovane Pardi. Uno che è riuscito a mettere in campo, in quest’annata, tutto l’amore per la tensione acida e la freschezza inculcata negli anni di studi dalle parti di Conegliano. Insomma, non è tutto da buttare in quest’annata di Sagrantino di Montefalco confusa e sbattuta. Quella in cui certe ciabatte saranno ricordate più eleganti di certe camicie.

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Vini vulcanici italiani: Casa Setaro si mette sulle spalle il Vesuvio e propone il primo “vino di contrada”

EDITORIALE – Casa Setaro, cantina gioiello di Massimo Setaro, si mette sulle spalle il Vesuvio e propone il primo “vino di contrada” del territorio. Un passo solitario coraggioso, che vuol essere d’esempio verso l’ufficiale zonazione del vulcano campano, unica arma in mano ai viticoltori locali per alzare l’asticella della qualità e dei prezzi delle uve. Una mossa che contribuirebbe al definitivo riconoscimento internazionale dei vini del Vesuvio, sulla scorta di quanto già fatto in Sicilia dall’Etna.

Contradae 61·37” è un vino bianco a denominazione Vesuvio Doc, vendemmia 2019, che contiene nel suo nome la mancanza di visione che da decenni attanaglia la politica del vino campano (e vesuviano). I numeri “61” e “37” sono infatti un ripiego.

Un vero e proprio escamotage, col quale Massimo Setaro designa, legalmente, Bosco del Monaco, la “contrada” di Trecase da cui nasce il vino. Una “sottozona” non menzionabile in maniera esplicita in etichetta, proprio per via della mancanza di una zonazione ufficiale.

IL NUOVO VINO DI CASA SETARO ISPIRA IL VESUVIO ALLA ZONAZIONE

Al momento, la Doc Vesuvio conta infatti sulla sola distinzione tra l’Alto Colle Vesuviano, che identifica i vigneti oltre i 200 metri sul livello del mare, e il Versante Sud-Orientale, che guarda il mare. Ecco dunque un aiuto dalla Smorfia napoletana, secondo cui il numero 61 rappresenta il Bosco; e il numero 38 il Monaco.

Una scelta – commenta Massimo Setaro in esclusiva a winemag.it – nata dall’impossibilità, secondo il disciplinare oggi vigente, di denominare questo vino con la parola “contrada”. Per ora abbiamo fatto presente la questione e ne abbiamo discusso anche nell’ambito di un recente convegno organizzato con Confagricoltura. Era invitato anche l’assessore all’Agricoltura Nicola Caputo, che tuttavia non si è presentato».

«Faremo altri convegni sul tema – continua il patron di Casa Setaro – poiché il territorio lo merita. Per la sua eterogeneità, è giusto che siano riconosciute almeno le “contrade” del Vesuvio. Ci auguriamo di vincere anche questa battaglia, ricordando come il Caprettone (varietà di cui la cantina può essere considerata pioniera, ndr) non fosse riconosciuto come vitigno e lo è diventato solo nel 2014».

CONTRADAE 61·37, IL VINO “DI CONTRADA” DI CASA SETARO

“Contradae 61·37” è un vino interamente ottenuto da vecchie viti a piede franco, di età compresa tra i 50 e gli oltre 100 anni, in contrada Bosco del Monaco. Casa Setaro è l’unica a possedere vigne in questa “sottozona” del Comune di Trecase, il più piccolo centro abitato vesuviano, in provincia di Napoli.

In particolare, concorrono all’uvaggio un 50% di Caprettone, un 30% di Greco e un 20% di Fiano. Tutte piante sparse all’interno del medesimo vigneto, già identificato da Vincenzo Setaro, fondatore dell’azienda, come il più vocato a disposizione della cantina.

Prima della nascita di “Contradae 61·37” 2019, le uve concorrevano – in base alle caratteristiche dell’annata – alla produzione di Pietrafumante, lo spumante Metodo classico base Caprettone, e/o dell’Aryete, il Vesuvio Caprettone Doc di Casa Setaro.

“Contradae 61·37”, primo vino della cantina ottenuto da uvaggio, in tiratura limitata di sole 2.500 bottiglie, sta lì a raccontare la propria unicità coraggiosa. Ancor più, a tracciare la via del futuro del Vesuvio.

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Dal Derthona Timorasso al Piccolo Derthona: Tortona sa dove andare

EDITORIALE – Si legge “Piccolo Derthona“, si traduce “Timorasso” e porta la firma di Walter Massa l’ultima trovata del Consorzio Tutela Vini dei Colli Tortonesi. La nuova tipologia di vino bianco si colloca alla base della piramide della qualità del Derthona Timorasso. Una sorta di “denominazione di ricaduta”, grazie alla quale i produttori della Doc di Tortona, in provincia di Alessandria, potranno mantenere alta l’asticella della qualità (e dei prezzi delle uve) del Derthona “classico” e Riserva.

Il via libera ufficiale al Piccolo Derthona – nome coniugato da Massa strizzando l’occhio ai francesi del Petit Chablis e al nome storico della città di Tortona – è arrivato grazie alla recente modifica al disciplinare di produzione.

La nuova tipologia è stata quindi protagonista indiscussa del dibattito nella due giorni di Anteprima Vini Colli Tortonesi “Due.Zero”, andata in scena all’inizio del mese di aprile (qui i migliori assaggi). Ma del nuovo vino si parla, in realtà, dal 2010.

 LA GENESI DEL PICCOLO DERTHONA

«In quell’anno – spiega Walter Massa a winemag.it – la Cantina sociale di Tortona mi chiese l’autorizzazione scritta per poter usare la parola “Derthona” anche sui suoi vini. Gliela concessi per due motivi: in primis perché il territorio aveva bisogno di crescere; poi, perché avevo iniziato a vedere sugli scaffali alcuni Timorasso venduti attorno ai 3,50 euro. Un prezzo troppo basso».

Grazie al dialogo con la dirigenza della cantina sociale – continua Massa – capii che i consumatori comuni vogliono vedere la parola “Timorasso” sulla bottiglia, senza svenarsi per mettere il vino in tavola.

Scrivendo quindi “Timorasso” su una nuova tipologia, da chiamare appunto “Piccolo Derthona”, avremmo potuto alzare il prezzo, la soglia, la percezione e la qualità del Derthona “classico”, dando al contempo al grande pubblico un altro prodotto, più immediato e di facile comprensione, pronto nei primi mesi successivi all’anno di vendemmia.

Quella che è nata come un’operazione commerciale, oggi è un’efficace strategia di promozione del territorio e della denominazione principale della zona. Senza dimenticare che a 7,50 euro al retail, il Piccolo Derthona è un vino bianco italiano Doc che ha pochissimi rivali, soprattutto nel rapporto qualità-prezzo».

DERTHONA TIMORASSO: DAL RISCHIO SVALUTAZIONE ALLA “DENOMINAZIONE DI RICADUTA”

Dal rischio svalutazione al colpo di spugna nei confronti di imbottigliatori e mediatori di uve, il passo è stato breve. Tutto merito dell’accordo raggiunto da Walter Massa dapprima con la cantina di Tortona, poi allargato agli altri produttori della Doc di Alessandria. Tutti i membri del Consorzio (e non solo) possono così fregiarsi del nome “Piccolo Derthona” in etichetta, per i loro vini d’entrata.

Un’operazione che consente al Derhona Timorasso di proteggersi da speculazioni che vedono protagonisti altri vini italiani, tra cui il vicino piemontese Gavi Docg. Il Piccolo Derthona equivale di fatto ad altre “denominazioni di ricaduta”, come il Langhe Nebbiolo del Barbaresco. O lo stesso Petit Chablis francese.

Tipologie che mancano come l’acqua ad altri territori del vino italiano, compresi quelli che puntano alla Docg. Su tutti, è il caso dell’Etna Doc, divenuto ormai elemento simbolo e calamita del business – soprattutto a livello internazionale – della viticoltura siciliana.

‘A Muntagna è sprovvista di una “denominazione di ricaduta” (potremmo chiamarla “Terre dell’Etna”) che aiuterebbe i produttori a mantenere alta l’attenzione sull’Etna Doc “classico”, nel percorso verso l’Etna Docg.

PICCOLO DERTHONA, MOLTO PIÚ DI UN’OPERAZIONE COMMERCIALE

«Il piccolo Derthona – spiega a winemag.it il presidente del Consorzio Tutela Vini dei Colli Tortonesi, Gian Paolo Repetto – può nascere dalle uve di una vigna nuova, che non hanno la struttura necessaria per supportare un Derthona “classico”.

«Oppure può prendere vita da una vigna più esposta, che tende a perdere un po’ di primari, perché l’uva si è scottata un filino. Una vasca di Derthona non è venuta esattamente come volevi, o l’annata è sfortunata? Il vino diventa un Piccolo Derthona», continua Repetto.

In questo modo la qualità del Derthona “classico” è sempre al massimo. Al contempo, il consumatore che fatica a scegliere un Derthona per questioni di prezzo, ha la possibilità di accedere a un prodotto 100% Timorasso, conveniente per lui e per la cantina che lo vende. Un vino bianco di qualità e struttura superiore alla media degli altri bianchi “standard” italiani».

Sul fronte dei prezzi retail, il Piccolo Derthona si assesta attorno ai 7-8 euro, finendo sullo scaffale a un minimo di 13-14 euro. Il Derthona “classico” parte invece da una media di 10 euro minimo all’Horeca. Il tutto senza intaccare le rese e la base ampelografica: 100% Timorasso, resa massima di 75 quintali per ettaro e bottiglia “green” da 600 grammi. Per entrambe le tipologie.

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Il vino con la pizza: il catalogo Metro che stuzzica i ristoratori italiani (e provoca le cantine)

EDITORIALE – Il vino con la pizza, anzi: ad ogni vino la sua pizza, o ad ogni pizza il suo vino. Con il nuovo Catalogo “Carta Vini Primavera“, Metro Italia stuzzica i ristoratori italiani. E, forse inconsapevolmente, invita tutti a ragionare su quanto larga sia la fetta (non di pizza, ma di mercato) a cui le cantine italiane sembrano rinunciare senza troppe domande. Puntando tutto sull’estero o alta (altissima) ristorazione.

Già, perché quando ci si lamenta della povertà delle carte vini di molti ristoranti e pizzerie “di vicinato”, non si considera come numerose cantine snobbino la “ristorazione quotidiana“. Preferendo una caccia all’importatore estero dispendiosa e non sempre fruttuosa, nonché la corte amorosa all’head sommelier del ristorante stellato Tal dei Tali o Pinco Palla.

Certo, le foto delle bottiglie sui tavoli di New York, così come quelle sui tavoli d’avanguardia culinaria, servono (anche) a dare lustro al brand. Ma perché non impegnarsi nella comunicazione porta a porta, di vicinato, regionale o basata su Aree (per usare un termine Nielsen) di prossimità, rispetto alla sede operativa della cantina? Perché, in sostanza, non ricominciare dall’Italia?

I clienti di ristorantini, osterie di paese e pizzerie ne gioverebbero, così come la cultura del vino italiano, che andrebbe insegnata dalle basi, capovolgendo l’assurdo sillogismo, “ignorantotto”, secondo il quale se il vino è molto costoso, quindi è buono (per forza).

Ecco dunque, sul Catalogo “Carta Vini Primavera” di Metro Italia, una “Pizza leggera“, dai sentori semplici e con condimenti delicati, abbinata a un Müller Thurgau o a un Rosato Toscana Igt.

Per la “Pizza Ricca“, connotata da ingredienti saporiti a cui tener testa, l’insegna Cash and Carry propone Bonarda dell’Oltrepò pavese e Sangiovese Rubicone Igt. Per la “Pizza Rossa“, un Friuli Doc Pinot Grigio e un Collio Doc Sauvignon. Per la “Pizza Bianca” è caccia all’equilibrio perfetto, da centrare con un Prosecco Doc Treviso Extra Dry o un più strutturato Trento Doc.

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Dall’enoteca del centro di Kiev alle notti in metropolitana: la storia di Alie, nell’Ucraina invasa dai russi

EDITORIALE – L’ultima volta che ci eravamo sentiti era il 6 novembre 2021. Alie mi chiedeva come fosse andata la giuria della Wine & Spirits Ukraine, il Concorso Vini dell’Ucraina a cui avevo preso parte dall’1 al 3 novembre, assieme ad altri giudici internazionali.

Alie è una giovane sommelier che lavora da diversi anni per una delle enoteche più prestigiose della capitale Kiev: GoodWine, all’ultimo piano del lussuoso centro commerciale TsUM (ЦУМу, in ucraino). È proprio qui che ci siamo conosciuti, per un’intervista sull’andamento dei consumi di vino nel Paese.

Il wine shop ha sede all’ultimo piano di un edificio di 45 mila metri quadrati, in cui hanno trovato casa, dopo il restauro generale del 2016, numerose firme internazionali della moda, dell’abbigliamento e del lusso. Un retail park decisamente “all’Occidentale”, nel cuore di Kyïv (Kiev). A due passi dal Teatro nazionale dell’Opera e a tre dalla Porta d’Oro (Zoloti vorota).

Uno dei tanti luoghi di lavoro rimasti chiusi, ieri mattina, a causa dell’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo, ai comandi di Vladimir Putin. Da due notti, Alie e il marito vagano fuori casa. Costretti come decine di migliaia di altri ucraini a nascondersi. Cercando riparo dai colpi di artiglieria delle milizie nemiche.

«Stanotte – mi racconta Alie in un messaggio che fa trasalire – abbiamo trovato un rifugio di fortuna. Siamo su un materasso, per terra, sotto alle coperte. Siamo al caldo, ma non ci sentiamo abbastanza al sicuro. Domani scenderemo nella metropolitana, come hanno già fatto molti. Siamo terrorizzati». Arriva di lì a poco la foto della “stanza da letto”. È ricavata in uno scantinato.

In queste ore, Alie si è già messa alla ricerca di una sistemazione migliore, nelle metropolitane di Kiev. La pancia della città, fino allora simbolo lampante della metropoli internazionale delle contraddizioni – Kyïv per l’appunto – trasformata in un bunker. Fuori, in superficie, all’aria aperta, gli invasori. Sottoterra, i padroni di casa.

«Putin deve pagare caro il prezzo della nostra sofferenza», si lascia scappare Alie in chat. «Non ci saremmo mai aspettati che sarebbe potuto arrivare a tanto. Siamo spaventati, distrutti, sorpresi e arrabbiati. Ogni ucraino che in queste ore si nasconde vuole bene come fossero famigliari ai soldati che stanno tentando di fermare gli invasori».

Il tempo scorre a Kiev, anche quando tutto sembra essersi fermato. La nonna del marito di Allie è morta poche ore prima dell’inizio delle esplosioni nelle capitale. «Se l’è portata via il Coronavirus – spiega – non sappiamo neppure quando potremo seppellirla».

È la tragedia nella tragedia che diventa rabbia a cui aggrapparsi, per dare un senso all’oggi. E, ancor più, al domani. «Torneremo a bere assieme a Kiev, Davide, te lo prometto». Quanto prima, Alie. Budmo!

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Alberto Massucco o Encry – Enrico Baldin: chi è il primo italiano in Champagne?

EDITORIALE – Il primo italiano in Champagne è Alberto Massucco oppure EncryEnrico Baldin? La domanda riverbera ogniqualvolta si parli (o si scriva) di uno o dell’altro, rivangando acredini tra tifoserie e supporter dei due imprenditori italiani. Vittime (consapevoli) di una querelle che non può rimanere senza risposte.

Ho dunque approfittato dell’invito alla presentazione del Catalogo 2022 di Proposta Vini, arrivato dall’ufficio stampa Mediawine guidato da Federica Schir, per intervistare Enrico Baldin, “Mr Champagne Encry”. Nei mesi scorsi è stata invece Laura Gobbi, pr che cura Comunicazione ed Eventi di Alberto Massucco Champagne, a fornirmi le risposte che cercavo.

La verità è che la vicenda continua a presentare lati oscuri. Ciò che accomuna i due imprenditori è il desiderio di riservatezza sull’assetto societario delle aziende che consentono, a ciascuno, di affermare: “Sono io il primo italiano in Champagne”.

Da un punto di vista temporale non ci sono dubbi: il primato assoluto spetta a Encry. «Sono da 22 anni in Champagne – spiega a winemag.it – per eseguire un intervento di ingegneria naturalistica e di ripristino ambientale, esattamente a Le Mesnil-sur-Oger».

ENCRY – ENRICO BALDIN È IL PRIMO ITALIANO A PRODURRE CHAMPAGNE?

La mia prima vendemmia – continua Baldin – risale al 2004. Ho in gestione tre ettari e mezzo, grazie a un vigneron che non finirò mai di ringraziare per avermi indicato le mosse giuste per non scontrarmi con il Cvc, il Comité interprofessionnel du vin de Champagne».

«Quindici anni fa – spiega ancora – ho visto dei californiani comprare 4 ettari nella Montagne de Reims. E vendere tutto dopo due anni, dalla disperazione. A chi? A francesi, ovviamente».

Il vigneron menzionato da Enrico Baldin è Michel Turgy (Jean e Catherine Turgy) récoltant-manipulant che, in precedenza, «e da cinque generazioni – spiega Mr Encry – conferiva le uve a grandi maison». Una collaborazione iniziata «grazie a un’operazione finanziaria che ha previsto, tra l’altro, la costruzione della cantina».

Dunque il primo italiano a produrre Champagne sono io. Poi arrivano altri, come Luca Serena (con De Vilmont, brand della costellazione Serena Wines 1881, cantina produttrice di Prosecco Doc e Docg a Conegliano, Treviso, ndr), i Campari (con Lallier, ndr) e Massucco».

ALBERTO MASSUCCO È IL PRIMO ITALIANO A PRODURRE CHAMPAGNE?

Diversa la storia di Alberto Massucco. «L’incredibile opportunità – spiega a winemag.it – mi è capitata nel 2019. A febbraio ho completato l’acquisto della mia prima vigna in Champagne. Nel 2021 è arrivata la seconda. La terza è opzionata. E nel 2022 sarà pronto il mio primo Champagne, prodotto con le mie uve».

Pur parlando – a differenza di Encry – di vigneti di proprietà, l’imprenditore piemontese glissa sui passaggi burocratici affrontati per arrivare al risultato: «Ho affidato alla persona che cura i miei affari in Champagne, il mio legale in Francia, la gestione della parte burocratica». Dovizia di particolari, invece, sull’amore per i pregiati spumanti francesi.

Era il 1964 – racconta – quando, quindicenne, dopo aver assistito con la mia prima fidanzatina ad un concerto di Mina a Villa Romana, ad Alassio, ordinai al Caffè Roma la mia prima bottiglia di Champagne. Quella bottiglia di Laurent Perrier, consumata sul famoso “Muretto” di Alassio, fu fatale. Non abbandonai più lo Champagne».

Nel 2015, Alberto Massucco incontra Alberto Lupetti. «È considerato il maggior esperto di Champagne in Italia – evidenzia l’imprenditore – e fra i primi cinque al mondo. Proprio con lui ho ripreso a frequentare la regione, dopo parecchi anni. Mi è venuta così l’idea di visitare piccoli produttori per individuarne uno, ambizioso e votato al miglioramento continuo ed interessato ad essere importato e distribuirlo in Italia».

Il 31 marzo 2017 il colpo di fulmine. «In Jean Philippe Trousset ho trovato quanto cercavo ed è partita la collaborazione che sta alla base della nascita dell’Alberto Massucco Champagne. Proseguendo negli anni l’attività di scouting ho avuto l’opportunità di aggiungere altre tre ottime piccole maisons, molto diverse fra loro. Con Jean Philippe Trousset, Rochet-Bocart, Gallois-Bouché, Les Fa’ Bulleuses, la scuderia pareva al completo».

Nel 2018, tuttavia, il noto produttore Erick De Sousa sorprende Massucco, durante un pranzo: «”Ti vedo così interessato e appassionato che per me sarebbe un onore fare uno Champagne esclusivamente per te, che porti il tuo nome”, mi disse. A me non parve vero! Non esitai neppure un secondo. Mi dichiarai felice e partì immediatamente l’iter».

MASSUCCO O ENCRY: CHI È IL PRIMO ITALIANO IN CHAMPAGNE?

Dall’intervista ad Enrico Baldin emergono ulteriori dettagli sull’assetto societario del brand, nato dalla passione per la Francia che l’imprenditore padovano condivide con la moglie Nadia Nicoli.

«Siamo ufficialmente iscritti al Cvc con Maison Vue Blanche Estelle – spiega Mr Encry – come “NM“, ovvero Négociant manipulant. È vero che in Champagne non ti fanno lavorare se sei un italiano, specie se non hai muri di proprietà: cosa che non abbiamo tuttora, ma che a breve avremo».

Da quel momento in poi saremo ufficializzati come RMRécoltant-manipulant. Un aspetto, se vogliamo, già presente nelle nostre retro etichette, in cui cui specifichiamo che le uve sono nostre e i vigneti sono nostri. Per ora ci fanno scrivere MAMarque d’acheteur (più nota come Marque Auxiliaire, ndr)».

Le tempistiche? «Due o tre anni al massimo», risponde Enrico Baldin. Che anticipa a winemag.it alcune importanti novità riguardanti Encry: «Sta per andare in porto un progetto molto importante e ambizioso, i cui dettagli sono ancora riservatissimi».

Lo vedrete presto, l’inaugurazione durerà due anni. È una roba talmente grande che un giorno e un anno non bastano. Ci vorranno due anni, perché il mondo vorrà venire. Daremo una sorta di festa tutti i giorni, per due anni consecutivi».

ITALIANI IN CHAMPAGNE: L’ACCOGLIENZA DEI FRANCESI

Ma tra primati e progetti, com’è stata l’accoglienza dei francesi nei confronti dei due imprenditori italiani in Champagne? Anche in questo caso, le risposte sono divergenti. «Siamo lì da 22 e ormai – chiosa Enrico Baldin – non è stato semplice! Da italiano “intruso” sono riuscito comunque a costruire un rapporto stupendo con il mio vigneron e i miei cantinieri».

«Il rapporto con i vigneron è splendido – risponde invece Alberto Massucco – perché fra persone “del fare”, con la passione in comune, l’intesa è facile. Mi guardano con curiosità e simpatia. Recentemente è capitato un fatto curioso e sorprendente».

«A cena nel miglior ristorante di Reims – racconta – lo chef sommelier, servendo l’aperitivo, mi domanda: “Quando sarà pronto il tuo Champagne? Lo attendo, mi interessa averlo”. Ecco, un fatto così ti gratifica e ti fa capire che sei sulla buona strada». Insomma, è proprio il caso di dirlo (scriverlo) in francese, per non scontentare nessuno: l’avenir nous le dira.

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Ci avete mai pensato? L’Europa che ha paura del vino è quella di film e serie tv

EDITORIALE – Se il problema fosse quello del serial killer cannibale che ama il Chianti, aka Hannibal Lecter de Il Silenzio degli innocenti, saremmo a cavallo. L’Europa che ha paura del vino al punto da paragonarlo alle sigarette nella lotta al cancro, mescolando Bacco col tabacco, è piuttosto quella dei film e delle serie tv Netflix che spopolano ormai da anni anche in Italia.

Quella che riflette frustrazioni e contraddizioni di una classe politica evidentemente incapace di promuovere la cultura dell’alcol. Ricorrendo – per ora solo nelle presunte intenzioni – ad un anacronistico ritorno al proibizionismo.

Ci avete mai pensato? Nella filmografia europea ed internazionale, le scene in cui il vino – e gli alcolici in generale – sono raffigurati come il piacevole e misurato accompagnamento a un momento di gioia e “condivisione all’italiana” si contano sulle dita di una (mezza) mano.

Quante sono, invece, le rappresentazioni del manager depresso, della madre e della moglie insoddisfatta, del detective al cospetto di un caso irrisolto, oppure dell’adolescente ribelle che abusa dell’alcol, ingoiandolo a sorsate larghe? Tante. Troppe. Quasi tutte.

È di questa iconoclastia del nettare di Bacco ed affini che si nutre l’Europa della politica ubriaca (lei sì). La stessa capace di mettere nero su bianco, come ha fatto a inizio dicembre 2021 la Commissione Beca, The Special Committee on Beating Cancer, che «non esiste un livello sicuro di consumo di alcol».

Per Bruxelles siamo tutti alcolizzati travestiti da wine expert e sommelier: una cazzata roboante. Bei tempi quelli in cui il problema era un piatto di fegato e fave «con un buon Chianti». Fhfhfhfhfhfhfhfhfh.

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I vini di Cipro secondo Vouni Panayia: vitigni autoctoni e viticoltura di montagna

EDITORIALE – Seguo l’evolversi della viticoltura e dei vini di Cipro ormai da diversi anni. Una terra lontana dalle rotte più battute dai winelovers e dai professionisti internazionali del settore. Quando si pensa al vino del Mediterraneo e si guarda a est, il primo (per alcuni unico) pensiero è la Grecia. I suoi splendidi Assyrtiko sono ormai noti in tutto il mondo, così come gli aromatizzati Retsina, souvenir immancabile per i turisti.

Ancora più a oriente, prima di incrociare altre due terre del vino sempre più alla ribalta, Libano e Israele, si trova Cipro con i suoi attuali 7.641 ettari vitati. Un’isola in cui si produce vino dalla notte dei tempi. Lo dimostra l’antica tradizione del Commandaria, vino ambrato dolce le cui tracce risalgono all’800 a.C.

Oggi, se c’è una cantina in grado di raccontare da sola le punte di qualità ormai raggiunte dai vini ciprioti, quella è Vouni Panayia. Una realtà famigliare che ha trovato casa nel villaggio montano di Panayia, nella regione di Pafos. Il primo areale vinicolo di Cipro che si incontra solcando il mare Mediterraneo, da ovest verso est.

Dopo gli studi in Viticoltura ed Enologia all’Università di Firenze, Yiannis Kyriakidis e i fratelli Peter e Pavlos sono riusciti a lanciare definitivamente l’azienda di famiglia, fondata nel 1987 dal visionario Andreas Kyriakidis. Oggi la cantina produce circa 200 mila bottiglie e sembra aver raggiunto l’equilibrio perfetto tra quantità e qualità.

Venticinque gli ettari a disposizione di Vouni Panayia, circondati da una pineta, a mille metri d’altitudine. «Un terroir unico», come piace definirlo alla famiglia Kyriakidis. Siamo ai piedi della catena montuosa del Troodos, dominata dalla vetta del Monte Olimpo (1.952 metri). Tra un’increspatura e l’altra s’incontrano vigne vecchie e nuovi impianti, su cui sembrano vegliare i monasteri bizantini e le famose “chiese dipinte”, patrimonio Unesco.

I vigneti piantati da Andreas Kyriakides con le varietà bianche autoctone a bacca bianca Xynisteri, Promara, Spourtiko e Morokanela e a bacca rossa Maratheftiko, Yiannoudi e Ntopio Mavro, sono il tesoro nelle mani della terza generazione. Le radici, rimaste indenni alla fillossera, sono custodite dal presente e dal futuro dell’azienda, che può contare anche su piccoli appezzamenti di altre rare varietà autoctone come Morokanella, Aspri Fraoula (Vasilissa), Michailias, Maroucho, Bastartiko e Ofthalmo.

Dalla conservazione e valorizzazione del patrimonio di vecchie vigne, il passo è breve verso lavorazioni meticolose in cantina. Tra le mura di Vouni Panayia, la parola d’ordine è una sola: microvinificazione. «L’obiettivo – spiega Yiannis Kyriakidis – è comprendere a fondo il carattere e il potenziale qualitativo delle uve autoctone di Cipro, attraverso l’osservazione delle loro prestazioni in diverse pratiche viticolo-enologiche».

Un approccio che ha dato vita a 7 vini in tiratura limitata, applicato anche al resto della produzione, secondo canoni di “precisione enologica” assimilabili a quelli delle migliori cooperative altoatesine. Il tutto anche grazie a straordinari investimenti tecnologici in macchinari – tutti di fabbricazione italiana – nonché in legni francesi di prima qualità.

I VINI DI CIPRO CON GLI OCCHI DI VOUNI PANAYIA
Pafos Pgi Alina Xynisteri 2020 Franc de Pied (12,5% – Medium dry)

Alla vista si presenta di un giallo paglierino intenso. Ampio e intenso anche il naso, che alterna note floreali, agrumate e fruttate a polpa gialla matura. Sfiora l’aromaticità al palato, ben riequilibrata da una mineralità pietrosa, gessosa, calcarea, che tende il sorso e rimanda alla matrice del terreno a disposizione di Vouni Panayia.

Anche il finale, di un asciutto stuzzicato da morbide tinte esotiche e mielate, rimarca il minerale. E sorprende, con note di salvia e rosmarino, tipicamente mediterranee. Vino godurioso, di estrema beva. Alina “Franc de Pied”, ovvero “A piede franco”, è prodotto da piante di 70 anni di Xynisteri, il vitigno a bacca bianca più piantato dell’isola di Cipro.

Ha grappoli di medie dimensioni, poco compatti e acini di medie dimensioni. Si è adattato molto bene ai terreni ricchi di calcare e alle condizioni climatiche mediterranee. Una varietà con grande capacità di resistenza all’oidio, usata nella produzione del Commandaria e del tradizionale distillato Zivania.

Pafos Pgi Spourtiko 2020 Franc de Pied (12%)

Si presenta alla vista di un giallo paglierino. Il naso è ampio, floreale e agrumato. Nette le note di frutta tropicale matura, su sfondo minerale e di erbe della macchia mediterranea. In bocca la vena minerale è ancora più marcata. Fa da rigida spina dorsale al vino, su cui prova a distendersi della morbida frutta matura.

Ricordi di cera d’api in centro bocca, prima di una chiusura ammandorlata. Beva agile per un vino tipico, semplice ma di un certo carattere. Uno specchio sincero dalla varietà Spourtiko, che significa ”scoppio” in riferimento alle sue bacche, la cui fragile buccia si spacca facilmente.

Si tratta di una varietà con un breve ciclo vegetativo. Il grappolo è di medie dimensioni, poco compatto. Gli acini piuttosto grossi, che a piena maturazione si colorano d’un giallo dorato. Lo Spourtiko gioca un ruolo chiave nel vigneto di Vouni Panayia, in quanto consente l’impollinazione del Maratheftiko.

Pafos Pgi Plakota Mavro & Maratheftiko 2019 Franc de Pied (13,5% vol)

Alla vista si rivela d’un rosso rubino. Altro naso ampio, generoso, questa volta succoso. Note di fragola e di lampone, di ribes e di ciliegia matura, scivolano precisi su ricordi di macchia mediterranea. In bocca si conferma un vino giocato principalmente sulla generosità delle note fruttate, a polpa rossa. Tannini molto setosi in ingresso e poco più ruggenti in chiusura, contribuendo così a riequilibrare un sorso materico, chiamando quello successivo. Buona persistenza, su note che virano sulla ciliegia amara.

Altro vino ottenuto da vigne a piede franco, che affondano le radici in terreni di matrice calcarea. Mavro e Maratheftiko sono le due varietà utilizzate da Vouni Panayia per questa etichetta. Il Mavro è la varietà di uva rossa più piantata a Cipro. Ha grappoli molto grandi e compatti. L’acino stesso è di dimensioni notevoli, con una buccia spessa.

Un vitigno che, secondo le sperimentazioni della famiglia Kyriakides, sembra preferire terreni freschi e profondi. È una delle varietà utilizzate per la produzione del vino dolce Commandaria, nonché del distillato Zivania. L’altra varietà a bacca rossa con cui si ottiene Plakota è il Maratheftiko. Ha grappoli compatti, di medie dimensioni, con bacche di piccole-medie dimensioni. Nonostante i problemi di impollinazione, è considerato la migliore varietà rossa cipriota. I vini prodotti in purezza con questa varietà possono risultare molto longevi.

Barba Yiannis Maratheftiko 2017 (13,5%)

Barba Yiannis è uno dei capolavori di Vouni Panayia. Uno di quei vini che, da soli, valgono la visita. Rosso rubino profondo, dall’unghia violacea. Primo naso che conferma le aspettative create dalla vista. Quelle, cioè, di un vino giovane e di prospettiva, all’inizio della curva evolutiva. Alle note tipiche del vitigno – frutta rossa e macchia mediterranea – rispondono terziari che chiariscono la tecnica di vinificazione.

Il sorso si snoda sul medesimo fil-rouge. Ingresso fruttato, preciso, succoso; centro bocca in cui fanno capolino le note conferite dall’affinamento in legno, oltre a un tannino elegantissimo; gustativa complessa, fruttata e fresca, con chiusura su note speziate, una suadente di vaniglia, cioccolato amaro, tabacco e venature saline.

L’evoluzione nel calice, data l’ossigenazione, è continua e disegna sempre più i contorni di un nettare che va atteso, per essere goduto appieno. Vino con la strada spianata davanti, verso il futuro. Già godibilissimo e gastronomico. Non a caso Barba Yiannis è prodotto con le nobili uve Maratheftiko e può essere conservato senza timore per anni in cantina.

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Quando metteremo Rovolon sulla mappa dei grandi vini rossi italiani?

EDITORIALE – C’è un territorio del Veneto ancora fuori dalla mappa dei grandi vini rossi italiani. Sono i Colli Euganei e, in particolare, la sottozona di Rovolon. Siamo nella parte settentrionale della denominazione, nell’area più fresca del Parco Regionale. La macchia mediterranea, tipica della zona sud, lascia spazio a varietà che amano climi più temperati, come il castagno. E se anche da queste parti la vera “star” è il Fior d’arancio Docg, dal classico spumante alle versioni passito e secco, sono i vitigni bordolesi a sorprende con le loro note del tutto uniche.

Se ne parla poco. Troppo poco. Ma siamo al cospetto di un vero e proprio unicum. Gli Euganei sono l’unica zona delle Venezie in cui riemergono abbondanti lave acide ricche di silice, molto viscose. Terreni con alte percentuali di riolite, trachite e latite non sono rari da queste parti, così come il basalto.

Gli antichi strati del fondo marino sono riemersi a macchia d’olio, circa 35 milioni di anni fa. Movimenti di Madre Natura che hanno modificato per sempre il mare che copriva l’intera Pianura padana. Una “gioia” per il carattere dei bordolesi, di casa sui Colli Euganei dall’Ottocento.

ROVOLON E I COLLI EUGANEI: SVOLTA CON LE NUOVE GENERAZIONI

Lo ha compreso bene Martino Benato, appassionato vignaiolo che da anni sperimenta in vigna e in cantina, per trarre il meglio dai propri Cabernet Franc, Merlot e Carmenere. Quelli della cantina Vigne al Colle sono vini rossi di territorio, di annata, di cru. Di cuore e di savoir faire. Capaci come pochi di riflettere nel calice non solo le caratteristiche varietali e del microclima di Rovolon, ma anche la vena minerale-vulcanica che caratterizza i Colli Euganei.

Benato è l’anello di raccordo tra le vecchie e le nuove generazioni di produttori. La consacrazione di Rovolon come terra di grandi vini rossi italiani passa da lui, tanto quanto dall’importante ricambio generazionale in corso in quest’areale di 2.300 ettari (solo mille rivendicati a Doc), incastonato tra le province di Padova e Vicenza.

Con il ritorno a casa del figliol prodigo, di fatto, un’altra azienda di Rovolon è ormai pronta a spiccare il volo, prendendo a sua volta per mano i Colli Euganei. È Reassi, guidata da Diego Bonato. Il classe 1982 ha raccolto l’eredità dei genitori, che vendevano al 95% vino sfuso, trasformando la cantina e i suoi 6 ettari in una gemma.

DIEGO BONATO: «VARIABILITÀ DEI SUOLI PARI SOLO A MONTALCINO»

Dopo aver girato il mondo (Australia, Francia, Nuova Zelanda e Toscana, da Tolaini), il giovane winemaker è tornato alle radici. «Sono partito con l’idea di tornare, per dare una mano all’azienda di famiglia. Ma più giravo, più mi rendevo conto dell’unicità di Rovolon, dei Colli Euganei e delle loro potenzialità ancora inespresse», dice a WineMag.it.

Mentre lavoravo in Toscana, in sella alla mia biciletta, ho visitato ogni cantina di Bolgheri, porta a porta. Secondo la mia esperienza, la variabilità dei suoli e dei microclimi dei Colli Euganei è paragonabile solo a quella di Montalcino. Neppure sull’Etna, altra zona vulcanica che ho visitato di recente, c’è una tale eterogeneità».

Una consapevolezza dolce e allo stesso tempo amara. «Quello che mi chiedo – continua Diego Bonato – è quando cominceremo, noi produttori euganei, a renderci conto delle nostre potenzialità e a promuovere tutti assieme una zona in cui un Merlot piantato a Rovolon è completamente diverso e riconoscibile rispetto a uno piantato a Sud, così come a Est e a Ovest dei Colli?».

LA CHANCE DI ROVOLON

Gli fa eco Martino Benato. «Per molti anni, i degustatori nazionali si sono concentrati sulla zona sud dei Colli euganei, a mio avviso perdendo la vera essenza della nostra denominazione, ovvero la sua “biodiversità”. Dove possiamo arrivare oggi a Rovolon? Rispondendo a questa domanda potrei esagerare, o al contrario minimizzare».

So solo che le sorprese saranno grandi, perché un clima come il nostro, al centro della Pianura padana, su suolo vulcanico focalizzato sui bordolesi, è qualcosa di unico: non ce n’è un altro. Le nuove generazioni hanno capito che non si può vivere di rendita, con i vini d’annata. La controtendenza è già iniziata. E fare sacrifici premia. Non subito, ma premia».

Ai grandi vini poderosi, grassi e ricchi di terziari sin troppo caratterizzanti, tipici della zona sud dei Colli Euganei, si contrappone l’eleganza, la vena erbacea delicata e balsamica, la spezia fine e la mineralità dei bordolesi di Rovolon. «Chiacchierando con alcuni amici al Consorzio – rivela Benato – concordavamo sul fatto che questa sottozona è un po’ la Borgogna dei Colli Euganei, capace cioè di mostrare l’anima fine della denominazione, oltre alla potenza».

LE VERTICALI DI VIGNE AL COLLE

Le verticali dei rossi di Vigne al Colle parlano chiaro. Dal “vino d’entrata”, il Colli Euganei Doc Rosso, base Merlot (60%) con Cabernet Franc e Carmenere a dividersi equamente il resto dell’uvaggio (40%), si evidenziano in maniera netta i profili delle annate 2016, 2017, 2018 e 2020. La crescita del livello nella sperimentazione è evidente, con Martino Benato che sta dando sempre più “del tu” a Rovolon. E con i vigneti che, “invecchiando”, sono in grado di regalare fotografie sempre più nitide del terroir euganeo.

Nel calice, l’annata 2016 vira su profili d’arancia sanguinella, senza rivelare l’attesa complessità. La 2017 è timida, chiusa, di primo acchito. Si apre piano, tendendosi come un arco verso un futuro luminoso, spinta da un naso molto espressivo e da un palato che sa di Rovolon.

Duemiladiciotto dal frutto denso, su cui danza un tannino fine, in un quadro balsamico, mentolato, reso ancor più tipico da elegantissime venature minerali ed erbacee. Un vino “bambino”, all’inizio del suo percorso. Esattamente come il Colli Euganei Doc Rosso 2020, con terziari di cioccolato bianco e una gran matericità, in termini di fruttato e peso palatale.

VARIETÀ BORDOLESI SUGLI SCUDI NEI COLLI EUGANEI

Le grandi emozioni di casa Vigne al Colle arrivano con il Merlot Poggio alle Setole, che si dimostra in grande spolvero in occasione della verticale. Grafite, balsamicità ed eleganza per la 2016. Spezia scura, liquirizia nera, ciliegia e gran freschezza per la giovanissima vendemmia 2017.

Da applausi una 2019 in cui Benato ha portato sì in cantina il 50% delle uve (quelle risparmiate dalla grandine) ma in stato di salute eccezionale. Il naso è un concerto d’origano e macchia mediterranea, frutto fresco e note dettate dall’affinamento in legno, che al palato lasciano il palco a croccantezza, finezza e mineralità.

Un fuoriclasse, poi, il Colli Euganei Doc Rosso Riserva 2018 (35% Cabernet Franc, 35% Carmenere, 30% Merlot) già premiato dalla Guida Top 100 Migliori vini italiani 2022 di WineMag.it. A riprova che la denominazione del Veneto si stia muovendo nella direzione giusta, anche le due new-entry di casa Vigne al Colle. Un bianco e un rosso, “Crea Bianca” (Pinot Bianco e Incrocio Manzoni, fifty-fifty) e “Crea Rossa” (Refosco, Merlot e Cabernet Franc), che dietro alla “facciata” dell’agilità di beva celano il carattere vero e unico della zona.

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Vranec o Vranac: sfide e prospettive per il vino rosso simbolo dei Balcani

EDITORIALE – Che lo si chiami Vranec o Vranac è lo stesso. Nei Balcani si identifica principalmente con questi due nomi il vitigno in grado di regalare vini rossi potenti e corposi, freschi, tannici e longevi. L’omonimo vitigno è originario del Montenegro, ma è diffuso anche in Macedonia e Kosovo. Proprio in questi tre Paesi si è svolto il Vranec / Vranac World Day 2021.

Il viaggio e le degustazioni, riservate a critici e stampa internazionale dal 30 settembre al 5 ottobre 2021 (giornata ufficiale della terza edizione organizzata da Wines of Macedonia, celebrata a Podgorica con l’intervento delle istituzioni nazionali e della Master of Wine Caroline Gilby), hanno messo in luce lo “stato dei lavori” sulla varietà. Sia dal punto di vista agronomico che enologico.

L’obiettivo dei produttori è “infilare” il vitigno-vino Vranec / Vranac in valigia, varcando i confini dei Balcani – dove è già molto conosciuto e consumato – per raggiungere ristoranti e tavole di intenditori e consumatori internazionali.

Un percorso agli esordi per il vitigno frutto dell’incrocio naturale o della spontanea mutazione di Kratošija (Кратошија, l’italiano Primitivo) e Duljenga. Una storia ancora tutta da scrivere, nel triangolo compreso tra Skopje, Podgorica e Pristina.

L’IDENTITÀ DEI VINI VRANEC / VRANAC

La lettura locale più schietta è quella di Radosh Vukichevich (nella foto), Ceo di Tikveŝ, la più grande cantina della Macedonia, fresca d’elezione ad “Ambasciatrice del vitigno nel mondo”, assieme all’altro colosso Plantaže, numero uno in termini di volumi in Montenegro (suo il vigneto a corpo unico più vasto d’Europa, 2.300 ettari).

Il Vranec è il vitigno simbolo dei Balcani – spiega bene Vukichevich – importante per il suo potenziale enologico ma anche per l’economia dei nostri Paesi, dal momento che consente di produrre vini di ogni fascia di prezzo, in base all’interpretazione delle cantine. Un vino che, tuttavia, è ancora in fase di profilazione».

«Tutti conosciamo per esempio quale sia il profilo dei vini prodotti con vitigni come Cabernet Sauvignon o Merlot. La grande sfida del Vranec – continua il Ceo di Tikveŝ – è renderlo sempre più riconoscibile quale varietà locale dei Balcani, attraverso alti standard produttivi. Un obiettivo da centrare con il contenimento delle rese, il bando alla standardizzazione ed investimenti in sostenibilità e biologico».

A capo del management di Tikveŝ e con il via libera di un presidente visionario come Svetozar Janevski, Radosh Vukichevich sta traghettando la cantina verso un futuro votato alla qualità, più che alla quantità delle bottiglie prodotte (circa 15 milioni all’anno).

Prova tangibile è l’intera linea Horeca della cooperativa e dei suoi Chateaux & Domaines, espressione dei tre microclimi di Barovo, Lepovo e Bela Voda. Vini che rendono onore alla varietà principe dei Balcani, il Vranec, così come ad autentiche interpretazioni dei vitigni internazionali (da segnalare, in particolare, quella del Cabernet Sauvignon e dello Chardonnay).

La consulenza dell’enologo francese Philippe Cambie aiuta. Così come la presenza in pianta stabile del suo “protetto”, Marko Stojakovic, nato in Serbia ma formatosi a Bordeaux e Montpellier prima dell’approdo a Tikveŝ a soli 27 anni, nel 2010.

IL VRANEC IN MACEDONIA

Dagli assaggi al Vranec / Vranac World Day 2021 emergono chiaramente gli approcci dei tre Paesi al loro vino rosso simbolo. Le idee più chiare in Macedonia. Al di là dei volumi, il Vranec macedone garantisce standard qualitativi più omogenei.

Merito degli ingenti investimenti di diverse cantine in tecnologia, nonché dell’arrivo di capitali ed expertise dall’estero, con professionisti internazionali che hanno trovato un habitat ideale alla corte di Skopje.

L’interpretazione della varietà è schietta e sincera. Spazia dai vini larghi, corpulenti e market-oriented (su tutti quelli di Bovin Winery e Chateau Kamnik), ad espressioni più fresche ed eleganti, come quelle di Stobi Winery e Puklavec Family Wines. Due cantine che sembrano parlare la stessa lingua, potendo contare – tra l’altro – su due winemaker fuoriclasse.

Stobi, a Gradsko, nel cuore della Macedonia, ha trovato la quadra perfetta nella “lettura” del Vranec del giovane giramondo Andon Krstevski, ossessionato dall’esaltazione del varietale e da un uso garbato (intelligentissimo), dei legni.

Una trentina di chilometri più a sud, a Timjaniku, gli ambiziosi investimenti della famiglia slovena Puklavec consentono all’enologo Dane Jovanov di valorizzare microclima e terroir macedone.

Lo stesso approccio produttivo della “casa madre”, situata nella regione di Podravjedel (Ljutomer-Ormož). Nella regione di Radovish, molto convincente il Vranec di Dalvina, da splendide piante di oltre 50 anni.

IL VRANAC DEL KOSOVO

Spostandosi in Kosovo, si cambia completamente registro. Il viaggio organizzato in occasione del Vranec / Vranac World Day 2021 ha consentito di toccare con mano le differenze tra l’interpretazione kosovara del Vranac e quella macedone e montenegrina – per certi versi più vicine tra loro – ancor prima di mettere il naso nel calice.

A parlare, di fatto, è il paesaggio e la sua morfologia. Terre rosse, terre bianche e terre nere si alternano in maniera vivace, dando vita a una sorta di linea immaginaria che avvicina il Kosovo alla Puglia del Primitivo di Manduria.

È qui, al netto delle esigue dimensioni del “vigneto” del Paese (3.500 ettari totali), che il Vranac pare avere una «profilazione» più omogenea. Tutti i vini degustati al Centro della Vite e del Vino di Rahovec (Orahovac), nel Distretto di Prizren, presentano un colore più scarico e un rapporto frutto-acidità lontano da molti eccessi macedoni.

Un paio di vini non perfettamente “puliti” invitano a una maggiore attenzione nelle pratiche di cantina. Ma il calice di Vranac di realtà come Labi Wine, cantina artigianale guidata dall’enologo Labinot Shulina, si staccano dalla media tanto da poter essere considerati simboli per l’intero areale dei Balcani (sopra, una foto del suo vigneto innevato).

Ottime anche le prove di Stonecastle Wine e Rahvera, cantine che consentono di eleggere la cittadina di Rahovec – 65 chilometri a sudest della capitale Pristina, non lontano dal confine con l’Albania – a vero cuore pulsante del Vranac kosovaro.

A convincere, oltre al colore che “spaventa” un po’ meno il consumatore moderno rispetto a quello del «black stallion» macedone, è l’integrazione e corretta gestione (anche grazie alle caratteristiche pedoclimatiche) degli alti livelli di acidità, tipici della varietà.

Il tutto, in accompagnamento alla golosità generalizzata del frutto rosso e nero (si spazia dalla ciliegia alla mora di rovo, come in Macedonia del Nord), e a una spezia che dona carattere ed elettricità al sorso. Per il Kosovo, dunque, ampi margini di miglioramento e note più che mai incoraggianti.

Crescita e consacrazione del movimento del vino kosovaro non possono tuttavia prescindere da un approfondito studio dei terreni (bianchi, rossi, scuri) che possono regalare vini tanto diversi quanto tipici. Più luci che ombre, insomma, nella piccola repubblica dei Balcani.

IL VRANAC IN MONTENEGRO

Si cambia Paese ma resta la “a”, al posto della “e” di Vranec. Anche in Montenegro, il rosso simbolo dei Balcani si chiama Vranac. È qui che succede quello che non t’aspetti. Dopo le prove più che mai positive dei colossi macedoni (grandi cantine in grado di produrre annualmente ingenti volumi di vino) a scivolare è la cantina che più di tutti dovrebbe trainare la scoperta del vitigno: Plantaže.

Tutti i vini degustati a Šipčanik, nelle maestose sale ricavate da un ex aeroporto militare (7 mila metri quadrati complessivi, profondità media di oltre 30 metri, tunnel per l’affinamento dei vini lungo 356 metri e alto 7) paiono usciti da un film in bianco e nero. Di un’altra epoca.

Piacciono tantissimo alle guide internazionali, eppure non emozionano e non convincono. Tantomeno nel rapporto qualità prezzo, squilibrato su un marketing utile forse a giustificare costi di gestione e interessi degli azionisti (tra cui figura ancora lo stesso Stato del Montenegro). In definitiva, vini stanchi. Vini in divisa.

La vera sorpresa, in Montenegro, sono i giovani. Gente come Nikola Marković (nella foto sotto) che con la famiglia sta realizzando mattone dopo mattone una cantina (con ristorante e mini hotel) strappata alla natura incontaminata, a Cetinje. Appena due ettari per 10 mila bottiglie annue.

Se la migliore espressione del Vranac è ancora da trovare – il desiderio di produrre una versione meno opulenta finisce per dar vita a un rosso troppo scarno, che può essere considerato un punto di partenza ma non un punto di arrivo, tantomeno un’icona stilistica alternativa nell’interpretazione della varietà – colpisce l’altro rosso di Vinarija Marković.

Si tratta di un vino ottenuto dalla Tamjanika nera, varietà originaria della Serbia. In “carta” anche un vino ottenuto da Tamjanika bianca, altrettanto interessante. «Produrre vino qui è una questione d’amore più che di business», riferisce Nikola Marković riequilibrando inconsapevolmente il braccio della bilancia con i vicini di casa di Lipovac Winery (nella foto a inizio paragrafo).

Questo il nome scelto dal magnate russo per una boutique winery votata alla spettacolarizzazione del concetto di “vino”. Il sipario si apre a centinaia di metri di distanza dall’edificio, su un costone circondato da terrazze artificiali di vigneti. Tutt’attorno, un anfiteatro di montagne, in cui la roccia s’alterna a un verde che profuma di Mediterraneo.

Siamo a Građani (Грађани), in uno di quei luoghi in cui il viaggio – arduo – vale la meta. Lo “show” continua in cantina, dove il direttore Pavle Micunovic mostra fiero il proprio arsenale di anfore di terracotta d’Impruneta e qvevri (kwevri / kvevri / quevri) tipiche della Georgia (ქვევრი). C’è concretezza, oltre allo spettacolo, nel calice.

In primis grazie a una delle rare espressioni “in rosa” del Vranac (una caramellina, nonché il classico rosato “glou glou” che cattura sin dal colore, corallo luminoso). Poi grazie al Vranac in anfora e qvevri, capace di colpire per stile, gioventù e prospettiva (non solo di mercato).

UN BRAND COLLETTIVO PER IL VRANEC / VRANAC DEI BALCANI

La domanda è centrale, specie nel contesto della terza edizione del Vranec / Vranac World Day 2021, quella della svolta. La strada segnata da diversi produttori è quella corretta, anche se – come dice bene Radosh Vukichevich – i vini necessitano di ulteriore profilazione. E poi?

In un mondo sempre più globalizzato, in cui esperienze ed expertise sono intercambiabili e replicabili in diversi angoli del pianeta, occorre forse andare oltre (anche) al profilo della varietà. Per esplorare le potenzialità della sua terra d’origine: i Balcani. Un contesto uniforme.

Già, perché se la varietà (il vitigno) è replicabile ovunque lo consentano le condizioni climatiche, l’accezione “balcanica” del Vranec / Vranac rappresenta un unicum. Anzi, l’unicum su cui puntare. Ben oltre il “banale” nome (replicabile) di un vitigno.

E se dopo essersi “(ri)unite” per la comunicazione del Vranec / Vranac, i tre paesi Macedonia, Montrenegro e Kosovo lavorassero a un “brand collettivo” sotto cui riunire e identificare i vini prodotti con questa varietà, secondo standard comuni?

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La Terra Trema 2021 salta per “colpa” di tamponi, vaccini, QRcode e Green pass

EDITORIALE – La Terra Trema 2021 «non avrà luogo». L’annuncio arriva dagli organizzatori ed è motivato da un lungo post pubblicato sul sito web della “Fiera feroce di vini, cibi e cultura materiale“. Tra le righe sembra rivivere il dramma di quella famiglia di pescatori di Aci Trezza, costretta ad arrendersi al destino dopo aver tentato di emanciparsi dalla povertà, mettendosi in proprio (leggi I Malavoglia di Giovanni Verga o vedi l’omonimo film, firmato Luchino Visconti). Là, una tempesta in mare. Al Leoncavallo di Milano le misure anti Covid-19 del governo, a rompere le uova nel paniere.

Tamponi, vaccini, QRcode e Green pass, per citarne solo alcuni degli elementi ostativi, oggetto delle critiche di La Terra Trema. Gente che non accetta di vestire i panni del “controllore” (termine troppo vicino ad altri ancora più invisi da queste parti, come “polizia“). Neppure se si tratta di garantire la pubblica sicurezza e salute. Meglio, allora, far saltare tutto. E mettere da parte, per una volta, pure l’antagonismo.

«Riteniamo prioritario fermarci, alimentando confronto, relazioni e pensiero critico. Riteniamo necessario sottrarci. Non ci avventureremo in percorsi obbliganti imbastiti dalle istituzioni, dai governi, dalla politica e dalla canea mediatica, in special modo da “social” e da “web”», si legge… online. «Non ci avventureremo nella torsione identitaria della nostra storia e di noi stessi», continua il post de La Terra Trema.

IL POST DEGLI ORGANIZZATORI

Non costruiremo un “evento” secondo le normative anti Covid, non chiederemo il Green pass, il tampone negativo, una o due dosi di vaccino. Non controlleremo che siano indossate adeguatamente le mascherine, non misureremo la temperatura, non chiederemo di effettuare prenotazioni.

Non contingenteremo gli ingressi, non regoleremo flussi, non cronometreremo entrate e uscite, non redarguiremo sul mantenimento della debita distanza. Non forniremo la possibilità di tamponi gratuiti o a prezzi calmierati. Non scaricheremo l’app per i nostri iPhone per inquadrare QRcode»

La Terra Trema 2021, continuano gli organizzatori, «non ha motivo di accadere a queste condizioni». «Non è necessaria, non è un supermercato, non vuole persone in fila, in attesa di degustare, scegliere, consumare, pagare. Di torsioni identitarie ne vediamo accadere già troppe, qui non vogliamo subirne e non vogliamo attuarne», continua il post de La Terra Trema.

«Si delega pericolosamente l’onere del controllo, della cosiddetta pubblica sicurezza – recita ancora il comunicato – si mette a portata di mano, nelle tasche di tutti, nella videocamera di un qualunque smartphone. Non troviamo condizioni per mettere in atto una manifestazione come La Terra Trema nei modi diversi da quelli in cui questa fiera è avvenuta per anni».

Poi, l’arrivederci all’edizione 2022. «Rinviamo a tempi più felici, per tutti e se ci saranno i presupposti. Presupposti sociali e politici prima che normativi. Non è nella spunta verde della scansione di un QR Code l’indice di salubrità di un luogo, non è l’ammasso controllato, verificato tramite un’applicazione digitale che salvaguardia la salute collettiva. Ne abbiamo preso atto».

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La brutta figura dell’Italia tra Prosecco e Prosek croato

EDITORIALE – La pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale Ue della domanda di registrazione della menzione tradizionale Prosek (Prošek) avanzata dalle autorità croate è al centro di una feroce polemica da parte dell’Italia, che vede così minacciato l’universo Prosecco.

Secondo Riccardo Ricci Curbastro, presidente di Federdoc, si tratta di «un segnale di marcata debolezza da parte della Ue nella strategia di difesa dell’intero sistema delle Do e Ig europee».

Il numero uno della Confederazione Nazionale dei Consorzi volontari per la Tutela delle Denominazioni dei Vini italiani aggiunge che si tratta di «una sconsiderata accelerazione della confusione presso i consumatori».

«Su questo secondo aspetto poi – continua Ricci Curbastro – credo che occorra insistere, dato che è proprio il consumatore che fa la differenza nel successo di un prodotto. E sappiamo bene come la pronuncia di Prosecco e Prosek siano talmente simili da poter indurre all’errore».

Non basta leggere le etichette, notare le differenze di luogo di produzione e via dicendo. Sappiamo tutti benissimo come una parola assonante diventi identitaria nell’immaginario collettivo, con la rapidità della luce. Tutto ciò non solo a discapito di chi acquisterà erroneamente un Prosek invece del Prosecco, ma anche di un intero territorio ben definito».

Premettendo che le autorità italiane sembrano (voler) generalmente ignorare che il Prosek sia un passito e non un vino spumante, vien da dire che se c’è qualcuno che sta mostrando «marcata debolezza», quella è proprio l’Italia.

DEBOLI IN EUROPA, “DISTRATTI” IN ITALIA?

Alzi la mano, per esempio, chi ha mai visto sullo stesso scaffale Prosecco e Prosek? Si faccia avanti, poi, chi ha mai sentito parlare del vino passito croato Prosek a livello internazionale, prima di questa polemica innescata dalle autorità italiane.

Uno sconosciuto di cui tutti però hanno paura, come confermano le parole (sempre “ad effetto” più che “efficaci”) del viceministro alle Politiche agricole Gian Marco Centinaio a Repubblica: «Se ho mai assaggiato un Prosek croato? Mai sentito prima e piuttoso bevo una gazzosa!». Bingo, ma più su Twitter che a Bruxelles.

Per non parlare dei numeri dei due vini: impari. Le tre denominazioni di origine del Prosecco (Doc, Superiore Conegliano Valdobbiadene Docg e Asolo Docg) si assestano sui 620 milioni di bottiglie. Il Prosek croato su un totale di 80 milioni annui.

Del tutto diversa anche la base ampelografica. L’uvaggio del vino dolce croato prevede Bogdanuša, Maraština, Vugava e Plavac Mali. Nulla a che fare con la Glera. Tantomeno col Pinot nero, bisognerebbe aggiungere.

Da giganti quali siamo, sembriamo pronti alla guerra alle formiche, a livello internazionale. Mentre in casa, le autorità italiane paiono quantomeno “distratte”, o assopite. In Sicilia, ormai da diversi anni, Cantine Patria produce e commercializza uno spumante Martinotti chiamato Pros.it, nell’ambito della “Linea delle Grazie“.

Accanto al classico Extra Dry da uve Catarratto – si è aggiunto da qualche tempo l’immancabile Rosé, base Nerello Mascalese e Petit Verdot. Per l’Italia pronta alle barricate contro un passito della Dalmazia, evidentemente, il nome “Pros.it” non ricorda affatto il “Prosecco”.

COLDIRETTI ALLARMATA DAL PROSEK

«È necessario preparare subito l’opposizione da presentare non appena avvenuta la pubblicazione per fermare una decisione scandalosa che colpisce il vino italiano più venduto nel mondo», tuona il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini.

«La decisione della Commissione Europea – continua – cade a pochi giorni dalla storica sentenza della Corte di Giustizia Ue che si è pronunciata chiaramente contro l’utilizzo di termini storpiati o grafiche per richiamare tipicità protette dalle norme Ue».

«Per questo è importante – conclude Prandini – l’impegno del Ministro delle Politiche Agricole Stefano Patuanelli, del Governatore Luca Zaia e degli europarlamentari italiani ad intervenire per far respingere la domanda, anche appellandosi ai principi di tutela espressi dalla Corte di Giustizia in casi analoghi».

UNIONE ITALIANA VINI: DUE MESI PER SCONGIURARE IL PERICOLO

Cannoni puntati sulla Croazia (e su Bruxelles) anche in casa Unione italiana vini. «Il tempo per opporsi previsto dalla procedura Ue – sottolinea Uiv in una nota – deve essere utilizzato con ogni sforzo contro al riconoscimento della menzione croata Prosek, annunciato dalla Commissione europea».

In questi 2 mesi di tempo per opporsi, Uiv continuerà a sostenere il Mipaaf e gli organismi di tutela del nostro Prosecco per difendere il prodotto con tutte le argomentazioni giuridiche e politiche di un caso che rischia di rivelarsi un pericoloso precedente, soprattutto per la protezione in alcuni mercati internazionali, dove il nome della denominazione è utilizzato da altri produttori, indebolendo l’immagine del prodotto italiano».

Il Prosecco, ricorda ancora Unione italiana vini, «sostiene l’organizzazione italiana delle imprese che rappresenta l’85% dell’export di vino del Belpaese ed è un nome geografico».

«Pertanto – conclude Uiv – la protezione dell’Ue si estende contro fenomeni di usurpazione, compresi quelli generati da sinonimi. L’Unione non può sottovalutare il rischio di confusione per il consumatore: il nome Prosek richiama inevitabilmente, per un “consumatore normalmente informato”, le bollicine del nostro Paese».

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Valore delle uve, mediatori e speculazioni: Valpolicella e Oltrepò pavese così lontani, così vicini

EDITORIALE – Cosa accomuna Valpolicella e Oltrepò pavese? Poco o nulla, a prima vista. Eppure, a poche ore di distanza, dalle due terre del vino si leva lo stesso allarme: quello sui prezzi delle uve, sui mediatori e sulle speculazioni. Cronaca di un caldo 25 agosto, risvolto amaro della medaglia di un’Italia che, proprio in questi giorni, sorride ai dati positivi del primo semestre 2021, tra riaperture e revenge spending.

«Oggi più che mai – commenta Christian Marchesini, presidente del Consorzio Vini Valpolicella – il confronto sulle dinamiche produttive e di mercato è fondamentale. Con le aziende e le associazioni di filiera dobbiamo spingere sempre di più su qualità e posizionamento per vincere la guerra contro le speculazioni, a partire dai valori delle uve. Solo così potremo sostenere il sistema Valpolicella e, in generale, il made in Italy enologico».

A parlare per l’Oltrepò, come accade con tale frequenza solo in Oltrepò, è la politica. Nello specifico, l’assessore all’Agricoltura e Sistemi verdi di Regione Lombardia, il bresciano Fabio Rolfi. «La bottiglia deve essere venduta a un prezzo dignitoso – ha sottolineato l’esponente della Lega – e il lavoro agricolo deve essere riconosciuto. Deve essere redditizio».

«Senza un ritorno non ci sono promozione, investimento e ricettività. Da qui – ha aggiunto – la mia proposta di istituire un Osservatorio dei prezzi delle uve, per mettere in chiaro il costo di produzione e il prezzo che deve essere pagato. Per porre fine a fenomeni speculativi favoriti da un sistema nebuloso di mediatori che caratterizza l’attuale sistema di fissazione del prezzo».

UN OSSERVATORIO DEI PREZZI DELLE UVE IN OLTREPÒ PAVESE?

Due affermazioni, quella del presidente Marchesini e dell’assessore Rolfi, che sembrano parte dello stesso convengo, mentre la vendemmia 2021 entra sempre più nel vivo. E invece no. Le parole del presidente del Consorzio Tutela Vini Valpolicella arrivano da Villa Brenzoni Bassani.

È lì che si è tenuto il consueto incontro fra i rappresentanti del Consorzio, delle aziende e delle associazioni di categoria. Obiettivo? La «valutazione congiunta sui valori delle uve in vista dell’imminente vendemmia». Qualcosa che potrebbe essere utile, forse, anche all’Oltrepò pavese. Con o senza l’«Osservatorio» calato dal solito palazzo (quello di Regione Lombardia, ça va sans dire).

Sul tavolo, Christian Marchesini ha spalmato i trend degli ettari rivendicati, delle produzioni di uva. Degli imbottigliamenti e delle giacenze. Nonché i prezzi camerali delle uve Valpolicella degli ultimi anni. Tra le priorità del Consorzio, «premiare in termini di prezzo il prodotto di eccellenza».

Un riferimento esplicito all’Amarone della Valpolicella Docg, ma non solo. «Proporre prodotti diversi tra loro e in grado di coprire molti segmenti di mercato» è un’altra priorità emersa nell’incontro del 25 agosto. La Valpolicella, del resto, muove un giro d’affari annuo di oltre 600 milioni di euro, ben segmentati.

AMARONE VS “BONARDONE”

Oltre la metà è da ascrivere alle vendite del vino simbolo di Verona e del veronese, l’Amarone, che viene esportato per il 67%. Tra i paesi target, Usa(14%), Svizzera (12%), Regno Unito (11%), Germania e Canada (10%). Seguono Svezia (8%), Danimarca (7%), Norvegia e Paesi Bassi (6%).

Cina e Giappone pesano congiuntamente circa il 3%, sebbene il valore dell’export in questi due Paesi sia «cresciuto notevolmente nell’ultimo quinquennio». Dall’incontro tenutosi a Montescano, in Oltrepò pavese, filtrano invece pochi numeri. E tanti proclami. I soliti.

E mentre i prezzi di uve come il Riesling italico scivolano a circa 28 euro al quintale dai circa 32 del 2020 (Riesling renano a circa 45 e Pinot nero a 60 euro), ciò che conta in Oltrepò pavese è la «soddisfazione» della presidente del Consorzio, Gilda Fugazza.

«Di strada ne abbiamo fatta – commenta a Lombardia Notizie – consapevoli di avere tutti i vini che vanno dall’antipasto al dolce, sia per il metodo classico che per altri prodotti come la Bonarda frizzante e il Sangue di Giuda, che ci sta dando buone soddisfazioni commerciali e in questo momento ci rappresentano». Del resto, chi s’accontenta gode. Soprattutto se ha le idee terribilmente confuse. Prosit.

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La Guida Top 100 Migliori vini italiani 2022 WineMag.it è online: Podere Fedespina cantina dell’anno

Online su Amazon Kindle la Guida Top 100 Migliori vini italiani 2022 di WineMag.it, che incorona Podere FedespinaCantina dell’anno2022. Anche quest’anno la selezione delle etichette, avvenuta tramite una rigorosa degustazione alla cieca, è giustificata da pochi, semplici dettami. Non mancano le novità, dovute al successo che sta riscuotendo una pubblicazione annuale che si inserisce in un contesto ben più ampio: quello di WineMag Editore.

Chi ci conosce sa che non amiamo nasconderci dietro a un dito e ha compreso l’approccio innovativo del nostro magazine: controcorrente quando serve, irriverente quanto basta, innamorato della verità. E, soprattutto, fedele a un registro che vuole essere caldo e appassionato, pur nell’oggettività assoluta della “terza persona singolare”.

UNA NUOVA COMUNICAZIONE PER IL VINO ITALIANO

Bando all’io e all’ego di cui molti abusano nel settore, dando sfogo a un’interiorità che fa della penna un labirinto, per chi si approccia alla lettura. In fondo, siamo persone semplici a cui piacciono le cose difficili. Le missioni impossibili.

Con tutte le nostre forze stiamo cercando di ridefinire, giorno dopo giorno, attraverso una linea editoriale quotidiana basata su un approccio puntuale, rigoroso e approfondito delle news, i canoni dell’intero panorama della critica enologica in Italia.

Un’oggettività che si riflette anche nella degustazione e nella “costruzione” di una Guida ai migliori vini italiani che fornisca ai lettori – nostro vero punto di riferimento – uno strumento utile per orientarsi nel mare magnum del vino italiano, attraverso una semplificazione di carattere macro-geografico (Nord e Centro-Sud) e suggerimento di decine di vini quotidiani, dall’ottimo rapporto qualità prezzo.

LA DEGUSTAZIONE ALLA CIECA

Ecco dunque grandi nomi accanto a cantine sconosciute. Vini prodotti da grandi cantine e “piccoli” vignaioli artigianali. Nomi storici e realtà che si sono affacciate da poco tempo sul mercato.

Nella Top 100 Migliori vini italiani di WineMag.it trovano spazio vini di impronta tecnica e di “metodo” – in grado ovviamente di sfoggiare la propria identità territoriale – e altri che trasmettono l’emozione dell’artigianalità e della cura manuale, esenti da difetti di natura chimica o accidentale.

Sfumature che convivono perché accomunate dalla bontà e dalla capacità intrinseca di comunicare prima a sorsi e, poi, a parole. Pochi, semplici dettami, dicevamo, per l’appunto.

Al centro dell’attenzione, su tutto, la tipicità e il rispetto del varietale: bando al cosiddetto “gusto internazionale” – ormai cambiato, anche grazie a consumatori sempre più attenti all’autenticità e alla territorialità – e a scelte commerciali che tendono a uniformare le diverse Denominazioni del vino italiano.

VINI BUONI SENZA BANDIERA: “CRU” E “PARCELLE” SUGLI SCUDI

Fortemente connesso al primo caposaldo c’è il nostro desiderio di sotterrare l’ascia dell’integralismo e di quello che ci piace definire “razzismo enologico“: ciò che deve colpire è il vino nel calice, non la filosofia produttiva (“convenzionale“, “naturale“, “biologico“, etc).

L’altro focus della Top 100 Migliori vini italiani di WineMag.it è su produttori e vignaioli che puntano sulla valorizzazione delle espressioni dei singoli “cru” del proprio “parco vigneti”. Alla parcellizzazione e alla valorizzazione della macro eccellenza nella micro selezione.

Il tutto ricordando sempre che siamo sognatori, prima che commentatori e critici del nettare di Bacco. Amiamo le persone vere e i vini in grado di trasmettere personalità, nerbo, carattere, gusto e passione. In una parola? Amiamo il coraggio e chi osa.

LE CANTINE DELL’ANNO

In un anno come il 2021, segnato come il precedente dalla pandemia Covid-19, capace di condizionare pesantemente anche il mercato internazionale del vino riscrivendone gli equilibri e le dinamiche, speriamo di aver costruito l’ennesima “carta” alla portata di tutti (dal professionista al consumatore meno esperto, ma desideroso di bere bene).

Una selezione in cui regioni e denominazioni perlopiù si mescolano, per mostrare il quadro delle bellezza dell’Italia, racchiuse in “bottiglie sparse” di vino. Importante anche lo sguardo delle quattro cantine dell’anno.

Si tratta di Podere Fedespina (Cantina italiana dell’anno 2022), Agricola MoS (cantina dell’anno 2022 – Nord Italia), Ninni (cantina dell’anno 2022 Centro Italia) e La Marchesa (cantina dell’anno 2022 Sud Italia).

Più che cantine, famiglie del vino italiano rispettivamente della Lunigiana (Toscana), della Val di Cembra (Trentino), di Spoleto (Umbria) e della provincia di Foggia (Puglia). È proprio da queste cantine che inizia il racconto di un anno che ci ha reso fieri del nostro lavoro. Buone bevute, con la nostra Guida Top 100 Migliori vini italiani 2022.

Davide Bortone
direttore WineMag.it


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E-commerce delle cantine: una bomba a orologeria pronta a esplodere

EDITORIALE – «E quindi uscimmo a riveder le stelle». Il verso 139 della Divina Commedia è quello conclusivo dell’Inferno. Dante e Virgilio si preparano a raggiungere il Purgatorio. Alle loro spalle, il Nono girone. Quello dei traditori. Qualcosa di simile, con un po’ di fantasia, sembra accadere in questi giorni nel mondo del vino italiano.

Molte cantine hanno investito per la prima volta sul web, per realizzare un e-commerce. Un modo per uscire dal tunnel del Covid-19, «a riveder le stelle». Ovvero compensare, attraverso gli ordini online, le vendite perse a causa del lockdown dell’Horeca (ristoranti, hotel, winebar e locali chiusi per Decreto) e della vendita diretta.

Proprio mentre il cielo sembra di nuovo aprirsi davanti agli occhi di centinaia di migliaia di vignaioli e piccoli produttori – gente che ha dovuto ricorrere al web per stare a galla, mica per fare business – qualcuno prova a spinger loro di nuovo nel buio più profondo.

I commenti poco generosi di distributori inferociti nei confronti di vignaioli e titolari di piccole realtà famigliari, la cui grande colpa sarebbe proprio quella di aver realizzato un sito web con e-commerce, serpeggiano come vipere in vari ambienti del settore. L’accusa? I prezzi praticati dalle cantine sarebbero in concorrenza con quelli della distribuzione.

IL CAPOLINEA

Il culmine della polemica è una mail di carattere minatorio inviata da un distributore alle cantine clienti. Il messaggio, condito a fette spesse d’arroganza e da una malcelata verve egocentrica, è forte e chiaro: non verranno più effettuati ordini a chi vende (anche) il vino da sé, attraverso il proprio e-commerce aziendale.

Ecco come il boom – del web e delle vendite online – rischia di diventare un crack. Una vera e propria bomba ad orologeria, che sta per esplodere (e in alcuni casi è già esplosa) nelle mani di uno o dell’altro.

Ovvero del produttore di vino che è ricorso al web per stare a galla durante il periodo nero del Covid-19, chiamato oggi a fare una scelta che non ammette zone grigie. O del titolare della distribuzione, che rischia di perdere le cantine clienti desiderose di continuare a sperimentare le “vendite (online) dirette”, traghettandosi fuori dal girone infernale del Covid-19 con il nuovo asso nella manica del proprio e-commerce.

Insomma, l’ennesima guerra tra innovatori e conservatori, in un Paese (l’Italia) che ama il progresso a targhe alternate. Una patata bollente, sotto un cielo di stelle.

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Valentina Passalacqua, il leone e la gazzella: è la nuova era del vino naturale industriale

EDITORIALE – Ogni mattina, in Italia, un vignaiolo naturale si sveglia. Sa che deve correre più in fretta di Luca Maroni, o verrà “ucciso”. Ogni mattina, in Italia, Valentina Passalacqua si sveglia. Sa che deve correre più forte del vignaiolo naturale, o “morirà di fame”. Quando il sole sorge, importa eccome se sei un vignaiolo naturale o Valentina Passalacqua. Quando mai Yahoo! Finanza si è cacato di striscio un vignaiolo naturale?

Poche righe di preambolo, scherzandoci su e prendendo spunto dal noto proverbio africano del leone e della gazzella, per raccontare quanto accade in America. Mica nel Gargano. Una storia che segna l’avvio di una nuova era mondiale per il vino naturale: quella del vino naturale industriale.

I FATTI

Con il padre Settimio Passalacqua atteso tra un mese esatto in Tribunale, a Foggia, e con il fascicolo dell’inchiesta che lo vede imputato per caporalato – assieme al braccio destro Antonio Piancone – sulla scrivania del Gup Maria Luisa Bencivenga, la figlia Valentina pensa a rimettere insieme i pezzi della propria azienda di Apricena.

Dopo l’uragano mediatico e la corsa in Camera di Commercio, per cambiare le “attività prevalenti” della cantina e slegarle formalmente da quelle di produzione di ortaggi – le stesse finite sotto inchiesta per la manodopera sottopagata e schiavizzata – la diva dei vini naturali pugliesi pare tornata a fare quello che le riesce meglio: comunicazione. Il suo habitat naturale, a 6 mesi di distanza da un’intervista senza contradditorio su Repubblica.

Attraverso il nuovo importatore Ronnie Sanders – Vine Street Partners, la “vignaiola” ha potuto godere nei giorni scorsi della grande visibilità mediatica offerta dal comunicato firmato Colangelo & Partners e pubblicato su uno dei portali più letti al mondo, in tema di economia e finanza.

Si tratta di Yahoo! Finanza – mica del Corriere del Nero di Troia – che ha ripreso (pari, pari) un testo redatto da Megan DeAngelo di Colangelo & Partners, in cui si dà notizia del nuovo accordo per la distribuzione massiva dei vini di Valentina Passalacqua negli Usa.

LA PUBBLICAZIONE

Natural Wine Leader, Valentina Passalacqua, and Vine Street Imports Partner On a National Distribution of Calcarius and ‘9 Is Enough’ Wines“, recita il titolo del comunicato pubblicato dal portale. Tutto fa presumere a un pubbliredazionale – ovvero a una pubblicazione a pagamento – più che alla divulgazione di una comune press release.

Per chi non lo sapesse, Yahoo! è un colosso “multitasking”, in 20 lingue. Sedi in 25 nazioni e ultimo fatturato di 1,33 miliardi di dollari. Perché investirci? Perché negli Usa, lo scorso anno, Valentina Passalacqua è stata tagliata dai cataloghi dei tre precedenti importatori.

Una «scelta etica», quella maturata per primo da Zev Rovine Selections. Imitato a pochi giorni di distanza anche da Jenny & François Selections di New York e Dry Farm Wines di Napa, in California.

Nel comunicato stampa redatto da Colangelo & Partners, agenzia di comunicazione che si occupa delle relazioni negli Usa di altri noti brand italiani come Duca di Salaparuta, Frescobaldi, Ornellaia e Pio Cesare – tutti “super marchi” del Made in Italy lontanissimi dal mondo del vino naturale – si fa infatti riferimento all’inchiesta. O, meglio, alla versione di Valentina Passalacqua.

«FALSE ACCUSE DI UN PRODUTTORE CONCORRENTE»

Last summer, near the beginning of the pandemic, Valentina Passalacqua was embroiled in a scandal because of false accusations by an unscrupulous natural wine competitor related to labor practices on her father’s vegetable farms unrelated to Valentina’s company. All the accusations were proven and certified to be false».

La scorsa estate, la produttrice sarebbe stata «invischiata in uno scandalo per via delle false accuse di un produttore senza scrupoli di vini naturali, connesse alle pratiche adottate nell’azienda di ortaggi del padre che nulla aveva a che fare con l’azienda di Valentina». Non risultano denunce di super Vale per diffamazione o calunnia, neppure contro ignoti.

Ma fa ancora più clamore la frase successiva: «Tutte le accuse si sono verificate false». Con quel «tutte» che ventila l’ipotesi di una chiusura del procedimento penale. Con assoluzione, s’intende, del padre Settimio e del suo braccio destro Antonio Piancone, in un processo che non vede (e non ha mai visto) Valentina Passalacqua imputata.

A confermare la tesi che una nuova era ha ormai inizio è un altro passaggio del comunicato diramato da Vine Street Partners. «Now, Valentina, is starting fresh with a focus on mainstream distribution», è lo statement dettato a Colangelo & Partners. E allora buona industria del vino naturale a tutti gli amanti degli ossimori. Cin, cin.

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Buon Primo Maggio a chi vive di vino e ristorazione

Buon Primo Maggio a tutti i lavoratori, in particolare a quelli del mondo del vino e della ristorazione. Che sia un Primo Maggio di ripartenza e di speranza, di fiducia e di ottimismo. Buon Primo Maggio a chi, di questo settore, conosce gioie e dolori e sa trovare le energie più dalle notti insonni che dalle foto “glam”.

Ai profittatori e parassiti del mondo del vino, che questo 2021 sia l’ultimo per voi. Buon Primo Maggio a chi usa il vino per abbeverare l’io, al posto di farsi strumento di divulgazione sincera, appassionata e oggettiva: che questo giorno sia l’inizio di una vostra riflessione profonda sul nulla che lascerete al mondo.

A tutti quelli che fanno informazione in questo settore e sanno quanto sia faticoso ma straordinariamente appagante arrivare a fine mese con la schiena dritta. Buon Primo Maggio ai lavoratori che credono nella giustizia e mettono le persone al centro, prima di tutto, anche di se stessi. Buon Primo Maggio a noi, che quotidianamente proviamo a tenervi un po’ di compagnia. Auguri sinceri e affettuosi, lavoratori

La redazione di WineMag.it
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Villa Calicantus e quel Chiaretto (Chiar’Otto) che spariglia le carte a Bardolino

EDITORIALE – «Tale il vino, tale il vignaiolo», verrebbe da dire parafrasando il latino Talis pater, talis filius. Quattro chiacchiere al telefono con Daniele Delaini, il «vignaiolo non enologo» di Villa Calicantus, e capisci perché certi vini, pur degustati alla cieca, riescano a trasmettere un’energia particolare, quasi a parlarti e a sussurrarti all’orecchio, con fierezza, i perché della propria autentica “diversità”. Il vino in questione è “Chiar’otto“, il Chiaretto di Bardolino Classico 2019 della piccola cantina di Calmasino, che oggi conta 8 ettari di vigne in agricoltura biologica, ormai prossimi alla certificazione biodinamica Demeter.

Solo uno dei 50 campioni spediti alla stampa enogastronomica italiana e internazionale dal Consorzio di Tutela del “Vino Rosa del Garda“, nell’ambito di un’Anteprima 2021 sui generis. La prima della storia “a distanza”, in accordo con le normative anti pandemia Covid-19. Un vino diverso da tutti gli altri, ma non per questo incapace di imporsi con una delle valutazioni più alte del panel, tra i 14 con punteggio compreso tra i 90 e i 93/100 di WineMag.it. Una “diversità autentica”, per l’appunto, che apre a scenari e considerazioni necessarie e particolari.

CHIARETTO E BARDOLINO SECONDO VILLA CALICANTUS

«Sin dall’inizio, nel 2011 – commenta Daniele Delaini – la nostra idea era molto chiara e rimane la stessa, pur essendo cresciuti da 1 a 8 ettari: la nostra produzione, di appena 30-40 mila bottiglie, è incentrata al 100% sulla qualità. L’obiettivo è dimostrare che quello di Bardolino può tornare ad essere il gran vino che è stato sino agli anni Ottanta, di cui purtroppo in pochi oggi si ricordano». Come? «Valorizzando le uve dei vigneti più vocati, nelle migliori zone – risponde il vignaiolo di Villa Calicantus – e, in cantina, rispettando la naturalità dell’uva lasciando esprimere le caratteristiche dell’annata. Noi non modifichiamo in alcun modo parametri quali tenore alcolico o colore e, tra gli altri accorgimenti, usiamo solo lieviti autoctoni».

Perché? Semplice. Vogliamo che i nostri vini esprimano la vigna da cui provengono. Una dei concetti fondamentali per noi è che ogni vigna abbia il suo vino e ogni vino la sua vigna, in modo tale da dare voce a quel luogo, quella vigna e, infine, a quell’annata».

Un approccio che porta il Chiaretto di Bardolino Classico 2019 ad avere un colore più carico della media degli altri Chiaretto presentati nell’ambito dell’Anteprima 2021, ma anche profumi e sapori più complessi.

Chiaretto di Bardolino 2020: i migliori assaggi dell’Anteprima 2021

CHIAR’OTTO: UN CHIARETTO CHE SA DI RIVOLUZIONE

Il tutto nel pieno rispetto delle caratteristiche delle uve Corvina, Rondinella, Molinara e Sangiovese e della vigna a pergola esposta a Sud, su suoli morenici, a 165 metri sul livello del mare, scelta per il rosato. «Non facciamo nulla di nuovo – chiosa Daniele Delaini – ma farlo a Bardolino è un po’ più complesso rispetto ad altre zone. Il mercato si aspetta vini commerciali, noi vogliamo dimostrare altro, ma all’interno del Consorzio. Sono convinto che il sistema si cambia da dentro. Quando sento colleghi che si lamentano, ricordo loro che sbattere la porta e uscire dalla stanza non serve a niente. Tanto è vero che quest’anno e il nostro ‘Chiar’Otto’ è stato bocciato in prima istanza dalla Commissione di degustazione».

Faremo ricorso? Al 90% sì, perché so che se non lo facessi me ne pentirei. È troppo importante che ci sia una voce alterativa all’interno dei Consorzi del vino italiano. ‘Consorzio’ significa ‘gruppo di persone che lavorano assieme’, ma non tutti devono portare avanti necessariamente avanti le stesse posizioni. Anzi, è giusto che i piccoli facciano sentire la voce e le loro esigenze in questo contesto».

Per la cronaca, Delaini sottolinea come il Chiaretto 2020 appena bocciato sia «molto simile al 2019», invece approvato e per l’appunto presente tra i campioni dell’Anteprima 2021: «Annate diverse – aggiunge – ma la vigna si è comportata sostanzialmente allo stesso modo, dando alcol e acidità simili, con un pelo in più di mineralità nel 2020».

LA BOCCIATURA DEL CHIARETTO CHIAR’OTTO NON FA MALE

Una bocciatura che riapre l’infinito e controverso capitolo delle Commissioni di degustazione delle Doc, che rischiano spesso, con i loro giudizi, di bocciare vini autentici, rispettosi di vitigni e terroir, depauperando le Denominazioni di sfaccettature preziose e originali. Ovvero delle principali virtù del Made in Italy enologico e della loro principale chiave di sopravvivenza e asso nella manica nel mercato internazionale, sempre più attento a cru e parcellizzazione.

Del resto, l’idea di Chiaretto di Bardolino di Villa Calicantus non si discosta molto da quella di alti produttori della provincia di Verona. «Dev’essere un vino che riesca a coniugare, come il Bardolino, complessità e bevibilità. Volendo semplificare, lo pensiamo come un “rosso leggero” o un “bianco pesante”, gestibile a tavola attraverso la temperatura di servizio».

«Il nostro Chiar’Otto – conclude Daniele Delaini – è buono fresco, come aperitivo. Un po’ più caldo mette in mostra un ventaglio infinito di possibilità di abbinamento. Personalmente non sono uno di quelli che con la carne rossa beve Amarone: ho bisogno di freschezza e leggiadria, il che non significa banalità». Con buona pace delle Commissioni di degustazione. Cin, cin.

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Barbacàn, musica e balletti virali su TikTok: le nuove frontiere della viticoltura eroica

EDITORIALE – I social, usati bene. Barbacàn spopola su TikTok, mostrando la Valtellina come non si era mai vista prima. Musica e balletti virali, spaziando dall’ouverture del Guglielmo Tell di Rossini a Tell me why dei Backstreet Boys, da Stayin’ Alive dei Bee Gees a Candy Shop di 50 Cent.

I vignaioli di San Giacomo di Teglio (SO), divertendosi e divertendo gli ormai 8.714 follower (112.1 K di “Mi Piace”), avvicinano come nessuno il pubblico alla realtà sublime della viticoltura eroica italiana, danzando e cantando tra i ripidi vigneti di Chiavennasca, il Nebbiolo valtellinese, racchiusi tra i muretti a secco patrimonio dell’Unesco.

Attività come la vendemmia manuale e la legatura dei tralci della vite diventano un tutt’uno con le canzoni e i balletti più trendy del momento, catturando l’attenzione di migliaia di utenti. Il tutto senza le volgarità e il narcisismo tipico di chi popola i social, spacciando l’egocentrismo per libertà d’espressione.

Un esempio, Barbacàn, da seguire e comprendere da parte dell’intero mondo della comunicazione moderna. Dai video e dalle particolari inquadrature delle bellezze della Valtellina emerge l’amore incondizionato di Angelo Sega e dei figli Luca e Matteo, nonché di tutta la squadra, per la loro terra e per il loro lavoro.

«Se vignaiolo di Valtellina ama donna più di piatto di pizzocheri e bottiglia di vino rosso, forse è vero amore ma non vero vignaiolo», scherzano (ma non troppo!) i vignaioli valtellinesi in uno dei video di TikTok, utilizzando un accento dell’Est Europa.

L’apoteosi quando i rami di un albero diventano microfoni appesi al cielo, per cantare al mondo We are the world di Michael Jackson e Lionel Richie, affacciati su una delle terrazze eroiche.

O quando, sulle note di Hungry Eyes di Eric Carmen – colonna sonora di Dirty Dancing – i fratelli Barbacàn danzano in bilico su un muretto a secco, con vista  sui monti innevati. Modi nuovi, insomma, per raccontare quello che in Valtellina c’è sempre stato: l’uomo, la sua vigna e il desiderio di preservarla come Madre Natura l’ha fatta. Bravi!

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La conversione di Ottavia Giorgi Vistarino: da caporivolta a “vicepres” del Consorzio

EDITORIALE – Chi lo ha detto che per sedersi basti piegare le ginocchia e buttarsi in poltrona? A volte, qualche giro attorno al tavolo del salotto, può risultare più salutare di una passeggiata in montagna. Deve pensarla così Ottavia Giorgi Vistarino, la contessa di Villa Fornace (PV) passata da “caporivolta” a vicepresidente del Consorzio Tutela Vini Oltrepò pavese.

Neppure troppo tempo fa, la produttrice lo aveva detto chiaro a WineMag.it, in presenza di tanti colleghi (arrabbiati): «Prima accettano il nostro progetto, poi rientro in Consorzio». La realtà dice che non è andata così. Affatto.

Assieme ad altre cantine, Tenuta Vistarino è rientrata nei ranghi senza che un vero cambio di rotta sia avvenuto. Di fatto non vi è alcuna traccia pubblica del progetto che Ottavia Giorgi Vistarino aveva in mente per i piccoli-medi produttori dell’Oltrepò pavese.

Un territorio che continua a gongolarsi e prodigarsi per le “Far bere Pavia”. Bonarda, s’intende, mica Pinot Nero in rosso o Metodo classico. E allora si dirà che è meglio «cambiare le cose da dentro». Per certi versi qualcosa di vero.

Il problema è che una storia già vista, in Oltrepò. Ma la contessa Ottavia Vistarino merita la fiducia (cieca) di chi è innamorato di questa terra del vino italiano. Se non altro perché, stavolta, la faccia è proprio la sua. Auguri.

Oltrepò modello Cava: 4 fuori dal Consorzio. Ottavia Vistarino: “Serve un progetto”

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