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degustati da noi vini#02

Pavia Igt Riesling italico 2019 Borea, Matteo Maggi – Colle del Bricco

Ancestrale ottenuto da uve Riesling italico che mostra tutta la voglia di sperimentazione e l’abilità (in crescendo, di anno in anno) di uno dei giovani vignaioli più intraprendenti dell’Oltrepò pavese, ormai pronto alla consacrazione: Matteo Maggi di Colle del Bricco.

Una scelta, quella del Riesling italico, tutt’altro che scontata, ma in grado di mostrare le potenzialità del vitigno in terra oltrepadana. Una varietà non ancora valorizzata a dovere dalle parti di Pavia, soprattutto perché “schiacciata” dal peso del più noto Riesling Renano.

LA DEGUSTAZIONE
Il calice di “Borea” si tinge di un giallo paglierino luminoso. Il fiore fresco (ginestra) è espresso benissimo, così come il frutto: gran precisione su note di pesca gialla, albicocca e mango.

In bocca grande corrispondenza e linearità. Sorprende (anzi non più, è la regola) la pulizia del sorso di questo ancestrale, la cui freschezza è esaltante ed invoglia la beva. Poteva bastare.

E invece, in chiusura, ecco un tocco rinvigorente di zenzero, unito a ritorni salini. Tra i rifermentati più
sensati d’Italia, da uve non “convenzionali”. Fermentazione spontanea e lieviti indigeni per “Borea“.

Così il vignaiolo Matteo Maggi dà continuità, in cantina, alle scelte effettuate nel vigneto di Stradella (PV) di Colle del Bricco, nel segno della sostenibilità e della naturalezza del vino. Un’etichetta inserita nella Guida Top 100 Migliori vini italiani 2021 di WineMag.it.

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Valpolicella Doc Classico 2019, Rubinelli Vajol

Solo bottiglie numerate e solo vini della Valpolicella. La filosofia produttiva della cantina Rubinelli Vajol è tangibile, certa, verificabile come un calcolo matematico. E si riflette su tutti i vini ottenuti dai vitigni autoctoni Corvina, Corvinone, Rondinella, Molinara e Oseleta. Come sul Valpolicella Doc classico 2019.

LA DEGUSTAZIONE
Risplende di un rosso rubino psichedelico il calice che ospita quello che, per molte cantine della zona, è il cosiddetto “vino base” o “d’entrata” della linea. Eppure di elementare o basico, qui, non c’è proprio nulla.

Non è scontata la riscontrabile trasparenza cromatica del nettare, nel contesto di una Denominazione che non disdegna la produzione di massa e la conseguente uniformità visiva, prim’ancora che olfattiva e gustativa.

Dopo il colore è il naso a convincere, fungendo da navigatore come saprebbe fare neppure Google Maps: narici-Valpolicella in Porsche, zero cento in 3 secondi. Senza deviazioni o pit-stop.

Altrettanto immediata la riconoscibilità e tipicità al gusto del Valpolicella Doc Classico 2019 Rubinelli Vajol. Si ripresentano eleganti note fruttate di ribes, lampone, di una maturità perfetta; ben attorniate da sbuffi di spezia nera, come pepe e ginepro.

In chiusura, composte note di chiodo di garofano donano ulteriore freschezza al vino, contribuendo a un finale asciutto, capace di chiamare in maniera irresistibile il sorso successivo e ricordare la matrice “povera” del terreno.

Vino “glu glu” per antonomasia, si abbina bene al frigorifero, d’estate. Ma è perfetto in ogni stagione, in accompagnamento all’antipasto, ai salumi, o a piatti non troppo strutturati a base di carne. Sorprende la vena “bardoliniana” di questo Valpolicella Doc Classico, che sin dal descritto colore chiama l’abbinamento col pesce.

LA VINIFICAZIONE
L’uvaggio è composto al 45% da Corvina e completato dal 35% Corvinone, 15% Rondinella e 5% Molinara, allevate a Pergola veronese e Guyot. Le piante affondano le radici in terreni di natura calcarea, tufacea e argillosa.

Le uve vengono raccolte a settembre e immediatamente pigiate. Fermentazione e macerazione avvengono in acciaio inox per 8-10 giorni, a temperatura controllata. Per l’affinamento del Valpolicella Doc Classico 2019, Rubinelli Vajol ha scelto ancora i serbatoi d’acciaio.

Prima della commercializzazione, la scelta degli enologi Gianmaria Ciman, Enrico Nicolis e Filippo Cengiarotti è quella di far riposare il vino in bottiglia, nella fresca e buia cantina scavata nel tufo, sotto la collina del Vajol che dà il nome all’azienda.

La cantina Rubinelli Vajol, con sede a di San Pietro in Cariano (VR), è stata inserita proprio con il Valpolicella Doc Classico 2019 nella Guida Top 100 Migliori vini italiani 2021 edita con cadenza annuale da WineMag.it.

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Podere Scheggiolla: quando il Chianti Classico (e il Sangiovese) è filosofia

Capita, di rado in verità, di scoprire vini che paiono libri. Li versi nel calice. E sembrano sussurrarti all’orecchio una storia. Un aneddoto segreto, che si svela piano. Sarà forse per quel nome a metà tra la realtà e la fantasia, ma è l’effetto che fanno i Chianti Classico e il Sangiovese di Podere Scheggiolla. Manuali di una filosofia che fa del distacco dal giudizio tecnico il motivo – supremo, altissimo, rivoluzionario – per cercare la perfezione artigianale.

E come ogni antico manuale che si rispetti, non può mancare il bigino. “LP01 Esordio” è il vino che racconta, in poche righe (pardon, “sorsi”), l’evoluzione dell’approccio alla viticoltura di Luciano Pagni e Maria Rosaria Guarini, giunti nel 2000 sui dolci colli toscani di Castelnuovo Berardenga (SI).

Un’etichetta che «nasce da un’urgenza ribelle». Quella di «liberare il nostro vino dal confine dei confronti». «Per noi, enoici amanti del vino – spiega la coppia – ‘LP01’ è il legame con chi lo sceglie, per raccontarci l’emozione». «Si astenga chi ricerca il virtuosismo tecnico e il giudizio supremo», il premuroso avvertimento.

Abbiamo ascoltato la natura imparando ad usare le sue parole e la sua sintassi, ascoltato la forza e le vibrazioni di una terra madre roboante e generosa e, infine, condiviso questa attesa. La condivisione avviene ogni giorno, con chi arriva qui, in questo ‘piccolo stivale’ nello stivale. Con chi beve brindando alla vita. Con chi riconosce questo percorso bevendo nel silenzio il nostro vino e ascoltando».

Una “filosofia” che prende vita tra le 7500 viti di Podere Scheggiolla, nome che deriva dall’omonimo torrente che scroscia poco lontano dalla tenuta, situata a 300 metri sul livello del mare. Radici ben solide le loro, aggrappate a una terra ricca di scheletro, tanto cara all’uva quanto all’ulivo.

«Forse i “grandi progetti”, saggiamente interpretati, aiutano a salvare i nostri cuori, ma in genere i risultati importanti si ottengono con la pazienza delle piccole cose, – sostengono Luciano Pagni e Maria Rosaria Guarini – percorrendo sentieri che passano per il “bello”. Per arrivare ad un obbiettivo, magari senza nemmeno dichiararlo, si deve però cominciare ascoltando. E abbiamo ascoltato». Ecco, forse, perché certi vini sanno di libri.

LA DEGUSTAZIONE

Rosso Toscana Igt 2018 “Lelle”, Podere Scheggiolla: 91/100
La vinificazione in solo acciaio chiarisce l’obiettivo, ancor prima di stappare la bottiglia. Un’esplosione di fiori e frutto, tannino elegantissimo. Beva agile, generosa, quasi “pericolosa”.

Toscana Igt 2015 “LP01 Esordio”, Podere Scheggiolla: 95/100
Il rosso impenetrabile preannuncia tanto la generosità del nettare, quanto la necessità (quasi una preghiera, annegata ma presente sul fondo di quel colore scuro) di saperlo attendere. Un vino che chiede tempo, ma che è in grado di ripagare ogni centesimo di secondo a chi si accosta alla degustazione senza fretta.

Trae in inganno con un naso subito intenso di frutta, che solo l’ossigenazione rende ricco e variegato. Stesso discorso vale per un palato abbondante in ingresso, più per il peso che per l’estensione. Dargli qualche giro di lancetta è un esercizio che ne sgranchisce l’opulenza, riequilibrando il nettare a suon di freschezza e complessità.

Chianti classico Docg Riserva 2012, Podere Scheggiolla: 93/100
Rubino luminoso. Naso ampio, generoso, fresco, balsamico. Si spazia da una ciliegia grondante di succo al muschio, dalla castagna cotta al fungo fresco. Frutti di bosco, ribes, fragolina, marasca, ma anche l’agrume rosso maturo. Una nota ferrosa, sanguigna, unita alla viola mammola.

L’ossigenazione ancora una volta è una preziosa alleata, che libera risvolti umami. Ingresso di bocca denso ma teso, con allungo immediato sul frutto e sul balsamico. Tannino setoso ma presente, in una chiusura dominata dal frutto e dalla spezia, in particolare da ritorni di marasca e pepe nero.

Chianti classico Docg 2013 Gran Selezione, Podere Scheggiolla: 96/100
Si tratta di un cru di solo Sangiovese, frutto di 3 mila viti presenti in una vigna di 1 ettaro e mezzo. Un Chianti classico Gran Selezione che si distingue per opulenza, struttura e concentrazione degli aromi.

Il tutto senza la minima sbavatura e nel segno della consueta precisione, vero tratto distintivo di Podere Scheggiolla. Sorprende, infine, per la prontezza di beva complessiva, data dall’equilibrio perfetto tra le componenti, nonché per le ottime prospettive di ulteriore affinamento, più che mai positivo.

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Cinque vini sotto i 15 euro per le Feste dalla Top 100 Migliori vini italiani WineMag.it

Cinque vini dall’ottimo rapporto qualità prezzo, inferiore ai 15 euro, per le Feste di Natale e Capodanno dalla Top 100 Migliori vini italiani 2021 di WineMag.it. Si tratta di etichette inserite nella sezione “Vino quotidiano” della Guida Vini edita dalla nostra testata indipendente, grazie a una rigorosa degustazione alla cieca.

  • Pavia Igt Chardonnay 2019 “Il Fermo”, Finigeto
    Giallo paglierino, leggeri riflessi verdolini. Naso tipicissimo, con un po’ di agrume e frutto pieno. In bocca si allarga sulla frutta esotica ma in chiusura di sipario sorprende per la matrice calcarea e per quanto risulti asciutto ed equilibrato. Un’ottima espressione dello Chardonnay in Oltrepò pavese.
  • Capriano del Colle Doc 2019 “Fausto”, Lazzari
    Giallo paglierino, acceso. Naso con tocco di mandorla, frutta esotica, ananas. Gran bella “spinta” calcarea. Bella verticalità, sembra quasi un bianco di montagna. Asciutta la chiusura, elegantissima.
  • Lazio Igp Moscato 2019, Casa della Divina Provvidenza
    Giallo paglierino, naso pieno, aromatico. Banana, ananas, tocco tropicale e di lime che raddrizza il sorso. Ben equilibrato e bel retro olfattivo. Un ottimo “vino quotidiano”, a un passo dall’ingresso nella “Top 100” WineMag.it 2021.
  • Lacryma Christi del Vesuvio Rosato 2019 “Munazei”, Casa Setaro
    Rosso carico, corallo. Naso con richiami esotici, ma anche di fragoline, lamponi, ribes e banana. Bel sorso pieno con un allungo fresco e salino su note agrumate.
  • Sicilia Monreale Doc Bianco 2019 “Murriali”, Baglio di Pianetto
    Giallo paglierino, naso non esplosivo, delicato, floreale fresco e fruttato. Vino che riempie bene la bocca, in un gioco prezioso tra morbidezze e durezze. Bella macchia mediterranea sul frutto esotico maturo.

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Cinque vini dolci per Natale dalla Guida Top 100 Migliori vini italiani 2021 di WineMag.it

Cinque vini dolci per Natale dalla Top 100 Migliori vini italiani 2021 di WineMag.it, la Guida Vini edita dalla nostra testata indipendente, grazie a una rigorosa degustazione alla cieca.

  • Alto Adige Doc Gewurztraminer Passito 2018 “Cresta”, Rottensteiner
    Giallo dorato. Naso freschissimo, sorso pure. Grandissima precisione sia nella parte olfattiva che gustativa. Frutta tropicale matura, miele, crema pasticcera che cedono il passo ad una beva scorrevole e soddisfacente.
  • Colli Orientali del Friuli Docg 2012 Picolit, Valentino Butussi
    Se sai dove “andrà a finire” negli anni, con l’evoluzione, non lo bevi oggi. Il consiglio, dunque, è quello di acquistare più di una bottiglia, per valutarne i positivi effetti del lungo affinamento. Perfetto oggi, con le suadenti note dolci ed equilibrate, grandioso domani, quando inizierà a virare su note ben più complesse.
  • Moscato d’Asti Docg 2018 Vigna Manzotti “Matot”, Simone Cerruti
    Un Moscato tipico. Identitario. Elegante ed equilibrato, non si concede agli eccessi in nessun verso, rimanendo fedele a se stesso e alla terra unica in cui nasce. Sorso affilato che asseconda la dolcezza, senza nasconderla.
  • Toscana Igt Passito rosso biodinamico “Sine Felle”, Podere Casaccia
    Vino che si distingue, accendendo la luce sui vini dolci. Si aggiunga il recupero di vecchi cloni di Sangiovese e Canaiolo da parte dell’azienda guidata da Roberto Moretti, per la produzione (in sole 600 bottiglie) di un nettare che sa di fico maturo, di dattero e – soprattutto al naso – si comporta come un rosso secco. In bocca, la freschezza risulta perfettamente integrata con la dolcezza e suggerisce abbinamenti avventurosi.
  • Marsala Vergine Riserva Doc 1995 “La Villa Araba”, Martinez
    Un pezzo di storia di Marsala nel calice, in tutti i sensi. La cantina di Carlo Martinez è uno degli emblemi della grandezza eterna di Marsala, che con questo vino tiene alta la bandiera di una denominazione sciaguratamente snobbata. Rapporto qualità prezzo eccezionale.

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Cinque vini rossi per Natale dalla Top 100 Migliori vini italiani 2021 di WineMag.it

Cinque vini rossi per Natale dalla Top 100 Migliori vini italiani 2021 di WineMag.it, la Guida Vini edita dalla nostra testata indipendente, grazie a una rigorosa degustazione alla cieca.

  • Barbera d’Asti Superiore Docg 2016 “Litina”, Cascina Castlet
    Inconfondibilmente Barbera. Frutto succoso, grondante, ben sostenuto da accenni di spezia e freschezza. In bocca gioca a fare la preziosa, svelandosi poco a poco. Bell’allungo speziato. Eleganza pura.
  • Amarone della Valpolicella Docg Classico Bio 2011 “Morar”, Valentina Cubi
    Colore seducente. Naso di frutto, di cuoio, sanguigno, ferroso, spezia, bacca di ginepro. Tutti profumi portati su da un alcol che fa da sprint ed è tutt’altro che disturbante. In bocca perfetta armonia tra note di frutta matura ed i ritorni di cuoio e liquirizia. Chiude sulla bacca di ginepro ed un tocco di prugna.
  • Colli Euganei Doc Merlot 2018 “Poggio alle Setole”, Vigne al Colle
    Rosso rubino, riflessi violacei. Un Merlot particolarmente espressivo, vero, tipico. Accenni verdi che donano freschezza alla parte di frutto maturo ed alla spezie dolce, liquirizia soprattutto. Grande bevibilità.
  • Toscana Igt 2015 “Cà”, Podere Fedespina
    Bel colore carico, gran bel frutto per un vino figlio della sua terra, anzi del suo terreno. Radici profonde che si fan largo tra il calcare. Ne risulta un sorso asciutto, di gran prospettiva, tra la pienezza dei primari e una riequilibrante verticalità. Quando si dice “in vino veritas”.
  • Colli di Salerno Igt Aglianico 2016 “Borgomastro”, Lunarossa
    Rosso rubino splendido. Al naso un gran frutto di bosco, tocchi di spezia nera e macchia mediterranea. In bocca meravigliosamente coinvolgente con le sue note di frutta croccante. Gran lunghezza. Un vino che sorprende per precisione.

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Menat, il vino calabrese in anfora georgiana: Gianni Lonetti fonda una nuova cantina

Nicola Finotto e Michele Vitale, in arte Menat, ne hanno fatta di strada dopo l’inserimento nella Top 100 Migliori Vini italiani di WineMag.it, nel 2019. I loro vini calabresi in anfora georgiana (qvevri) prodotti a a San Nicola dell’Alto, in provincia di Crotone, sono ora distribuiti in diversi Paesi d’Europa e del mondo.

Un progetto a cui ha contribuito come conferitore anche Gianni Lonetti, che nel maggio 2020 ha fondato la propria azienda, incentrato sulla vigna vecchia in contrada Fragalà di Melissa. Un terreno di 1 ettaro e mezzo, da cui hanno preso vita i primi vini di punta di Menat: “Ji Jian” e “Greko”, base Gaglioppo e Greco Bianco. Le uve tipiche della zona.

Nonostante la rottura con Lonetti, il progetto originario di Menat – vocabolo che significa “Domani” nella lingua della comunità arbëreshë locale – non cambia. La convinzione resta quella che il vino debba essere “naturale, senza la minima aggiunta di chimica, ma senza difetti e di grande bevibilità”.

La prova del calice convince appieno. Il Calabria Igt rosato “Menate Zero” dice tutto sin dal nome: un vino agile, di grande beva, che si apre con l’ossigenazione su ricordi di fiori di rosa e note di frutti di bosco, agrumi e una spezia leggera, dosatissima. Il classico rosato da bere ‘a secchiate’.

La Riserva “Ji Jian”, ottenuta da mosto fiore di Gaglioppo maturato 8 mesi in anfora georgiana, si presenta di un color mattone e sfodera un naso talcato, balsamico, con ricordi di arancia rossa, anice, mentuccia. Tannino disteso ed ennesimo vino dalla beva instancabile, sapida e di lunga persistenza.

Infine il Greco Bianco macerato “Greko”, ottenuto mediante contatto di 7 mesi con le bucce e una doppia torchiatura. Colore splendido e naso che segue a ruota, tra ricordi di zenzero candito, curcuma, fiori di sambuco e albicocca matura.

Bassa l’acidità e bassa la percentuale d’alcol in volume per questo vino bianco calabrese del tutto singolare e unico, la cui spina dorsale è rappresentata dalla piacevole percezione “tannica”, conferita dalla lunga macerazione.

Le prime tre etichette di Menat, che produce circa 4 mila bottiglie l’anno, sono finite non a caso in mezza Europa e nel mondo. Una storia di successo, che in realtà ne cela un’altra. Quella di Gianni Lonetti che, dopo la rottura con i due fondatori, sta costruendo il suo futuro accanto a uno dei vignaioli calabresi più in vista: Francesco De Franco di A’ Vita – Vignaioli in Cirò.

“In attesa che la mia cantina venga realizzata – spiega Lonetti a WineMag.it – ho vinificato la mia prima etichetta a casa di un maestro del vino calabrese, come De Franco. Il vino, ottenuto proprio dalla vigna di contrada Fragalà da cui nascevano i vini di punta di Menat, è un uvaggio di Gaglioppo (70%) e Magliocco (30%): si chiama ‘Juru‘, vendemmia 2019“.

Per il momento, Gianni Lonetti ha abbandonato le qvevri georgiane. “Ma quando potrò tornare a vinificare in proprio – spiega – tornerò alla terracotta. Non a quella georgiana: sto pensando alla spagnola o, ancora meglio, all’italiana”.

Il giovane vignaiolo di San Nicola dell’Alto sta sperimentando le Tinajas, ma sembra preferire il tricolore, in particolare quello dell’azienda leader mondiale nella produzione di vinificatori in terracotta: “Mi stanno convincendo particolarmente le anfore di Artenova – ammette – prodotte a Impruneta, in Toscana”.

Le novità non finiscono qui. Il vignaiolo Lonetti potrà contare su ulteriori 5 ettari di vigneto, in una posizione particolare, ovviamente sempre in Calabria. “Per via dei cambiamenti climatici – rivela a WineMag.it – ho deciso di spostarmi dalla costa verso l’entroterra, con altri 5 ettari di vigneto a Pallagorio, altro paese di tradizione arbëreshë, non lontano da San Nicola dell’Alto”.

Una scelta di campo importante. Il Comune – poco più di mille abitanti – si trova sempre in provincia di Crotone, ma a ridosso dei monti della Sila: “Per l’esattezza – spiega Lonetti – pianterò Gaglioppo e Greco Bianco, a 554 metri sul livello del mare“. Insomma, c’è tanta carne al fuoco tra le nuove leve del vino calabrese.

© Riproduzione riservata di testi e foto

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Cinque vini bianchi per Natale dalla Top 100 migliori vini italiani WineMag.it

Cinque vini bianchi per Natale dalla Top 100 Migliori vini italiani 2021 di WineMag.it, la Guida Vini edita dalla nostra testata indipendente, grazie a un rigoroso blind tasting.

  • Alto Adige Doc Chardonnay 2018 “Flora”, Girlan
    Giallo paglierino, riflessi dorati. Nota mielata di primo naso. L’ingresso in bocca è morbido per poi affilarsi grazie alla viva freschezza. Ricco e con una intrigante complessità data dal varietale, non dall’affinamento. Di grande eleganza, bilancia sapientemente note citriche e cremosità da pasticceria.
  • Soave Doc 2017 “Le Cervare”, Zambon
    Giallo paglierino. Al naso una pietra focaia “didattica”, esuberante. Il vulcano ammansisce fiori e frutti pur presenti, dimostrando come il vino sia ancora giovanissimo. In bocca una buona freschezza e grande sapidità, su note di frutta matura ed una leggera chiusura citrica. Persistenza da campione.
  • Vino bianco “Escamotage”, Simone Cerruti
    Giallo paglierino carico. Naso splendidamente aromatico. Salvia, mentuccia, uva sultanina, eucalipto, verbena. In bocca domina una gran vena salina. Dritto e verticale, con ritorni del varietale in chiusura. Un vino gastronomico che dà il meglio di sé a tavola.
  • Trebbiano Spoletino Igt 2019 “Maceratum”, Fongoli
    Orange. Naso di erbe, radice di liquirizia, zenzero ed agrume candito. In bocca tannino non ruvido ma presente, a sua volta stuzzicato da un agrume succoso. Chiude su ritorni di radice di liquirizia, lungo. Accenno di sale e gran freschezza. Vino manifesto di un movimento, quello dei cosiddetti “vini naturali”, che troppo spesso si perde in sofismi. Ma quando fa sul serio, fa sul serio. Così.
  • Melissa Doc Greco di Bianco 2019 “Caraconessa”, Fezzigna
    Giallo paglierino. Bel naso di bergamotto, agrumi, erbe mediterranee. Leggero tocco di spezia bianca. Sorso teso ma agile, lungo sulla freschezza e su ritorni di agrumi. Vino manifesto del vitigno e della zona.

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Cinque spumanti per Natale dalla Top 100 migliori vini italiani WineMag.it

Cinque spumanti per Natale dalla Top 100 Migliori vini italiani 2021 di WineMag.it, la Guida Vini edita dalla nostra testata indipendente, grazie a un rigoroso blind tasting.

  • Alta Langa Docg Brut 2014 “Cuvée Leonora”, Cascina Bretta Rossa
    Un vero e proprio vino di terroir, ottenuto da uve Pinot Nero e Chardonnay, allevate a 400 metri sul livello del mare. Giallo paglierino, riflessi dorati. Perlage fine e persistente. Note di frutta matura, mineralità calcarea, piacevole freschezza. Armonico in bocca, chiude su una leggera vena amaricante.
  • Vsq Metodo classico Nature “Ugo Botti”, Tenuta la Vigna
    Guarda un po’ che succede (di molto bello, s’intende) a un passo dalla Franciacorta. Lo Champenoise di Tenuta la Vigna si presenta di un giallo paglierino con rifessi dorati. Perlage molto fine e molto persistente. Nota di pasticcera classica dello Chardonnay, a far da sottofondo ad agrumi e frutti perfettamente maturi. Chiusura su sale e liquirizia netta. Bello il profilo calcareo, che regala un sorso asciutto. Una perla, in una gamma più che mai completa.
  • Vsq Metodo classico Blanc de Blancs Extra Brut, Monsupello
    La maison dell’Oltrepò pavese tiene alta la bandiera del territorio con uno Champenoise di pura classe, ottenuto da uve Chardonnay in purezza. Giallo paglierino, riflessi dorati. Perlage molto fine e molto persistente. Al naso tocco di liqueur, poi gelsomino, frutto maturo, esotico. Centro bocca salino e cremoso, dritto e freschissimo. Gran chiusura su note di crema pasticcera.
  • Lessini Durello Doc Riserva 2016 Pas Dosè, Dal Maso
    Non sbaglia un colpo la cantina Dal Maso, che ha scelto di scendere in campo nella sfida degli spumanti Metodo classico base Durella. Carattere ed estrema gastronomicità per questo spumante che racconta bene l’annata.
  • Asolo Prosecco Superiore Docg 2019 Extra Brut, Tenuta Amadio Rech Simone
    Uno spumante di grandissima stoffa, ottenuto da vecchie viti. Perlage fine e molto persistente. Naso burroso, tocco di lievito e note di ananas, banana, papaia. Ingresso di bocca minerale, per poi ritornare su un frutto pienissimo e perfettamente maturo anche nel lungo finale, fresco e preciso. Il perlage ‘lavora’ benissimo sulla frutta matura, conferendo cremosità assoluta. La gemma in una gamma completa, di altissimo livello. Azienda da tenere in assoluta considerazione nel panorama di Asolo e del Prosecco Superiore.

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I vini di Terra d’Aligi, dalla Cococciola al Montepulciano: una finestra sull’Abruzzo

Terra d’Aligi, in una parola l’Abruzzo. Non poteva scegliere nome migliore, la famiglia Spinelli, per celebrare l’attaccamento alle proprie origini: “È la regione d’Italia in cui viviamo, la Terra d’Aligi, la terra dei nostri vini”.

Un riferimento al pastore Aligi, protagonista de “La Figlia di Iorio”, celebre tragedia in tre atti di Gabriele D’Annunzio, eterno poeta abruzzese. Come pastori, anche gli Spinelli dimostrano di sapersi muovere “con i piedi per terra e lo sguardo avanti”.

“I piedi per terra sono l’amore per il territorio e la profonda conoscenza di ciò che può produrre: sono la tradizione, la capacità innata di tastare il terreno, di sentire l’aria, di scovare vigne nuove e sfruttare al massimo le potenzialità dei terroir”.

Nei vini Terra d’Aligi, prodotti con le uve della Val di Sangro, si ritrovano tradizione e futuro, “pastorizia” e abilità imprenditoriale. Lo dimostrano gli otto assaggi della linea riservata all’Horeca dalla famiglia Spinelli.

LA DEGUSTAZIONE

Terre di Chieti Igt Cococciola 2019, Terra d’Aligi (13%): 90/100
Giallo paglierino non particolarmente carico, ma luminoso. Naso intenso, che lascia grande spazio agli agrumi: lime, pompelmo, bergamotto, tra buccia e polpa. Poi pesca e melone bianco ed ananas, in un incedere prezioso e preciso di note esotiche, circoscritte in un quadro marino, iodico, incomplessito da ricordi di macchia mediterranea sempre più presenti, con l’ossigenazione

Il sorso è teso, vibrante, animato da una gran freschezza e salinità che giocano sulla frutta matura. Più che sufficiente anche la persistenza, su tinte ammandorlate. Un vino che non stanca mai e si presta anche ad ottimi abbinamenti a tavola, in particolar modo con piatti a base di pesce e sushi.

Terre di Chieti Igt Passerina 2019, Terra d’Aligi (13%): 88/100
Giallo paglierino. Naso sul frutto esotico, tropicale, con ricordi minerali e calcarei. Sorso connotato da una freschezza agrumata, veriticale. Buon apporto di frutto in un calice che si rivela sorprendentemente giovane, per affilatezza dei sentori. Una Passerina di carattere, insomma, che non rinuncia alla consueta vena fruttata, ma che mostra al momento più la sua anima “marina”. Perfetto, di fatto, l’abbinamento col pesce.

Terre di Chieti Igt Pecorino 2019 “Zite”, Terra d’Aligi (13,5%): 91/100
Naso intrigante per questo Pecorino che tinge il calice di un giallo paglierino acceso. Al bel bouquet di fiori di campo di abbinano ricordi di nocciola tostata e di una succosa pesca a polpa gialla. Intensa anche la macchia mediterranea, con rosmarino, timo e alloro in primissima vista.

Il sorso denota una buona struttura e un buon corpo, oltre che una freschezza e una salinità capaci di giocare sull’equilibrio dei ritorni di frutta matura. Lungo e intenso il finale, per un nettare di buona gastronomicità.

Cerasuolo d’Abruzzo Doc 2019, Terra d’Aligi (13%): 92/100
Colore tipico della Denominazione, un bel cerasuolo per l’appunto, luminoso, quasi psichedelico e carico di profumi. Si avverte la piccola frutta a bacca rossa perfettamente matura, come la ciliegia, il lampone e la fragolina, ma anche un ribes ancora croccante.

Il palato è quello di un vino di assoluta dignità propria, quello che non tutti i rosati italiani riescono ad avere. La frutta è pienamente matura, in perfetto equilibrio con la freschezza.

Tra le voci del “cesto” palesatosi al naso domina quella della ciliegia matura, ben sostenuta da ricordi erbacei, che accompagnano verso un finale disteso, giustamente amaricante e preziosamente “vinoso”. Vino con cui divertirsi a tavola, anche in accompagnamento a zuppe di pesce o, ancor meglio, legumi.

Montepulciano d’Abruzzo Doc 2017, Terra d’Aligi (13,5%): 89/100
Rosso rubino impenetrabile, dalla bell’unghia violastra. Naso intenso, in cui frutto e vegetale convivono all’unisono, in armonia, lasciando il giusto spazio ai terziari. Primo naso effettivo del frutto, che sfiora la confettura di ciliegia e di mora.

Al palato una bella tensione di freschezza e salinità, in pregevole contrasto (ed equilibrio) coi i ritorni di frutta già avvertita al naso. Lungo il finale, con sorprendenti ricordi d’agrume rosso (arancia sanguinella) a dimostrare quanto la pienezza del sorso e la struttura non siano affatto “sedute” sulla glicerina dei 13,5 gradi di percentuale d’alcol in volume. Vino importante e serio, che necessita di altrettanta consistenza nel piatto, per l’abbinamento.

Abruzzo Doc Rosso 2015 “Zurle”, Terra d’Aligi (14%): 88/100
Rosso rubino intenso, con unghia violacea. Primo naso e palato sui terziari, accostati un po’ troppo prepotentemente ai sentori di frutta, coprendoli. Vino che piace certamente all’estero, segno di una gamma costruita sì sulla tipicità, ma che tiene conto anche delle esigenze (e dei gusti) del mercato internazionale.

Tanta spezia, dunque, calda ed orientaleggiante: cumino e curcuma, oltre alla vaniglia Bourbon. Bei ritorni di confettura in chiusura, sul filo sospeso dell’alcol. Del resto, come ricorda la retro etichetta, “Zùrle” è la parola che, nel dialetto abruzzese, descrive il divertimento dei bambini nel saltellare e rincorrersi. L’ebrezza e il distacco dalla quotidianità che non guastano mai, anche nella vita degli adulti.

Montepulciano d’Abruzzo Doc 2016 “Tatone”, Terra d’Aligi (14%): 94/100
Rosso rubino impenetrabile e denso che inizia già a disegnare, sin dal colore e dalle prime movenze, le fattezze di un monumento: quello a nonno Spinelli, chiamato appunto “Tatone”. Al naso e al palato, in perfetta corrispondenza, un tesoro di frutta e di terra, di mani pulite del lavoro in vigna e dei suoi risultati più attesi.

C’è la mora, l’amarena, il ribes. Note precise, senza sbavature. E poi c’è la polvere di cacao, la radice di rabarbaro e di liquirizia, l’avena tostata. C’è la macchia mediterranea, immancabile in un rosso del centro Italia che ha così tanto da raccontare. La chiusura è tesa, come il sorso. Col tannino che tenta, in cravatta, di asciugare un succo grondante. “Tatone” è il vino della domenica. Un contadino con la giacca.

Montepulciano d’Abruzzo Doc Riserva 2014 “Tolos”, Terra d’Aligi (14,5%): 92/100
Rosso rubino dall’unghia ancora una volta violacea, a denotarne una gioventù tutt’altro che scontata. Al naso è un vino prezioso, ricercato, tipico. Capace di esaltare la grande Denominazione abruzzese e la denominazione dell’uva Montepulciano.

Tanta mora, di quelle che si trovano d’estate ancora appese alle piante, in campagna: nere come la pece con qualche pois rosso, segno di una maturazione non ancora compiuta nella propria interezza. C’è poi il ribes, in tutta la sua croccantezza. Tanta macchia mediterranea (rosmarino, alloro, su tutti), unita a risvolti di terra bagnata, di muschio, terra bagnata. Di fungo, oltre che di resina di pino.

In bocca si ritrova tutto questo, in un quadro di perfetta corrispondenza che segna un sorso materico e cerebrale. Terziari un po’ troppo pronunciati sul tannino, specie in chiusura, appiattiscono tale vigoria su note polverose, di cacao. Un bel bere, in compagnia di piatti di selvaggina e carni alla griglia.

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Monsupello Blanc de Blancs: sfida allo Champagne e dedica a mamma Carla

Saggezza, tenacia, tecnica, emozione. In una parola Monsupello Blanc de Blancs, il nuovo Metodo classico Extra Brut della storica maison di Torricella Verzate (PV). Un’etichetta che condensa la storia centenaria degli eredi di Carlo Boatti e Carla Dallera. E accende la luce sull’Oltrepò pavese del presente e del futuro, sempre più casa dello spumante italiano di gran qualità. Che non teme confronti. Neppure con i francesi della Champagne.

La presentazione del Monsupello Blanc de Blancs – in vendita da questa mattina a 30 euro più Iva – è avvenuta ieri al Castello di San Gaudenzio di Cervesina (PV). Un elegante Albergo Ristorante che dal giorno dell’inaugurazione – avvenuta il 16 dicembre 1977 – brinda con le bollicine oltrepadane della cantina fondata dal compianto Boatti.

La location perfetta per un Metodo classico base Chardonnay di classe assoluta, che ha già fatto incetta di premi dalle maggiori guide enologiche italiane. Inserito nella Top 100 Migliori Vini italiani di WineMag.it, è stato premiato anche da Gambero Rosso e Slow Wine e inserito nella “Top 25” vini italiani del Merano Wine Festival 2020, notizia data ieri dal patron della kermesse altoatesina, Helmuth Köcher.

“Dedico questo spumante a mia madre Carla”, ha commentato un commosso Pierangelo Boatti, insieme alla sorella Laura Boatti: “Questo Metodo classico – ha aggiunto – è la risposta alla sfida lanciataci da alcuni amici e colleghi italiani e francesi, che hanno voluto metterci alla prova con lo Chardonnay, uvaggio tipico in Champagne adottato per la prima volta in purezza da Monsupello, da sempre fedele al Pinot Nero dell’Oltrepò pavese”.

Non a caso l’etichetta, a livello grafico, strizza l’occhio al noto brand di Champagne Salon, produttore di Mesnil sur Oger, Grand Cru della Côte des Blancs. Tinte verde scuro e scritte oro, a richiamare una sfida accettata a tutto tondo. Dal concept al calice.

“Lo Chardonnay non è una novità assoluta per Monsupello – ha precisato l’enologo Marco Bertelegni – dal momento che le stesse uve, provenienti dalla vigna Montagnera, sono da sempre impiegate per completare la cuvée composta al 90% dal Pinot Noir, nel Brut e nel Nature”.

In particolare, la vigna con esposizione a Est, situata di fronte alla sede aziendale, presenta piante con età media compresa fra i 25 e i 30 anni. Il 60% del vino base è d’annata e vinificato in acciaio, mentre il restante 40% affina in barrique usate, scelte per completare e arricchire la verve dello Chardonnay più giovane.

La prima sboccatura del Metodo Classico Blanc de Blancs di Monsupello (novembre 2019) ha riposato sui lieviti 50 mesi. Ne seguiranno altre, sino a un massimo di 70, 80 mesi, come nel caso della Cuvée Ca’ del Tava.

“L’Oltrepò pavese – ha ricordato nel suo intervento Carlo Veronese, direttore del Consorzio Tutela Vini locale – è uno dei pochi territori dove vengono bene praticamente tutte le uve”.

“Quello che manca – ha aggiunto – è riuscire a essere come Monsupello, unica azienda oltrepadana veramente conosciuta in tutta Italia e non solo. È arrivato il momento che anche altri colleghi facciano lo stesso, girando il mondo per rendere ancora più famoso l’Oltrepò”. Chi accetta la sfida?

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Terre di Leone, leggerezza e modernità nella Valpolicella Classica

C’è chi è nato per sfoggiare borse eleganti e chi per portare zaini pesanti sulle spalle, con la stessa agilità di una pochette. I vini della Valpolicella di Terre di Leone colpiscono per leggerezza e modernità, costruite sulla consapevolezza di scelte difficili. Persino evitabili.

Una coerenza rara nell’Italia del vino anni Duemila, sancita dal matrimonio inscindibile tra la vita privata e quella professionale di Federico Pellizzari e Chiara Turati. Mr e Miss Terre di Leone.

Rese striminzite in vigna. Massima attenzione all’ambiente. E, soprattutto, autocritica alle stelle. Tanto da poterla scambiare, di primo acchito, per falsa modestia. Un perfezionismo attestato da anni e anni di prove, prima dell’esordio sul mercato, nel 2010.

Siamo a Marano, nella Valpolicella Classica. Ma potremmo essere a Minsk o Addis Abeba. La vita e il lavoro di Federico Pellizzari e Chiara Turati paiono un’opera d’arte. Un quadro originale, che starebbe bene al Louvre di Parigi. Come al Moma di New York.

Passano anche per la Bielorussia e l’Etiopia le storie “pesanti” della coppia, attorcigliate come vivide radici ai calici di Terra di Leone. La coppia di vignaioli ha deciso di adottare in questi due Paesi i propri figli, oggi ormai felici adolescenti, cresciuti in un Veneto non sempre aperto ad accogliere.

Sembra di ritrovare nel calice, all’unisono perfetto, quell’influsso di un Est Europa dagli inverni gelidi, che non perdonano errori di calcolo e misura; e quell’Africa calda e imprevedibile, capace di emozionare con un gesto semplice o un sorriso.

Berreste, voi, Amarone dal lunedì al venerdì? Probabilmente no, ma è questo il senso di una linea che solo chi ha dentro un mondo potrebbe immaginare: si chiama “Il Re Pazzo” ed è la gamma di “vini quotidiani” con cui Terre di Leone prova a spiegare in maniera semplice, disinvolta ma vera, una Valpolicella di straordinaria modernità e leggerezza.

Grandi profumi. Integrità assoluta del frutto. La stessa che si ritrova anche nel rosso Igt “Dedicatum“, ottenuto dall’assemblaggio di 14 uve della Valpolicella: l’emblema della passione di Federico Pellizzari per lo Châteauneuf-du-pape.

Fiore all’occhiello della produzione, l’Amarone Riserva che – se ce ne fosse bisogno – dà ancora una volta la tara a Terre di Leone: “Avremmo sempre avuto, a rigor di disciplinare, la possibilità di indicare la Riserva, visti i lunghi tempi di affinamento. Ma all’inizio ci sentivamo fuori posto“. Oggi non più. Ed è solo l’inizio, per una delle massime espressioni del vino della Valpolicella. Classica e non.

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Aspetta il Gavi che lui t’aspetta: verticale Gavi Marchese Raggio 2015, 2016 e 2017

Tre annate di Gavi del Comune di Gavi Docg di Marchese Raggio – La Lomellina (2017, 2016 e 2015) che dimostrano l’assunto: aspetta il Gavi, che lui t’aspetta. Il bianco piemontese, per l’esattezza alessandrino, “invecchia” bene. Il tasting in verticale.

  • Gavi del Comune di Gavi Docg 2017, Marchese Raggio – La Lomellina (14%): 89/100
    Giallo paglierino tenue, ottima luminosità. Primo naso intenso e da subito elegante, fiori bianchi freschi e agrumi, buccia di lime, pesca, ananas e un tocco di radice di liquirizia. In bocca un’ottima freschezza, ingentilita a dovere dai 14% d’alcol in volume. Il sorso si allunga su note di pesca tabacchiera (quella a polpa a bianca) che ricordano il melone bianco, su un sottofondo agrumato e iodico. Bel vino, anche dal punto di vista della gastronomicità.
  • Gavi del Comune di Gavi Docg 2016, Marchese Raggio – La Lomellina (13%): 87/100
    Giallo paglierino pieno, primi flebilissimi riflessi dorati. Naso più profondo, con le note di radice di liquirizia ancora più in primo piano. La frutta non manca. Sono i ricordi di pesca, in particolare, a farsi largo con l’ossigenazione. Ancora più evidente la mineralità, che asciuga il sorso, nonostante il buon apporto glicerico (13%). Il sorso è più snello del precedente, ma salinità e freschezza fungono ancora da spina dorsale. Altro bel vino con cui giocare in cucina. Va detto: fra i 3 in batteria, il più stanco.
  • Gavi del Comune di Gavi Docg 2015, Marchese Raggio – La Lomellina (13%): 90/100
    Giallo paglierino netto, accenni dorati sarcastici. Primo naso su uno sbuffo di idrocarburo, ma è la parte vegetale che sorprende maggiormente. Alla consueta nota di radice di liquirizia si abbinano ricordi di verbena, mentuccia e un tocco mediterraneo, di rosmarino fresco.L’ossigenazione lascia spazio a ricordi umami (per intenderci la salsa di soia o il “mono-glutammato di sodio”, per i tecnici all’ascolto). La complessità olfattiva è degna di un’ulteriore attesa dell’espressione globale del nettare nel calice, a costo che si scaldi un poco.Un rischio che vale la pena di correre, per poi rinfrescare il bicchiere prima dell’assaggio, con un altro goccio. Qualche minuto ancora e nasce un fiore bianco dal giallo luminoso di cui si è ormai vestito il calice: più biancospino che glicine. Un gesto di coraggio, che dà il largo ad altri slanci “giovanili”. Si distingue nettamente una bella componente fruttata, esotica: ananas e pesca sui ricordi d’agrume perfettamente maturo.Ingresso di bocca piuttosto morbido, prima di una buona tensione dettata dall’acidità, ancora viva: il sorso è in definitiva fresco, all’insegna di un vino che ha ancora molto da raccontare, nella sfida col tempo. L’ultima parola, prima della chiusura del sipario, è su un ritorno delle morbide note fruttate avvertite in ingresso, senza che la freschezza ceda affatto il passo.

LA VINIFICAZIONE

L’area di produzione, come suggerisce l’etichetta, è quella del Comune di Gavi, nell’Alessandrino, in Piemonte. I vigneti di Cortese, con esposizione a Sud-Est, si trovano a un’altitudine compresa tra 250 e 280 metri sul livello del mare.

Il suolo è composto da marne sabbiose che conferiscono una resa di 70 quintali per ettaro. Le uve Cortese, utili alla produzione del Gavi del Comune di Gavi Marchese Raggio, vengono raccolte solitamente nella seconda metà di settembre. La vendemmia è manuale, in cassette forate da 20 kg.

Riguarda solo i migliori grappoli che, una volta in cantina, vengono sottoposti a una pressatura soffice e a una successiva fermentazione in recipienti di acciaio inox. La temperatura viene mantenuta costantemente bassa, fino all’esaurimento di tutti gli zuccheri, al fine di preservare gli aromi primari del Cortese.

Il mosto non svolge la fermentazione malolattica e il vino atto a divenire Gavi del Comune di Gavi di Marchese Raggio affina tra i 4 e i 6 mesi in acciaio prima di essere imbottigliato. Per l’immissione in commercio dell’ultima annata occorrono solitamente altri 4 mesi.

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Cerasuolo d’Abruzzo Doc 2016, Emidio Pepe

Sulla scia della stagionalità, che richiede vini freschi che ben si adattano alle temperature estive, ecco l’ottimo Cerasuolo d’Abruzzo Doc 2016 di Emidio Pepe. Un grande produttore abruzzese, fermo difensore (dal 1964) dei suoi “terroir”, rispetto alle veloci evoluzioni della chimica in viticoltura.

Un fautore, pertanto, di una filiera agricola totalmente biologica. Una filosofia produttiva vincente, che ha permesso alla cantina Emidio Pepe di essere conosciuta e apprezzata in tutto il mondo.

LA DEGUSTAZIONE
Alla vista, quella del Cerasuolo d’Abruzzo Doc 2016 di Pepe è una delle più belle rappresentazioni di “rosa” della tipologia. Al naso spicca tutto il frutto demandato dalla bacca rossa del Montepulciano d’Abruzzo. Lampone e fragole mature, quasi da confettura, si abbinano al melograno.

Presente anche una parte floreale, dalla trama fitta e delicata. Al palato, il Cerasuolo 2016 di Emidio Pepe si dimostra un vino dalla forte predisposizione alla gastronomia, anche quella più complessa.

Un frutto pertanto persistente, ricco ed intenso a livello aromatico, che contribuisce al bell’equilibrio del vino. L’espressione massima, in tema di abbinamento, può ricercarsi in secondi a base di carne bianca, brodetto di pesce abruzzese, oppure salumi e formaggi (specie dell’Abruzzo) di media stagionatura.

LA VINIFICAZIONE
Come da tradizione, le uve della cantina Pepe vengono pigiate ancora con i piedi, in tini di legno, per poi essere vinificate in bianco con una fermentazione senza bucce, in vasche di cemento vetrificate.

L’imbottigliamento e il successivo affinamento avviene senza alcuna filtrazione e conferisce al Cerasuolo autenticità e territorialità. Quella più vocata, per tradizione, all’artigianalità abruzzese.

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Il “Tiurema” di Enò-Trio, ovvero il Pinot Nero dell’Etna di Nunzio Puglisi

Il “Tiurema” di Nunzio Puglisi (Enò-Trio Vini, Randazzo – CT), in fin dei conti, è semplice nella sua decostruzione delle circostanze e delle abitudini: prendi il Pinot Nero, mettilo sull’Etna e vedi che succede.

Il risultato è un altro vino, diverso da quello che ci si potrebbe aspettare conoscendo il “Noir”. Più simile ai francesi “estremi” che a tanti italiani. Meno leggiadro in bocca e più muscoloso, potente. Eruttivo.

Un Pinot nero che pare in guerra con se stesso, un po’ incazzato con chi l’ha messo sul bordo di un cratere siciliano, invece che a Mazzon. Ma che guardandosi allo specchio, in fondo, si piace (e piace) esattamente così com’è: diverso. Che “Tiurema” sarebbe se raccontasse quello che sappiamo già?

Del resto, Nunzio Puglisi non ci gira attorno: “Partendo dalla necessità di voler dare un nome al nostro Pinot Nero, conoscendo le difficoltà che bisogna affrontare per arrivare a portare a giusta maturazione le uve, consapevoli del fatto che il Pinot Nero è una delle varietà più complicate da gestire durante la vinificazione, certi e sicuri che il nostro non sarà mai uguale per ogni annata vendemmiale, siamo arrivati qui: Tiurema”.

Tutto un progetto, una aspirazione, una idea, una utopia. Una sfida che abbiamo voluto imporci di voler portare a termine e far conoscere. Una visione differente di Pinot Nero perché prodotto sull’Etna a mille metri sul livello del mare, su un terreno argilloso; un invito rivolto a voi per scoprire insieme le caratteristiche che presenta di anno in anno“.

“Una complessità – conclude Nunzio Puglisi, vertice dell’Enò-Trio con le figlie Stefany e Désirée – che va dalla coltivazione all’imbottigliamento di una nostra idea di Pinot Nero tutta da condividere”.

Una concezione che è cambiata negli anni, pur rimanendo fedele all’idea iniziale, portando la cantina a produrre vini sempre più eleganti e in grado di valorizzare appieno il terroir etneo.

Non solo col Pinot Nero “Tiurema”, ottenuto da un vigneto di 40 anni, ma anche con il Traminer “Dissidente”, tra i migliori assaggi al Mercato Fivi 2019 di Piacenza. Provare per credere.

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Nicosia punta sull’Etna Doc con nuove etichette di Contrada

Dalla fine dell’Ottocento (1898) e da cinque generazioni, la famiglia Nicosia si dedica alla viticoltura. Alle pendici dell’Etna, la cantina oggi guidata da Carmelo Nicosia e dai figli Francesco e Graziano, sembra aver trovato il suo habitat naturale. Un progetto enologico in crescita.

Nel futuro di Nicosia c’è infatti l’avvio della produzione di altri “vini di Contrada“, ottenuti da vigne storiche di proprietà e di recente acquisizione, nei Comuni di Zafferana Etnea, Santa Venerina e Linguaglossa. Etichette che andranno a consolidare una produzione già ricca di sfaccettature e sfumature.

Siamo nel territorio di Trecastagni, nella zona Sud-Est del vulcano, a circa 600 metri sul livello del mare. Le vigne si estendono per 10 ettari ai piedi di uno dei tanti crateri etnei inattivi, Monte Gorna e sul Monte San Nicolò (8 ettari), situato a un chilometro di distanza. Completano il parco vigneti alcune piccole proprietà nei dintorni.

In queste zone, che ricadono nei territori della Doc Etna, Nicosia alleva Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio per i rossi; Carricante, Catarratto e Minnella per i bianchi. Piccole parcelle costituiscono i Cru, destinate al Bianco Riserva e al Rosso Riserva che i portano i nomi della zona.

La cantina di 6 mila metri quadrati coperti – 33 mila totali – gioca sul binomio tra modernità e tradizione. All’interno si trovano un negozio e l’accogliente Osteria, che offre ristoro agli amanti dei piatti della Regione e non solo. Il sommelier Santi Natola accompagna  alla scoperta del territorio.

Il tutto attraverso piatti e vini che lo raccontano, secondo i principi e i valori della famiglia Nicosia. Di particolare interesse è l’uso delle botti (di primo e, soprattutto, secondo e terzo passaggio) ricavate sia da rovere francese che americano e acacia, in grado di cedere ai vini sensazioni speziate e mielate di grande piacevolezza.

Tutti gli imbottigliamenti godono di certificazione biologica, alcuni dei quali attestati bio-vegan. La gestione delle vigne è affidata all’agronomo Alessandro Logenco, che opera in sinergia con l’enologa, nonché compagna di vita, Maria Carella.

LA DEGUSTAZIONE

Etna Doc Bianco 2019 Monte San Nicolò (13%)
L’uvaggio che lo compone è Carricante per il 95% e Minnella per il restante 5%. Affinato in vasche d’acciao per 7/8 mesi e, successivamente, in bottiglia per 3/4 mesi.

Alla vista si presenta di colore giallo paglierino con riflessi verdolini, cristallino. Al naso sono percepibili profumi floreali e fruttati, di pera e mela, agrumi. Vino giovane, al palato spicca una comprensibile e notevole acidità, sapido, dalla velata mineralità. Un vino non ancora in commercio.

Etna Doc Bianco 2018 Monte Gorna 2018 (13%)
Costituito da un blend di Carricante per l’80% e Catarratto  per il 20%. Affinamento in vasche d’acciaio, breve passaggio, pari a 3/4 mesi, in tonneaux d’acacia, stesso periodo ma in bottiglia, per finire.

Alla vista giallo paglierino, riflessi verdolini, brillante. Al naso fine, più floreale che fruttato, delicato miele, agrumi e, col tempo, in successione, note di frutta secca e balsamiche di alloro. Al palato, assai gradevole l’evidente nota minerale, ottima acidità, accompagnata da ben presente sapidità. Un vino ben Fatto.

Etna Doc Bianco Riserva 2016 Monte Gorna 2016 (13%)
Prevalente presenza di Carricante, il 90%, in blend con una minore quantità di Catarratto per il 10%. Affinamento: metà produzione sosterà sei mesi in barrique di secondo passaggio, mentre, l’altra metà farà sei mesi in barrique di terzo passaggio. Seguirà ulteriore elevazione, per circa un anno, in bottiglia.

Colore giallo dorato. Il naso è complesso, fruttato, ricorda la mela cotogna, delicatamente mielato. Al palato regna una notevole acidità, nonostante l’annata non recentissima, è sapido, con una gentile nota minerale. Di ottima struttura, grande equilibrio. Imperdibile.

Spumante Doc Sicilia Brut Carricante 2017 (sbocc. 2019 – 12%)
Concepito con solo Carricante, farà affinamento esclusivamente in acciaio e, almeno, 18 mesi in bottiglia sui lieviti. Perlage fine, di buona persistenza. Colore giallo paglierino, riflessi verdolini, cristallino.

Al naso ricorda molto, soprattutto nel tempo, la matrice comune ai bianchi fermi: profumi  floreali e miele che, insieme a  sentori di lievito, trovano conferma al palato. Ricchissima acidità, per caratteristica dell’uva d’origine, il Carricante si rivela vitigno ostico per la spumantizzazione.

Merita indubbiamente l’assaggio, per carpirne le peculiarità. Nei prossimi anni si punta alla realizzazione di espressioni più mature, che raggiungeranno i 36 e i 60 mesi sui lieviti.

Spumante Doc Etna Brut 2016 (sbocc. 2019 – 11.5%)
Nessun blend per questo spumante, previsto l’utilizzo di solo Nerello Mascalese. Un Blanc de Noir affinato non meno di 24 mesi sui lieviti, dal perlage fine e persistente.

Colore giallo paglierino. Al naso complesso ed elegante, si alternano sentori floreali e fruttati, immancabili lievito e crosta di pane. Acidità persistente, sostenuta da una, molto presente, mineralità. Equilibrato.

Etna Doc Rosso 2017 Monte Gorna (13%)
Le uve utilizzate, per questo vino convincente, sono Nerello Mascalese 80% e Nerello cappuccio 20%, per il più classico dei blend della Doc Etna Rosso. Circa la metà della produzione, dal 40 al 50%, sarà destinata alla botte grande (3-4 mesi), per poi sostare ulteriormente in barrique di 2° e 3° passaggio (5/6 mesi). La restante parte affinerà in acciaio. Seguiranno sei mesi da trascorrere in bottiglia.

Dal colore rosso rubino, con gli anni tenderà a degradare verso toni granati, in linea con le caratteristiche dei vini da Nerello Mascalese. Al palato si distingue subito per le note di frutta rossa, spezie, capperi, liquirizia nel finale. Piacevole beva, per via della buona freschezza, si sente il legno ma senza eccessi. Buona struttura generale.

Etna Doc Rosso Riserva 2013 Monte Gorna (13.5%)
Realizzato con Nerello Mascalese per il 90% e Nerello Cappuccio per il 10% , la Riserva gode di un periodo di quiescenza in cantina di quattro anni (almeno) dalla vendemmia e, secondo disciplinare di produzione, dodici mesi di botte. Per il proprio vino, Nicosia ha previsto due anni di barrique di rovere francese di 2° e 3° passaggio.

Colore rosso rubino, tendente al granato. Al naso sono piacevoli le sensazioni olfattive di erbe aromatiche e spezie, di cannella, macchia mediterranea, rosmarino. Complesso. In bocca domina il tannino che pervade il palato. Molto evidente l’uso della botte. E’ buona la freschezza, persistenza notevole. Strutturato.

Igt Sicilia Nerello Mascalese 2014 “Sosta Tre Santi” (13.5%)
Nato per celebrare il legame della cittadina etnea ai Tre Santi protettori (Alfio, Filadelfo, Cirino), che qui fecero il loro passaggio e ai quali viene riconosciuta devozione, il vino è ottenuto da uve Nerello Mascalese provenienti da diverse vigne della proprietà.

Molto caratterizzato dalle botti di provenienza, determinato dalla permanenza di dodici mesi in barrique di rovere francese, seguiranno dodici mesi in bottiglia. Forte personalità, in bocca svela una inclinazione verso profumi fruttati e speziati legati al territorio. Strutturata la trama tannica, di buona freschezza e persistenza.

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Nerone, il Pinot Nero di Cascina Gnocco: un capolavoro che lascia spazio alla Mornasca

Fuori da tutto, fuori dal caos. Il silenzio come regola d’oro. Che a parlare dev’essere il lavoro, la vigna. E infine il calice. Cascina Gnocco sembra aver trovato la formula magica per lavorare (bene) in una terra difficile come l’Oltrepò pavese. Una rivelazione maturata sacrificando un gioiello di rara bontà come il Pinot NeroNerone“, prodotto per sole due annate.

Un Noir vinificato in rosso che trova oggi, a 12 anni dalla vendemmia 2008, il suo compimento. In una parola, lo żènit dell’equilibrio tra un’estrema succosità, una rinvigorente freschezza e i preziosi sentori “terziari” che solo un lungo affinamento può regalare ai nettari più pregiati.

Un capolavoro che non esiste più nel “progetto Oltrepò” di Cascina Gnocco. La cantina di Mornico Losana (PV) guidata da Domenico Cuneo, ha infatti deciso di abbandonare la propria etichetta di Pinot Nero, per focalizzare la produzione sull’autoctona Mornasca.

Le uve del cru che un tempo davano vita a “Nerone”, oggi sono parte integrante della “Selezione Cotarella” di La Versa. Si tratta di cinque cloni da rosso (777, 943, 828, Mira 95 e Mira 3131) presenti in un singolo appezzamento, uno dei quali più ricco di antociani (le sostanze che determinano il colore del vino) rispetto alla media del vitigno.

Da qui il nome “Nerone”, assegnato a un Pinot Nero che, nonostante il consueto ed elegantissimo gioco tra trasparenze e rubino, si mostra più carico dei canoni cromatici e stilistici del re dei vitigni internazionali.

Con poca modestia – commenta Domenico Cuneo a WineMag.it – confermo a distanza di tempo che si tratta di un ottimo vino, ma la realtà è anche un’altra: le difficoltà e il sentirsi emarginato, perché in Oltrepò o fai parte della casta o sei nessuno, mi hanno portato ad abbandonare i tanti progetti che avevo in mente. L’unico che mi è rimasto riguarda la Mornasca: sono l’unico a vinificare questa rarissima uva e quindi non devo affrontare invidie e sarcasmi di nessuno”.

Il commento del titolare di Cascina Gnocco viaggia sul filo della malinconia e della voglia di rivalsa: “Faccio la mia strada, irta di difficoltà, ma fuori da istituzioni, Consorzi e quant’altro. Avendo abbandonato il progetto Pinot Nero, ho ancora qualcosa come 2-3 mila bottiglie di Nerone in deposito, per chiunque voglia assaggiarlo”.

“Nerone” è un vino nato e morto al vigneto dell’Ambrosina, due ettari allevati esclusivamente a Noir nel Comune di Oliva Gessi (PV), terra di alcuni tra i migliori Riesling oltrepadani. Esposizione a Nord e terreno gessoso ma fresco, per la presenza di falde acquifere non troppo profonde.

Un vino che sembra portare con sé la maledizione del quinto imperatore romano, morto suicida dopo 14 anni di regno. Incredibile come qualcuno, nella storia del vigneto dell’Ambrosina, abbia pensato di vinificarne le uve in bianco: un omicidio-suicidio enologico, paragonabile al gesto del capo di Stato Nerone, che incendiò la propria città, Roma.

“L’ho prodotto per 2 anni, nel 2007 e nel 2008 – spiega Domenico Cuneo – poi vinificato ancora per qualche anno e venduto sfuso, quindi praticamente ‘regalato’. Dal 2012 l’ho portato a Terre d’Oltrepò, dove sotto la guida di Cagnoni veniva vinificato in bianco. Negli ultimi anni, finalmente, con l’arrivo a Casteggio di Pietro Dilernia e della nuova direzione, viene vinificato in rosso. Fino all’attuale scelta di farne un cru“.

La produzione dell’appezzamento è bassa e varia molto di annata in annata. Si passa agilmente dai 95 quintali del 2019 ai 150 quintali di vendemmie meno recenti, con una media di 50-55 quintali per ettaro.

“La vinificazione – spiega il numero uno di Cascina Gnocco – veniva da me compiuta a temperatura non superiore ai 25 gradi per circa 8 giorni, in fermentini orizzontali con un paio di rimontaggi giornalieri, dopo la svinatura, sfecciatura in acciaio e un rapido passaggio in tonneau“.

Un onere che oggi spetta al numero uno di Assoenologi, Riccardo Cotarella e al suo staff di collaboratori di La Versa. Già, perché Nino Cuneo ha ormai in testa una cosa sola: la sua Mornasca, antico vitigno che ha recuperato dall’oblio, che come il Pinot Nero dà vini molto longevi.

“Un vino che non produciamo in tutte le annate – spiega – le ultime prodotte sono la 2016, già imbottigliata, la 2018 e la 2019 ancora in affinamento, con la prova in solo acciaio tuttora in corso sulla vendemmia 2018″.

La produzione si aggira sui 50-60 ettolitri di vino annui, grazie a un totale di soli 1,20 ettari. Oltre alla versione in rosso, Cascina Gnocco produce un Rosè Metodo Classico da uve Mornasca. Un altro gioiello che rischia di scomparire.

“Ho riscontrato una notevole difficoltà nel proporlo – ammette Domenico Cuneo – tanto da convincermi a chiudere la produzione con la vendemmia 2012, di cui ancora conservo 4 mila bottiglie sui lieviti, quindi più di 80 mesi”.

“In occasione dell’ultimo assaggio – chiosa Cuneo – mi sembrava un ottimo spumante, ma io sono di parte!”. Riassunto dell’ultimo virgolettato: cercasi brand ambassador per una cantina simbolo del terroir Oltrepò, che non vuole mollare, nonostante tutto e tutti. In alto i calici.

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degustati da noi vini#02

Colline Pescaresi Rosato Igp 2016 “Plenus Rosa Rosae”, Marina Palusci

Un vino rosato fuori dagli schemi per numero di vitigni assemblati, ben 7, che regala un sorso di grande freschezza, ampio e persistente, nonostante i quattro anni trascorsi dal suo imbottigliamento. Sotto la lente di ingrandimento di WineMag.it l’annata 2016 del Colline Pescaresi Igp Rosato “Plenus Rosa Rosae” prodotto dall’azienda Marina Palusci.

Una tipologia di vino, quella dei rosati, che negli ultimi anni sta vivendo un trend positivo di crescita, che incontra sempre più il favore dei consumatori grazie alla facilità di abbinamento e alla fresca beva. Caratteristiche ritrovate anche in questo calice.

LA DEGUSTAZIONE
Dall’assemblaggio dei 7 vitigni nasce un vino di un colore rosa piuttosto scarico, ma di buona consistenza. Il naso è dominato al primo impatto da chiari sentori fruttati di fragoline di bosco e ciliegie, per poi virare su sentori più floreali, intensi e nitidi, con un filo di fumè in sottofondo.

In bocca è ampio, avvolgente, fresco e in perfetto equilibrio grazie all’ottima struttura e alla buona acidità. A tratti al palato ricorda la tessitura e l’austerità del Montepulciano d’Abruzzo ma mantiene una sua identità, con un finale che ricorda la rosa.

Davvero versatile negli abbinamenti in cucina. Plenus Rosa Rosae si accosta bene a fritture di pesce o a pizze gourmet. Si tratta infatti di un rosato che ben sostiene piatti anche mediamente strutturati, grazie alla sua ampiezza e alla sua persistenza.

LA VINIFICAZIONE
Questo particolare rosato di Marina Palusci è prodotto con uve Montepulciano d’Abruzzo, Sangiovese, Malvasia, Pecorino, Lambrusco Salamino, Trebbiano e Moscato Rosa. La fermentazione avviene in maniera spontanea, con lieviti indigeni presenti naturalmente sulle bucce.

Le uve raccolte, diraspate e pressate, vengono messe in serbatoi di acciaio dove sostano fermentando per circa 18 giorni. Segue un periodo sulle proprie fecce di circa 10 mesi. Prima dell’immissione in commercio, il Colline Pescaresi Igp “Plenus Rosa Rosae” affina 6 mesi in bottiglia, imbottigliato con tappo a vite.

L’azienda Marina Palusci si trova a Pianella sulle dolci colline dell’entroterra pescarese ed è capitanata da Massimiliano D’Addario, un giovane dalle idee chiare e vincenti. Produce principalmente olio extravergine di oliva di grande qualità (12 tipi) in regime di agricoltura biologica e biodinamica.

Dal 2008 l’azienda ha avviato anche la produzione di vini, in un raggio di vigneti che si estendono complessivamente per circa 2 chilometri. Otto appezzamenti allevati principalmente a Montepulciano, Passerina e Pecorino dai quali nascono vini non filtrati, non stabilizzati e senza nessun additivo chimico in cantina.

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degustati da noi Esteri - News & Wine news news ed eventi vini#02

Juhfark, il vitigno vulcanico dell’Ungheria: degustazione di 26 etichette con punteggi

Se c’è un vino e vitigno dell’Ungheria pressoché sconosciuto, quello è lo Juhfark. La traduzione letterale, dalla complicata lingua ungherese, aiuta a comprendere solo le caratteristiche del grappolo, a forma di “Coda di pecora“: “juh” significa “pecora” e “fark” – contrazione di “farok” – è appunto la “coda”.

Lo Juhfark, finito sotto la lente di ingrandimento di WineMag.it attraverso una rara degustazione di 26 etichette, trova la sua zona più vocata nei terreni vulcanici di Nagy-Somló. Siamo nella parte nord occidentale dell’Ungheria,  su un’area di appena 768 ettari.

Un numero che tiene conto dei 326 ettari della “sottozona” di Somló, la denominazione più piccola del Paese (Tokaij, per restare in Ungheria, conta ben 5.100 ettari). Gli sconfinamenti dello Juhafark a est, nell’Etyek-Buda, regalano vini con caratteristiche meno interessanti.

All’analisi del calice, lo Juhfark colpisce per l’eccezionale capacità di farsi portavoce del terroir vulcanico di Somló. Una carta unica a disposizione di questo autoctono ungherese, per imporsi sempre più nel panorama internazionale.

Oltre alle caratteristiche pedologiche e microclimatiche, il “Coda di Pecora” risente molto dell’andamento meteorologico dell’annata. Al netto delle scelte dei singoli viticoltori, non è difficile trovare – una accanto all’altra -etichette diverse tra loro, a partire da una percentuale d’alcol in volume che può variare dai 10,5 ai 15%.

Lo Juhfark si prende tutto il tempo necessario per esprimere al meglio le peculiarità del terreno vulcanico. Lo fa in vigna, germogliando precocemente, ma maturando relativamente tardi. E lo fa in bottiglia, regalando vini capaci di diventare sempre più complessi col passare degli anni, più che mai degni dei lunghi affinamenti.

Pgi Dunántúli Juhfark 2019, Szent István Korona (11,5%): 82/100
Giallo paglierino limpido, luminoso. Al naso fiori bianchi e frutta matura, esotica: pesca gialla, banana. Un tocco minerale, ma è il frutto il vero marcatore. In bocca buona corrispondenza. Ingresso morbido e allungo fresco, ma soprattutto salino. Poi torna la frutta. Un vino dignitoso per il prezzo contenuto, tuttavia non del tutto capace di esprimere al meglio le caratteristiche uniche della varietà. 82/100

Etyek-Budai Pdo Juhfark 2018, Szent István Korona (11%): 80/100
Bel giallo paglierino. Naso meno esplosivo del precedente. Oltre alla frutta, un tocco vegetale e una percezione iodica, minerale, più in evidenza rispetto all’altro campione della stessa cantina. In bocca il vino risulta però squilibrato sulla salinità, in mancanza del frutto. Un nettare pensato per un consumo che non vada oltre all’anno successivo alla vendemmia.

Nagy-Somlói Juhfark 2017, Kreinbacher (12,5%): 87/100
Bel giallo paglierino, riflessi dorati. Naso ampio, elegante. Fiori bianchi e frutta esotica matura, ananas, papaja, polpa di mandarino. Ma anche una parte minerale importante (pietra bagnata) con rintocchi di buccia d’arancio e un leggero apporto di spezia. In bocca il vino presenta una certa struttura e complessità.

L’ingresso è sul frutto e sul sale, pronti ad allargare la platea a una freschezza dilagante, che anticipa una chiusura minerale. Sorso molto invitante ed equilibrato, tra i ritorni di frutta esotica matura e lo iodio. Un vino con potenziale ulteriore di affinamento in bottiglia.

Somlói Juhfark Selection 2017, Kreinbacher (13%): 89/100
Alla vista giallo paglierino con riflessi dorati e una densità maggiore rispetto al precedente. Al naso una mineralità ancora più accennata (iodio, pietra focaia) accostata a un frutto di gran precisione: pesca gialla, albicocca. Una componente fruttata che fa perfettamente da spalla alla matrice vulcanica del nettare.

Il sorso rispecchia le anticipazioni olfattive: a una gran mineralità risponde un frutto pieno, materico. Durezze e morbidezze risultano in grande equilibrio, in un gioco prezioso ai fini dell’abbinamento a tavola. Purché si faccia grande attenzione al finale, con la chiusura assoluta di sipario su un agrume tendenzialmente amaricante.

Nagy-Somlói Juhfark 2015, Kancellár birtok (13,5%): 88/100
Bel giallo dorato. Naso timido ma prezioso, pronto ad esprimersi grazie all’ossigenazione. Ancora una volta mineralità in gran evidenza e una componente di frutta esotica, pienamente matura. La parte minerale si fa polvere da sparo, su note di fiori gialli, pesca a polpa gialla e melone.

Leggera percezione alcolica sin dal naso, che poi si tramuta in una “potente” avvolgenza al palato. In bocca il nettare entra morbido e poi si irrigidisce sulla freschezza e la sapidità, in un sorso che guadagna – rispetto al naso – le note agrumate. Buona gastronomicità. Vino che si trasforma nelle ore successive all’apertura, migliorando ancora.

Nagy-Somlói Juhfark Selection 2017, Csordás Fodor Pincészet (12%): 87/100
Giallo paglierino luminoso. Frutta matura, esotica. Accenno aromatico che ricorda il litchi del Gewurztraminer. Albicocca sotto sciroppo, ananas. Si concede con semplicità, su queste note, unite a una vena minerale.

Al palato tornano le note mature, ma con una spinta salina e fresca capace di riequilibrarle. Vino che chiude su una nota vagamente amarognola e speziata, accostata a una buona freschezza. Persistenza sufficiente.

Nagy-Somlói Prémium Juhfark 2019, Tornai Pincészet (13%): 90/100
Giallo paglierino, riflessi verdolini. Gran precisione e intensità del frutto, pesca a polpa bianca e gialla, richiami esotici perfettamente maturi, mentuccia freschissima e ricordi (vaghi) di liquirizia. Più lo lasci nel calice più si apre, splendidamente. Note di limone, agrumi, verbena. Fiori di glicine e un accento speziato.

In bocca mostra invece tutta la sua gioventù, su una freschezza dirompente, tirata come una corda di violino su note (rieccole qui) di agrumi e limone. Accentuata anche la vena minerale e salina, preponderante. Un’etichetta bambina, pronta a esplodere e diventare grande, longeva, di carattere. Tipica.

Nagy-Somlói Juhfark 2018, Csetvei Pincészet (11%): 85/100
Giallo paglierino. Vino piuttosto esile, connotato da una beva agilissima. Ha bisogno di aprirsi per raccontare la vena minerale, che domina il frutto. Pesca e ricordi di pera matura. Poi accenti d’agrume e di fiori, un tocco di cipria. Corpo leggero, sulla scorta dei pochi gradi. Solo note agrumate e un allungo salino. Chiude leggermente astringente.

Nagy-Somlói Juhfark 2017, Csetvei Pincészet (12%): 88/100
Giallo paglierino. Naso intenso, su fiori freschi bianchi, mineralità particolarmente accentuata, assieme a una vena talcata e agrumata e a ricordi di foglie di te grigio. Perfetta corrispondenza col palato. Struttura non particolarmente esibita, ma una certa eleganza al sorso.

La venatura minerale fa da spina dorsale assieme alla freschezza, prima di una chiusura fruttata, agrumata e in grado di riflettere la matrice vulcanica del terreno, con la pietra focaia. Un giovanotto, cui farà benissimo qualche anno di evoluzione.

Nagy-Somlói Juhfark 2017, Szalai Antal Pince (13,5%): 89/100
Giallo paglierino tendente al bianco carta. Naso timido all’inizio, si apre poi su note di fiori freschi, frutta esotica matura, zucchero filato, mentuccia e mineralità tipica del vulcano. Un accento speziato arriva con l’ossigenazione, in un olfatto che guadagna precise note agrumate.

In bocca gran pienezza e buona struttura, sorso fresco e largo al contempo. Pure salino. Non manca nulla, insomma. Persistenza molto più che sufficiente, per un vino che mostra un’ottima gastronomicità, giocata sull’equilibrio tra durezze e morbidezze.

Nagy-Somlói Juhfark 2017, Apátsági Pince (11%): 93/100
Giallo dorato. Gran naso, largo, frutta esotica matura, al limite del candito, agrumi, ananas in grandissima evidenza, fiori di campo, tra il secco e il fresco. Non manca la venatura minerale, vulcanica. Al palato è morbido e al contempo teso, in un gioco d’equilibrio che invoglia la beva. Esempio fulgido delle punte di qualità raggiungibili dal vitigno.

Juhfark 2018, Tornai Pincészet (11,5%): 87/100
Giallo paglierino, riflessi verdolini. Frutto in evidenza al naso, di perfetta maturità: pesca a polpa bianca, esotico, nespola, un tocco d’agrume, fiori bianchi freschi. La mineralità c’è, ma è più in evidenza al palato. Salinità su cui gioca un frutto elegante, prima di una chiusura tra la mandorla e l’agrume. Vino lineare, piuttosto semplice ma molto ben realizzato e rispettoso del vitigno.

Juhfark 2018, Canter Borház (10,5%): 84/100
Giallo dorato. Naso particolarmente intenso, su note di agrumi canditi, zenzero, erbe di campo, filtro di camomilla. La nota vulcanica è a metà tra la polvere da sparo e lo iodio e fa da compagna a una vena ossidativa. La nota erbacea, sulla buccia d’agrume, invece, è la prima che si ripresenta anche al palato.

Il sorso è leggero e leggiadro, ben equilibrato tra salinità e un frutto di bella presenza, giocato tra gli agrumi e la nota principale di ritorno, quella della camomilla (riecco l’ossidazione). Complessità non eccelsa del retro olfattivo, che piuttosto sorprende per la lunghezza e la freschezza, con una chiusura di sipario leggermente speziata.

Juhfark 2018, Zsirai Pincészet (12,5%): 89/100
Giallo paglierino. Il naso, riconoscibile tra mille, dello Juhafark di Somló: sbuffi talcati e minerali sul frutto pieno, maturo, a polpa bianca (pesca). La nota erbacea (stecco di liquirizia) a fare da contorno, impreziosendo un quadro già di per sé ammaliante.

Il tocco del legno vira sulla vaniglia bourbon e sulla leggera caramella mou, ad amalgamare e incomplessire. Il sorso è pieno, rotondo, morbido, col legno qui ancor più in evidenza, pur senza rischiare di soffocare il varietale. Uno Juhfark con le radici ben salde a Somlo e l’occhio strizzato all’internazionalità. Interessante in prospettiva.

Juhfark 2018, Kis Tamás Somlói Vándor Pince (12%): 92/100
Giallo paglierino, riflessi dorati. Frutta piena (pesca a polpa bianca, agrumi), giustamente matura, tocco di legno (mou, un tocco prezioso di fumè). Al palato – in ingresso – una gran pienezza, avvolgenza, senza rinunciare alla tipica verticalità e salinità dei vini di Somló, che vien fuori nel centro bocca e accompagna fino alla chiusura, lunghissima.

Materia, polpa. Poi il sale. Un altro vino di gran carattere e gastronomicità, che sfodera una struttura e un “peso” non comune, al palato. La chiusura è elegante, sapida, fresca, con un tocco fumè che invita al sorso successivo. Giovane, già ottimo, ma perfetto per una lunga conservazione. Ancora un esempio di tipicità e internazionalità coniugate divinamente.

Juhfark 2018 Teraszok, Kis Tamás Somlói Vándor Pince (11%): 90/100
Sorprende la pesantezza della bottiglia, in contrapposizione – a livello puramente estetico e concettuale – alla “leggerezza” della percentuale d’alcol in volume (appena 11%). Colore giallo paglierino con bei riflessi dorati.

Al naso complesso, col frutto sotto la coltre di un fumè spinto, di una roccia vulcanica e di richiami agrumati ed erbacei, uniti a rintocchi freschi, talcati. Non manca l’apporto del legno: mou, vaniglia bourbon. Il sorso è teso in ingresso, fresco e salino, prima di allargarsi sul frutto in centro bocca.

Torna poi nuovamente su un invitante venatura di iodio finale, arrotondata dal legno. Vino che rivela la sua estrema gioventù soprattutto nel retrolfattivo, su note di pietra bagnata, fumè e, nuovamente, vaniglia bourbon. Un nettare da aspettare, non certo nella sua fase di piena compiutezza.

Juhfark 2018, Apátsági Pince: 94/100
Colore bellissimo, un giallo paglierino pieno, con intensi riflessi dorati. Naso straordinariamente espressivo. Il frutto è pieno, di gran maturità, polposo. Pesca gialla più che bianca, esotico che ricorda la papaja e l’ananas, un accento di zenzero candito e di fico maturo.

Tocco del legno evidente, così come evidenti sono (ancor più) i richiami floreali freschi e quelli di buccia d’agrume, per una componente “verde” che incomplessisce il quadro (verbena, liquirizia, zenzero).

Al palato la consueta pienezza ed espressività di uno Juhfark unico: alla morbidezza delle note fruttate mature (ancora una volta esotico, agrume) abbina una freschezza dirompente, con le durezze tipiche dei vini vulcanici a fare loro da spina dorsale. Da bere oggi e conservare in cantina per un futuro luminoso.

Dunántúli Juhfark 2019, Törley  (11%): 82/100
Giallo paglierino acceso. Bel giallo paglierino. Naso ampio, fruttato, agrumato, tocco talcato, vegetale con nuance da macchia mediterranea. In bocca più verticale del previsto, tutto giocato sugli agrumi. Un vino semplice, corretto, ben fatto.

Grófi Juhfark 2017 “Top Selection”, Tornai Pincészet (15%): 93/100
Qui lo Juhafark perde un po’ della sua proverbiale leggerezza e mineralità, per diventare grazie all’apporto del legno un vino di struttura (senza rinunciare all’eleganza), capace di accompagnare anche piatti importanti, a base di carne. Alla vista si presenta di un giallo dorato invitante, luminosissimo.

Idrocarburo netto al naso, assieme alla mentuccia elle note di frutta secca. Seguono a ruota accenni di macchia mediterranea, finocchietto, anice, in un sottofondo conferito dal legno: si vira dunque sul fondo di caffè e la caramellina mou.

Ingresso di bocca fruttato, sulla pesca disidratata. Sul pentagramma, tra la chiave di violino e l’ultima nota, una freschezza dirompente, giocata su note di mandorla amara, agrumi, frutta esotica (albicocca, papaja, ananas) accenti iodici caratteristici della zona e vaniglia.

Vino come pochi altri di caratura internazionale, dotato di gastronomicità assoluta, tenendo però conto della chiusura sulla mandorla amara. Un nettare peraltro ancora giovane, all’inizio di un lungo percorso.

Somló Juhfark 2017 Barrel Selection, Barcza Bálint (13,5%): 92/100
Solo 1.333 bottiglie per questa etichetta di vino naturale ungherese. Giallo paglierino pieno, di buona luminosità. Naso che si stacca completamente da molti altri assaggi, con i suoi ricordi di pera, pesca bianca matura e mentuccia.

L’apporto del legno è evidente, ma non disturba il varietale. Anzi, lo impreziosisce e incomplessisce. In bocca una freschezza straordinaria, ben bilanciata dalle note fruttate. Ben chiara e scandita anche la vena minerale, che assieme all’acidità costituisce la spina dorsale dell’etichetta.

La frutta matura e la vena glicerica si scoprono non solo ben integrate, ma anche necessarie a sostenere mineralità e freschezza. La precisione del sorso è esemplare, soprattutto per concentrazione del frutto ed equilibrio con le durezze. Un vino naturale coi fiocchi, tra i migliori assaggi assoluti della vendemmia 2017.

Nagy Somlói Juhfark 2017, Spiegelberg (12,5%): 90/100
Giallo dorato pieno. Naso lineare, pulito, frutta matura tipica del vitigno e venatura minerale, su note di zenzero candito. Non mancano gli agrumi e un ricordo di vaniglia, molto delicato. Molto più netto lo “spirito” del vulcano, sulla polvere da sparo.

Il sorso è elegante, verticale, sapido e preciso, pur senza rinunciare a una certa “materia” e “polposità”, nella componente fruttata. Chiusura altrettanto precisa ed equilibrata. Vino che non primeggia in complessità, ma che può dare immense soddisfazioni a tavola e nell’ulteriore affinamento in bottiglia: il tempo non potrà che fargli bene.

Juhfark 2011, Royal Somló Vineyards (Prolingo Bt): 92/100
Bel giallo dorato, luminoso. Naso fresco e iodico, con componente frutatta perfettamente matura. Venatura mentolata e talcata, netta. Vino che ha bisogno di tempo per aprirsi, su note che virano anche su una speziatura delicata (pepe bianco, cumino). Non manca una componente vegetale, sulla verbena e l’alloro, ma anche sulla radice di liquirizia.

Netto il ricordo della cera d’api, che sarà poi presente nel retro olfattivo. In bocca svela una freschezza dirompente, riequilibrata da note mielose e di frutta matura. Componente “dura” costituita anche da una salinità ben scandita, che marca il territorio di appartenenza del nettare. In chiusura riecco la nota mielata. Quasi 10 anni e non sentirli: bingo.

Juhfark bio 2016, Dobosi (13,5%): 89/100
Bel giallo paglierino, riflessi dorati. Al naso camomilla, scorza d’agrumi, pesca bianca molto matura. Il tutto ammantato da un bella vena iodica (molto diversa da quella di Somlo). Ingresso verticale e sapido, strepitosamente affilato, col sorso che piano piano si allarga sulla frutta matura, pur conservando la vena salina. Chiusura sull’agrume, piacevole, lunga. Bel vino con una sua linearità, ancora più che mai in piedi e in grado di regalare emozioni. 90/100

24) Juhfark bio 2017, Dobosi (13,5%): 90/100
Bel giallo paglierino carico, riflessi dorati. Naso più timido del precedente, ma molto elegante e preciso. Frutta matura più in vista del precedente, più matura. Siamo sulla pesca, netta. Non manca l’agrume, in scorza, oltre a una punta di spezia bianca, leggerissima. In bocca la frutta si trova a battersi con sale, l’agrume amaro e una percezione dell’alcol non perfettamente integrata. Bella freschezza. Vino certamente non seduto, un puledro da allungo. 91/100

25) Juhfark bio 2018, Dobosi (14%): 88/100
Giallo dorato luminoso. Bel frutto maturo, pieno, molto preciso, che tende al sovramaturo. Palato pieno, rotondo, ravvivato da una bella freschezza. Accenno di tostatura al naso, di frutta secca, che poi si troverà anche al palato. Vino che rispetto agli altri ha una marcia in meno, in termini di allungo, pienezza e, forse, capacità di raccontarsi nel tempo, in futuro.

26) Juhfark bio 2019, Dobosi (13,5%): 89/100 (anteprima / preview)
Il giovanotto. Giallo paglierino non particolarmente carico, ma limpido e luminoso. Frutta perfettamente matura, pesca, albicocca, fiori freschi, nota talcata. Sorso tutto giocato sul frutto e sulla freschezza, che si scapigliano a vicenda, ricordando a tutti quanto bene farebbe aspettare ancora un po’ per godersi il nettare. Invitante la chiusura, ancora una volta sulla buccia agrume e su un accenno di spezia bianca, oltre all’accenno salino. Aspettami che arrivo.

*photo credits dei paesaggi: Somlo Wine Shop, dove sono reperibili gran parte delle etichette degustate

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degustati da noi news news ed eventi vini#02 visite in cantina

Le Driadi Slow Farm: Steiner e la Colleoni Doc secondo Gabriella e Luciano Chenet

Abbandono e recupero: di un vigneto, di un eremo, di una comunità locale, dei ritmi di una vita. E di un altro vigneto ancora, continuando a investire tempo e risorse per sottrarre un angolo di paradiso al caos dell’incuria. Le parole e gli occhi di Gabriella e Luciano Chenet, ex biologa lei, ingegnere part-time lui, insieme per la vita e dal 2014 per Le Driadi Slow Farm, parlano di tutto ciò. Prima ancora che della passione per il vino e per Steiner, il padre della biodinamica.

Siamo a Palazzago in Val Pontida, ad ovest dei confini della Valcalepio, nella bergamasca, dove la coppia produce per ora solo due vini: “Driade FeliceColleoni Doc (Merlot in 90% acciaio e 10% barrique usate) e “Alto della PoianaColleoni Doc (Merlot in 100% barrique di vario passaggio).

Il territorio che circonda la cantina è collinare, percorso da numerose piccole vallate, in cui le esposizioni si alternano a est e ad ovest a seconda degli impianti, taluni curvati verso sud. Li accomunano ripide pendenze e altezze tra 300 e i 600 metri, oltre ai terreni ricchi di arenaria e del cosiddetto ‘Flysch di Pontida’. Un composto ricco di silice, molto friabile, che si estende fino a 60 metri di profondità.

In particolare, la cantina Le Driadi Slow Farm sorge sul cosiddetto Eremo della Suora ed è stata completata nel 2018. A ridosso delle sue porte, il vigneto principale. Un ettaro circa di Merlot, 6400 piante in totale, allevate a cordone speronato su pendenze che arrivano al 50% nei punti più ripidi, a cui si aggiunge un impianto sperimentale con 500 piante di Bronner, uno dei vitigni resistenti Piwi più diffusi in Italia, specie in Alto Adige.

In dirittura d’arrivo anche altri nuovi vigneti, tutti recuperati dall’abbandono: un ettaro di Cabernet Sauvignon – che entrerà in produzione dall’annata 2020 – mezzo ettaro di Marzemino e un ulteriore ettaro misto detto “Vigneto del nonno” proprio a ricordare le tradizioni contadine del “vinificare tutte le varietà insieme”.

La certificazione biologica arriva solo a partire dall’annata 2019, ma l’approccio è chiaro fin dall’inizio nella mente di Gabriella e Luciano Chenet. Massimo rispetto per la biodiversità e per il territorio che li ospita, ma con un approccio ragionato e razionale.

“Preferiamo dire che seguiamo un metodo ‘Steineriano’ piuttosto che biodinamico”, sottolinea Luciano, specificando che non hanno alcun piano né interesse nel perseguire la certificazione di quest’ultima filosofia.

Non facciamo il trattamento con il preparato 501, il Cornosilice, per un semplice motivo: le nostre piante, già vigorose, godono di un’esposizione perfetta per il sole, che in estate arriva molto presto al mattino, e preferiamo evitare un eventuale stress solare”.

Sì, invece, ad altri trattamenti previsti da tale pratica, come il preparato 500 (Cornoletame), il tannino di castagno utilizzato al posto del rame per combattere la peronospora, oppure il macerato di ortica ed equiseto. L’impianto di Merlot risale al 2002, per venir poi abbandonato nel 2010 fino all’arrivo di Luciano e Gabriella nel 2014, che escono con la prima etichetta nel 2015.

“Prima ci appoggiavamo ad un’altra cantina, in affitto, ma non riuscivamo a seguire completamente tutti i singoli passaggi della vinificazione. Ora invece siamo autonomi, e in vendemmia dal vigneto alla diraspatrice passano solo pochi metri”, commenta orgoglioso Luciano.

La cantina è stata progettata da un architetto locale, con l’obiettivo di aver il minor impatto possibile sull’ecosistema, occupando solo lo spazio realmente necessario e utilizzando pietre locali come materiali.

In cantina prosegue un approccio ragionato e mai estremista. Le fermentazioni sono spontanee, con i lieviti indigeni, ma tenute sotto osservazione periodicamente per evitare l’insorgere di problemi e poter eventualmente intervenire in caso di necessità.

Vengono aggiunti il minimo indispensabile di solfiti e la temperatura non viene controllata. Il vino non viene stabilizzato, ma viene effettuata una chiarifica e una leggera filtrazione, tanto da lasciare comunque dei residui in bottiglia.

LA DEGUSTAZIONE

Colleoni Doc 2017 “Driade Felice”, Le Driadi Slow Farm
Merlot raccolto da tutto il vigneto, l’annata promette una grande maturità fenolica e la presenza di aromi primari, soprattutto fruttati, è tale che Luciano e Gabriella decidono di non produrre la controparte in solo legno.

Al naso è intenso, emergono note di ciliegia fresca, un accenno di amarena e una vena speziata che ricorda la liquirizia. Il sorso è potente e di gran corpo, materico, il tannino è morbido ma fisso sulle gengive.

L’acidità regala una sensazione di accesa freschezza. In bocca tornano le sensazioni organolettiche varietali, in un’esplosione di frutta che solo sul finale lascia ricordi di spezia dolce.

Colleoni Doc 2018 “Driade Felice”, Le Driadi Slow Farm
Annata in cui si avverte un cambio di rotta, non solo per la cantina nuova. Il vigneto è parcellizzato e per questa etichetta vengono utilizzati solo i frutti delle piante delle fasce esterne, dove si dimostrano più vigorose e produttive. Al naso si rivela un po’ chiuso e solo con il passare dei minuti si apre, lentamente.

È più scuro dell’annata precedente, prugna surmatura, susina nera e amarena. In bocca il corpo è pieno, denso, con un tannino potente e ancora da ammorbidire. Il finale è lungo e ricorda le prugne secche. Vino giovane, che comincerà a dare soddisfazioni tra uno o due anni.

Colleoni Doc 2016 “Alto della Poiana”, Le Driadi Slow Farm
Un anno e mezzo di barrique usate di varia provenienza per questo Merlot, in cui il vino base non segue ancora il procedimento di parcellizzazione del vigneto ma è lo stesso per entrambe le etichette.

Il naso è potente e diretto, balza fuori dal calice con toni dolci di caramello e confettura di ciliegie, prugna cotta, marasca sotto spirito, una spezia dolce che ricorda la cannella.

Il sorso è grosso, acidità giusta e tannino fitto, quasi polveroso, ma maturo. Un vino che deve trovare ancora il suo perfetto equilibrio. Il passaggio in legno emerge con note di cioccolato, caffè e una vena dolce di liquirizia. Note amaricanti sul finale.

Colleoni Doc 2018 “Alto della Poiana”, Le Driadi Slow Farm
Come per la variante a prevalenza acciaio, nel 2018 il vigneto è parcellizzato e vengono utilizzati solo i frutti dalle piante centrali, meno produttive e con maggiore concentrazione: la corretta gestione delle uve è ancora più evidente.

Si tratta inoltre di un’anteprima, le bottiglie sono etichettate sul momento e sono ancora a riposo. L’armonia organolettica è già molto buona, il vino si apre lentamente e sprigiona aromi di frutta fresca, torna la prugna ma in una veste elegante, che chiosa con sensazioni dolci di liquirizia e cannella e chiude con pizzichi di pepe nero.

Il corpo è bilanciato, il tannino è intenso ma integrato, l’acidità dona freschezza a un vino che mantiene una struttura importante, che si protrae a lungo con intensità. Pronto già per fine 2020, potrà stupire tra qualche anno.

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degustati da noi vini#02

Vino rosso fortificato “Merlino 16/02”, Pojer e Sandri

Merlino 16/02 è un vino rosso fortificato, nato dall’esperienza enologica di Pojer e Sandri. Viene prodotto sulla collina di Faedo (TN) da uve Lagrein parzialmente fermentate e successivamente addizionate di brandy, a sua volta ottenuto da Mario Pojer e Fiorentino Sandri da due varietà di uva locali del Trentino: la Schiava e il Lagarino. È il primo vino di questa tipologia prodotto in Italia, nel solco dei noti “vini fortificati”, come il Porto.

LA DEGUSTAZIONE
Merlino 16/02 si presenta al calice con un intenso color violaceo impenetrabile, che suggerisce una grande struttura. Il profilo aromatico è fedele alle caratteristiche del vitigno Lagrein, giocando su note di ciliegia sotto spirito, ribes e frutti di bosco, per poi proseguire su aromi vanigliati e di cioccolato.

L’ingresso in bocca è caldo, avvolgente, morbido, di grande struttura e con un’ottima corrispondenza. La componente alcolica è presente (19%), ma ben integrata e mai disturbante. Il finale è lunghissimo.

Pur avendo un residuo zuccherino abbastanza elevato (100-120 gr/l), il sorso di Merlino 16/02 non risulta stucchevole. Invoglia, anzi, al successivo e diverte nell’abbinamento. È un vino ideale come accompagnamento a dolci a base di cioccolato, ma anche “da meditazione”, in compagnia di un buon libro.

LA VINIFICAZIONE
Uve 100% Lagrein coltivate a pergoletta trentina aperta, con 6500 viti per ettaro. Una volta raccolte, vengono diraspate e lasciate in macerazione prefermentativa a freddo, con l’obiettivo di aumentare l’estrazione aromatica.

La fermentazione viene svolta parzialmente (4-5 gradi alcol svolti) e interrotta con l’aggiunta del brandy firmato da Pojer e Sandri. La gradazione alcolica è portata a quasi 20 gradi. Avviene dunque l’inattivazione di lieviti e batteri e gli zuccheri residui risultano così infermentiscibili.

L’affinamento del vino fortificato “Merlino 16/02” viene condotto negli stessi fusti utilizzati per il brandy. L’imbottigliamento in bordolese antica viene eseguito dopo 8-10 mesi, ad illimpidimento raggiunto.

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Colli Tortonesi Terre di Libarna Doc Spumante 2018 “Lüsarein”, Azienda Agricola Ezio Poggio

Uno spumante brut da uve Timorasso in purezza proveniente dalle Terre di Libarna, sottozona dei Colli Tortonesi che merita di essere conosciuta e apprezzata: “Lüsarein” 2018 dell’Azienda Agricola Ezio Poggio.

LA DEGUSTAZIONE
Perlage non finissimo ma molto persistente che esalta il colore, dorato e brillante, nel calice. Intenso nei profumi, più di quanto ci si aspetti. Il naso apre su note agrumate, scorza d’arancia e cedro, cui seguono delicate note erbacee ed un tocco minerale che dona verve all’intero spettro olfattivo.

In bocca la freschezza di Lüsarein è viva. L’ottima acidità supporta il sorso ed in principio quasi nasconde la viva sapidità di questo vino spumante. Una nota leggermente amaricante la chiusura, nella buona persistenza. Una bollicina agile e versatile, godibile dall’aperitivo fino ai piatti di pesce, senza tralasciare i primi piatti.

LA VINIFICAZIONE
Timorasso in purezza, l’uva regina in questo areale. Esposizione Sud, Sud-Ovest per dei vigneti che qui “sentono il mare, ma ancor più la montagna” con delle condizioni microclimatiche ideali per produrre spumanti e vini longevi.

Raccolta manuale, pressatura soffice, fermentazione e un anno di affinamento in acciaio a temperatura controllata con permanenza sulle fecce fini e batonnage programmati. Lüsarein è un Metodo Martinotti lungo: sei mesi in autoclave per la presa di spuma.

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degustati da noi vini#02

Trento Doc Riserva 2008 “Cuvée dell’Abate”, Abate Nero

Siamo a Trento, per la precisione in località Sponda Trentina. È qui che si trova una piccola ma storica realtà, nata dalla passione di Luciano Lunelli e oggi condotta dalla figlia Roberta. Un segno di continuità forte, che dura da più di quarant’anni. Parliamo dell’azienda Abate Nero , di cui la “Cuvée dell’Abate” è l’etichetta di punta.

Sotto la lente di ingrandimento il millesimo 2008, proposto con la classica bottiglia “sciampagnotta”. L’uvaggio, 100% Chardonnay ed il lungo affinamento sui lieviti (80 mesi), mettono il timbro sulla carta d’identità di una  produzione totalmente artigianale.

LA DEGUSTAZIONE
Cuvée dell’Abate” 2008 si presenta di un bel colore giallo paglierino lucente. Il perlage è fine e persistente, di una continuità esemplare. Il naso è complesso: si distinguono in sequenza sentori floreali e fruttati. Tiglio, biancospino, mela golden matura, kiwi, un cenno di mango. Poi ricordi di miele, una gradevole tostatura e frutta secca.

L’ingresso di bocca è connotato dalla cremosità e avvolgenza del perlage, in un gioco prezioso con la freschezza, più che mai viva. I sentori risultano corrispondenti a quelli avvertite al naso. La finezza risponde alle attese di uno spumante Trento Doc pensato per il lungo affinamento sui lieviti.

Ottanta mesi che permettono alla “Cuvée” 2008 di Abate Nero di abbinarsi a piatti importanti e strutturati, sia di terra che di mare. Un Metodo classico ottimo da degustare anche da solo, in un calice più ampio del consueto, che permetta di apprezzarne al meglio la straordinaria complessità gusto-olfattiva.

LA VINIFICAZIONE
La vinificazione è tradizionale. La prima fermentazione delle uve Chardonnay avviene in acciaio e la rifermentazione in bottiglia secondo il Metodo Classico, con presa di spuma e lungo affinamento sulle lisi. In particolare, la sboccatura risale alla primavera 2019. La massima espressione della “Cuvée dell’Abate” 2008 si verificherà attorno al 2025.

Abate Nero produce complessivamente 50 mila bottiglie. Abbastanza per permettere alla “maison” trentina di collocarsi tra i migliori produttori di “Bollicine di Montagna” Trento Doc, con un’impronta da sempre orientata alle lunghe evoluzioni.

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degustati da noi vini#02

Brut Metodo Classico Verdicchio Doc Riserva 2012 “Ubaldo Rosi”, Colonnara

Siamo ad Apiro e Cupramontana, nel cuore della zona classica di produzione del Verdicchio dei Castelli di Jesi, su terreni di origine marina, di medio impasto. Il motivo? La degustazione del Brut Metodo Classico Verdicchio Doc Riserva 2012Ubaldo Rosi” della cantina Colonnara.

Qui, grazie ad altitudini superiori ai 500 metri sul livello del mare, si ottengono uve con acidità elevate e pH molto bassi, perfette per la spumantizzazione. “Ubaldo Rosi” dell’azienda Colonnara è un metodo classico di sole uve Verdicchio, che con i suoi 60 mesi di affinamento sui lieviti si conferma ancora oggi un’eccellenza italiana.

LA DEGUSTAZIONE
Di colore giallo paglierino con riflessi verdolini presenta perlage finissimo e persistente. Al naso è intenso ed elegante. I richiami varietali del Verdicchio, come i fiori bianchi, precedono note di scorza d’arancia e rosmarino, per poi virare sulla crosta di pane e la piccola pasticceria.

Il sorso è fresco, secco e ben strutturato con buona corrispondenza retro olfattiva. La bollicina è sottilissima ed invoglia una beva già di per sé semplice per acidità e sapidità.Il finale è lungo e salino, tipico del vitigno.

“Ubaldo Rosi” è un Metodo classico che sorprende giovane, ma ancor di più se conservato qualche anno in cantina. Può accompagnare tranquillamente piatti di pesce in ogni declinazione.

LA VINIFICAZIONE
Le uve di Verdicchio utilizzate per la produzione del Metodo classico Brut “Ubaldo Rosi” vengono vendemmiate anticipatamente, per preservare i livelli di acido malico. Dopo pressatura e sfecciatura avviene la prima fermentazione, per ottenere il vino base a cui verrà aggiunta la liqueur de tirage.

L’affinamento sui lieviti, successivo alla presa di spuma per questa tipologia di vino dura 60 mesi. Per quanto riguarda la Riserva 2012, la sboccatura è stata effettuata nel febbraio del 2018.

Tutte le fasi di lavorazione, dal remuage alla sboccatura, vengono compiute manualmente. Prima della tappatura definitiva viene aggiunta la liqueur de expedition per ridosare gli zuccheri all’interno della bottiglia (Brut).

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degustati da noi Esteri - News & Wine news news ed eventi vini#02 visite in cantina

“Piacere Italia, sono Mr Heimann e produco Sagrantino a Szekszárd, in Ungheria”

Szekszárd, Ungheria meridionale: 160 chilometri a sud di Budapest, giù in linea retta. Meno di un’ora di strada dal confine con Serbia e Croazia. È qui che Zoltán Heimann ha deciso di piantare un ettaro di Sagrantino. L’uva che ha reso noto in tutto il mondo il borgo medievale umbro di Montefalco si è adattata bene al microclima e al terreno ricco di loess della regione vitivinicola ungherese di Tolna, di cui Szekszárd è capoluogo.

Un groviglio di valli soleggiate, che si distende a mano aperta lungo il 46° parallelo. Lo stesso di Egna e Montagna, in Alto Adige. Della Borgogna, in Francia. O della Willamette Valley, nell’Oregon. Una delle zone più vocate alla produzione dei vini rossi ungheresi, che qui risultano eleganti, speziati, generalmente agili e “pronti”.


Il tannino del Sagrantino, unito alla sua capacità di dare vita a vini da lungo affinamento, fa da spalla alle varietà Cabernet Franc e Kékfrankos in “Franciscus” e in “Grand“, due delle etichette top di gamma di Heimann Családi Birtok.

Ma si trova anche in “Sxrd“, vino fresco e moderno che suggella il cambio generazionale in corso tra i coniugi fondatori della cantina, Zoltán e Ágnes, e il figlio enologo Zoltán Jr, artefice della nuova e accattivante linea “Heimann & Fiai” (vini in vendita anche in Italia dal 2021, sull’e-commerce vinoungherese.it, di cui WineMag.it è Media partner).

Il tutto grazie al consiglio del consulente francese della cantina ungherese, che agli esordi del progetto – nel 1998 – suggerì a Zoltán Heimann di piantare a Szekszárd anche mezzo ettaro del vitigno tipico dell’Umbria, oltre a qualche filare di Tannat.


A distanza di 18 anni dal primo impianto, avvenuto nel 2002 grazie alle barbatelle giunte dall’Alto Adige tramite i vivai ungheresi Teleki-Kober, entrerà in produzione un altro mezzo ettaro di Sagrantino, che andrà addirittura a sostituire una porzione di Syrah.

“Ho imparato a conoscere nel tempo questa varietà – racconta Mr. Heimann a WineMag.it – e l’occasione di assaggiare per la prima volta il vino di Montefalco è capitata a Lucca, all’inizio del Duemila. Entrai in una wine boutique del centro e chiesi una bottiglia di Sagrantino. Ricordo ancora lo stupore dell’uomo che si trovava dall’altra parte del bancone. Faticò non poco a trovare una, ma alla fine riuscì a soddisfarmi”.

Nel 2012, dopo aver prodotto diverse edizioni di “Franciscus” e la prima di “Grand”, Zoltán Heimann torna in Italia e fa tappa in Umbria. Sempre a caccia di nuovi assaggi di Sagrantino, sceglie due cantine dalle filosofie diametralmente opposte.


“La Arnaldo Caprai – spiega il produttore ungherese – dall’impronta moderna e internazionale, e quella più artigianale di Paolo Bea. Mi trovai molto più a mio agio con la versione meno opulenta del Sagrantino di Bea, che ancora oggi cerchiamo di proporre a Szekszárd, nell’uvaggio con Cabernet Franc e Kékfrankos. Con Marco Caprai ho avuto modo di confrontarmi ancora a ProWein, negli anni scorsi”.

Assaggi che hanno aiutato a trovare ben presto la quadra per la vinificazione del Sagrantino alla Heimann Családi Birtok. La raccolta avviene generalmente a metà ottobre. La fermentazione avviene senza raspi, in acciaio. I rimontaggi, due volte al giorno, aiutano l’estrazione ottimale dei polifenoli.

Il mosto riposa a contatto con le bucce per un periodo compreso fra 20 e 30 giorni. La malolattica, svolta in acciaio, anticipa il trasferimento in botti da 1000 litri. Dopo un anno di riposo viene effettuato il taglio con Cabernet Franc e Kékfrankos. Il nettare, dopo un ulteriore affinamento in legno di circa un anno, viene imbottigliato e messo in commercio.

LA DEGUSTAZIONE

Védett eredetű száraz vörösbor Szekszárd Pdo 2017 “Franciscus”: 92/100
Etichetta che sarà in commercio a partire dalla fine del 2020. Siamo di fronte alla migliore espressione assoluta di Sagrantino di Heimann Winery, in attesa di un’ancor più promettente vendemmia 2018 (94/100) e da una buona 2019 (entrambe degustate da botte, la prima a taglio già effettuato).

Il vino si presenta di un rosso rubino carico, luminoso. Prezioso il gioco tra fiori, frutto e spezia, al naso. Le note fruttate, molto precise e scandite, risultano ben amalgamate ai ricordi vegetali del Franc, con virata netta sullo stecco di liquirizia.

Il tannino del Sagrantino è vivo, ma elegante e integrato, pronto evidentemente ad addolcirsi ulteriormente, negli anni. Un bel modo di raccontare il terroir di Szekszárd tra potenza, eleganza e attitudine al lungo affinamento.

Védett eredetű száraz vörösbor Szekszárd Pdo 2016 “Franciscus” (13,5%): 88/100
Un rosso che abbina potenza e morbidezza, rispecchiando perfettamente il carattere di una vendemmia caratterizzata dalla pioggia, nel periodo della raccolta delle uve.

Manca un po’ di struttura e un po’ di materia nella componente fruttata, come rivelano i richiami verdi leggermente preponderanti del Franc. Nel complesso, un vino che si fa bere con sufficiente agilità, orfano del nerbo riscontrabile nelle altre annate.

Oltalom allat álló eredetmegjelölésű száraz vörösbor Szekszárdi Borvidék 2012 “Grand” (15%): 90/100
Nel 2012, l’uvaggio di “Franciscus” entra nel progetto di costruzione di un’etichetta in collaborazione con altri quattro produttori della zona: un blend in grado di elevare l’immagine dei rossi di Szekszárd. Il risultato è eccellente.

Un vino ungherese dall’anima internazionale, con la potenza del Sagrantino che si fonde con le note profonde del Cabernet Franc e il frutto elegante, preciso e croccante del Kékfrankos.

Oltalom allat álló eredet-megjelölésű vörösbor Szekszárdi Borvidék 2008 “Franciscus” (14,5%): 91/100
È la prova del nove per il Sagrantino di Szekszárd: quella della longevità. Il vitigno umbro dà carattere a un vino che risulta perfettamente intatto, uscito vittorioso dalla battaglia con le lancette, sin dal colore. Il risvolto più “selvatico” del Sagrantino fa capolino per la prima volta al naso, contribuendo ad allargare lo spettro di sensazioni.

Si passa dalla viola appassita a un frutto di bosco di gran precisione, attraverso preziosi richiami di liquirizia e accenti goudron. Perfetta la corrispondenza gusto olfattiva. Tannino perfettamente integrato e sorso piuttosto agile, ma tutt’altro che banale. Buono anche l’allungo, su una preziosa venatura salina che chiama il sorso successivo.

Cuvée 2017 “Sxrd” (13%): 85/100
Il Sagrantino figura in piccola misura nell’uvaggio di “sXRd”, modernissimo vino rosso ottenuto in prevalenza da Cabernet Franc, Merlot e Kékfrankos . Un “moderno”, anello di congiunzione tra lo stile tradizionale di Zoltán senior e consorte e quello nuovo di Zoltán Jr.

Siamo di fronte al classico rosso “da frigo”, di quelli da bere anche d’estate. A canna. È in questa dimensione che dà il meglio di sé, anche a tavola. Un vino che fa facilità di beva uno stile, a prescindere dal vitigno e dalla zona di produzione.

Etichette come questa, capaci come poche di incontrare il gusto dei Millennials internazionali e di introdurli piacevolmente al complesso mondo del vino, meriterebbero una “categoria” a sé, a livello internazionale.

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degustati da noi vini#02

Oltrepò Pavese Doc Riesling 2018 “Lo Spavaldo”, Azienda Agricola Finigeto

Un nome di fantasia che lascia il segno, per una bella espressione di un vitigno noto in tutto il mondo. Sotto la lente di ingrandimento di WineMag.it finisce il Riesling dell’Oltrepò Pavese Doc 2018 “Lo Spavaldo” dell’Azienda Agricola Finigeto.

LA DEGUSTAZIONE
Giallo paglierino intenso, luminoso. Al naso è delicato, ma preciso e pulito. Leggero accenno di idrocarburo a sottolineare una bella mineralità. Note di fiori e di frutta perfettamente matura, che spazia dalla nespola alla pera kaiser. Vena agrumata che rimanda al pompelmo rosa.

L’ingresso in bocca e dominato dall’acidità che conferisce bevibilità. Chiusura sapida e minerale. Persistenza sufficiente. Aspettato qualche anno, “Lo Spavaldo” può regalare una piacevole evoluzione nel calice. Un vino la cui freschezza, al momento, invoglia a un aperitivo a base di salumi, ma anche di pesce e crostacei.

LA VINIFICAZIONE
Un microclima, quello in cui si trovano i vigneti di Riesling renano di Finigeto, caratterizzato dalla forte escursione termica tra il giorno e la notte e dalla natura calcareo-gessosa dei terreni. Caratteristiche particolarmente adatte alla varietà, che trova così il suo terroir favorevole in Oltrepò pavese.

Alla raccolta manuale dei grappoli segue una macerazione pellicolare a freddo delle uve intere, con la successiva separazione del mosto dalle vinacce mediante pressatura soffice. Il mosto così ottenuto viene lasciato decantare e posto a fermentare in vasche di acciaio a temperatura controllata. L’affinamento di 8 mesi in acciaio e di 3 mesi (minimo) in bottiglia regalano un vino pronto alla sfida col tempo.

***DISCLAIMER: La recensione di questa etichetta è stata richiesta a WineMag.it dalla cantina, ma è stata redatta in totale autonomia dalla nostra testata giornalistica, nel rispetto dei lettori e a garanzia dell’imparzialità che caratterizza sempre i nostri giudizi***

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Cerasuolo d’Abruzzo Doc 2016, Azienda Agricola Valentini

Riconosciuto a livello internazionale come una delle leggende enologiche italiane, il Cerasuolo d’Abruzzo dell’Azienda Agricola Valentini conferma la sua fama di grande vino rosato anche con la vendemmia 2016.

LA DEGUSTAZIONE
Il vino si presenta di un rosa corallo, un colore che potremmo definire “di evoluzione”, carico ed apparentemente impenetrabile. Impronta olfattiva profonda, che si apre progressivamente, continuando a regalare diversi profumi in successione. Sentori di frutta, in particolare fragoline di bosco e scorzette d’arancia, poi pietra bagnata ad anticipare terziari avvolgenti.

L’ingresso in bocca è rotondo, morbido. Sapidità e mineralità sono perfettamente amalgamate, mai ruvide. Ricorda quasi un vino rosso vestito da rosato. Una bella struttura supporta l’intero sorso, forte di una coinvolgente carica di freschezza.

Il tutto verso una chiusura lunga, caratterizzata da una mineralità difficile da dimenticare. Un vino ha ancora molto da dire, nel futuro. Caratteristica da non sottovalutare, considerando che si tratta di un vino rosato.

LA VINIFICAZIONE
Uve 100% Montepulciano coltivate attraverso lotta integrata e figlie di una vendemmia, la 2016, particolarmente fortunata. Naturalità anche nel processo di vinificazione: fermentazione spontanea in grandi botti (35 hl) di rovere senza controllo delle temperature e senza filtrazioni. Botti nelle quali il vino affina per 12 mesi, prima di passare in bottiglia dove riposerà ancora per almeno un altro anno.

Nome noto agli appassionati, l’Azienda Agricola Valentini di Loreto Aprutino (PE) rappresenta la realtà storicamente più antica della regione Abruzzo. Presente dal 1650, è conosciuta da decenni in tutto il mondo grazie alle eccellenti produzioni di Montepulciano d’Abruzzo, Cerasuolo e Trebbiano.

Attività fondata da Camillo Valentini premiato già nel lontano 1821 per un eccellente Trebbiano D’Abruzzo, e proseguita dal compianto Edoardo, che ha saputo centrare i migliori successi ed ora brillantemente condotta da Francesco Paolo. Un “artigiano del vino”, come che ama definirsi.

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Vigneti delle Dolomiti Igt 2017 Nosiola “Belle”, Francesco Poli Vignaioli

Santa Massenza Vallelaghi, piccolo comune a destra dell’Adige, lungo la valle che collega Trento al Lago di Garda. Terra di confine fra il clima mediterraneo del nord del Garda e il clima continentale del Trentino. Circa 150 anime e 5 distillerie che conservano il segreto della distillazione artigianale. Tra queste anche la Francesco Poli Vignaioli e “distillatori”, che con la Nosiola – unico vitigno autoctono trentino a bacca bianca – produce il Vigneti delle Dolomiti IgtBelle“, rifermentato vendemmia 2017.

LA DEGUSTAZIONE
Giallo paglierino leggermente velato dai lieviti e dal perlage, appena accennato. Al naso, il vino rivela da subito una vena aromatica, che riporta alla frutta bianca e gialla, all’erba appena tagliata e a un leggero sentore di nocciola.
In bocca si rivela morbido, quasi cremoso, fresco e di media persistenza.

Una Nosiola, “Belle”, connotata anche da una buona mineralità. Un vino perfetto per accompagnare un aperitivo e in grado di seguire i commensali durante tutto il pasto. In base al gusto, il vino può essere servito “scaraffato”, per evitare che i depositi finiscano nel calice, oppure agitando la bottiglia, per mescolarli e ritrovarli nel sorso (sono edibili).

Le uve Nosiola del rifermentato “Belle” provengono dai vigneti sovrastanti il lago di Santa Massenza, coltivati in regime biologico certificato da Icea. La raccolta delle uve avviene al mattino, nelle ore più fresche. Segue la pigiatura, con macerazione sulle bucce per alcune ore, nonché la soffice pressatura.

La fermentazione del mosto e la successiva maturazione sui lieviti fini, in vasche di acciaio inox, completano la vinificazione. L’imbottigliamento e la rifermentazione in bottiglia avvengono in primavera, con l’aggiunta di mosto del Vino Santo Trentino in fermentazione con i propri lieviti spontanei.

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