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Modena Champagne Experience 2019: i migliori 20 all’edizione della consacrazione


MODENA –
Sarà ricordata come l’edizione della consacrazione, la 2019 di Modena Champagne Experience. Buona la terza, insomma, per Club Excellence, l’associazione di distributori e importatori diretta da Lorenzo Righi, che il 13 e 14 ottobre ha raccolto a ModenaFiere oltre 4.500 persone.

A fare la differenza, in questo 2019, non è solo l’incremento di visitatori, ma un’organizzazione impeccabile sotto tutti i punti di vista, compresa un’offerta food variegata e di altissimo profilo. Tra le nuove tendenze scovate tra i banchi di assaggio c’è lo Champagne senza solfiti aggiunti, o da viticoltura biodinamica, con diverse etichette convincenti, alcune delle quali risultate tra i migliori assaggi di WineMag.it.

Un trend destinato a crescere nei prossimi decenni. I vigneron della Champagne, attraverso il proprio Comité Interprofessionnel di Epernay, sono impegnati dal 2000 in una politica di sviluppo sostenibile che ha in gran parte ridotto l’impatto ambientale della produzione.

Tra i macro obiettivi da raggiungere, la soglia “Zero erbicidi” entro il 2025 e il 100% delle aziende con una certificazione ambientale entro il 2030. Un quadro evidente anche tra le maison presenti in Emilia Romagna.

I NUMERI
Modena Champagne Experience 2019 segna un +15% di affluenza rispetto al 2018, con un deciso incremento nelle visite degli operatori del settore. Un segnale dell’interesse crescente per lo Champagne, in crescita pressoché costante dopo la crisi del 2008, che segnò un brusco calo nelle importazioni.

In quell’anno – spiega Lorenzo Righi – le vendite di Champagne in Italia, che fino ad allora si attestavano attorno a 10 milioni di bottiglie annue, subirono un crollo a causa della crisi e arrivarono a quota 5 milioni e 400 mila bottiglie. La situazione ha cominciato a migliorare gradualmente nel 2012, fino ad arrivare ai numeri attuali di circa 7,6 milioni di bottiglie“.

L’Italia resta un mercato target importante per le bollicine francesi. Settimo mercato per volume a livello mondiale (escludendo la Francia) e quinto in termini di valore. “Segno – commenta il direttore di Club Excellence – che non solo gli italiani consumano tanto Champagne, ma anche di qualità elevata“.

Siamo molto lieti che la nostra intuizione di tre anni fa abbia avuto modo di concretizzarsi e crescere nel tempo, fino ad arrivare ad una manifestazione che possiamo considerare oggi a tutti gli effetti un punto di riferimento a livello nazionale e una delle prime in Europa per tutto l’universo dello Champagne”.

Saltate le “Maison classiche”, gli assaggi di WineMag.it si sono concentrati sul resto dei padiglioni. Ecco i 20 (+3) migliori assaggi a Modena Champagne Experience 2019, tra 80 delle 125 maison presenti ai banchi di assaggio, per un totale di circa 250 assaggi tra le 500 tipologie di Champagne proposte da Club Excellence.

I MIGLIORI ASSAGGI A MODENA CHAMPAGNE EXPERIENCE 2019

Brut Nature Grand Cru Blanc de Blancs S.A., Bonnaire: 90/100
Uvaggio: 100% Chardonnay
Dosaggio: 2,2 g/l
Mesi sui lieviti: 48
Importatore: Bolis distribuzione

Brut Prestige Grand Cru Blanc de Blancs S.A., Bonnaire: 93/100
Uvaggio: 100% Chardonnay
Dosaggio: 6 g/l
Mesi sui lieviti: 60
Importatore: Bolis distribuzione

Brut 1er Cru 2012 “Oenophile”, Pierre Gimonnet & Fils: 92/100Dosaggio: 2,2 g/l
Uvaggio: 100% Chardonnay
Dosaggio: 0 g/l
Mesi sui lieviti: 72
Importatore: Gruppo Meregalli

Blanc de Noirs 2014, Albert Lebrun: 91/100
Uvaggio: 100% Meunier
Dosaggio: 4 g/l
Mesi sui lieviti: 42
Importatore: PS Premium Wine Selection

Millésime 2012, Encry: 93/100
Uvaggio: 100% Chardonnay
Dosaggio: < 1 g/l
Mesi sui lieviti: 50
Importatore: Proposta Vini

Longitude S.A., Champagne Larmandier-Bernier: 92/100
Uvaggio: 100% Chardonnay
Dosaggio: 3 g/l
Mesi sui lieviti: –
Importatore: Teatro del Vino

Terre de Vertus 2013, Champagne Larmandier-Bernier: 94/100
Uvaggio: 100% Chardonnay
Dosaggio: 0 g/l
Mesi sui lieviti: –
Importatore: Teatro del Vino

Silexus Sézannensis Extra Brut S.A., Champagne J. Vignier: 91/100
Uvaggio: 100% Chardonnay
Dosaggio: 5 g/l
Mesi sui lieviti: 60
Importatore: BP Bere e Passione

Absolu Extra Brut S.A., Paul Goerg: 91/100
Uvaggio: 100% Chardonnay
Dosaggio: Pas Dosé
Mesi sui lieviti: 48-72
Importatore: Ruffino

Esprit Brut Nature S.A., Henry Giraud: 91/100
Uvaggio: 80% Pinot Noir, 20% Chardonnay
Dosaggio: 7-8 g/l
Mesi sui lieviti: 18
Importatore: Ghilardi Selezioni

Blanc de Craie S.A., Henry Giraud: 93/100
Uvaggio: 100% Chardonnay (55% Aÿ, 45% Montagne de Reims)
Dosaggio: 7 g/l
Mesi sui lieviti: 24
Importatore: Ghilardi Selezioni

Cuvée ‘B S.A., Champagne Bourgeois-Diaz: 92/100
Uvaggio: 100% Chardonnay
Dosaggio: < 6 g/l
Mesi sui lieviti: –
Importatore: Les Caves de Pyrene

Extra Brut S.A., Francis Orban: 92/100
Uvaggio: 100% Meunier Noir
Dosaggio: 3 g/l
Mesi sui lieviti: 24
Importatore: Pellegrini

L’Orbane Cuvée Parcellaire Extra Brut 2011, Francis Orban: 95/100
Uvaggio: 100% Meunier Noir
Dosaggio: 3 g/l
Mesi sui lieviti: 72
Importatore: Pellegrini

Rosé Brut S.A., Francis Orban: 90/100
Uvaggio: Meunier Noir
Dosaggio: 8 g/l
Mesi sui lieviti: 24
Importatore: Pellegrini

Cuvée Louis S.A., Champagne Tarlant: 98/100
Uvaggio: 50% Chardonnay, 50% Pinot Noir
Dosaggio: 0 g/l
Mesi sui lieviti: 180
Importatore: Teatro del Vino

Zero Rosé Brut Nature, Champagne Tarlant: 94/100
Uvaggio: 50% Chardonnay, 44% Pinot Noir, 6% Meunier
Dosaggio: 0 g/l
Mesi sui lieviti: 60
Importatore: Teatro del Vino

Brut Nature S.A. (Senza Solfiti aggiunti), Drappier: 95/100
Uvaggio: 100% Pinot Noir
Dosaggio: 0 g/l
Mesi sui lieviti: 36
Importatore: Partesa

Concordance Extra Brut 2014 (Senza Solfiti aggiunti), Champagne Marie-Courtin: 92/100
Uvaggio: 100% Pinot Noir
Dosaggio: 0 g/l
Mesi sui lieviti: 36
Importatore: Soavino – Vigne senza confine

L’Osmose Extra Brut S.A., Pierre Gerbais: 93/100
Uvaggio: 100% Chardonnay
Dosaggio: 3-4 g/l
Mesi sui lieviti: 36
Importatore: Les Caves de Pyrene

Franc de Pied 1er Cru 2012, Champagne Nicolas Maillart: 96/100
Uvaggio: 100% Pinot Noir
Dosaggio: 0 g/l
Mesi sui lieviti: 60
Importatore: Rêverie Sas

Grand Cru Brut S.A., Paul Clouet: 92/100 (etichetta qualità prezzo)
Uvaggio: 80% Pinot Noir, 20% Chardonnay
Dosaggio: 6 g/l
Mesi sui lieviti: 96
Importatore: Visconti 43

Grand Cru Cuvée Prestige Brut S.A., Paul Clouet: 94/100 (etichetta qualità prezzo)
Uvaggio: 90% Pinot Noir, 10% Chardonnay
Dosaggio: 6 g/l
Mesi sui lieviti: 144
Importatore: Visconti 43

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Oche e cavalli in vigna, non son tutte rose e fiori: parola di Roberto “Ironman” Di Filippo


Le oche che passeggiano in vigna e i cavalli usati per trainare l’aratro, al posto dei trattori. Immagini idilliache, degne di paesaggi bucolici pennellati da Vincent Van Gogh, John Constable o William Turner. Eppure, chi pensa che la biodinamica sia il Mulino Bianco della viticoltura, deve ricredersi. Una chiacchierata con Roberto Di Filippo e, puff. Le cose appaiono da un’altra prospettiva. Courbetiana.

Due gravi incidenti – più un terzo finito bene – non hanno scalfito gli ideali di questo temerario vignaiolo umbro, che nella sua Cannara (PG) conduce dal 2009 30 ettari di vigneto certificati biologici, secondo i principi della viticoltura biodinamica. Cornoletame e fasi lunari, dunque. Ma soprattutto oche (circa 400) e nove cavalli, su 4 ettari.

Animali con cui Roberto Di Filippo è entrato ormai in simbiosi. Potesse parlare, lo confermerebbe pure Bebè, il suo “cavallo preferito”. Un amore forte come il titanio. E non si tratta di un eufemismo.

“Sono una specie di RoboCop o Ironman– scherza il vignaiolo di origini salernitane – ho tre viti e un chiodo di titanio di quasi mezzo metro nella gamba. Non suono in aeroporto solo perché è metallo puro! Il dottor Roberto Valieri, che mi ha operato per due volte a Perugia, dice che è orgoglioso di me e di come sono andate le operazioni”.

La cronaca dei due incidenti è per cuori forti. “Non avevo molta esperienza nell’addestramento dei cavalli – racconta Di Filippo – e stavo addestrando Bebè, arrivato da noi da puledro. Era il 18 aprile 2014. Lo stavo guidando a redini lunghe in un filare, tirando un tronco da 200 chilogrammi”.

“All’improvviso si spaventa per una macchina e inizia a correre. Cerco di fermarlo, ma mi rendo ben presto che non riesco a tener testa al suo peso: circa una tonnellata. In un attimo mi trovo a terra, steso. Guardo la gamba e la vedo girata a 45 gradi: tibia e perone fratturati”.

Attorno inizia ad accalcarsi il personale della cantina Di Filippo, oltre ad alcuni passanti. “Istintivamente, ho preso la gamba e me la sono raddrizzata da solo. Le ossa avevano riportato una frattura netta, composta ma non esposta. Tuttora chi ha assistito a questa scena la ricorda con orrore! In realtà ho agito per istinto, per via di tutta l’adrenalina che avevo in corpo”.

Di lì a due mesi, Roberto Di Filippo è di nuovo in piedi, grazie a una placca di titanio nella gamba. “Zoppicavo ancora quando gli amici di Castello di Tassarolo mi hanno convinto a partecipare a una gara con il cavallo, che prevedeva un percorso a gincana, con un tronco lungo 6 metri. Sono riuscito incredibilmente ad arrivare primo”.

Il secondo incidente, però, è dietro l’angolo. “Stavo addestrando Bebè, questa volta su un trailer costruito da me, sempre secondo i principi dell’agricoltura biodinamica. Un’auto fa manovra, Bebè si spaventa e parte: va incontro a delle pietre, a tutta velocità. Rischiavo di essere catapultato fuori dall’attrezzo, quindi sono saltato giù, atterrando proprio sulla gamba già ammaccata. Risultato? Frattura del piatto tibiale“.

All’ospedale lo stesso medico, ma il pensiero di Roberto Di Filippo è un altro: “Adesso come lo dico a mia moglie?”. “La stessa cosa che mi è frullata nella testa di lì a pochi mesi – ammette il vignaiolo di Cannara – quando, nel tentativo di dividere la vecchia cavalla Olga in calore e Diamante, uno stallone, mi sono preso un calcio che mi ha scaraventato a 3 metri. In quel caso, solo tanto dolore”. Matrimonio salvo, un’altra volta.

“Sono ferite di guerra – scherza Di Filippo – che valgono però come monito a chiunque pensa che la viticoltura biodinamica sia tutta rose e fiori. Gli incidenti, d’altro canto, sono avvenuti quando non avevo ancora una grande esperienza nell’addestramento dei cavalli”.

“Oggi come oggi – rassicura il produttore – Bebè è affidabilissimo, come tutti i cavalli che usiamo per condurre i turisti in giro in carrozza. Merito anche di Daniele Cardullo, addestratore di fama nazionale che ci affianca nelle attività in campo”.

Non ci si può improvvisare viticoltori biodinamici – ammonosce Roberto Di Filippo – e va ricordato che la biodinamica non comporta necessariamente l’utilizzo di animali. Ai giovani dico: diventate agricoltori, siate vignaioli autentici, duri e di testa dura. Ma sappiate che è dura. Dobbiamo riumanizzare l’agricoltura e la viticoltura”.

“L’importante – aggiunge il vignaiolo umbro – è recuperare la nostra identità di agricoltori, che ormai abbiamo perso. La biodinamica si è ormai evoluta in biotecnologia: non è detto che tutte le tecniche originarie siano ancora perfette. Il mio è un approccio molto pragmatico, per certi versi olistico e umanistico”.

I VINI DELLA CANTINA DI FILIPPO

Occasione della chiacchierata con Roberto Di Filippo è stata la presentazione della gamma di vini di Cantina Di Filippo, lunedì 14 ottobre al ristorante Tiraboschi 6, a Milano. Perfetti gli abbinamenti con i piatti dello chef Gianluca Panigada.

La schiettezza di Di Filippo appare evidente anche nei calici. Al centro l’assoluta riconoscibilità dei vitigni, grazie all’applicazione di principi vicini al mondo del “vino naturale”, ma senza gli estremismi che accontentano ormai solo una schiera sempre meno nutrita di ultrà vinnaturisti.

Scordiamoci che fare vino naturale significhi lasciare tutto in mano alla natura – sottolinea Roberto Di Filippo – perché piuttosto è vero l’opposto. Chi rinuncia alle pratiche enologiche più comuni deve essere ancor più bravo e più preparato degli enologi.

I vignaioli come me sono passati dall’essere considerati i freak del biologico degli anni 80, ai freak delle oche e dei cavalli dei tempi moderni. Quello che non si dice, è che per la gran parte di noi il progetto in vigna ha una base scientifica forte, reale, documentata da anni di studi e di applicazioni”.

Che il focus sia sulla ricerca della tipicità lo si capisce sin da subito: dal Grechetto frizzante Igt dell’Umbria 2018 (92/100) che si rifà al mondo dei “Col Fondo”. Molto più di una versione umbra del “Prosecco delle origini”.

Malafemmena” – questo il nome di fantasia, in onore di Antonio “Totò” De Curtis – è di fatto uno dei frizzanti più centrati nel panorama enologico italiano, fuori dai confini di un Veneto che ha fatto da apripista.

Si prosegue con due versioni di Grechetto dell’Umbria Igt, una delle quali “Senza solfiti aggiunti” (90/100). A convincere maggiormente è proprio questa etichetta, che appare più diretta e senza fronzoli.

Al frutto esotico risponde la vena “dura” e “cruda” tipica del vitigno: muscolo e chiusura leggermente amarognola, al limite della percezione tannica. Il tutto in un quadro comunque equilibrato, che stimola la beva. Ancora più accentuata la vena fruttata nel Grechetto “convenzionale” (87/100) in vendita anche nei supermercati NaturaSì.

Il viaggio continua nell’universo dei vini rossi di Cantina Di Filippo. Grazie a un lavoro scrupoloso in vigna, Roberto “Ironman” riesce a portare nel calice due etichette di grandissimo valore. Per motivi differenti.

Colpisce la prontezza di beva del Montefalco Sagrantino Docg 2015 “Etnico” (91/100) classico vino in grado di accontentare sia il palato più accorto e “tecnico” sia il palato del semplice amatore. Tannino presente ma disteso e maturità perfetta del frutto, parlano della scelta perfetta nell’epoca di raccolta delle uve.

Fondamentale anche il lavoro in cantina, dove Di Filippo effettua la macerazione di una notte su un terzo della massa, mentre la parte restante viene vinificata in rosso, in maniera classica: l’obiettivo è estrarre esclusivamente colore e primari (frutto e varietale), per poi effettuare l’assemblaggio.

Non poteva mancare una versione più “tradizionale” del noto rosso umbro, offerta dal Montefalco Sagrantino Docg 2015 (94/100) la cui bottiglia è contraddistinta dal medaglione centrale, color argento.

Un vino di eleganza assoluta, che sfodera – come nella migliore delle attese – una complessità maggiore di quella di “Etnico”. È il Sagrantino classico, quello da aspettare per lo meno cinque anni prima che inizi a trovare il suo equilibrio, nella sua crescita verso l’apice della “forma”.

Alle note nette di sottobosco si accosta una vena minerale, che ricorda la pietra focaia. Il tannino è naturalmente ruvido, ma evidenzia tutta la sua natura nobile nel controbilanciare la vena fruttata del sorso. Un altro vino che si fa bere con facilità, se accostato al piatto giusto.

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***DISCLAIMER*** L’articolo è frutto di un pranzo-degustazione organizzato per la stampa dalla cantina e dal relativo ufficio stampa. I commenti espressi sono comunque frutto della completa autonomia di giudizio della nostra testata, nel rispetto assoluto dei nostri lettori

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Malanotte sì: alla scoperta della Docg del Piave, con l’Unno 2010 di Antonio Facchin

Cosa ci fa un Unno a cavallo, sulla “cavalchina” di Borgo Malanotte? A guardar bene, non potrebbe esserci immagine migliore per descrivere il carattere irruento del Raboso Piave, vitigno con cui è possibile produrre – unito al Raboso Veronese – la prima Docg a bacca rossa della provincia di Treviso. Si tratta della Malanotte Docg, nota anche come Piave Malanotte Docg. Quell’Unno, sull’etichetta del vino simbolo della cantina Antonio Facchin, è nientemeno che il re Attila.

Il valoroso e temibile “Flagello di Dio”, secondo la leggenda, attraversò la pianura del Piave passando per Tezze di Piave, frazione del piccolo borgo di Vazzola (TV). È qui che si erge Borgo Malanotte, un vero e proprio museo a cielo aperto che deve il nome alla famiglia trentina di mercanti di lana “Malanotti” o “Malenotti”, che ci visse nel Seicento.

L’epoca d’oro, segnata dalle sfarzose (e discusse) feste notturne orchestrate dall’ultima abitante, Camilla, è finita. Oggi Borgo Malanotte è diventato il cuore geografico dell’omonima Docg, fortemente voluta da un manipolo di vignaioli intenzionati a valorizzare al massimo la straordinarietà del Raboso.

Poche regole ma chiare per la Denominazione di origine controllata e garantita divenuta realtà nel 2010, sotto il “cappello” del Consorzio Vini Venezia. Due vitigni, il Raboso del Piave o il Raboso Veronese; appassimento delle uve in pianta o sui graticci, per un minimo del 15% e un massimo del 30%, in modo da distendere tannini e struttura degna dell’Unno Attila.

Infine, commercializzazione possibile solo a partire da 3 anni dalla vendemmia, dopo 12 mesi di sosta in legno grande o barrique e 4 mesi di bottiglia. Il resto lo fa lo stile del vignaiolo o della cantina produttrice.

“Malanotte del Piave – spiega Stefano Quaggio (nella foto sotto) direttore del Consorzio Vini Venezia – è una delle due Docg tutelate dal Consorzio Vini Venezia, assieme al Lison Docg. Si tratta di un e vero e proprio prodotto di nicchia. Lo scorso anno sono state imbottigliate circa 40 mila bottiglie di Malanotte”.

Il trend è positivo per questa piccola Docg veneta. “Abbiamo notato che di anno in anno cresce l’interesse dei produttori nei confronti di questa tipologia, che per tutte le cantine rappresenta il top di gamma. A dare una spinta decisiva alle vendite è l’estero. Non a caso, il prossimo anno il Consorzio Vini Venezia sarà presente al VinExpo di Hong Kong: il mercato cinese si sta rivelando una piazza importante per i nostri produttori”.

I prezzi del Malanotte del Piave Docg risultano interessanti per i buyer internazionali, soprattutto se si considera la tipologia: si spazia dai 16 ai 30 euro medi a scaffale, per un vino rosso che subisce un affinamento minimo di 3 anni in cantina. L’obiettivo è quello di crescere ancora, in valore.

La superficie vitata è invece ben circoscritta dall’areale della Doc Piave. “La cosa interessante – evidenzia ancora Quaggio – è che ogni anno i produttori cambiano, decidendo se produrlo o meno. Ad oggi non sono mai stati più di venti all’anno. Chi crede nel Raboso del Piave e nella sua massima espressione, generalmente produce Malanotte”.

Rispetto al Raboso Doc, la Docg presenta regole di produzione ben più rigide. Non solo sul fronte della vinificazione e dell’affinamento minimo in cantina, ma anche su quello delle rese. Non si possono superare i 120 quintali per ettaro.

“Non è semplice contenere il Raboso – sottolinea ancora il direttore del Consorzio Vini Venezia – dal momento che è un vitigno molto produttivo. Basti pensare che i grappoli maturi pesano circa 1 chilogrammo ciascuno ed è un attimo riempire una cassetta”.

Vignaioli come Antonio Facchin (Antonio Facchin & Figli), Antonio Bonotto (Bonotto Delle Tezze) e Marino Cecchetto (Ca’ di Rajo), desiderosi di produrre un Raboso del Piave di qualità superiore, hanno avviato in zona la pratica dell’appassimento, divenuta nel 2010 uno dei punti cardine del rigido disciplinare della Docg Malanotte.

L’UNNO 2010 DI ANTONIO FACCHIN: LA DEGUSTAZIONE (95/100 WineMag.it)

Tra le etichette più rappresentative della Docg c’è senza dubbio l’Unno 2010 di Antonio Facchin, degustato da WineMag.it in occasione di Feel Venice 2019. La rassegna enogastronomica, andata in scena a Venezia il 5 ottobre, ha visto protagoniste le cinque Denominazioni del vino “veneziano”.

Doc Venezia, dunque, accanto a Doc Piave, Doc Lison-Pramaggiore, Lison Docg e, appunto, Malanotte del Piave Docg. Tra diversi assaggi di annate più recenti e ancora condizionate dal legno, l’Unno 2010 di Antonio Franchin è quello che garantisce, al momento, il migliore compromesso tra terziari e tipicità del Raboso.

Nel calice, il vino si presenta di un rosso rubino pieno, mediamente trasparente, luminoso. Buona la densità. Naso intenso, in cui l’Unno si esprime su note di lamponi e ribes che fanno da contraltare a una speziatura elegantissima.

Il quadro, complesso, si allarga a note di corteccia, resina e aghi di pino. Ma anche a tracce di macchia mediterranea (rosmarino) e fumo. In bocca, splendido sottofondo salino su cui si dipana una trama di frutta rossa croccante.

Un vino che diventa da mordere in centro bocca, dove l’Unno 2010 si fa succoso e irresistibile nella beva. Chiusura asciutta, di gran pulizia, su un tannino presente ma non disturbante. Capitolo a parte per l’alcol: i 15% vol. risultano incredibilmente integrati, rendendo la bottiglia “pericolosa” come una torta per un bambino goloso.

Quanto alla vinificazione, la raccolta delle uve avviene a mano, tra la fine di ottobre e i primi giorni di novembre, dai filari allevati a Capovolto e Bellussi (nota anche come “Bellussera“, nella foto sopra).

La macerazione sulle bucce avviene secondo i procedimenti più innovativi. Seguono svinatura e diversi travasi. Il 30% delle uve viene sottoposto ad appassimento naturale sui graticci e viene pigiato solo a fine gennaio.

L’affinamento minimo è di 24 mesi in acciaio e di 36 mesi in botte grande, per l’80% Rovere Allier (quercus sessilis) e per il 20% di Slavonia. Prima della commercializzazione, l’Unno affina per 12 mesi in bottiglia.

A TAVOLA CON L’UNNO E IL “PICCANTINO” TOMASONI

Per l’abbinamento dell’Unno 2010 di Antonio Facchin, doveroso ricorrere al territorio, ma con una proposta accattivante. Quella che offre il Caseificio Tomasoni col suo “Piccantino“, al di là del logico pairing con le carni carni rosse e la cacciagione.

Si tratta della “forma” eletta “Miglior formaggio aromatizzato e stagionato” nel 2014, in occasione della prima edizione della selezione casearia “Erbe de Casari“.

Come è facile dedurre dal nome, si tratta di un formaggio semi stagionato da tavola a pasta compatta, impreziosito da pezzetti di peperoncino che donano gusto e regalano un contrasto gradevole col latte vaccino e caprino.

Il Piccantino è perfetto per chi ama sapori decisi e piccanti, in abbinamento al Malanotte Docg di Antonio Facchin anche a fine pasto. Due realtà che camminano a braccetto nell’area del Piave, per attaccamento al territorio.

Il caseificio artigianale Tomasoni, infatti, ha una storia lunga oltre 60 anni nella produzione di formaggi freschi, stracchini, ricotte e robiole con latte vaccino, di capra e bufala. Fondato da Primo Tomasoni nel 1955, oggi l’azienda è diretta dai figli, Moreno, Nicoletta e Paola, nonché dalla nipote Eva.

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Appius 2015: la sesta “firma” di Hans Terzer sul gioiello di Cantina San Michele Appiano


MILANO –
Pablo Picasso diceva che “l’arte spazza la nostra anima dalla polvere della quotidianità”. Citazione più che mai azzeccata per Appius 2015, sesta annata di uno dei vini simbolo di Cantina San Michele Appiano, che porta la firma del winemaker Hans Terzer. La quotidianità “spezzata” è innanzitutto quella altoatesina. Dopo aver presentato sin dagli esordi le nuove annate del suo gioiello nell’altrettanto sua Appiano (BZ), Cantina St. Michael-Eppan ha scelto in questo 2019 Milano.

Una decisione – quella concretizzatasi ieri sera a Palazzo Bovara – dettata dai lavori in corso per l’ammodernamento del sito produttivo da 2,5 milioni di bottiglie complessive annue, rese possibili da una rete di 330 soci viticoltori, che lavorano “come preziose formichine” – parola di Hans Terzer – ben 385 ettari di vigneto.

Secondo elemento di discontinuità? La scelta dell’accompagnamento culinario, affidato sino allo scorso anno allo chef stellato Herbert Hintner, “vicino di casa” di Cantina San Michele Appiano.

Giocando in trasferta, il presidente Anton Zublasing ha pescato dal cestello l’opzione esotica (l’unica in grado di non scontentare nessuno degli chef tradizionalmente ‘resident’ di Milano): quella di Wicky Priyan del Wicky’s, che ha letteralmente deliziato gli ospiti di Palazzo Bovara con i profumi e i sapori della sua deliziosa Innovative Japanese Cuisine.

Del resto, se di vino si parla, l’opera d’arte deve concretizzarsi nel calice. Non prima, però, di aver affascinato alla vista, ancora chiusa. La bottiglia di Appius 2015 si presenta di fatto con un elegantissimo mantello nero, con scritte e “spolverate” d’oro.

“Non tentate di fotografarla perché è impossibile”, scherza Hans Terzer dopo aver svelato la bottiglia, nascosta per tutta la sera sotto un telo scuro. Riflessi che hanno del metafisico, nel loro prendersi gioco dell’obiettivo delle fotocamere, prima di trovare la giusta inquadratura e angolatura.

Tempo che scorre mentre ci si rende che sì, la bottiglia è bella. Ma ciò che conta è fotografarne (e apprezzarne, poi) l’anima: il contenuto. Roba comunque per pochi “eletti”: solo 6 mila bottiglie, più “qualche grande formato”. Né tante né poche, per un’opera d’arte in “limited edition“.

LA DEGUSTAZIONE

E allora eccolo Appius 2015 finalmente nel calice, a concretizzare le aspettative di un Terzer “sempre più convinto che la via maestra sia quella di una cuvée di vini bianchi concentrata sullo Chardonnay, cui altre varietà bianche fanno da completamento”.

Dunque Chardonnay (55%), Pinot Grigio (20%), Pinot Bianco (15%) e Sauvignon (10%). L’anima nera della bottiglia si fa dorata e densa, d’un giallo paglierino luminoso, con riflessi verdolini lievissimi.

Intenso il naso, quasi esplosivo: racconta più che altro di un Sauvignon di immensa finezza, dalle note erbacee tenere come pochi riescono a coglierle, persino in Alto Adige. Gli fa da spalla il Pinot Bianco, coi suoi preziosi tintinnii agrumati.

A sentori più che altro “duri”, non possono che rispondere – per il principio dell’equilibrio – Pinot Grigio e Chardonnay, con la dosata grassezza che disegna la cifra stilistica di Terzer. Al palato una perfetta corrispondenza. È tutto un rincorrersi di note tropicali d’ananas, banana e mango, ma anche di albicocca e pesca.

Il sorso è al contempo morbido e verticale, vista la freschezza balsamica della mentuccia e della resina di pino, che giocano con la frutta e il sale. Il tutto prima di un finale lungo e asciutto, su ritorni intensi d’agrume e soluzione iodica. Punteggio: 96/100.

IL PROGETTO

La vinificazione di Appius 2015 avviene in botti di legno, così come la prima parte dell’affinamento, svolta in barrique e tonneaux per circa un anno. Segue poi un ulteriore affinamento di tre anni sui lieviti, in tini d’acciaio inox.

Il nome di fantasia “Appius” deriva dalla radice storica e romana di “Appiano”. Prima annata sei anni fa, con la vendemmia 2010, seguita da 2011, 2012, 2013 e 2014. Una cuvée che, anno dopo anno, vuol essere capace di rappresentare fedelmente il millesimo ed esprimere la creatività e la sensibilità del suo autore, Hans Terzer.

Anche il design della bottiglia e la sua etichetta sono reinterpretati di vendemmia in vendemmia. Lo scopo è di concepire una “wine collection” in grado di entusiasmare gli appassionati di vino di tutto il mondo.

Quest’anno la raffigurazione creativa di Appius, ideata e realizzata dai “Brand Performers” di Life Circus di Bolzano, esprime “un concetto d’insieme e il legame tra Natura e Persone, la coesione tra il Terroir, i viticoltori e la Cantina di San Michele Appiano”.

“Una primordiale nube di particelle – spiega un rappresentante dell’azienda – che racchiude l’incessante movimento e l’addensarsi di elementi come terra, acqua, luce, stagioni, e rappresenta la visione appassionata di ricerca verso l’eccellenza”.

Ma soprattutto, l’etichetta di Appius 2015 “permette una libera interpretazione, affinché ogni wine lovers possa averne un’intima ispirazione”. Prima di stappare la bottiglia, s’intende. Cin, cin.

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Vigna Solenga 2015, il Buttafuoco storico che illumina la strada all’Oltrepò pavese


“Tanta fatica, tanta passione, tanta volontà. E i risultati, anche se arrivano, sono minimi rispetto allo sforzo necessario per raggiungerli”. Che il Buttafuoco storico “Vigna Solenga” fosse molto più di un semplice vino per la famiglia Fiamberti, era chiaro a tutti. Mai, però, qualcuno era riuscito a sintetizzare così bene il concetto come ha fatto ieri Ambrogio Fiamberti, al Chic’n Quick dello chef Claudio Sadler.

La vendemmia 2015 del rosso simbolo di una delle cantine storiche dell’Oltrepò pavese ha sfilato a due passi dal Naviglio, come un guerriero tornato vincitore in patria col suo esercito, dopo la battaglia. Con l’armatura tirata a lucido e lo sguardo fiero all’orizzonte.

Già, perché è questo l’effetto che fanno i migliori vini di uno dei territori più massacrati d’Italia dalle (il)logiche dei commercianti d’uva, quando superano i confini pavesi per approdare con successo a Milano (città in cui dovrebbero essere presenti per principio costituzionale, nelle carte di tutti i ristoranti che si definiscano tali).

Uno squillo di tromba prodotto in sole 2 mila bottiglie, dunque una vera e propria chicca enologica. Del resto, il Buttafuoco Storico “Vigna Solenga” 2015 è quello che fa dire “buona la seconda” a Giulio Fiamberti, orgoglioso figlio di Ambrogio.

Il cru fu acquistato dai miei antenati nel 1814 e fu ‘ritoccato’ solo negli anni Venti del Novecento. Dopo il necessario reimpianto avvenuto nel 2007, abbiamo dovuto attendere 7 anni prima di poter produrre di nuovo il nostro Buttafuoco Storico, sulla base delle regole del Consorzio fondato nel 1996″.

Peccato che “7 anni”, a partire dal 2007, voglia dire 2014. “Un’annata particolarmente sfortunata in Oltrepò – ricorda Giulio Fiamberti – come in altri territori d’Italia. Eccoci dunque a presentare con grande soddisfazione questa 2015, prima vendemmia della Vigna Solenga dopo il reimpianto“.

UN VINO BANDIERA

Un vino che indica la strada a tutto l’Oltrepò pavese: quella della zonazione e dei “cru“, come leva per puntare alla qualità assoluta, da raccontare ai mercati, dalla vigna fin dentro (e fuori) dal calice.

“Sono assolutamente convinto che l’Oltrepò, così come qualunque altra grande zona di produzione di vini, non sia tutta uguale – commenta Fiamberti -. Ciò non vuol dire che una zona sia migliore dell’altra, ma che ci siano delle specificità da valorizzare in ognuna, prima di tutto a livello ampelografico”.

Un territorio come il nostro – aggiunge il produttore oltrepadano – con differenze impressionanti di altitudini, di microclimi, di terreni e di esposizioni, non può fare a meno della zonazione. Altri territori hanno, per fortuna o sfortuna, una maggiore omogeneità. Da noi, la zonazione diventa non soltanto una strada da seguire: è assolutamente necessaria“.

Un passaggio non ancora affrontato in maniera seria, a livello consortile. “Conforta, per ora – chiosa Fiamberti – che molte aziende simbolo dell’Oltrepò abbiano avviato questo percorso autonomamente, all’interno dei vigneti di proprietà. Chiunque alzi l’asticella nel nostro territorio, per noi è solo un amico e un compagno di viaggio“.

E “l’asticella” oltrepadana si alza anche in enoteca e nella ristorazione, grazie al Buttafuoco Storico “Vigna Solenga” 2015. L’etichetta di Fiamberti sarà in vendita attorno ai 35 euro nelle migliori “botteghe” del vino.

Al ristorante, sarà invece in carta attorno ai 45 euro: il posizionamento che merita un Oltrepò che ha bisogno di sdoganarsi dalle logiche della Grande distribuzione organizzata, puntando a mercati degni del proprio valore.

Del resto, come sottolinea Giulio Fiamberti, “nel ‘Vigna Solenga’ c’è tutta la storia della nostra famiglia e anche il suo futuro, dal momento che per noi il Buttafuoco è la cifra dell’azienda e vogliamo che lo sia sempre di più”.

“Siamo convinti che i cru siano una chiave di successo per tutti i territori che producono grandi vini rossi, tra cui va annoverato l’Oltrepò pavese del Buttafuoco Storico”. Il calice, del resto, conferma questa tesi.

LA DEGUSTAZIONE

[Voto WineMag.it: 94/100 – Rapporto qualità prezzo: 5/5] Parola d’ordine “finezza” per sintetizzare quello che c’è da aspettarsi dal calice di “Vigna Solenga” 2015, uvaggio di Croatina (50%), Barbera (40%), Uva Rara (5%) e Ughetta di Canneto (5%).

A garantirla sono i conglomerati di Rocca Ticozzi presenti nel terreno: ghiaie di origine marina che offrono preziosi sali minerali alle radici della pianta, permettendo un eccellente drenaggio delle acque.

La Valle Solinga, strettissima, accentua poi le escursioni termiche tra vetta e fondo valle, utili a trovare il giusto punto di equilibrio tra i vari gradi di maturazione delle uve, che crescono tra i 200 e i 280 metri sul livello del mare.

La freschezza e la sapidità garantite dalle condizioni microclimatiche, si traducono nel calice in una estrema raffinatezza ed eleganza, capaci di garantire al Buttafuoco Storico 2015 “Vigna Solenga” una beva davvero instancabile. Merito di una sapiente estrazione durante la lunga macerazione e di un utilizzo di legni non invasivi.

Evidenti anche le garanzie di positivo affinamento negli anni a venire, quando l’ulteriore periodo “in vetro” amalgamerà tra loro le varie componenti. A beneficiarne sarà soprattutto la parte olfattiva, al momento ancora leggermente “slegata”. Il guerriero ha solo il raffreddore. Roba da niente. Domani sarà già passato.

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Il Pinot Nero dell’Ahr in 12 etichette: il volto “rosso” della Germania “bianchista”


Si estende per 25 chilometri, lungo l’omonimo fiume. Ma per capire qual è la fortuna dell’Ahr non occorre osservare l’orizzonte. Meglio stare col naso all’insù. Osservando le ripide rive che affascinarono i Romani, cui si devono le prime tracce di viticoltura eroica. Oggi, l’Ahr si è affermata come una delle zone più vocate per la produzione del Pinot Nero (Spätburgunder) a livello internazionale. Assieme a Baden, nel Rheingau, costituisce la risposta “a bacca rossa” al “bianco” Riesling, vino e vitigno bandiera di una Germania più che mai “bianchista”, almeno nell’immaginario comune.

Siamo al confine nord del Palatinato (Rhineland-Palatinate) a una quarantina di chilometri a sud dalla città di Bonn. Il confine col Belgio è a un’ora di viaggio, imboccando la Liebfrauenstraße in direzione ovest. Con i suoi 560 ettari vitati, 480 dei quali allevati con uve rosse, l’Ahr – dal celtico “aha”, “acqua” (del fiume) – risulta la decima regione viticola tedesca.

Le 1.800 ore di sole e i 560 millimetri di piogge annue, garantiscono al Pinot Nero una perfetta maturazione e avvicinano l’Ahr alle caratteristiche microclimatiche di paradisi vitivinicoli ben più noti come Appiano, in Alto Adige, o l’Alsazia.

Un’area che, paradossalmente, ha goduto dei cambiamenti climatici, responsabili dell’innalzamento della temperatura media. Quello che invece non è cambiato è il vero valore aggiunto dell’Ahr: il terreno.

Le viti affondano le radici in un substrato di rocce sedimentarie come grovacca e ardesia, arenarie grigiastre che assicurano una buona permeabilità del suolo, evitando pericolosi ristagni. Non mancano loess e conglomerati di origine vulcanica.

La Vdp Ahr è una vera e propria nicchia nel panorama internazionale del Pinot Nero. Si conferma tale anche nel quadro tedesco, assestandosi sul 3% della produzione complessiva a denominazione. L’indice di conversione economica è invece di tutto rispetto, nonostante siano meno di un quinto le aziende vocate alla qualità assoluta.

Le circa 200 mila bottiglie prodotte fruttano di fatto 1,6 milioni annui. Rigidissimi i disciplinari, specie se si tratta dell’apice della piramide qualitativa. Solo 6 le aziende autorizzate alla produzione dei Grand Cru.

Risicatissime le rese per questa tipologia. Si parla infatti di 56 quintali per ettaro. Facile dunque capire perché i Pinot Noir della valle dell’Ahr siano così rari da trovare in Italia.

In occasione delle Giornate del Pinot Nero 2019, organizzate a Egna e Montagna (BZ), Dennis Appel (nella foto, a destra), direttore commerciale & Marketing di Weingut Meyer-Näckel ha presentato la Verband Deutscher Prädikats und Qualitätsweingüter (Vdp) Ahr attraverso il racconto di dodici etichette.

Hanno aderito al tasting promosso dall’Associazione Giornate del Pinot Nero, presieduta da Ines Giovanett (nella foto), sei produttori tedeschi: Weingut J.J. Adeneuer, Weingut Deutzerhof Cossmann-Hehle, Weingut H.J. Kreuzberg, Weingut Meyer- Näckel, Weingut Nelles e Jean Stodden – Das Rotweingut.

LA DEGUSTAZIONE: IL PINOT NERO DELL’AHR IN 12 ETICHETTE


Eck Spätburgunder GG 2016, Weingut Deutzerhof Cossmann-Hehle: 89/100
L’etichetta è frutto di un singolo cru (“GG” sta infatti per “Grosses Gewächs”, i “Grand Cru” del vino tedesco). D’estate, nel vigneto si raggiungono fino a 50 gradi centigradi.

Si tratta Pinot Nero, ma dello storico clone “Kaastenholz”, connotato da una bacca ancora più piccola e compatta, con rese di 25 ettolitri per ettaro. Colore rubino luminoso, trasparenza tipica del vitigno. Un Pinot Noir che, al naso, evidenzia oltre al frutto una spezia netta, scura.

Legno piuttosto integrato. In bocca buona presenza, pienezza e una straordinaria vena sapida che controbilancia, con la sua “durezza”, le percezioni terziarie conferite dall’affinamento in barrique. Vino giovane.

Monchberg Spätburgunder GG 2016,Weingut Deutzerhof Cossmann-Hehle: 88/100
Le uve di Pinot Nero provengono in questo caso dal Grand Cru a forma di anfiteatro che si trova di fronte alla sede aziendale, a Mayschoß. Piccole quantità di argilla e loess nel terrreno, oltre all’ardesia e allo scisto.

Lieviti non selezionati per questa etichetta, che matura ancora una volta in barrique di rovere. Il colore è più carico del precedente. Naso e bocca si confermano quelle di un Pinot Noir dal taglio più internazionale e “grasso”.

In bocca, però, la nota verde e la chiusura su ricordi di buccia di lime disegnano un rosso dalle tinte vagamente “tropicali”. Centro bocca succoso e sapidità attenuata dalla perfetta maturità del frutto. Gran facilità di beva.

JS Spätburgunder GG Gutswein 2017, Jean Stodden – Das Rotweingut: 89/100
Impronta netta di frutti di bosco e fiori, come la violetta. Al naso anche una nota “verde”, riconducibile al mallo di nocciola. Sottobosco sia per la componente fruttata che per quella terrosa, che ricorda funghi porcini e muschio.

L’affinamento in barrique chiama sbuffi di fondo di caffè e caramellina mou. In bocca gran raffinatezza ed eleganza per questo Pinot Noir che rivela un’ottima struttura. Trama tannica chiaramente arrotondata dal legno.

Dernauer Hardtberg Spätburgunder GG 2016, Weingut Stodden – Das Rotweingut: 87/100
Diciotto mesi in barrique nuove: legno piuttosto invadente, sia al naso che al palato. Vino certamente gastronomico, dal contributo alcolico piuttosto marcato. Le note speziate conferiscono freschezza a un sorso di prospettiva. Un Pinot Noir dell’Ahr da aspettare.

Ahr Spätburgunder Devonschiefer R 2016, Weingut H.J. Kreuzberg: 89/100
Ancora una volta barrique nuove, al 100%. Naso in linea con i precedenti assaggi: frutto di bosco e fondo di caffè, questa volta corroborati da un bouquet di erbe aromatiche, con il rosmarino in evidenza. Bella eleganza al palato.

Vino di un’essenzialità piena, che va ben oltre la mera percezione scheletrica del terroir. Colpisce per la gran precisione del frutto, a dispetto di un naso ampio e un po’ troppo condizionato dal legno, al momento. Nel retro olfattivo, ancora una volta è il sale a controbilanciare i terziari “grassi” della barrique.

Ahr Silberberg Spätburgunder GG 2015, Weingut H.J. Kreuzberg: 88/100
Secondo vino della linea “Collezione Vdp” della cantina di Dernau. Frutto rosso più pieno e maturo del precedente. L’effetto è quello di un vino più “caldo”, se non altro per la percezione alcolica.

In bocca ancora una volta è la percezione glicerica a dominare la scena. Anche il frutto è maturo. La spezia risulta corroborante, nel gioco con una leggera percezione salina e amaricante.

Ahr Spätburgunder Blauschiefer Vdp 2016, Weingut Meyer Näkel: 89/100
Legno usato e si sente, nel senso che il legno “non” si sente come in altri campioni in degustazione, esaltando appieno il frutto del Pinot Nero e il terroir dell’Ahr. Al naso anche una macchia mediterranea netta, con richiami di rosmarino ed erme aromatiche come la salvia.

Siamo di fronte a un vino più che mai essenziale, dritto, verticale, che si allarga in centro bocca e si accende di spezia in chiusura, con richiami di liquirizia e leggero fumé. Gran eleganza, in definitiva, con tannini fitti ma delicati e un leitmotiv minerale, suggerito dal terreno ricco d’ardesia. Un Pinot Noir sussurrato all’orecchio, con grande garbo.

Ahr Silberberg Spätburgunder GG 2016, Weingut Meyer Näkel: 88/100
Sedici mesi di affinamento in barrique, di cui il 70% nuove. Fermentazione in tini aperti per un massimo di 16 giorni. Legno un po’ invadente al naso: ne risente il frutto, ancor più conoscendo l’abilità della cantina ad un’estrazione croccante dei primari, toccata con mano nel precedente campione in degustazione.

Anche al palato, medesima situazione. Vino certamente gastronomico, con contributo alcolico piuttosto marcato che chiama necessariamente il piatto. Non mancano acidità e freschezza, che fanno ben sperare per un positivo equilibrio futuro tra le varie componenti.

Ahr Spätburgunder Gutswein 2016 “J.J. Adeneuer N° 1”, Weingut J.J. Adeneuer: 87/100
Legno nuovo al 60%, come sempre barrique. Frutto di bosco maturo, cui fa eco un ricordo di miele. In bocca sorprendente freschezza e croccantezza del frutto. Un palato pieno, con tannini eleganti e in fase di integrazione.

Ahr Gärkammer Spätburgunder GG 2016, Weingut J.J. Adeneuer: 89/100
Rubino più carico dei precedenti, alla vista. Naso che va ben oltre al frutto, con richiami di radice di liquirizia. In bocca il legno si sente, ma non impedisce al frutto e alla macchia mediterranea di esprimersi, specie in un finale che si rivela assieme speziato e salato.

Ahr Pinot Noir 2016, Weingut Nelles: 89/100
Parte bassa valle Ahr. Unica azienda che ha tra i suoi vigneti un terreno vulcanico. Il Pinot Nero è village, con uve selezionate solo da quel Comune. Affinato solo in botte grande e acciaio. Frutto e origano netto al naso. Salvia.

Al palato tra i vini più sapidi dei due flight in degustazione tra i Pinot Noir dell’Ahr. Chiusura su pietra focaia e ritorni di sale netti, oltre a origano. Buona eleganza, gran gastronomicità. Chiama (anche) piatti di pesce.

Ahr Spätburgunder GG Heimersheimer Burggarten 2016, Weingut Nelles: 90/100
Gran parte della massa matura in barrique nuove, per 15 mesi. Tra i nasi più suadenti, rotondi e al contempo intriganti della batteria, per la capacità del frutto di slanciarsi fra i terziari.

Il legno si sente ma non disturba, anzi rende più complesso il quadro con le sue note tostate, sia al naso che in bocca. Palato fresco e salino, con ritorni di frutta croccante. Chiusura leggermente speziata, ottima persistenza.

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Ahr, la nuova frontiera del Pinot Nero

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degustati da noi vini#02

Franciacorta Docg Riserva 2011 non dosato “Bagnadore”, Barone Pizzini


Chi lo ha detto che arrivare “dopo” è peggio? Dopo oltre 70 mesi di affinamento in bottiglia, il Franciacorta Docg Riserva 2011 non dosatoBagnadore” è stato presentato in anteprima al Ristorante Viva della chef stellata Viviana Varese. Un’etichetta che Barone Pizzini ha saputo sapientemente attendere, immettendo sul mercato prima la vendemmia 2012.

Dire che ne è valsa la pena è poco. Bagnadore 2011 è un Franciacorta di grande schiettezza al palato. Teso, equilibrato. Capace di assicurare una lunghissima longevità. “Per noi un’annata strepitosa – commenta Silvano Brescianini, general manager di Barone Pizzini – che potremmo quasi dire fortunata. Ci aspettiamo grandi cose anche dall’annata 2016, alla quale per certi versi assomiglia la 2011″.

“Le favorevoli condizioni climatiche – continua Brescinini – hanno permesso l’ottenimento di basi spumante di eccellente qualità, tanto che viene concessa la riserva vendemmiale. Le condizioni si sono rivelate ottimali anche per la composizione acidica e la concentrazione del prodotto”.

Un successo, quello di Bagnadore 2011, legato secondo il manager di Barone Pizzini anche “ad una maturità aziendale che ci ha permesso di raggiungere degli ottimi risultati”. Risale allo stesso anno, inoltre, l’avvio della collaborazione con il professor Leonardo Valenti dell’Università di Milano (a sinistra nelle foto), in qualità di agronomo ed enologo.

Numerosi i riconoscimenti ottenuti da Bagnadore 2011 sulle guide Guide enologiche del 2020: 3 Bicchieri dal Gambero Rosso, 4 viti dell’Ais 5 Grappoli da Bibenda, tra i Migliori Spumanti da L’Espresso 2020, Vino Slow da Slow Wine, Corona da Vini Buoni d’Italia di Touring Club.

Un Franciacorta che va ben oltre il calice e l’etichetta. “Bagnadore – spiega Piermatteo Ghitti, amministratore delegato della Barone Pizzini – rappresenta e interpreta nel migliore dei modi la nostra filosofa aziendale. Siamo stati infatti i primi a produrre Franciacorta da viticoltura biologica certificata. Ma è anche un vino a cui sono particolarmente affezionato”.

“Questa Riserva – spiega Ghitti – nasce infatti per volontà di mio padre Pierjacomo, tra i fondatori della Barone Pizzini, con lo scopo di celebrare la nostra famiglia: siamo infatti detti i ‘Bagnadore’, dal nome del torrente che scorre accanto alla nostra dimora quattrocentesca di Marone, sul lago d’Iseo”.

LA VINIFICAZIONE
Ventimila le bottiglie prodotte per l’annata 2011, frutto di rigore e tanta pazienza, oltre che di una selezione accurata delle uve. La tecnica di vinificazione prevede un leggero passaggio in legno, ma soprattutto un prolungato affinamento e nessun dosaggio.

Bagnadore 2011 nasce dal sapiente matrimonio delle migliori uve Chardonnay (60%) e Pinot Nero (40%), provenienti da un unico vigneto: il Roccolo. Piante di oltre vent’anni, che godono dei benefici di una posizione spettacolare.

Si trovano infatti nei pressi di un bosco che mitiga il calore, garantisce un’ottima escursione termica e favorisce la biodiversità. Le uve vengono vendemmiate separatamente, pressate e affidate per 8 mesi alle barrique e altrettanti mesi in vasche inox, dove maturano prima di essere assemblate.

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Terra Libertà 2018, il vino rosato di Walter Massa: un inno all’anarchia enologica


Libertà” di mescolare uve bianche e rosse. “Libertà” di berlo quando ne hai voglia. “Libertà” di metterci il tappo a vite. E “Libertà” di usare il vetro scuro per la bottiglia, contro la moda dilagante del rosato provenzale: perché il vino, come i libri, andrebbe sempre giudicato dal contenuto, non dalla “copertina”. L’ultimo vino rosato del genio-vignaiolo piemontese Walter Massa è un inno all’anarchia enologica.

Ma è anche – e forse soprattutto – un trionfo del bere “quando cazzo ti pare, senza troppe seghe mentali”. Nonché l’apoteosi del “tappo a vite, da sdoganare tra i consumatori, mica solo per il vino rosato”.

Terra Libertà” è il rosato che fa arrossire tutti quei produttori italiani (spesso improvvisati) di rosé, dal colore volutamente scarico. Un pugno in fronte a quella forsennata rincorsa a una Provenza che risulta ancora più lontana, dopo l’assaggio. Alla faccia del carbone.

Il rosato – commenta Walter Massa – è un vino che non è gratificato dal mercato, come tipologia. Un vino spesso relegato a seconda scelta qui in Italia e accompagnato da immeritati stereotipi. Si dice sia un vino da donne, da bere d’estate e ghiacciato, un vino che non sa invecchiare. Un’ingiusta fama, da addebitarsi in gran parte a pratiche diffuse e appartenenti al passato”.

LA DEGUSTAZIONE
Rosa salmone intenso, trasparente. Al naso, il bouquet di fiori di rosa si allarga alla frutta: lampone, fragolina di bosco, accenni di buccia d’agrume. Non mancano ricordi di erba appena sfalciata.

Al palato, il rosato “Terra Libertà” 2018 di Walter Massa entra fresco e chiude salino, su un leggero accenno di tannino che contribuisce a rendere il sorso asciutto e a chiamare quello successivo.

Centro bocca sulle note fruttate già avvertite al naso, con accenni minerali. In definitiva, un rosato più “bianco” che “rosso”. Gli abbinamenti? Quattro amici, un caminetto, le castagne. Ma anche del buon pesce di lago o quattro fette di salame. Di sicuro perfetto con le zuppe di Pigi, la “badante” di Walter: provare per credere.

LA VINIFICAZIONE
Il rosato “Terra Libertà” è ottenuto dall’unione dei mosti di Barbera (50%), Cortese (30%) e Freisa (20%). Le uve sono state raccolte nella prima metà di settembre. Per la pigiatura è stata utilizzata una pressa a polmone, capace di garantire una spremitura soffice.

La vinificazione delle tre varietà è avvenuta in vasche di acciaio da 35 a 50 ettolitri. Fermentazione spontanea a temperatura controllata e imbottigliamento con azoto, in assenza di ossigeno, hanno preceduto la commercializzazione.

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Cantine degustati da noi vini#02

Amarone della Valpolicella Classico Docg 2014 “Corte Matio”, Leonardo Cecchini


L’Amarone che non ti aspetti: fruttato, sì. Ma anche freschissimo. Dalla beva instancabile. È l’Amarone della Valpolicella Classico Docg 2014 “Corte Matio“, prodotto e imbottigliato da Leonardo Cecchini a San Giorgio di Valpolicella (VR). Una piccola realtà artigianale che smetterà di esistere a breve, per l’assenza di eredi desiderosi di proseguire la tradizione di famiglia.

LA DEGUSTAZIONE
Colore rosso intenso, impenetrabile. Naso di frutta rossa matura: amarena ma anche fichi, datteri. Poi liquirizia dolce, polvere di cioccolato e caffè. Note genericamente calde quelle dell’Amarone “Corte Matio”, che si adagiano su un sottofondo fresco, balsamico, mentolato. Accenni alla macchia mediterranea e al pepe nero.

Il palato non delude le aspettative, in un quadro di perfetta corrispondenza gusto olfattiva. L’ingresso di bocca e l’allungo si confermano all’insegna della massima freschezza. Frutta e spezia dominano un sorso di gran equilibrio.

Accompagnando verso una una chiusura lunga, su ricordi di confettura che fanno da contraltare alla vena profonda, balsamica, talcata, vero fil rouge dell’Amarone “Corte Matio” di Leonardo Cecchini.

LA CANTINA

La cantina si trova al piano terra della bellissima “Corte Matio”, che da sempre ospita la famiglia di Leonardo Cecchini. Il primo ad abitarla, all’inizio del Novecento, è il nonno mezzadro. I Cecchini diventano poi proprietari dell’immobile nel 1958.

“Mio nonno era produttore di uva e gran consumatore di vino – ricorda Leonardo Cecchini -. Mio papà vendeva l’uva a Bertani. Quando ho finito le medie, abbiamo deciso di fare il grande passo, iniziando a vinificare in proprio i nostri 3 ettari”.

Leonardo aveva 15 anni. Ora che ne ha 61 ha deciso di appendere l’Amarone al chiodo. “Sono stanco – ammette con voce ferma – andrò avanti con le giacenze per i prossimi tre, quattro anni. Poi chiudo. Nessuno mi dà una mano, non ho figli o nipoti che vogliano seguire la mia strada. Tornerò a vendere le uve”.

Eppure, la produzione di Cecchini – tutta di alto livello – è cresciuta negli anni. Ai due vini storici, Ripasso e Recioto, è stato affiancato l’Amarone, per un totale complessivo che si assesta tra le 12 e le 13 mila bottiglie annue.

Solo 3.500 quelle di Amarone “Corte Matio”. Fedele agli insegnamenti del padre la tecnica di vinificazione: “Per scelta non faccio legno, ma solo acciaio e vetro. Il vino ci mette un po’ di più a maturare”.

“I primi anni mi davano del deficiente in tanti – chiosa Leonardo Cecchini – ora mi dicono che finalmente hanno trovato un Amarone che sa di vino e non di legno”. Ad aiutare l’espressione del frutto è la posizione vocata delle vigne, non a caso adiacenti a quelle di produttori rinomati come Masi, Quintarelli e Tommasi.

I vigneti, situati a San Giorgio di Valpolicella, frazione di Sant’Ambrogio di Valpolicella (VR), sono collocati tra i 250 e i 280 metri sul livello del mare. Le pendenze sono discrete, riequilibrate dai muretti a secco. Tradizionale anche la forma d’allevamento, che Cecchini ha voluto mantenere: si tratta della “Pergoletta”.

Il mercato di “Corte Matio” è per il 90% costituito da privati, residenti nei comuni della Valpolicella. Ogni tanto si affaccia in cantina qualche turista. Pochissimi i ristoranti a cui Leonardo Cecchini vende il suo vino. Una gemma che ora, dopo 46 anni, smetterà di esistere.

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Toscana Igt 2017 “Le Difese”, Tenuta San Guido


È una sorta di preludio al celebre Sassicaia, il Toscana Igt 2017 “Le Difese” di Tenuta San Guido. Un entry level che evidenzia le grandi attitudini bordolesi del territorio di Bolgheri, in una veste adatta a molti palati.

Ottenuto da un 70% Cabernet Sauvignon e un 30 % Sangiovese, “Le Difese” – in vendita anche al supermercato, nelle vetrine “chiuse a chiave” dei punti vendita più forniti e all’avanguardia – convince per l’ottimo rapporto qualità prezzo.

LA DEGUSTAZIONE
Alla vista si presenta di un rubino luminoso, trasparente. Naso di buona intensità e finezza, che si evolve bene con l’ossigenazione, senza snaturarsi. Frutti rossi come il ribes, ma anche neri come la mora selvatica.

Il sottofondo rivela un utilizzo non invasivo del legno, suggerito da richiami leggeri di vaniglia. Vi si elevano ricordi di macchia mediterranea, come rosmarino e alloro. Non mancano richiami floreali alla viola e alla rosa, accenni alla liquirizia nera e leggeri sbuffi pepati.

Ingresso di bocca su una buona struttura, costruita da un’ossatura fresca e sapida che accompagna il sorso sino a una chiusura asciutta, di buona persistenza anche se non di grandissima complessità. Il centro bocca è dominato dalla frutta. Questo il momento in cui calice trova la perfetta corrispondenza gusto olfattiva.

Tannini fini e distesi, anche se non del tutto addomesticati, rendono il sorso setoso, senza rinunciare a un minimo di “graffio”, che torna utile nel pairing. Perfetto l’abbinamento con i piatti a base di carne, meglio se alla griglia. “Le Difese” 2017 non disdegna la selvaggina o i formaggi saporiti, specie se ben stagionati.

LA VINIFICAZIONE
Prodotto per la prima volta nel 2002, “Le Difese” 2017 di Tenuta San Guido è figlio di un’annata giudicata “molto particolare” dagli agronomi ed enologi di Bolgheri. Una delle più siccitose, dopo la 2003.

A mitigarla, le brezze marine diurne, alternate alle brezze di terra notturne, che hanno dato refrigerio ai vigneti, evitando alle piante di andare in “stress”. L’andamento climatico ha influito negativamente sulle rese, mediamente più basse del 20% rispetto ad un’annata normale, ma non sulla qualità dei mosti.

In particolare, i terreni su cui insistono i vigneti destinati a “Le Difese” registrano una forte presenza di zone calcaree, ricche di galestro e di sassi, solo parzialmente argillosi. Si trovano a un’altitudine compresa fra i 100 e i 300 metri sul mare, con esposizione a Sud / Sud-Ovest.

Il sistema di allevamento è il cordone speronato, con una densità d’impianto che varia da 5.500 a 6.250 ceppi per ettaro. La vinificazione prevede innanzitutto una attenta selezione dei grappoli, tramite tavolo di cernita.

Pressatura e diraspatura soffice delle uve anticipano la fermentazione in tini di acciaio inox, a temperatura controllata (29-30°C) senza aggiunta di lieviti selezionati. Segue una macerazione sulle bucce per 10-13 giorni per il Cabernet Sauvignon e per circa 13-15 giorni per il Sangiovese.

Fondamentali le successive fasi di rimontaggio e deléstage, volti ad ammorbidire i tannini. Anche la fermentazione malolattica viene svolta in acciaio. Una volta terminata, il vino atto a divenire “Le Difese” affinata per circa 8 mesi in barrique di rovere.

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Alla scoperta dell’Aglianicone. Il nuovo vino bandiera del Cilento in 6 assaggi


Un nome che ispira giovialità, ma che non deve trarre in inganno. L’Aglianicone, nuovo “vino bandiera del Cilento“, recuperato da un manipolo di fieri vignaioli e pronto ad entrare a pieno diritto nei disciplinari di produzione della Dop Cilento e delle Igp Paestum e Colli di Salerno, non va confuso col più noto Aglianico.

Dotato di una maggiore facilità e prontezza di beva, favorita da tannini più “dolci” e da un frutto più immediato, si sta ritagliando un posto d’onore tra i vini del Cilento – accanto dunque a Fiano e Aglianico – anche grazie alla sua presenza nella Dop Castel San Lorenzo. L’unica, al momento, in cui può essere indicato in etichetta.

Venerato dagli stranieri, a cui ricorda per certi versi il Pinot nero – accostamento che sentiamo di sottoscrivere solo parzialmente – conquista fette di mercato anche in Italia. Tanto da ‘costringere’ i produttori dell’Associazione Terre dell’Aglianicone a gestire con parsimonia gli ordini dei ristoratori locali, vista la produzione limitatissima.

Già, perché lo scopo dei vignaioli della provincia di Salerno è ora quello di far conoscere questo ‘nuovo’ ma antico vitigno al maggior numero possibile di consumatori. Raccontandolo come una delle bellezze imperdibili dell’areale cilentano. Una terra generosa di cultura, arte e architettura, oltre che di enogastronomia.

Gli investimenti privati delle singole cantine – spiega Ciro Macellaro (nella foto) presidente dell’Associazione Terre dell’Aglianicone – stanno cominciando a dare i loro frutti e abbiamo ottimi motivi per continuare a proporre questo straordinario vitigno come vera bandiera del Cilento“.

A dispetto di un’iscrizione nel Registro Nazionale che risale al 1971, la riscoperta del vitigno Aglianicone si deve in primis ad aziende come Tenute del Fasanella, che assieme a pochi altri privati ha avviato il lavoro di propagazione delle barbatelle, con il supporto della Regione Campania.

Oggi, l’Associazione Terre dell’Aglianicone conta ormai dieci aziende: Viticoltori De Conciliis, Cantina Rizzo, Azienda agricola Scairato, Tenuta Mainardi, Tenute del Fasanella, Tenuta Macellaro, Azienda agricola Silvaplantarium, Azienda agricola La Cantina dei Nonni, Nuova Val Calore e Cardosa di Marco Peduto.

LA VENDEMMIA DELLA CONSACRAZIONE

Solo 10 mila le bottiglie prodotte nelle ultime annate. La vendemmia 2019 sarà quella della consacrazione definitiva. “Contiamo di produrre un totale di circa 15 mila bottiglie – anticipa Ciro Macellaro – continuando nella crescita”.

Rosee anche le prospettive per la superficie vitata, con un numero crescente di produttori disposto a investire in nuovi impianti di Aglianicone, spariti nel corso dei decenni per far spazio ai più redditizi Aglianico, Sangiovese e Barbera.

Secondo i più recenti censimenti dell’Associazione, in Cilento sarebbero 30 gli ettari vitati complessivi. “Contiamo di raggiungere quota 60 ettari entro i prossimi 4, 5 anni”, annuncia ancora Ciro Macellaro.

Mano tesa ai produttori da parte del Consorzio Vini Salerno. “Valorizzare varietà come l’Aglianicone – riferisce a WineMag.it il presidente Andrea Ferraioli – è il nostro compito principale. Definirlo autoctono è persino sbagliato, per certi versi. Sarebbe meglio parlare di una ‘varietà storica’ per il nostro amato Cilento”.

“La portarono i Greci in provincia di Salerno – continua Ferraioli – e grazie all’impegno di alcune cantine, oggi, possiamo ancora parlarne. L’Aglianicone rientrerà nelle prossime modifiche ai disciplinari, nell’ottica di poter essere menzionato sulle etichette dei vini Dop Cilento e Igp Paestum e Colli di Salerno”.

Riteniamo infatti che la vera sfida per il vino italiano non sia più soltanto quella della qualità – precisa Ferraioli – ormai appannaggio di tutti grazie ai progressi della tecnologia, a livello internazionale. In provincia di Salerno vogliamo puntare sul valore aggiunto costituito da vitigni distintivi, unici e irripetibili, come l’Aglianicone”.

UNA VARIETÀ “FORTUNATA”

Le carte in regole ci sono tutte, anche dal punto di vista delle caratteristiche ampelografiche. Si tratta infatti di un’uva che matura prima dell’Aglianico, anche – e soprattutto – dal punto di vista fenologico.

“Nel corso delle nostre sperimentazioni – evidenzia Paola De Conciliis della cantina Viticoltori De Conciliis (nella foto) – siamo riusciti a dimostrare quanto l’Aglianicone sia predisposto alla produzione in regime biologico, grazie a una conformazione spargola del grappolo e allo spessore della buccia che conferisce una buona resistenza al crittogame”.

“Abbiamo così la possibilità di presentarci sul mercato con un’impronta del carbonio molto bassa – evidenzia ancora Paola De Conciliis – unita a una sostanziale certezza di vendita per via delle produzioni quantitativamente ridotte: esiste ormai una domanda che incontra un’offerta insufficiente, tanto da consentirci di spuntare prezzi attorno ai 20 euro“.

Il ritrovamento di diverse vecchie viti di Aglianicone in un’area molto vasta, compresa tra i comuni di Castel San Lorenzo, Castelcivita, Postiglione e Monteforte Cilento, dimostra inoltre la grande capacità di quest’uva di adattarsi alla variabilità pedoclimatica. Un altro punto a favore, nell’auspicato scacco matto al mercato. Prosit.

LA DEGUSTAZIONE

Castel San Lorenzo Dop Aglianicone 2018 “Albanuova”, La Cantina dei Nonni di Doto Michele

Rosso rubino intenso, riflessi violacei. Al naso frutto rosso, arancia sanguinella, leggero tratto selvatico ed ematico. Con l’ossigenazione spunta la macchia mediterranea sulla spezia nera e il corredo si fa balsamico. In bocca l’acidità è vibrante. Il vino si fa bere ad ampi sorsi, suggerendo un consumo a una temperatura più fresca della media dei rossi.

Castel San Lorenzo Dop Aglianicone 2017 “Indigeno”, Azienda Agricola Cardosa di Marco Peduto
Rosso rubino intenso, riflessi che sfiorano le tinte granata. Frutto nero al naso, oltre al rosso: mora e mirtillo sul lampone e il ribes. Frutta matura che gioca con un verde da mallo di noce, ma anche su descrittori scuri come la liquirizia.

Echi di resina e menta, un leggero selvatico. Un naso decisamente complesso. In bocca, la struttura non esasperata e l’acidità spinta finiscono per esaltare un tannino fine, anche se presente in maniera più netta rispetto al precedente assaggio. Buona prova sulla bilancia della longevità, a due anni dalla vendemmia.

Colli di Salerno Igp Rosso 2016 “Quercus”, Tenuta Macellaro di Ciro Macellaro
Rosso rubino intenso, riflessi violacei. Naso che evidenzia un’ottima pulizia e precisione delle note fruttate: ciliegia, lampone, arancia rossa. Intriganti le note di tabacco, ginepro, liquirizia e prugnolo.

Al palato, in perfetta rispondenza alle caratteristiche del vitigno, il vino convince per agilità più che per struttura e corpo. La netta corrispondenza gusto olfattiva si sviluppa su un’acidità vibrante, che si arricchisce di note di tamarindo. Chiusura sulla liquirizia e su note vagamente amaricanti.

Paestum Igp rosso 2015 Buxento, Azienda Agricola Silvaplantarium di Donnabella Mario
Rosso rubino carico. Naso inizialmente timido, ma che conviene di gran lunga aspettare. Perché poi si fa ampio e pronto ad arricchirsi di nuovi sentori regalati dall’ossigenazione, di minuto in minuto. Oltre ai consueti frutti rossi (lampone e ciliegia su tutti), si avvertono ricordi autunnali terrosi, di foglia bagnata, fungo porcino e humus.

In bocca colpisce per l’elegante ruvidezza del tannino, che assieme all’ormai consueta acidità gioca con la parte glicerica, molto ben integrata (13,5% vol.). Chiusura altrettanto fresca e fruttata, sul melograno appena maturo. Accompagnano tutte le fasi dei dosati accenni selvatici, sia al naso che al palato.

Paestum Igp Rosso 2015 “Alburno”, Tenute del Fasanella
Rubino carico, riflessi violacei. Tabacco, liquirizia dolce, salvia, rosmarino, ginepro, china: piace citare in sequenza le note che si susseguono in uno dei calici più convincenti della batteria. Un altro naso da aspettare, affinché possa esprimersi al meglio. E in bocca il nettare finisce per convincere ancor più del naso.

Un vino rispondente alla freschezza e acidità dell’Aglianicone: una struttura più corpulenta gioca a riequilibrare una parte glicerica presente (15% vol.) anche se per nulla disturbante. Chiude su un accenno di tannino, sottolineato per la prima volta da una liquirizia più verde (radice) che nera.

Misterioso, Viticoltori De Conciliis
Poco si sa su questa etichetta che degustiamo appositamente senza fare domande al produttore (per ora!). Il colore rubino e l’unghia violacea parlano di un nettare giovane, d’annata.

Anche il naso, scolpito su sentori pieni di frutti di bosco maturi (more, mirtilli, lamponi) fa pensare a una vendemmia recente. Bella la facilità di beva. Sapidità e leggero tannino (quest’ultimo in chiusura) fanno da spina dorsale a un nettare che, quantomeno, contiene una buona percentuale di Aglianicone.

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Cantine degustati da noi news news ed eventi vini#02

Parco del Venda: c’è un faro tra i vini dei Colli Euganei


VÒ –
Quando ha conosciuto Carlo Toniolo, Dina Mostacchi era un’australiana come tante. Genitori italiani – mamma piemontese e papà lombardo valtellinese – che si guadagnavano il pane “tagliando con le mani la canna da zucchero”. Dna tricolore, d’accordo. Ma non avrebbe mai potuto immaginare di vivere sui Colli Euganei ed esser parte di una delle cantine più rappresentative del territorio: Parco del Venda.

Un marchio acquisito negli anni Ottanta, anche se l’azienda agricola affonda le radici negli anni Cinquanta, forte dei vigneti della madre di Carlo Toniolo, originaria di Boccon. Oggi la cantina, a conduzione pressoché famigliare, è gestita dal marito Carlo e dai figli Michael, nato in Australia, e Daniela, nata ad Este (PD). Un melting pot ben assortito, che sembra riproporsi nel calice.

Nei vini dei Colli Euganei di Parco del Venda si ritrova il carattere spiritoso e istrionico di Dina. Quello duro e intransigente di Carlo. La vena artistica di Michael e della moglie Benedetta, che cura marketing ed etichette. E la graziosa leggiadria di Daniela. Due le punte di qualità assoluta: il Merlot “Lapilli” e il Cabernet Riserva “Boccon”.

Senza dimenticare l’autoctono Pinello. Un bianco dai profumi altoatesini, vinificato fermo e secco da Michael a differenza di quanto avviene comunemente sui Colli Euganei, dove è più facile trovarlo nella versione frizzante.

Cinquantadue ettari tra proprietà e affitto per Parco del Venda, che può contare anche su altri 40 ettari di una ventina di soci conferitori storici. Volumi piuttosto importanti, con la produzione che si assesta sulle 350 mila bottiglie annue, l’80% delle quali resta in Italia.

L’export si concentra in Svizzera, Austria, Germania e Balcani. Vietnam e Usa sono le nuove scommesse. Niente certificazione bio, “per scelta”. Ma da tre anni Parco del Venda ha “bandito il rame” nei trattamenti. E continua a investire in ricerca e qualità, sia in vigneto che in cantina, con la consulenza dell’enologo Claudio De Bortoli.

Del resto parlano chiaro i vini, in cui tutto sembra al posto giusto, naturalmente. L’alcolicità che contraddistingue la produzione dei Colli Euganei si legge solo sull’etichetta – i rossi superano i 15% vol e i bianchi i 13% vol – ma la percezione glicerica è sempre parte di un quadro equilibratissimo, mai stordente (bassi anche i livelli di solforosa libera, tra i 40 e i 60 punti, abbondantemente al di sotto delle soglie di legge).

E la sperimentazione continua, anche sul fronte dei cambiamenti climatici e delle nuove “varietà resistenti”. Parco del Venda ha presentato da pochi mesi la sua prima etichetta di Piwi a bacca rossa: si tratta del Merlot Khorus “Cigno Nero”, 10 mila bottiglie per la vendemmia 2018.

Al frutto e al carattere “verde” del Merlot, il nettare abbina note selvatiche e terrose, oltre a un tannino difficile da addomesticare che fa capolino in chiusura. Un sorso pieno e grintoso, in definitiva. Nessun fronzolo in cantina per Michael, che ha le idee chiare su quale sia la filosofia da perseguire a Parco del Venda.

“Il vino va ascoltato, annusato quando fermenta, perché parla e capisco da lì come sta e cosa gli serve. Una volta finita la fermentazione, l’obiettivo è il frutto, che deve sempre uscire alla grande, nel calice: è questo il dono che ci fanno i nostri Colli Euganei. In sintetesi? Faccio vini come piacciono a me!”.

LA DEGUSTAZIONE

Veneto Igt Pinello 2018, Parco del Venda: 88/100

Giallo paglierino luminoso e profumi che portano alla mente i bianchi di montagna: il vigneto si trova a oltre 300 metri, nel comune di Cinto Euganeo. Floreale fresco, dunque, ma anche accenni minerali che arrivano a sfiorare il fumè, con l’ossigenazione.

Netti richiami ad agrumi come il pompelmo, che evidenziano il lavoro in cantina per esaltare in maniera naturale l’espressione dei tioli. L’ampiezza al naso di questa etichetta prodotta col vitigno autoctono dei Colli Euganei è garantita anche dalle escursioni termiche.

Al palato, il Pinello 2018 di Parco del Venda sorprende per l’equilibrio tra la parte alcolico-glicerica, il frutto e la freschezza, abbinata a una salinità netta. Ritorni di nocciola e liquirizia in chiusura rendono ancora più eccezionale questo vino, venduto ad appena 3,50 euro. Un vero regalo.

Veneto Igt Merlot Khorus 2018 “Cigno Nero”, Parco del Venda: 89/100
La prima prova in bottiglia con il Piwi della varietà Merlot Khorus può definirsi un successo. Violaceo impenetrabile alla vista, carico, “dark” come il cigno scelto per il nome di fantasia dell’etichetta.

Naso e palato sembrano rispecchiare questa caratteristica “tenebrosa”, coniugata però a un frutto solare, pieno, croccante, tipicamente “Euganeo”. Bella anche la vena salina. Dosati i richiami terrosi, di radice. Chiusura su un accenno leggero di nocciola, tanto da ricordare certi Pecorino abruzzesi.

Colli Euganei Cabernet Doc 2018 “Boccon”, Parco del Venda: 88/100
Blend di Cabernet Sauvignon (60%) e Cabernet Franc (40%) da clone francese. Rosso mediamente trasparente alla vista. Naso profondo, a sostenere un frutto pieno e centrato. Freschezza confermata dall’assaggio, balsamico e speziato, nonostante la spinta glicerica dei 15,5% vol, molto ben integrati. Manca forse un po’ di struttura, ma il sorso è ruffiano al punto giusto e l’annata, guastatasi sul più bello con un eccesso di pioggia, può dirsi “portata a casa” egregiamente.

Colli Euganei Cabernet Doc Riserva 2016 “Boccon”, Parco del Venda: 91/100
Il capolavoro della cantina, accanto al Merlot “Lapilli”. Ha tutte le caratteristiche del Cabernet “Boccon” tradizionale, ma un sapiente affinamento in legno dà una marcia in più al nettare, sia al naso sia al sorso: Michael ha scelto un terzo di barrique nuove, un terzo di secondo passaggio e la restante frazione di terzo passaggio.

Naso tipico dei vitigni che compongono il blend, connotato da una bella eleganza delle note verdi e del frutto, pieno e croccante, cui si affiancano richiami di fondo di caffè e caramella mou, più che di vaniglia.

In bocca l’alcol dovrebbe prendere il sopravvento (15,5% vol.) e invece è ammansito da una freschezza dirompente e da una percezione salina che rischia di far vuotare la bottiglia in pochi minuti, se in buona compagnia: cosa rara per una Riserva. E cosa rara per i Colli Euganei. Chapeau.

Veneto Igt Merlot 2018 “Lapilli”, Parco del Venda: 92/100
Già recensito il mese scorso da WineMag.it e motivo della visita a questa Azienda agricola dei Colli Euganei, “Lapilli” è innanzitutto un Merlot dal rapporto qualità prezzo imbattibile: 6 euro in cantina.

Frutto rosso, ribes in particolare, poi lampone e ciliegia selvatica per una componente fruttata di gran precisione al naso, cui si accostano richiami di macchia mediterranea sempre più vividi col passare dei minuti, grazie all’ossigenazione.

Il giro delle lancette regala complessità a questo Merlot vulcanico di Parco del Venda. Leggera spezia e caramella mou, fino a sbuffi che ricordano il fondo di caffè. In bocca, come nella migliore delle attese, una gran freschezza.

Alcol ancora una volta molto ben integrato, tannino elegante, cuore di liquirizia, spezia (pepe) e chiusura salina. Splendida l’espressione del frutto, che si conferma della giusta maturazione, tanto da non sforare nella confettura.

Quando la temperatura del calice si alza di qualche grado, il varietale diviene sempre più presente e riconoscibile. Ancora più in evidenza la balsamicità della chiusura, su note che ricordano la mentuccia e la salvia.

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degustati da noi news news ed eventi vini#02

I migliori vini dell’Alto Adige all’Anteprima 2019


BOLZANO –
Duecentocinque etichette tra spumanti, vini bianchi, rossi e dolci dell’Alto Adige, tra cui abbiamo selezionato i migliori. Numeri da capogiro per la degustazione in anteprima dei vini non ancora in commercio, all’Alto Adige Wine Summit 2019.

Dalle 13.30 alle 18 di venerdì 6 settembre, al Noi Techpark di Bolzano, siamo riusciti a degustare circa 170 vini. Cinquantanove i produttori altoatesini che hanno presentato a 150 professionisti internazionali del settore, provenienti da 16 Paesi, le loro etichette en primeur.

Un vero successo, addirittura inatteso dagli organizzatori del Consorzio di Tutela Vini Alto Adige. Lo ha dimostrato la sala di degustazione gremita e l’ottimo servizio effettuato dall’Associazione italiana sommelier, il cui numero risicato ha però creato qualche intoppo.

Gli assaggi confermano un panorama di alto livello medio per i vini altoatesini: davvero difficile scendere sotto gli 85/100 nelle valutazioni. “L’Alto Adige Wine Summit, quest’anno giunto alla sua seconda edizione – commenta Eduard Bernhart, direttore del Consorzio Vini – rappresenta ormai un appuntamento chiave per la promozione della produzione enologica del nostro territorio in Italia e all’estero”.

Crediamo che per poter apprezzare la qualità dei nostri vini sia necessario toccare con mano e vivere in prima persona i contrasti da cui prendono vita: le altitudini, la composizione geologica dei terreni, le temperature e le forti escursioni termiche tra giorno e notte regalano gli aromi e la freschezza che li contraddistingue”, conclude Bernhart.

I NUMERI E LE PROSPETTIVE DELLA DENOMINAZIONE

Con i suoi 330 mila ettolitri di vino prodotti in media ogni anno, l’Alto Adige, rappresenta circa l’1% della produzione vinicola italiana. Viste anche le caratteristiche del territorio – solo il 14% della superficie è al di sotto dei 1.000 metri di quota – i vigneti si estendono su appena 5.500 ettari, di cui il 98% classificato come Doc.

Sono 40 milioni le bottiglie prodotte ogni anno sotto la Doc Alto Adige. Circa un terzo prende la via dell’export. Come indicato durante il convegno inaugurale dell’Alto Adige Wine Summit 2019 da Maximilian Niedermayr, presidente del Consorzio di Tutela Vini Alto Adige, l’idea è quella di “compiere un ulteriore passo avanti”.

I circa 200 associati avranno indicazioni sui microclimi e sui terreni più adeguati ad allevare un determinato vitigno. Ma sarà vietato l’assemblaggio dei vini nelle zone individuate come vocate per una singola varietà. Saranno inoltre ridotte ulteriormente le rese per ettaro. Idee chiare, insomma, in Alto Adige. Un po’ come per i nostri migliori assaggi. Eccoli di seguito.

SPUMANTI

Südtirol Alto Adige Doc Spumante Riserva 2013, Arunda: 92/100
Complessità, nerbo, mineralità, freschezza. Ha tutto. In commercio da aprile 2020.


PINOT BIANCO

Südtirol Alto Adige Doc Pinot Bianco 2018 “Sirmian”, Nals Margreid: 90/100
Un Pinot Bianco in equilibrio tra pienezza e finezza. In commercio da ottobre 2019.

Südtirol Alto Adige Doc Terlano Pinot Bianco 2017 “Pratum”, Castel Sallegg: 90/100
Legno presente, ma bel nerbo, agrume, un po’ di vaniglia in chiusura unita a spezia bianca leggera e percezione iodica che chiama il sorso successivo. In commercio da marzo 2020.

Südtirol Alto Adige Doc Terlano Pinot Bianco Riserva 2017 “Abtei Muri”, Muri-Gries: 91/100
Altro bel vino, che colpisce per struttura e finezza. In commercio da ottobre 2019.

Südtirol Alto Adige Doc Terlano Pinot Bianco Riserva 2017 “Vorberg”, Cantina Terlano: 95/100
Gran precisione del frutto esotico, accenni di buccia di lime. In bocca lunghissimo, vibrante. In commercio da ottobre 2019.

Südtirol Alto Adige Doc Pinot Bianco 2017 “Alte Reben”, K. Martini & Sohn: 92/100
Gran bella spalla, mineralità spiccata, giovane, esotico, vena “calcarea” che rende il sorso asciutto e di prospettiva. In commercio da gennaio 2020.

Südtirol Alto Adige Doc Pinot Bianco Riserva 2017, Ansitz Waldgries: 91/100
Esotico, bella freschezza, mineralità, legno dosato in chiusura. Freschissimo in allungo. In commercio da ottobre 2019.

Südtirol Alto Adige Doc Pinot Bianco Riserva 2016 “Renaissance”, Gump Hof – Markus Prackwieser: 94/100
Pinot bianco cervellotico, che costringe alla cieca a tornare e ritornare sul calice, per capire se c’è o ci fa. Alla fine convince, nonostante il legno ancora in gran evidenza. Sotto c’è un gran vino, di assoluta prospettiva e longevità.


CHARDONNAY

Südtirol Alto Adige Doc Chardonnay 2018 “Lafóa”, Cantina Colterenzio: 90/100
Quei vini che hanno tutto, da subito. In commercio da dicembre 2019.

Südtirol Alto Adige Doc Chardonnay 2018 “Puntay”, Erste+Neue: 91/100
Tutto sulla mineralità, cui riesce ad abbinare un bel frutto pieno, un bel corpo e una bella struttura. In commercio da aprile 2020.

Südtirol Alto Adige Doc 2018 “Seduction”, Josef Brigl: 93/100
Un’etichetta riconoscibile tra mille. Grandissimo nerbo e trama gustaiva sullo stecco di liquirizia e sul rabarbaro. bocca complesso, frutto maturo il giusto, buccia di lime in chiusura. In commercio da ottobre 2019.

Südtirol Alto Adige Doc 2018 Chardonnay “Vigna Maso Reiner”, Kettmeir – Santa Margherita: 90/100
Uno Chardonnay che, al momento, è ancora troppo condizionato dal legno. Percezione che è destinata ad amalgamarsi con l’ottima vena fresca e una mineralità calcarea. Bella la chiusura, sul pepe bianco. In commercio da marzo 2020.

Südtirol Alto Adige Doc Chardonnay 2016 “Troy”, Cantina Tramin: 94/100
Timido al naso e al palato, ma pronto ad esplodere di eleganza appena la temperatura si scalda, fino a divenire ottimale nel calice. Frutto, sale e una verticalità che lo assottiglia, rendendolo finissimo. In commercio da ottobre 2019.

Südtirol Alto Adige Doc 2018 Chardonnay Riserva 2016 “Burgum Novum”, Castelfeder: 92/100
La bella prima del ballo. Uno Chardonnay col vestito da sera ancora nell’armadio. Ha bisogno di tempo, ma sarà grande perché ha tutto. Deve solo indossarlo. In commercio (forse troppo presto) a breve, da metà settembre 2019.


PINOT GRIGIO

Südtirol Alto Adige Valle Isarco Doc Pinot Grigio 2018 “Alte Reben”, Tenuta Köfererhof: 92/100
È il primo assaggio della batteria a far capire che il Pinot Grigio, in Alto Adige, può nascondere piacevoli sorprese: frutto, spezia, sostanza, succo, sale e ritorni di buccia d’agrumi che verticalizzano il sorso. In commercio dal 2020.

Südtirol Alto Adige Doc Pinot Grigio 2018 “Punggl”, Nals Margreid: 91/100
Mineralità calcarea che fa da spartito a una bella maturità del frutto. Vino che può evolvere bene. In commercio da ottobre 2019.

Südtirol Alto Adige Doc Pinot Grigio Riserva 2017 “Giatl”, Peter Zemmer: 90/100
Pronto, piuttosto largo e rotondo, ma senza perdere equilibrio. Godibilissimo. In commercio da ottobre 2019.


GEWÜRZTRAMINER

Südtirol Alto Adige Doc Gewürztraminer 2018 “Flora”, Cantina Girlan: 92/100
Aromaticità non esplosiva, garbata e chiusura su accenni fumè. L’alcol deve ancora integrarsi al meglio. In commercio da dicembre 2019.

Südtirol Alto Adige Doc Gewürztraminer 2018 “Nussbaumer”, Cantina Tramin: 94/100
Senza dubbio il più equilibrato della batteria, che prevedeva in degustazione 9 diversi Gewürztraminer. Colpisce, alla cieca, per l’equilibrio al palato, sferzato da rintocchi salini e freschi, che diventano speziati in chiusura. Un bianco da mettere sotto l’albero (di Natale): in commercio da dicembre 2019.

Südtirol Alto Adige Doc Gewürztraminer Riserva 2018 “Rutter”, Pfitscher: 90/100
Parola d’ordine “futuro” per questa riserva di Gewurztraminer. Vino da acquistare e aspettare, come ormai accade nelle migliori interpretazioni del vitigno aromatico altoatesino. In commercio da ottobre 2019.


LAGO DI CALDARO, SCHIAVA, MERANESE, SANTA MADDALENA

Südtirol Alto Adige Doc Lago di Caldaro classico superiore 2018 “Quintessenz”, Cantina Kaltern: 91/100
Gran concentrazione per un vino che rappresenta l’essenza della Schiava. Gran schiettezza, dal naso alla chiusura. In commercio da ottobre 2019.

Südtirol Alto Adige Doc Santa Maddalena classico 2018 “Isarcus”, Tenuta Griesbauerhof: 93/100
Bel frutto al naso, tanto da non aspettarsi la verticalità e complessità poi espressa benissimo al palato, su una trama salina e speziata degna di nota. In commercio da ottobre 2019.

Südtirol Alto Adige Doc Tiroler Schiava 2017, Bergkellerei Passeier: 91/100
Gran precisione e croccantezza del frutto, per un vino che mostra di poter dare moltissimo in futuro, pur risultando già godibile e gastronomico. In commercio da metà settembre 2019.


LAGREIN

Südtirol Alto Adige Doc Lagrein Grieser Riserva “Select”, Tenuta Hans Rottensteiner: 90/100
Vino potente, morbido, rotondo e al contempo freschissimo, nel segno di un equilibrio trovato grazie a un utilizzo sapiente del legno. Gran concentrazione per un vino che chiama il piatto e abbinamenti importanti. In commercio da novembre 2019.

Südtirol Alto Adige Doc Lagrein Riserva 2017 “Carano”, Baron Di Pauli: 90/100
Bel frutto, che tende alla confettura. In bocca ottima corrispondenza. Tannino e acidità riequilibrano le morbidezze, per un vino dalle ottime prospettive. In commercio da aprile 2020.

Südtirol Alto Adige Doc Lagrein Riserva 2017 “Passion”, Cantina Produttori San Paolo: 91/100
Potenza, precisione, complessità ed eleganza. In commercio da dicembre 2019.

Südtirol Alto Adige Doc Lagrein 2016 “Lindenburg”, Tenuta Alois Lageder: 94/100
Semplicemente splendido nel suo essere schietto, diretto, complesso. Uno specchio della Denominazione e delle sue prospettive. In commercio da dicembre 2019.

Südtirol Alto Adige Doc Lagrein Riserva 2016 “Perflabilis”, Tenuta Griesbauerhof: 92/100
Un Lagrein nudo e puro. Al palato gioca tra la liquirizia e la spezia, il frutto e il sale. Ed è solo all’inizio dell’evoluzione. In commercio da marzo 2020.

Südtirol Alto Adige Doc Lagrein 2016 “Roblinus de’ Waldgries”, Ansitz Waldgries: 92/100
Legno che regala tannini di cioccolato e una gran struttura. Vino importate, godibile oggi e domani ancor di più. In commercio da ottobre 2019.

Südtirol Alto Adige Doc Lagrein Riserva 2015 “Weingarten Klosterangen”, Muri Gries: 91/100
Lagrein che spicca per equilibrio tra corpo e freschezza. Il tannino, elegante, è ancora in fase di integrazione. In commercio da metà settembre 2019.


MERLOT

Südtirol Alto Adige Doc Merlot Riserva 2017, Untermoserhof: 92/100
Varietale in gran evidenza, inconfondibile. Vino elegante e di gran prospettiva. In commercio da ottobre 2019.

Südtirol Alto Adige Doc Merlot 2016 “Nussleiten”, Castel Sallegg: 91/100
Frutto, profondità, splendida chiusura, lunga e precisa, con rintocchi di spezia che rinvigoriscono il sorso, chiamando quello successivo. Al momento l’alcol è un po’ invadente, ma darà il suo apporto nella gestione complessiva delle lancette. In commercio da dicembre 2019.

Südtirol Alto Adige Doc Merlot Riserva 2016 “Brenntal”, Cantina Kurtatsch: 90/100
Bel Merlot da bere oggi e domani: potente, speziato, tannino di cioccolato in fase di integrazione, che gioca con la spezia nera. Chiusura salina e freschissima, con ritorni speziati. “Vinone” gastronomico. In commercio da ottobre 2019.

Südtirol Alto Adige Doc Merlot Riserva 2014 “Klausner”, Weinhof Kobler: 95/100
In fondo alla batteria di vini degustati alla cieca, la sorpresa più grande. Un’espressione piena del varietale del vitigno, su livelli raramente tangibili in Alto Adige. C’è il frutto, c’è il sale. C’è la spezia. Il tutto legato dal filo di spago sottile di un tannino elegantissimo e di prospettiva. Chapeau. Vino da prenotare a tutti i costi: sarà in commercio dal primo ottobre 2020.


CABERNET SAUVIGNON E CABERNET FRANC

Südtirol Alto Adige Doc Cabernet Riserva 2017, Mayr Josephus Maso Unterganzner: 92/100
Frutto, sale, prospettiva: un Cabernet più che mai convincente. Si tratta di una prova di botte, anche se il vino sarà presto messo in commercio (ottobre 2019).
Südtirol Alto Adige Doc Cabernet Riserva 2017 “Mumelter”, Cantina Bolzano: 91/100
Cabernet che si rivela profondo, su tinte di spezia e tannino, ancora scalpitante. Vino di prospettiva. In commercio da ottobre 2019.
Südtirol Alto Adige Doc Cabernet Sauvignon 2017 “Wellenburg”, Baron Longo: 90/100
Pronto più di altri in batteria, ma colpisce per la gran succosità del frutto, dimostrandosi tra le migliori espressioni di Cabernet altoatesino del momento, in termini di equilibro tra frutto, sale e garbo del varietale “verde”. In commercio da ottobre 2019.

Südtirol Alto Adige Doc Cabernet Riserva 2016, Malojer Gummerhof: 93/100
Una chicca. Cabernet austero, la cui trama fruttata gioca con note di rabarbaro, stecco di liquirizia e una percezione salina netta, in chiusura, unita al ritorni di peperone verde. Vino di gran prospettiva, ma già interessantissimo. In commercio da ottobre 2019.

Südtirol Alto Adige Doc Cabernet Sauvignon 2016 “Berleith Anphora”, Tröpfltalhof: 94/100
Espressione del frutto – e in generale del varietale – di gran classe ed equilibrio, sia al naso che al palato. Leggero accenno selvatico, burbero. Tannino elegantissimo. Vino superlativo, anche in termini di lunghezza. In commercio da novembre 2019.

Südtirol Alto Adige Doc Cabernet Sauvignon Riserva 2015 “Freienfeld”, Cantina Kurtatsch: 92/100
Un Cabernet di prospettiva, dal tannino giovane e dalla bella vena salina, che gioca con un frutto maturo, ma ancora croccante. In cerca di equilibrio, ma certamente di prospettiva. In commercio da ottobre 2019.


VINI DOLCI

Südtirol Alto Adige Doc Moscato Giallo 2018 “Nobless”, Tenuta Plonerhof: 92/100
A sorprendere è la gran freschezza e la bella vena sapida: il sorso non stanca mai. In commercio da settembre 2019.

Südtirol Alto Adige Doc Moscato giallo passito vendemmia tardiva 2017 “Terminum”, Cantina Tramin: 91/100
La parte zuccherina è preponderante, ma non mancano equilibrio e precisione. In commercio da ottobre 2019.

Südtirol Alto Adige Doc Moscato giallo passito 2016 “Quintessenz”, Cantina Kaltern: 92/100
Bella complessità, bella struttura, ottimo equilibrio tra zuccheri e acidità. In commercio da aprile 2020.

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Cantine degustati da noi news news ed eventi vini#02

Ecco Merotto Space: una finestra sulle colline del Prosecco Unesco

Dopo più di quarant’anni di attività, Merotto ha inaugurato sabato 7 settembre il “Merotto Space“. Una vera e propria finestra sulle colline del Prosecco Superiore di Conegliano Valdobbiadene, divenute patrimonio Unesco.

Non solo un punto vendita, ma uno spazio in cui accogliere i visitatori, enoturisti, winelover e clienti abituali, in modo informale e coinvolgente. Merotto Space, a Col San Martino (TV), nasce in una vecchia casa contadina in pietra locale, risalente a circa 200 anni fa.

Un progetto di recupero in linea con la direttiva della Regione Veneto, che non prevede nuove edificazioni nell’area ma una riconversione e riqualificazione di strutture già esistenti: le tipiche case coloniche tradizionalmente composte da un unico ambiente in cui abitazione, stalla e fienile erano integrati in un unico edificio.

IL MEROTTO SPACE
Una struttura collegata alla storica cantina di vinificazione, attraverso un sentiero di poche centinaia di metri, che attraversa le vigne. Al piano inferiore un piccolo ma completo show room e un angolo adibito a wine bar. Luogo dal design minimal e pulito, in cui conoscere ed acquistare i prodotti aziendali.

Al piano superiore una grande sala degustazione e ricevimenti; un ambiente unico e spazioso con grandi vetrate ai lati in cui la vista apre sulle colline vitate italiane che danno vita allo spumante italiano più bevuto al mondo. Un unicum visivo in cui il “dentro” ed il “fuori” si fondono coinvolgendo il visitatore a 360 gradi.


È Graziano Merotto, patron e fondatore dell’azienda, a fare gli onori di casa e ad introdurre alla degustazione delle etichette della cantina. Sguardo sereno, sorriso appena accennato, ma nel quale leggi grande apertura d’animo.

Mani grandi, dalla stretta possente ma accogliente. Una storia che parte da lontano la sua, legata al territorio come le radici di quelle viti che fanno l’occhiolino da sotto la pioggia.

Diploma alla Scuola Enologica di Conegliano e una avventura che inizia nel 1972, quando Graziano Merotto fonda la sua cantina, anche se l’amore per la terra gli era già stato trasmesso tempo addietro, dal nonno Agostino.

Già l’anno seguente, nel 1973, l’acquisto di un appezzamento, la Particella 86, ancora oggi fiore all’occhiello dell’azienda. Anni a produrre vini col fondo a rifermentazione naturale in bottiglia, rigorosamente da uve Glera, fino all’introduzione, nel 1979, della prima autoclave in azienda.

Sempre con un obiettivo, allora come oggi – ci tiene a precisare Graziano Merotto – che è quello di fare un prodotto di una certa qualità…”

Un totale di 600 mila bottiglie annue, divise fra le varie etichette commercializzate al 70% sul mercato italiano. L’estero si concentra in Europa, Stati Uniti e Russia con una recente apertura verso Giappone e Messico.

Trenta ettari, suddivisi in 9 località differenti (tutte collinari), croce e delizia di questa realtà come dice Mark Merotto enologo della cantina. La fortuna di poter vinificare da areali diversi, la sfortuna di non poter gestire tutto in un’unica soluzione.

Alle uve di proprietà si affiancano quelle acquistate dai conferitori, seguiti dallo stesso perito agrario per garantire uniformità qualitativa. Parlare con Mark è un modo per conoscere non solo la realtà di Merotto ma anche le differenze e le sfumature di un territorio spesso non compreso fino in fondo dal consumatore.


Diventa così chiaro come forse sarebbe più corretto parlare “dei Prosecchi” più che “del Prosecco“. Perché sono profonde le differenze fra le uve e i vini prodotti in pianura e quelli prodotti nell’area collinare e prealpina (quella ormai famosa come patrimonio Unesco).

Differenze legate a terreni, clima, età delle viti, tecniche di coltivazione e raccolta. Differenze fondamentali che generano, inevitabilmente, vini diversi. Non solo macro differenza fra collina e pianura, ma anche micro differenze fra i vari mappali in collina.

Ecco quindi la scelta di Merotto di vinificare separatamente per zona di provenienza delle uve. Macerazione pellicolare direttamente in pressa per evitare l’intervento di organi meccanici, decantazione statica e 30 ora di ossidazione.

Il tutto alla ricerca della pienezza del frutto e dei suoi sentori. Differenze di terroir, tecniche di vinificazione e scelte produttive che ci attendono al varco perchè, al solito, è “il calice” ad avere l’ultima parola.

LA DEGUSTAZIONE
Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg Brut 2018 “Integral”. Ultimo nato in casa Merotto, presentato a Vinitaly 2019, rappresenta la sfida delle cantina nel voler produrre un Prosecco dallo scarsissimo residuo zuccherino: solo 2,7 g/l, praticamente un Pas Dosè. Integaralmente Glera da un unico vigneto di oltre 40 anni, fermentazione in autoclave di 60 giorni ed ulteriori 120 giorni di permanenza sui lieviti per cercare struttura anche in assenza di zuccheri aggiunti.

Paglierino e brillante ha naso fresco e floreale ma è in bocca che da il meglio di se dove si dimostra più ricco e generoso. Perlage piacevole, quasi croccante, un buon retro nasale di frutti bianchi ed un chiusura sapida e minerale che le rendono pericolosamente beverino.

Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg Brut “Bareta”. Espressione Brut (8 g/l) della gamma Merotto prende il nome da un nomignolo locale, essendo “Merotto” un cognome assai comune in zona. Si presenta delicato al naso con note di fiori bianchi ed un piacevole fruttato di mela verde. Sapido e ben equilibrato, aromatico quanto basta, è una bolla che può trovare piacevole collocazione a tavola.

Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg Extra Dry “Colbello”. Extra Dry “alto” da 16 g/l è forse quello che nell’immaginario collettivo è l’idea del “Prosecco”. Delicato al naso e dai sentori primaverili, dal sapore abboccato quel tanto da non essere stucchevole. Morbido e non molto persistente incarna il concetto di “aperitivo”, di “vino dell’accoglienza”.

Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg Extra Dry 2018 “Castè”. Nome preso dalla zona di produzione nota come “Colle il Castello”, collina dalle forti pendenze in cui la Glera ha ricavato il proprio spazio vitale. Extra Dry “basso” (12 g/l) è ottenuto con un’unica vinificazione. È il mosto infatti ad essere direttamente vinificato in autoclave eseguendo in un unica ripresa vino base e presa di spuma.

Più pieno di Colbello, più coinvolgente col suo naso più intenso dai vivi richiami alla mela golden ed alla pera matura. Facile e scorrevole al sorso ha un buon corpo ed una viva acidità che maschera piacevolmente il residuo zuccherino. Piacevole ed ordinata la persistenza.

Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg Dry 2018 “La Primavera di Barbara”. Dedicato alla figlia di Graziano, Barbara per l’appunto, si compone al 90% di Glera ed al 10% di Perera. Un Prosecco dall’importate residuo zuccherino di 21 g/l pensato per essere morbido ed avvolgente. E cosi è, con profumo dolci di frutta matura ed un sorso in cui è la morbidezza a vincere sull’acidità senza però sforare nella grassezza, senza perdere di nerbo.

Valdobbiadene Prosecco Superiore di Cartizze Docg Dry 2018. Vellutato e fragrante come un Cartizze deve essere se la gioca sulle note di pesca e pera Williams. Viva freschezza che sposa i 26 g/l rendendolo largo ma non pastoso ne tanto meno stucchevole.

LA VERTICALE DI “CUVEE DEL FONDATORE”
Vino emblema della volontà di Graziano Merotto di creare un Prosecco d’alto livello, un brut che non abbia nulla da invidiare ai più blasonati Metodo Classico. Anni di prove e ricerche culminati nella prima vendemmi utile nel 2009, proprio l’anno di creazione della Docg.

Le uve provengono da un unico vigneto, proprio quella Particella 86 proprietà aziendale dal 1973 e parte della storia della cantina. Uve che subiscono un processo particolare di maturazione noto come DMR (Doppia Maturazione Ragionata), una tecnica nata in Nuova Zelanda e qui adottata ed adattata alla Glera.

In sintesi il 20 giorni prima della vendemmia il 20% dei tralci viene reciso lasciando però i grappoli in pianta. Questi grappoli subiscono così un leggero processo di appassimento concentrando gli aromi senza però perdere di acidità.

Il restante 80% dei grappoli per contro matureranno ricevendo più sostanze nutrienti dovendo la pianta “distribuirle” a 20 grappoli su 100 in meno. Una doppia maturazione che porta le uve allo stato ideale per un processo di vinificazione e presa di spuma in unico passaggio, direttamente da mosto come per Castè.

Lunga giacenza sui lieviti per arricchire il vino grazie all’auto lisi, dosaggio di 6,9 g/l ed un contenuto di solforosa fra i più bassi (inferiore agli 80 g/l) per un Prosecco che si accinge a sfidare il tempo. Cinque le annate proposte: 2018, 2016, 2014, 2012, 2010.

Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg Brut “Cuvée del Fondatore” 2018. Figlio di un’annata climaticamente “normale” è un Prosecco potente, aromatico, ricco. Colpisce subito al naso mostrando non solo una certa presenza di aromi ma anche una leggera nota verde, acerba, che fa subito pensare che si tratti ancora di “un bambino”. Sensazione confermata in bocca dove l’acidità seppur non fastidiosa risulta viva e quasi “dura”.

Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg Brut “Cuvée del Fondatore” 2016. L’annata si rivelò un poco calda sul finale in generale dall’andamento regolare. In questo calice tutta la potenza e l’eleganza che la Glera può offrire.

Il colore leggermente più marcato rispetto al ’18 e gli aromi vivi e freschi di frutta bianca ed agrumi confermano l’impressione precedente: forse questo Fondatore ha bisogno un paio d’anni di bottiglia per potersi esprimere al meglio, a dispetto di ciò che solitamente si dice dei prosecchi.

Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg Brut “Cuvée del Fondatore” 2014. Annata notoriamente difficile, bestia nera per la maggior parte di vignaioli ed enologi specialmente da queste parti. Ne risulta il vino più minerale della batteria carico di quelle note che i sommelier amano definire di “pietra focaia” o “idrocarburo”. Nonostante tutto morbido ha una chiusura di sorso lievemente amaricante.

Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg Brut “Cuvée del Fondatore” 2012. Caratterizzata da un ritardo in fioritura, come il 2019, l’annata ha generato il vino più coinvolgente della batteria. Naso ricco di note evolute come miele d’acacia e frutta molto matura con una leggera nota di marmellata d’arancia. Rotondo in bocca ma supportato da una buona acidità e da grande mineralità che donano una verticalità non trascurabile. La prova provata che anche un Prosecco può invecchiare e può farlo bene.

Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg Brut “Cuvée del Fondatore” 2010. Al naso risulta un po’ stanco, come se si stesse approntando alla sua parabola discendente. Ricco di note mielose e fruttate non ha difetti o cattivi sentori ma manca un pizzico di slancio. In bocca invece si mantiene vivo. Le note terziarie donano calore e rotondità, la freschezza resta presente anche se meno vivace. Piacevolissima la persistenza.

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degustati da noi news news ed eventi vini#02

Soave 2018, 2017 e 2016: i migliori assaggi all’Anteprima di Verona

VERONA – Si è conclusa da qualche ora, al Palazzo della Gran Guardia di Verona, l’Anteprima 2019 dei vini Soave 2018 e 2017, nell’ambito delle iniziative di “Soave Versus“. In degustazione alla cieca 55 etichette delle annate 2018, 2017 e 2016, tra le quali abbiamo selezionato i migliori assaggi.

Come annunciato dalla referente del Consorzio di Tutela, Chiara Mattiello, potrebbe trattarsi dell’ultima preview dei vini bianchi veronesi. “La natura ha tempi che l’uomo non ha – ha spiegato Mattiello – e la natura di questi vini richiama tempi più lunghi del previsto, che non coincidono con quelli stretti di un’Anteprima”.

Stando all’annuncio, è servito a poco spostare l’Anteprima da maggio a settembre, per la prima volta in questo 2019. Nel territorio di Soave, tante aziende hanno iniziato ad aspettare l’estate per gli imbottigliamenti, prima effettuati a marzo. Alcune cantine attendono più di 10 mesi, col vino ancora in sosta su lieviti.

“Soave sta registrando una trasformazione importante – spiega ancora Chiara Mattiello – una quite evolution che inizia in questo 2019 a mostrare i primi frutti. L’età media dei produttori, ormai alla terza generazione, è diminuita drasticamente. In molti ormai lavorano con lieviti indigeni, anche senza batonnage e i nomi storici continuano a rappresentarla in maniera egregia la Doc Soave”. Ecco i giudizi dei calici.

I MIGLIORI ASSAGGI A SOAVE VERSUS 2019


VENDEMMIA 2018

Soave Doc Classico “Roccolo del Durlo” 2018, Le Battistelle: 94/100
“Obbligatorio dargli fiducia”. Trascriviamo per intero la nota messa nero su bianco durante la degustazione alla cieca, confermata una volta scoperto quale fosse l’etichetta “nascosta” sotto al campione numero 14 della Preview. Il vino mostra grandissime potenzialità, sul filo delle precedenti. Le Battistelle si conferma così una delle cantine “faro” della Denominazione Soave.

Soave Doc Classico 2018 “Cimalta”, Corte Adami: 92/100
Già un bel naso e un bel palato, si potrebbe dire quasi “pronto”. È in chiusura che questo Soave mostra i tratti d’eccellenza della Garganega, nuda e cruda. A un naso largo fa eco una bocca molto equilibrata, dal bell’ingresso sulla frutta a polpa gialla matura e la chiusura sapida e fresca, con leggero accenno di pepe bianco. Gran bella prova.

Soave Doc Classico 2018 “Vigne di Fittà”, Casarotto: 90/100
Uno dei migliori Soave da cru nel rapporto qualità prezzo, inferiore ai 6 euro in cantina. Naso floreale, con accenni di nocciola tostata. In bocca tra la buccia d’agrume, il frutto esotico e la mandorla. Buona la struttura, retta dalla sapidità che gioca con la morbidezza: un binomio che promette ottime cose. Lungo il finale. Vino molto interessante, anche in prospettiva.

Gli altri punteggi elevati – vendemmia 2018
– Soave Superiore Docg 2018 “Motto Piante”,
– Soave Doc Classico 2018, Bennati: 89/100
– Soave Doc Classico 2018 “Montesei”, Le Battistelle: 89/100
– Soave Doc Classico 2018 “Monte Majore”, Le Albare: 88/100
– Soave Doc Classico 2018 “Sassani”, Turra Marcello: 88/100
– Soave Doc Classico 2018 “Brognoligo”, Pasqua: 87/100


VENDEMMIA 2017

Soave Superiore Docg 2017 “Panvinio”, Villa Erbice: 94/100
Positiva evoluzione in corso per questa etichetta, che sfodera un frutto pieno, un alcol dosato e un frutto giallo di gran precisione. In bocca si rivela già gradevolissimo, eppure di grandissima prospettiva. Bello il retro olfattivo sullo zafferano.

Soave Superiore Docg Classico 2017 “Tufaie”, Bolla: 93/100
Un Soave che, anche per forza commerciale della cantina produttrice, può rappresentare a testa alta nel mondo la Denominazione. In questo preciso momento dell’evoluzione ha tutto: frutto, salinità, struttura, lunghezza. Bella prova di una cantina che dimostra di saper bilanciare numeri e qualità assoluta. Un vanto.

Soave Doc Classico 2017 “Foscarin Slavinus”, Montetondo: 92/100
Gran bel lavoro sull’estrazione per il campione numero 46, che si rivela essere un cru della cantina Montetondo. Frutto, sale, gran struttura. Retro olfattivo lungo e di gran precisione. Una bellissima espressione di Garganega, che ha ancora moltissimo da dare.

Gli altri punteggi elevati – vendemmia 2017
– Soave Doc 2017 “Vintage”, Bertani: 89/100
– Soave Superiore Docg “Motto Piane”, Fattori: 89/100
– Soave Doc 2017 “La Broia”, Roccolo Grassi: 89/100
– Soave Superiore Docg Classico 2017 “Verso”, Canoso: 88/100
– Soave Superiore Docg 2017 “I Tarai”, Corte Moschina: 88/100
– Soave Doc Classico 2017 “Le Caselle”, Tenuta Solar: 87/100


VENDEMMIA 2016

Soave Doc Classico 2016 “La Froscà”, Gini: 94/100
Vino più che mai vivo, in piedi, dritto, verticale, dimostrazione delle punte di longevità cui può – anzi deve – aspirare il Soave. Chiusura leggermente amaricante e su un curioso, ma preziosissimo, richiamo al succo dell’arancia sanguinella. Non manca la componente minerale, utile in chiusura a chiamare il sorso successivo.

Soave Doc Classico 2016 “Vigneto Salvarenza”, Gini: 92/100
Bella struttura, bel corpo, bella estrazione. Buona complessità, sin dai primi richiami di frutta matura, che sfiorano in sentori minerali netti. Al palato, rotondità e morbidezza giocano con una vena fresca, balsamica. Chiusura asciutta, tra il frutto maturo e il minerale.

Soave Doc 2016 “Altare”, Portinari: 89/100
Giallo dorato carico. La nota ossidativa rende ancora più complesso il naso, al posto di “appiattirlo”. Sinuoso e morbido al palato, su note varietali e di pasta di mandorle. Bella la vena salina, la struttura e la freschezza, segnali di un nettare che ha ancora tanto da dire.

Gli altri punteggi elevati – vendemmia 2016
– Soave Doc Classico “Sengialta”, Balestri Valda: 88/100

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degustati da noi vini#02

Sette vini della Romagna da scoprire, nelle Terre dello Spungone


Bertinoro, Predappio, Meldola, Castrocaro Terme e Terra del Sole. Centri nevralgici della “Romagna da mangiare” e “da bere”. Con la loro gastronomia e i loro vini “lenti”. Così lontani dalla frenesia della Riviera. Eppure così vicini al mare, semplicemente perché ce l’hanno dentro. O, meglio, sotto. Si chiama “Spungone” la formazione rocciosa composta da conchiglie e fossili presente nei vigneti situati fra il torrente Marzeno, nel Comune di Brisighella (RA), e Capocolle, frazione di Bertinoro (FC).

La parola d’ordine, nel calice, è “mineralità“. Una qualità dibattuta tra gli esperti, a colpi di ricerche e contro ricerche, più o meno scientifiche, volte a identificarne l’essenza. Fatto sta che i vini delle “Terre dello Spungone” risultano spesso rispondenti alla percezione di pietra bagnata e “zolfo”.

L’autoctona Albana – prima Docg a bacca bianca d’Italia, nel 1987 – e il rosso Sangiovese, presente con alcuni biotipi come quello di Predappio, sono accomunati anche da un’acidità piuttosto marcata. Caratteristiche legate proprio alla presenza di questa formazione, di natura calcarea.

In alcuni punti, lo spungone riaffiora dal terreno come uno scoglio. In altri si mescola alla terra, ormai polveroso, rivelando la sua natura friabile. Sopra a veri e propri “atolli” di spungone sorgono alcune tra le rocche più belle d’Italia.

Spettacolare, oltre alla nota Rocca di Bertinoro (sede del Museo Interreligioso), la Fortezza di Castrocaro, patrimonio comunale e “casa museo” allestita e gestita dallo studioso Elio Caruso. All’interno, ci si può immergere tra le pareti verticali di spungone: un’area che sarà inaugurate a breve, diventando accessibile al pubblico.

Eppure sono solo 7 mila i visitatori che ogni anno scelgono come meta la Fortezza di Castrocaro, a fronte dei 40 mila attesi dopo la ristrutturazione, avvenuta nei primi anni Duemila. “L’idea di dare lavoro ad alcuni giovani del posto è naufragata”, ammette Caruso.

Un progetto di valorizzazione che non è stato abbandonato, nel rispetto di un edificio costruito prima dell’anno Mille e ultimato in circa 700 anni. Un’eternità. C’è ancora tempo, insomma, prima di dare per persa la battaglia col turismo, dopo anni di incuria che hanno risparmiato una buona parte dell’imponente fortificazione.

A dare fiducia è l’imminente aggiunta del Comune sparso di Castrocaro Terme e Terre del Sole tra le tappe della Via Romea Germanica, tra i più suggestivi pellegrinaggi d’Europa, pensato alla fine del 1200 dall’Abate Alberto del Monastero Benedettino della Santa Vergine Maria di Stade, in Germania, che lo descrive in un’opera.

Ad annunciarlo è Vanessa Petruzzi, Tourism promotion Sales manager dell’ente romagnolo, che potrà così contare presto su un’altra gemma, da affiancare allo stabilimento termale oggetto di un imponente ampliamento e ammodernamento, proprio negli ultimi mesi.

Nelle “Terre dello Spungone”, vino, gastronomia e benessere fanno rima anche con la mobilità sostenibile, legata alla bicicletta. Lo sa bene Luigi Barillari. Col suo “Bike To” (www.biketo.it) si percorre in sella alle e-bike, le biciclette con la pedalata assistita, il Parco fluviale “Giovanni Falcone” di Castrocaro, lungo le sponde del Montone.

I quattro chilometri e mezzo di sentiero – “quasi tutto in pianura”, rassicura la guida – sono una perla per chi ama la natura. Per i più temerari la possibilità di raggiungere Forlì, proseguendo per altri 10 chilometri. In progetto per il futuro il collegamento del Parco fluviale di Castrocaro con Cervia, vera e propria porta verso Venezia.

Stratificata anche l’offerta della ristorazione nelle “Terre dello Spungone”. Per gli appassionati del buon vino o per chi è a caccia del selfie da incorniciare, magari al tramonto, la scelta non può che ricadere sul “balcone della Romagna” di Ca’ de Be, nel cuore di Bertinoro.

Il ristorante è accessibile dalla piazza che ospita la Colonna delle Anella, sede delle celebrazioni del Rito dell’Accoglienza, vera e propria parola d’ordine in tutta la regione del centro Italia.

E Ca’ de Be è solo uno dei progetti di “accoglienza enogastronomica” di Simone Rosetti, owner e sommelier di questo vero e proprio “place to be” romagnolo, per la cura della materia prima (farina da grano locale per la piadina e verdure dell’orto privato) oltre che per la location romantica, simbolica e rigenerante.

Stuzzicante e al limite del provocatorio, sempre a Bertinoro, la cucina dello chef Edoardo Zamagni a “La Svineria“, l’enoristorante di Lorenzo Rossi, ai piedi della salita che porta alla piazza principale del paese.

Ottima anche qui la materia prima, non sempre locale ma di certo selezionatissima. La affianca una carta dei vini di tutto rispetto, che spazia dalle vere e proprie eccellenze romagnole (con attenzione alle cantine di Bertinoro) a quelle nazionali, con particolare predilezione per i rossi della Toscana e del Piemonte.

Un tentativo, quello del giovane imprenditore e dell’altrettanto giovane chef, di alzare l’asticella in una Bertinoro che vive ancora di piatti (e impiattamenti) tradizionali e tradizionalisti. Un tocco di modernità distintiva, tutt’altro che pacchiana. Un “esperimento” da incoraggiare.

Più casereccia, ma proprio per questo meritevole di essere testata, la cucina della Vecia Cantena d’la Prè, a Predappio: tappa fondamentale dopo la visita alla casa di Mussolini, costruita appunto con lo spungone, e agli edifici che trasudano Razionalismo.

Qui il must – oltre alla visita delle cantine storiche che si dipanano nei sotterranei – è l’assaggio del Formaggio della Solfatara di Predappio Alta, destinato a diventare quantomeno De.Co. (Denominazione comunale).

A prepararne tra i 5 e i 6 quintali ogni anno è la Pro Loco locale, che si occupa dell’affinamento delle forme da 1,2 chilogrammi, nella cava di zolfo ormai in disuso a Predappio Alta.

La stessa solfatara ogni anno, sin dal 1982, diventa teatro di uno dei presepi più grandi della Romagna. Un altro motivo di attrattiva turistica, dal momento che i presepisti chiamati all’allestimento godono di grande fama. Il presepe 2019 sarà a cura di Andrea Fontana, artista “autoctono”, originario di Lugo di Romagna (RA).

Arte che diventa intrattenimento, sempre nelle “Terre dello Spungone”, a Meldola. Il paesino, caratterizzato dal bel Loggiato Aldobrandini, di epoca rinascimentale, sembra indicare la via per il Teatro Dragoni. Trecento posti a sedere e un loggione da 30 posti, spesso occupati con facilità, grazie a spettacoli dialettali e a una stagione che ha visto, negli anni, salire sul palco interpreti come Gaber.

Accanto al teatro, lungo la salita che conduce alla Rocca di Meldola, l’Arena Hesperia, costruita nel XIX secolo e oggi sede del Museo del Baco da seta “Ciro Ronchi”: “Le filande erano fiorenti e numerose – spiega il direttore Luciano Ravaglioli – e Meldola è l’unico Comune che vanta una razza di baco, che porta lo stesso nome, come testimonia la Stazione Bacologia di Padova”.

Sempre a Meldola, da non perdere il Museo dell’Ecologia diretto dallo studioso Giancarlo Tedaldi nella Chiesa sconsacrata della Madonna del Sasso. Un percorso ideale nella Romagna della biodiversità, con interessanti reperti storici e la presenza di animali imbalsamati, testimoni fedeli della fauna locale.

SETTE VINI DA NON PERDERE NELLE “TERRE DELLO SPUNGONE”


Romagna Doc Sangiovese Superiore Riserva 2016 Predappio di Predappio “Vigna del Generale”, Fattoria Nicolucci: 94/100

In assoluto il miglior Sangiovese degustato in tre giorni di tour nelle “Terre dello Spungone”. Un vino, questo di Alessandro Nicolucci (10 ettari totali per 90 mila bottiglie complessive) che ha tutto per competere a livello nazionale e internazionale con i grandi rossi.

Colore rosso rubino carico, mediamente trasparente. Frutto di grandissima precisione, con ricordi particolari di ribes, lampone. Accenni di inchiostro, riscontrabili anche in grandi Sangiovesi toscani, e richiami all’arancia sanguinella, succosa, matura. Leggera speziatura nera.

Al palato, oltre alla perfetta corrispondenza, il cru di Nicolucci rivela gran complessità, grazie a un utilizzo maestoso del legno e a una freschezza rigenerante. Tannino elegantissimo ma presente coi suoi rintocchi sabbiosi. Poi liquirizia e un accenno leggero di cuoio. In chiusura le erbe aromatiche e una vena sapidità che chiama il sorso successivo.

Romagna Doc Sangiovese Riserva Bertinoro 2014 “P. Honorii”, Tenuta La Viola: 92/100
Splendida esecuzione di Sangiovese romagnolo in un’annata non semplice. Una di quelle in cui i vignaioli hanno però occasione di dimostrare di che pasta sono fatti. Sorprendente l’equilibrato tra la componente fresca e la totale ed assoluta godibilità succosa del frutto, a sua volta colto nella sua piena ma perfetta maturità, senza la minima sbavatura.

Leggerissimo accenno selvatico che porta ancora una volta il confronto su toni alti, coi vicini della Toscana. Non manca il cuoio. Sempre al naso, la balsamicità data mentuccia e macchia mediterranea.

Corrispondenza perfetta per un palato che gode di una gran freschezza, di un tannino elegante e di prospettiva, che si diverte a fare da contraltare a un frutto di gran concentrazione. Lungo e fresco anche il finale, su accenni di macchia mediterranea e iodio.

Romagna Doc Sangiovese Superiore 2017 “Il Prugnolo”, Tenuta Villa Trentola: 91/100
Austero, “territoriale”, ha bisogno di tempo per aprirsi. Concederglielo è un dovere, perché poi lo fa benissimo e diventa uno splendore. Mora, ma ancor più lampone, oltre ad accenni precisi all’arancia sanguinella. In bocca, più che sul frutto, è un Sangiovese giocato sulle durezze, spiegate da un tannino elegante, che parla di prospettive future ottime. Non ne risente al momento la bevibilità, che non potrà che divenire sempre più agile col passare dei mesi.

Romagna Doc Sangiovese Predappio 2017 “Notturno”, Drei Donà: 90/100
Classico rubino mediamente trasparente. Frutto rosso di gran precisione: ribes e fragoline di bosco. Naso che gioca soprattutto su una gran profondità, su note di erbe aromatiche, timo, mentuccia e accenni di spezia nera.

In bocca una gran concentrazione e un tannino che, pur essendo ancora in fase di integrazione, si mostra in cravatta, su note di cioccolato. Corrispondente al palato, dove convince per la grandissima freschezza e parla ancora di una buona prospettiva futura.

Romagna Doc Sangiovese Superiore 2017 “Girapoggio”, Bissoni: 88/100
Avete presente l’estate e quella voglia che ogni tanto t’assale di versarti un rosso fresco “da frigorifero”, che sappia dissetare e, al contempo, far sorridere dalla gioia? Eccolo.

“Girapoggio” è il classico vino che gioca con lo spazio: largo, per la componente data della frutta matura (lampone nettissimo, succoso), ma al contempo profondo al naso, con richiami di macchia mediterranea e spezia.

In bocca l’ingresso è morbido, ancora una volta largo, “piacione” e “femminile” per certi suoi versi sinuosi. Splendido appunto se servito con qualche grado in meno rispetto a quelli canonici per il vino rosso da uve Sangiovese.

Romagna Albana Docg 2018 “Frangipane”, Tenuta La Viola: 87/100
Giallo paglierino acceso. Biancospino netto, salvia, ma naso in generale non esplosivo o particolarmente generoso. La componente fruttata ricorda il melone giallo, giustamente maturo.

Il nettare poi si scalda e dà il meglio di sé. In bocca gran bella freschezza e verticalità. Chiusura che la alleggerisce, senza snaturarla, sempre sul frutto giustamente maturo (pesca gialla). Chiusura asciutta, pulita.

Pagadebit di Romagna Doc 2018 “San Pascasio”, Campodelsole: 86/100
Buona prova sulla Denominazione Pagadebit di questo colosso da 700 mila bottiglie che opera principalmente nella Grande distribuzione, con catene come Esselunga. Il Pagabebit di Campodelsole piace per la sua estrema godibilità, specie alla corretta temperatura di servizio. Il classico vino capace di chiamare il sorso successivo, in maniera “compulsiva”: semplice, beverino ma non banale. Ben fatto.

Giallo paglierino leggermente velato e naso di biancospino, con predominanza minerale. Accenni di nocciola tostata. La componente fruttata si decide su trame esotiche. In bocca sorprende per la gran sapidità e freschezza: caratteristiche che riescono a compensare molto bene (e a riequilibrare) la maturità “morbida” del frutto.

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degustati da noi vini#02

Monteregio di Massa Marittima Doc 2012 “Scarilius”, La Pierotta


Dimostra una buona longevità “Scarilius” 2012 dell’Azienda agricola La Pierotta. Un Sangiovese in purezza prodotto in Maremma, sotto l’egida della Doc Monteregio di Massa Marittima. Una Denominazione ancora piuttosto sconosciuta, tra quelle toscane che ricadono nella provincia di Grosseto.

LA DEGUSTAZIONE
Nel calice, “Scariulius” 2012 si presenta di un rosso rubino con unghia granata. Chiara, al naso, l’impronta di un Sangiovese con qualche anno sulle spalle, ma ancora vivo e scalpitante. La percentuale d’alcol in volume (14%) si fa sentire senza disturbare troppo, come componente volatile.

Aiuta, anzi, l’espressione piena del frutto, a bacca nera: mora matura, in particolare. Poi richiami floreali di viola e terziari dettati dall’affinamento in legno di “Scarilius” (cuoio e tabacco dolce), oltre ad accenni leggeri di ‘selvatico’, macchia mediterranea e spezia, che rendono ancora più complesso il quadro.

L’ingresso in bocca è potente, sulla scorta dell’alcol già avvertito al naso. Ottima la corrispondenza gusto olfattiva, su tinte di frutti di bosco ed erbe come il timo e il rosmarino. Centro bocca piuttosto morbido, su tannini eleganti e ben integrati, che giocano con una bella venatura fresca.

Chiusura leggermente mentolata e persistenza più che sufficiente, su ritorni di caffè e liquirizia. Perfetto a tutto pasto, se la scelta ricade sulle carni: antipasti, primi dai ricchi ragù e secondi, senza disdegnare la selvaggina. Ottimo il rapporto qualità prezzo di questa etichetta di punta dell’Azienda agricola La Pierotta.

LA VINIFICAZIONE
Il Monteregio di Massa Marittima Doc 2012 “Scarilius” è ottenuto mediante vinificazione tradizionale in rosso. La fermentazione, con macerazione delle vinacce, avviene in vasche di cemento vetrificato. La maturazione, per 12 mesi, è affidata a barrique di rovere francese.

L’affinamento si prolunga per 6 mesi, in bottiglia, prima della commercializzazione. L’Azienda Agricola La Pierotta è situata ai piedi di Monte d’Alma, sul versante nord della provincia di Grosseto, nel cuore dell’Alta Maremma Toscana.

La famiglia Rustici vanta oltre 30 anni di esperienza nella zona. Quindici gli ettari di terreno complessivi, tredici dei quali coltivati a vigneto, con una produzione di circa ottocento ettolitri di vino all’anno.

A Sangiovese, Ciliegiolo e Vermentino si affiancano Sirah, Cabernet Sauvignon e Merlot. Completano l’offerta le Grappe ed una produzione di Olio Extravergine di Oliva di qualità.

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degustati da noi news news ed eventi vini#02

Cembrani Doc: un vino al giorno per scoprire la Valle di Cembra in una settimana


È il regno dei muretti a secco, con ben 708 chilometri che si rincorrono tra le viti verticali, ma soprattutto di grandi vini bianchi, degni del ricco panorama del Made in Italy enologico. La Val di Cembra, in Trentino, rappresenta uno dei territori dal maggior potenziale di crescita, nel Bel paese. Merito anche del Consorzio Cembrani Doc.

Sette i vini proposti in degustazione dall’associazione di produttori trentina in occasione della XXXII Rassegna Internazionale Müller Thurgau. Tutte etichette “di territorio”, rispettose di un logo – quello, appunto, del Consorzio Cembrani Doc – che rappresenta un bicchiere di vino stilizzato, composto dalle iniziali “C” e “D”, riempito con i profili dei muretti a secco, circondati dalle viti e lambiti dal fiume Avisio, che nei secoli ha eroso i declivi.

“Abbiamo scelto un prodotto per azienda in degustazione – spiega Mara Lona, referente dei Cembrani – per mostrare che Valle di Cembra non significa solo Müller Thurgau, ma che la varietà di vitigni meritevoli d’attenzione nella nostra zona è più ampia”.

SETTE VINI PER SCOPRIRE LA VALLE DI CEMBRA


1) Spumante Metodo Classico Brut 2011 “Cimbrus”, Alfio Nicolodi: 88/100

Sboccatura luglio 2018 per questo Champenoise prodotto con l’antica uva Lagarino bianco, salvata dalla scomparsa da produttori attenti e appassionati come Alfio Nicolodi. Basti pensare che nell’intera Valle di Cembra se ne lavorano annualmente 15 mila quintali.

Perlage fine alla vista per questa bollicina non convenzionale. Al naso i marcatori tipici degli spumanti di montagna: alla frutta tendente al maturo (pesca) si affianca una nota burrosa, cremosa, oltre a freschi sbuffi di erbe alpine.

In bocca colpisce per la gran freschezza, balsamica, che sorregge il sorso verso una chiusura mentolata, piena, molto più dell’ingresso fruttato. In centro bocca, la nota minerale segna un punto di stacco di questo Metodo classico ancora in evoluzione.

I vigneti di Lagarino bianco di Nicolodi si trovano a 600 metri sul livello del mare e affondano le radici su terreni porfirici, anche se il vignaiolo ha già impiantato a mille metri di altezza. La varietà si distingue infatti per l’altissima resistenza alle temperature rigide invernali, alle sferzate di vento e alla peronospora più che all’oidio.

Per questo è presente in Valle di Cembra, oltre che per la notevole vigoria produttiva. Può arrivare tranquillamente a 150 quintali per ettaro, ma Alfio Nicolodi contiene la produzione tra i 95 e i 105 quintali ettaro.

La caratteristica che rende il Lagarino bianco perfetto per la spumantizzazione è però la notevole acidità, misurabile analiticamente. La raccolta avviene tra la fine di settembre e la prima settimana di ottobre, a piena maturazione.

Il grappolo – tra i 16 e i 22 centimetri di lunghezza e i 6, 7 di circonferenza – è a spirale, con un’aletta. La buccia degli acini e sottilissima. Un vitigno da valorizzare, che merita grande attenzione.

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2) Igt Vigneti delle Dolomiti 2017 “708 chilometri Cembrani Bianco”, Cembrani Doc: 89/100
È stata messa sul mercato da pochi giorni questa etichetta prodotta grazie a una selezione di uve del 90% degli associati del Consorzio Cembrani Doc. Il nome del vino richiama l’estensione dei muretti a secco in Valle di Cembra.

Solo 2500 bottiglie: una tiratura limitata per questo blend di Müller Thurgau (60%) e Riesling (40%). Giallo paglierino pieno, luminoso.

Naso balsamico, di talco e fiore del sambuco, accenno di radice di liquirizia e di idrocarburo. Sorso piuttosto rotondo e morbido, dominato da frutta matura come pesca e litchi.

Salinità e freschezza controbilanciano le percezioni fruttate “grasse” e accompagnano verso un retro olfattivo pieno. Prima annata nel 2013 per questa etichetta “di Consorzio”. Si passa poi a 2015, 2016 e, appunto, 2017.

3) Vigneti delle Dolomiti Igt Müller Thurgau 2018, Azienda Agricola Simoni: 85/100
Vino che si distingue per la gran facilità di beva: un’espressione di Müller Thurgau sincera, tradizionale e artigianale. Naso suadente e palato che mostra la gioventù del nettare. Bei risvolti minerali in chiusura, che allungano la persistenza e complessità del sorso. Quattromila le bottiglie complessive.

L’Azienda Agricola Simoni è stata fondata nel 1918 da Giuseppe Simoni, che ha trasmesso la sua passione alle successive tre generazioni. I vini prodotti sono frutto dei vigneti del Comune di Giovo, contraddistinti da un terreno calcareo che contribuisce ad esaltare le note minerali.

4) Trentino Doc Müller Thurgau 2016 “Vigna delle Forche”, Cembra Cantina di Montagna: 93/100
Si tratta di uno dei progetti di vigneto di “alta quota” di Cembra Cantina di Montagna, situato a 872 metri di altezza. Uno studio svolto in collaborazione con l’Istituto agrario di San Michele all’Adige (TN), che ha mappato tutta la Val di Cembra nell’ottica di una sua zonazione.

Colore invitante e tipico – giallo paglierino con riflessi verdolini – e naso molto intrigante. Origano, macchia mediterranea, salvia, nota talcata, sambuco e burrosa. In bocca salino e verticale in ingresso.

Gioca su note corrispondenti, in un quadro di perfetta corrispondenza gusto olfattiva. Chiude minerale e balsamico, su un’infinita persistenza. Seimila bottiglie complessive per l’ottimo “Vigna delle Forche”.

5) Igt Dolomiti 2016 “Kròz Bianco”, Villa Corniole: 92/100
“Kròz Bianco”, ovvero il Monte Corona. Terrazzamenti da 500 a 800 metri sul livello del mare. È qui che nasce uno dei migliori uvaggi della Valle di Cembra, su iniziativa di Villa Corniole. Chardonnay per il 75% e Müller Thurgau per il 25%, in anteprima.

Giallo paglierino carico, alla vista. Al naso fiori di camomilla, frutto pieno, a polpa bianca e gialla, splendidi richiami di salvia e verbena che portano la mente a quelle alture. Gli sbuffi minerali conducono invece al terreno, prettamente calcareo.

In bocca “Kròz Bianco” entra dritto e al contempo largo, come pochi vini bianchi italiani sanno fare. A un’ottima salinità e freschezza risponde il frutto, giustamente maturo e di grandissima precisione. Un equilibrio giocato sulla pienezza, che a sorso compito si tramuta in un ottimo allungo, su note corrispondenti.

Solo 4 mila bottiglie per questa vera e propria chicca della Val di Cembra, ottenuta in maniera molto sapiente da Villa Corniole, realtà famigliare di 10 ettari complessivi che mostra così grande abilità in cantina, oltre che in vigneto.

Lo Chardonnay fermenta per tre quarti in barrique prima di essere unito al Müller, dopo circa un anno. Un altro anno di “vetro” precede la commercializzazione. L’annata in commercio è proprio la 2016.

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6) Trentino Doc Riesling 2016, Zanotelli Azienda Agricola: 94/100
Sul mercato da un paio di mesi, questo strepitoso Riesling trentino che per la prima volta si presenta in renana bassa. Un altro vino capace di sfoderare un’anima sia larga che verticale, con note di frutta esotica a polpa gialla e di agrumi, tra la buccia e il succo, oltre agli accenni di idrocarburo.

Gran talco e balsamicità, macchia mediterranea che si snoda sul rosmarino. Slancio salino dal centro bocca alla lunga chiusura, freschissima e nuovamente balsamica. Leggera percezione di tannino in chiusura, che asciuga assieme a un minerale in gran evidenza, capace di ricomporre nel calice la matrice calcarea del terreno.

I vigneti si trovano a Saosènt (Cembra), tra i 600 e i 750 metri di altezza. La resa è pari alla metà di quanto consentito dal disciplinare di produzione: 70 quintali per ettaro. Fermentazione in acciaio inox a temperatura controllato e lungo affinamento in bottiglia per questo Riesling, elegante e fine.

7) Trentino Doc Chardonnay 2016 “Ror”, Cantina Corvée: 88/100
Prima annata di “Ror” per questa nuova realtà della Valle di Cembra, vicina per filosofia alla famiglia dei Cembrani Doc. Nome curioso “Corvée”, che riporta al feudalesimo francese. I vassalli chiamavano così le giornate di lavoro, spesso non retribuite, nei campi del loro signore. In Val di Cembra fu costruita così gran parte dei muretti a secco.

Il progetto della Cantina Corvée vede impegnati otto viticoltori della zona. Naso prezioso, intenso e ampio per lo Chardonnay “Ror”, prodotto in particolare da Michele e Mauro Nardin: i chiari richiami di chiodi di garofano ed erbe alpine si fondono alla perfezione con le note fruttate di pesca gialla e mela farinosa. Non manca un accenno di pietra focaia.

Colpisce anche al palato per la gran struttura, data da una freschezza dirompente. Il sorso, tuttavia, lascia spazio alle note fruttate di esprimersi, accanto alla mentolata acidità. La chiusura vira su una leggera spezia e sul verde alpino.

Ottenuto dalla vigna ai piedi del Monte Avvoltorio, nel Comune di Altavalle (località Faver), a 560 metri sul livello del mare, lo Chardonnay “Roré” viene vinificato in acciaio e sosta sui lieviti 8 mesi prima di essere imbottigliato.

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***DISCLAIMER*** L’articolo è frutto di un accordo tra la nostra testata e l’associazione Cembrani Doc. I commenti espressi sono comunque frutto della completa autonomia di giudizio della nostra testata, nel rispetto assoluto dei nostri lettori

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degustati da noi vini#02

Vino rosso 2016 “Il Barocco”, Perego & Perego


Solo 1.330 bottiglie, zero solfiti aggiunti e un livello di anidride solforosa “ridicolo”, pari a 0,002 grammi litro. Eppure, descrivere il Vino rosso 2016 “Il Barocco” di Perego & Perego come un vino semplicemente “sano”, è ampiamente riduttivo.

Siamo in Oltrepò pavese, per l’esattezza a Rovescala (PV), per un blend che ha nella Croatina il suo forte (50%), completato da un 40% tra Moradella e Vespolina e da un 10% di Barbera. Si tratta del fiore all’occhiello della gamma del vulcanico vignaiolo Giorgio Perego: “Mr Croatina”, per l’abilità di dare del tu al vitigno.

LA DEGUSTAZIONE
Alla vista si presenta di un viola impenetrabile, che rimanda in maniera coerente alla carica di antociani – ovvero le componenti che determinano il colore del vino – della varietà. Al naso è l’alcol (15,2% vol.) a spingere verso l’esterno del calice il ricco bouquet di “Barocco”.

Un naso coi fronzoli della viola mammola e il frutto che richiama la mora, ma anche gli agrumi come il bergamotto, dalla buccia al succo. I terziari sono disegnati da una trama di spezia nera (pepe), calda (cannella) e per certi versi orientale (the verde) oltre che dal cuoio e dal fumo di pipa.

L’ossigenazione aiuta questo vino rosso oltrepadano nell’espressione delle sue sfumature più nude e crude, commoventemente tipiche dei vitigni che compongono il blend e, in particolare, della Croatina: quel richiamo selvatico che impreziosisce l’olfatto, senza far arricciare il naso.

E poi la liquirizia, il suo cuore, nelle migliori espressioni pure, calabresi. In bocca, l’ingresso è fruttato e piuttosto agile, su una nota diretta sulla mora e sulla prugna disidratata. Ma dura un attimo. Il corredo si amplia ai terziari.

È il centro bocca il momento esatto in cui “Barocco”di Perego & Perego diventa “barocco”. Guadagnando in larghezza e lunghezza, con le sue tinte di liquirizia, spezia, macchia mediterranea e leggero sale.

Il tannino gioca un ruolo fondamentale, nel suo essere ancora giovane e in fase di integrazione, ma non disturbante. Lascia una traccia in chiusura, dove il marcatore della regolizia scura si fa radice. Lungo il retro olfattivo, dove la novità sono le sensazioni fumè, tra la brace e l’incenso.

Perfetto l’abbinamento con le carni, in particolare con la selvaggina (delizioso immaginarlo col cinghiale, d’inverno, davanti a un caminetto). Una piccola versione di Brunello – concedete il paragone – prodotta in Oltrepò pavese.

LA VINIFICAZIONE
Dieci giorni di appassimento in pianta per tutte le uve che compongono il blend di “Barocco”. Un’operazione delicatissima, che evidenzia la maestria – oltre alla pazienza – di Giorgio Perego.

Quando Croatina, Moradella, Vespolina e Barbera sono mature, il vignaiolo schiaccia con un’apposita pinza dal lungo becco l’apice superiore di ogni singolo grappolo, in modo da inibire parzialmente il passaggio linfatico.

Un intervento chirurgico, dall’effetto assimilabile a quello di un laccio emostatico. Serve a ottenere la corretta concentrazione degli aromi di ogni acino, senza ricorrere all’appassimento sui graticci, che risulterebbe molto più invasivo in termini organolettici. Una volta in cantina, la massa macera un mese sulle bucce.

Seguono due settimane in acciaio. La fermentazione alcolica si conclude in tonneau, dove si svolge anche la malolattica. Il vino riposa sempre in tonneau, per circa un anno. Dopo un mese in acciaio, utile all’illimpidimento naturale, “Barocco” viene travasato e imbottigliato, senza filtrazione.

***DISCLAIMER: La recensione di questa etichetta non è stata richiesta a WineMag,it dall’inserzionista. È stata redatta in totale autonomia dalla nostra testata giornalistica, nel rispetto dei lettori e a garanzia dell’imparzialità che caratterizza i nostri giudizi, anche quando la recensione viene richiesta da una cantina***

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degustati da noi vini#02

Veneto Igt Merlot 2018 “Lapilli”, Parco del Venda


“La qualità comincia in vigneto”. Una frase che risuona come un mantra nella cantina Parco del Venda, che sui Colli Euganei regala agli appassionati di Merlot un’etichetta di gran qualità. Si tratta del Veneto Igt Merlot 2018 “Lapilli”, tra le “chicche” della cantina condotta da Carlo e Michael Toniolo a Vò, in provincia di Padova. Un vino che, già dal nome, vuol essere un tributo al terreno di origine vulcanica di questo angolo di Veneto.

LA DEGUSTAZIONE
Nel calice, il nettare si presenta del classico rosso-viola impenetrabile. Al naso, “Lapilli” regala i richiami “verdi” tipici del Merlot, ma in una veste garbata ed elegante, ammantata dal calore della vena alcolica, presente (15,5% vol.) ma non disturbante.

Frutto rosso, ribes in particolare, poi lampone e ciliegia selvatica per una componente fruttata di gran precisione, cui si accostano richiami di macchia mediterranea sempre più vividi col passare dei minuti, grazie all’ossigenazione.

Il giro delle lancette regala complessità a questo Merlot vulcanico di Parco del Venda. Leggera spezia e caramella mou, fino a sbuffi che ricordano il fondo di caffè. In bocca, come nella migliore delle attese, una gran freschezza.

Alcol ancora una volta molto ben integrato, tannino elegante, cuore di liquirizia, spezia (pepe) e chiusura salina. Splendida l’espressione del frutto, che si conferma della giusta maturazione, tanto da non sforare nella confettura.

Quando la temperatura del calice si alza di qualche grado, il varietale diviene sempre più presente e riconoscibile. Ancora più in evidenza la balsamicità della chiusura, su note che ricordano la mentuccia e la salvia. Perfetto l’accostamento con le carni, in particolare con quelle rosse alla griglia. Temperatura di servizio tra i 16 e i 18 gradi.

LA VINIFICAZIONE
“Lapilli” viene prodotto con uve Merlot in purezza, da piante di età compresa fra i 30 e i 6 anni. I vigneti si trovano a Boccon di Vò e ad Arquà Petrarca, a un’altezza compresa tra gli 80 e i 90 metri sul livello del mare, con esposizione Sud e Ovest. La resa è di 80 quintali per ettaro. La densità di impianto varia fra le 3 e le 5 mila piante per ettaro.

Le uve vengono raccolte generalmente nella prima decade di ottobre. La vinificazione prevede diraspatura dell’uva, pigiatura e fermentazione in tini orizzontali, a temperatura controllata di 28 gradi, per una durata di 4 giorni.

Il successivo affinamento del Merlot Lapilli avviene in vasche di cemento. Si protrae per otto mesi, con l’utilizzo della tecnica della macro ossigenazione per due giorni, utile a stabilizzare il colore e regalare tannini sinuosi.

Il vino, dopo l’imbottigliamento, riposa per almeno due mesi prima di essere commercializzato. Per l’annata 2018 sono stati prodotti 7 mila ‘pezzi’ di “Lapilli”, che risulta così uno dei prodotti di punta della cantina Parco del Venda.

L’Azienda vitivinicola coltiva circa 50 ettari di vigneto, tutti situati nella zona Doc del Parco Regionale dei Colli Euganei, fra i Comuni di Vo’, Cinto Euganeo e Galzignano Terme, in provincia di Padova. Una delle zone storiche per la viticoltura in Veneto.

Qui, assieme all’ulivo, le viti hanno trovato un habitat ideale. Per la natura del terreno, di origine vulcanica. Ma anche per il clima, piuttosto mite. La qualità dei vini di Parco del Venda comincia dalla potatura. Passa dal diradamento selettivo delle uve e si conclude in cantina.

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Toscana Igt rosato 2016 “Operandi”, Piandaccoli


Ebbene sì. Il vino rosato “invecchia” e lo fa benissimo se si tratta del Toscana Igt “Operandi” di Piandaccoli. La vendemmia 2016 di questo rosato da uve Sangiovese offre il meglio di sé, nel 2019. Provare per credere.

LA DEGUSTAZIONE
Un vino invitante già dal colore: buccia di cipolla luminoso, con riflessi aranciati, che non cade affatto nei facili richiami delle sirene provenzali e commerciali. Al naso è intenso e piuttosto complesso, nel susseguirsi tra note precisissime di piccoli frutti a bacca rossa e nera, macchia mediterranea ed agrumi (arancio e buccia di lime).

Il vitigno e le sue caratteristiche risultano preponderanti al palato, segno di una lavorazione più che mai rispettosa del varietale. Un altro punto in più, in un mondo di rosati slavati e uniformati. Già, perché quella dei rosati, in Italia, è una professione. Mica un hobby.

E allora ecco la bocca riempirsi del rosso Sangiovese a tutti noto, in tutti i suoi risvolti. Compresi i tannini, che si avvertono ancora pur essendo perfettamente integrati al resto dei descrittori.

Quanto al corredo di “Operandi”, ancora agrumi, frutta rossa, macchia mediterranea e una gran freschezza, impreziosita da una chiusura tra l’agrumato, il frutto rosso e lo speziato finissimo. Non manca la sapidità.

Una nota iodica che si avverte chiaramente nei Chianti di Piandaccoli, realtà toscana guidata da un imprenditore illuminato come Giampaolo Bruni, che può contare su un parco vigneti invidiabile dal punto di vista vocazionale e qualitativo, oltre che su evidenti abilità enologiche in cantina.

LA VINIFICAZIONE
Uve Sangiovese grosso in purezza per il rosato “Operandi” 2016, frutto dell’assemblaggio dei vigneti Fattoria e Pozzo. La vinificazione avviene in maniera piuttosto classica, con breve contatto sulle bucce, affinamento in acciaio di 12 mesi e ulteriore maturazione in vetro di 4 mesi, prima della commercializzazione. Solo 4 mila le bottiglie prodotte.

Novanta ettari complessivi per Piandaccoli, che ha sede a Calenzano, a pochi chilometri da Firenze. I suoli dei vigneti sono estremamente variegati: ciottolosi, ricchi di minerali, limo e sabbia e tendenti all’argilla.

I vitigni allevati sono prevalentemente autoctoni toscani: Sangiovese, Foglia Tonda, Pugnitello, Barsaglina, Mammolo, Colorino, Malvasia Toscana e Chardonnay. Il terroir è caratterizzato da profondi “borri”, ovvero spaccature più o meno profonde del suolo, che concorrono alla formazione di un microclima unico.

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Igt Terre Siciliane 2011 “Tancredi”, Donnafugata


L‘Igt Terre Siciliane “Tancredi” viene prodotto da Donnafugata dal 1990 ed è certamente uno dei vini che hanno contribuito all’affermazione della Sicilia come “continente” di qualità per la produzione vitivinicola. Sotto la lente di ingrandimento di WineMag.it la vendemmia 2011 di questo blend composto prevalentemente da Cabernet Sauvignon e Nero d’Avola.

Completano l’uvaggio altre varietà la cui produzione è autorizzata in Sicilia, come l’internazionale Tannat, originaria della Francia dei Pirenei (Madiran Aoc) ma agli onori delle cronache soprattutto per alcune etichette dell’Uruguay, dove è il vitigno a bacca rossa più coltivato.

LA DEGUSTAZIONE
Colore rosso impenetrabile per Tancredi 2011, come da aspettative. Naso che inizialmente è dominato da note terziarie, oltre a sentori erbacei tipici del Cabernet. Si apre poi sul pepe e sull’arancia rossa del Nero d’Avola, contribuendo a rendere il quadro olfattivo fruttato ed elegante.

Il legno rimane sempre presente in sottofondo, evidenziando una tostatura capace di regalare ricordi fumé. Vino da aspettare nel calice, “Tancredi” 2011 di Donnafugata evolve grazie all’ossigenazione sulla macchia mediterranea, ma anche sul frutto (prugna, lampone) e sulla liquirizia.

Un rosso che, nella sua complessità, sfodera richiami balsamici di mentuccia, di tabacco dolce, di polvere di cacao. L’ingresso al palato è piuttosto verticale, con frutto e freschezza (descrittori corrispondenti al naso) che riequilibrano la vena sapida, piuttosto netta e molto ben integrata.

Molto elegante la beva, con ritorni di cacao e liquirizia in un finale minerale, lungo, complesso e scalare, rinvigorito da sbuffi speziati. Vino di grande gastronomicità, “Tancredi” 2011 di Donnafugata è compagno perfetto delle carni, dagli arrosti ai brasati. La vendemmia in questione evidenzia un tannino in fase distensiva, che fa presagire almeno altri quattro o cinque anni ad alti livelli.

LA VINIFICAZIONE
I vigneti collinari atti alla produzione del blend di Tancredi si trovano nella Sicilia occidentale, per l’esattezza presso la Tenuta Contessa Entellina (PA) e nei territori limitrofi. L’altitudine varia da 200 a 600 metri sul livello del mare.

Si tratta di suoli franco-argillosi con buona presenza di calcare, ricchi in elementi nutritivi come potassio, magnesio, calcio, ferro, manganese, zinco. La raccolta delle uve avviene manualmente in cassette, con attenta selezione delle uve in vigna (resa variabile tra i 50 e i 60 quintali per ettaro).

La vinificazione precede la fermentazione in acciaio, con macerazione sulle bucce per quattordici giorni a una temperatura compresa tra i 26 e i 30 gradi. Tancredi 2011 ha affinato 14 mesi in barrique di rovere francese  e 30 mesi in bottiglia, prima di essere messo in commercio.

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Asolo Prosecco Docg Colfondo “ll Brutto”, Montelvini


Fa parte della collezione “Serenitatis Asolo” l’Asolo Prosecco Docg Colfondo “ll Brutto”, ultima etichetta di Montelvini. “Un modo per celebrare il lato più esclusivo e raffinato delle nostre bollicine”, spiega la casa vinicola di Volpago del Montello (TV).

Prodotto in quantità limitate (solo 2.500 bottiglie), “Il Brutto” è un vino non filtrato – o meglio #nofilter, per citare l’hashtag prescelto dalla cantina per la campagna di comunicazione – rifermentato in bottiglia secondo la tradizione tipica delle colline trevigiane. I lieviti si depositano sul fondo, senza essere rimossi.

Si può quindi scegliere di consumare questo Prosecco anche dopo aver agitato la bottiglia, per mescolare il nettare coi depositi, assolutamente commestibili e digeribili. Oppure versarlo con delicatezza, preservando una certa limpidezza.

LA DEGUSTAZIONE
“Il Brutto” di Montelvini si presenta nel calice di un giallo paglierino velato, per via del mancato filtraggio. Anche al naso risulta più che mai caratteristico. Le note di lievito sono piuttosto in evidenza, ma non coprono il bouquet floreale e gli aromi tipici della Glera, che riescono comunque a esprimersi.

All’assaggio, “Il Brutto” conferma tutte le impressioni giovanili del naso. Di nuovo le note di crosta di pane, seguite dalla frutta a polpa bianca e gialla. Chiude leggermente amaricante e su preziosi accenni salini, che invitano al sorso successivo. Una beva agile ma non banale, che potrà guadagnare ulteriore complessità col passare dei mesi.

LA VINIFICAZIONE
“Il Brutto” viene imbottigliato da Montelvini la settimana di Pasqua per iniziare, con il naturale aumento della temperatura stagionale, il processo di rifermentazione in bottiglia. L’uso dei solfiti è limitato e i pochissimi zuccheri residuali (2g/lt) garantiscono al vitigno di esprimersi appieno.

“È un vino vivo, sincero e in divenire – afferma Alberto Serena, ad di Montelvini – perché cambia nel corso dell’anno, evolvendosi. Ogni bottiglia è diversa e ci invita a ricercare nel bicchiere le peculiarità dei nostri territori e delle persone che lo hanno creato”.

LA CANTINA
Il Gruppo Montelvini e la famglia Serena possono vantare 138 anni di storia nella produzione di vini di qualità. Il 2018 è stato molto positivo per l’azienda, che è passata dai 19,16 milioni del 2016 a 24 milioni, di cui 6,5 milioni dall’export.

Sono 5,1 i milioni di bottiglie vendute nel mondo. All’estero i principali mercati restano il Giappone, gli Stati Uniti e la Russia. L’azienda coltiva direttamente circa 35 ettari di proprietà, divisi in quattro tenute.

Si tratta di Le Zuitere, che circonda la sede di Montelvini, Fontana Masorin a un’altitudine di 3 mila metri sul crinale del Montello, Presa IX, alle falde del colle e Ca’ Cornaro, alle pendici del Monte Grappa.

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“Nelle terre del Grechetto” XVII: i 15 migliori assaggi a Civitella d’Agliano

CIVITELLA D’AGLIANO – Nel cuore verde della Tuscia viterbese, a un passo dall’Umbria ma ancora nel Lazio, Civitella d’Agliano è un piccolo borgo medievale affacciato sulla valle del Tevere che ha ospitato quest’anno la XVII edizione de “Nelle terre del Grechetto“. Non potevamo mancare per raccontarvi i migliori assaggi.

IL BORGO
Con la torre d’avvistamento del suo Castello, da secoli domina l’intera area, un tempo abitata dagli Etruschi che vi hanno lasciato numerose tracce archeologiche, tra cui anfore da vino.

Selvaggio e brullo come solo la Tuscia sa essere, il territorio è caratterizzato a livello geomorfologico da fenomeni di calanchismo delle argille e dei tufi che le sovrastano, originatisi dalle eruzioni del complesso vulcanico di Vico e dei monti Cimini. Emblema di questa attività erosiva è la vicina e ben più nota Civita di Bagnoregio, proprio per questo detta “la città che muore”.

Data la tipologia dei suoli, argillosi e vulcanici, la Valle dei Calanchi è da sempre territorio d’elezione per una viticoltura a bacca bianca di qualità, tutta incentrata attorno al vitigno simbolo della zona: il Grechetto.

Come raccontato dal ricercatore del Cnr Stefano Del Lungo, che ha avviato un progetto di ricerca sul vitigno insieme all’azienda Sergio Mottura, leader nella vinificazione del Grechetto, “si tratta di una varietà antica, forse originatasi attorno al IX-X secolo da una forte matrice genetica irpina”.

Alcuni studi l’assimilerebbero infatti al Santa Sofia, vitigno recentemente riscoperto e storicamente stanziato nell’area irpina, lucana e pugliese di competenza bizantina e longobarda, come suggerisce il nome della varietà.

IL VITIGNO
Tornando invece al nostro Grechetto, la cui etimologia indurrebbe a pensare a un’uva greacula, ovvero analoga per profumi a quelle elleniche, ma non necessariamente greca d’origine, sarebbe giunto nel Centro Italia dalla Puglia seguendo le vie appenniniche della transumanza, dove circolavano non solo pecore, ma anche beni commerciali.

Qui avrebbe viaggiato in parallelo con suo “cugino” Pignoletto, col quale viene spesso confuso ma con cui condivide solo parte del corredo genetico, che si sarebbe invece indirizzato più verso la costa adriatica.

Come troviamo nel Registro Nazionale delle Varietà di Vite, quando si parla di Grechetto si accomunano, in realtà, dentro un’unica grande famiglia, diversi cloni che includono il Grechetto (clone G109) di alcune zone dell’Umbria (nostrale, spoletino, bianco o di Perugia), della provincia di Siena, ma anche di Teramo e di alcune province delle Marche.

I Grechetto dai grappoli serrati e altri spargoli (clone G5), come il Grechetto di Todi e il Greco gentile, assimilabili al Pignoletto. E infine altri ancora dagli acini sub-rotondi presenti nelle Marche.

I MIGLIORI ASSAGGI

A Civitella d’Agliano abbiamo avuto modo di assaggiare, durante un bel press tour organizzato da Carlo Zucchetti e dal suo team a fine luglio proprio a Civitella d’Agliano, ben 63 Grechetto alla cieca.

Le annate in degustazione, come le tipologie, erano diverse, con una prevedibile maggioranza di 2018, una discreta rappresentanza di 2016 e minori referenze di 2017 e 2015. Meno scontati, invece, i risultati, con una media qualitativa piuttosto elevata per tutti i 2018 e il risalto di nomi anche meno blasonati.

Le vecchie annate, tuttavia, ci hanno fatto capire che, per emozionare, il Grechetto ha bisogno di qualche tempo in più. Non è stato facile stabilire una classifica, considerando la prossimità dei voti. Ma ecco i 15 assaggi più pronti e interessanti.

Civitella d’Agliano IGT Grechetto Muffo 2016, Sergio Mottura: 93/100
Oro tendente all’ambra, luminoso. Sprigiona all’olfatto un ventaglio di profumi intensi, ricchi e avvolgenti che vanno dalle fresche note di pompelmo e cedro, a via via più “dolci” e profonde sensazioni di albicocca, noce e mandorla. Al palato è strutturato e denso, dolce, ma perfettamente bilanciato da un progressivo crescendo di acidità, sapidità e toni amaricanti di noce.

Umbria IGT Grechetto Sole Uve 2015, Tenuta Le Velette: 92/100
Oro pieno e luminoso. L’olfatto è ricco, armonico e compatto, con evidenti toni floreali di mimosa e tiglio, ananas maturo, note salmastre e di lieve cera d’api. In linea l’assaggio, intenso e di buon volume, con finale morbido, piacevole e persistente di ananas e cera.

Umbria IGT Grechetto Fiorfiore 2017, Roccafiore: 92/100
Paglierino dorato alla vista. Si apre al naso con immediati sentori di liquirizia, seguiti da frutta gialla matura, soprattutto ananas e pesca, e una fresca nota di timo. Molto gradevole e bilanciato il sorso, fresco e sapido, con congedo mentolato ed erbaceo di timo e rosmarino.

Lazio IGT Grechetto Lazio Donna Elena 2017, Chiara Profili: 91/100
Oro verde. Ha profilo olfattivo netto e intrigante, con toni di elicriso, rosmarino arso, nocciola tostata e percezioni più dolci di pesca sullo sfondo. Sorso di buon corpo, coerente nei ritorni retrolfattivi di elicriso e di liquirizia, rotondo, asciutto e gradevolmente ammandorlato.

Civitella d’Agliano IGT Grechetto Latour a Civitella 2016, Sergio Mottura: 91/100
Oro lucente. Intreccia all’olfatto complesse sensazioni di pera, melone invernale, ananas, cocco, fiori bianchi maturi e cera. Ancora giovane la bocca, percorsa da vibrante freschezza, strutturata ma leggiadra, promette un’evoluzione di grande godibilità. Finale pervaso da lunghi ritorni fumé e di cera.

Lazio IGP Grechetto Poggio Triale 2017, Tenuta La Pazzaglia: 90/100
Paglierino dorato. Naso elegante e territoriale, con note marnose e di erbe aromatiche (mentuccia, rosmarino, timo), quindi legno d’acacia, susina, frutta bianca e fiori. Di corpo e intensa la bocca, di adeguata freschezza e con gradevole sapidità nel finale, appena ammandorlato ed erbaceo.

Umbria IGT Grechetto 2018, Fattoria Le Poggette: 90/100
Oro. Ha naso intenso, ammaliante e “solare” di vaniglia, mela e pesca, con più profonde percezioni di miele, nocciola e mandorla. Rotondo e appagante il sorso, del tutto coerente e armonico, con congedo piacevolmente ammandorlato.

Lazio IGT Grechetto Convenio 2018, Casale Certosa: 89/100
Oro lucente. Emergono le note olfattive territoriali di marna, tufo, mentuccia, erba medica e mela, in un insieme armonico ed elegante. Di buon corpo al palato, si apre rotondo e composto, con piacevole il finale di erbe aromatiche.

Colli Martani DOC Grechetto 2018, Plani Arche: 89/100
Oro lucente. Immediate le note salmastre, seguite da più rotonde percezioni di ananas, susina e pera, con timo e rosmarino al margine. Bilanciato, di buona struttura, fresco e appena sapido al palato, chiude asciutto, con ritorni di frutta e tufo.

Colli Bolognesi Docg Pignoletto Frizzante 2018, Il Monticino: 88/100
Verdolino con bolla fine. Ha olfatto fragrante di frutta bianca, soprattutto pera, agrumi, note salmastre, erbe di macchia mediterranea, biancospino, ginestra e tufo. Leggero, vivace, fresco e sapido, di pericolosa bevibilità, chiude su toni agrumati e tufacei.

Lazio IGT Grechetto Galante 2016, Tenuta Olivieri: 88/100
Oro con riflessi verdi. Armonico al naso, lascia emergere sentori di fiori di acacia, pera, ginestra, melone bianco e pesca. Coerente e pieno al sorso, dalla sapidità decisa, con freschezza ancora evidente e congedo persistente di agrumi e lieve fumé.

Umbria IGT Grechetto 2018, Perticaia: 87/100
Oro intenso. Corredo olfattivo incentrato sulla frutta a polpa bianca, con mela e melone invernale in bella mostra, seguite da sensazioni più “verdi” di carambola, ginestra e legno d’acacia. Sorso intenso, asciutto e appena caldo, dal retrolfatto lungo e coerente.

Umbria IGT Grechetto Grek 2018, Palazzone: 87/100
Oro alla vista. Olfatto compatto e intenso di fiori e frutta bianca, quindi percezioni più “verdi” di ginestra, mandorla fresca e lievi erbe di campo. L’assaggio è pieno, intensamente sapido, con congedo sui toni erbacei, di buona persistenza.

Tuscia DOP Grechetto Incanthus 2018, Trebotti: 87/100
Paglierino. Gradevole l’impatto olfattivo di agrumi gialli (cedro e pompelmo) seguiti da legno d’acacia e pesca bianca. Sorso coerente, giocato sulla freschezza e sulle lunghe persistenze di agrumi e pesca.

Civitella d’Agliano IGT Grechetto Tilium 2018, Tenuta Casciani: 87/100
Oro con riflessi verdi. Evidente al naso la componente fruttata e le note di tufo e sale, con più precisi toni di fiori gialli e pera. Gradevole e fresco al palato, di buona persistenza floreale-fruttata, pulito e mentolato.

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Igt Terre siciliane bianco 2018 Versante Nord, Eduardo Torres Acosta

È un bianco che chiede la pazienza di un rosso di struttura l’Igt Terre siciliane bianco 2018 “Versante Nord” di Eduardo Torres Acosta. Tempo utile affinché il vino si apra nel calice, sfoderando una sorprendente complessità, al di là del carattere marcatamente e tipicamente vulcanico.

LA DEGUSTAZIONE
Si tratta di un blend che vede protagonista l’uva autoctona Minnella (60%), nota in Sicilia come “Eppula” o “Minnedda ianca”, dettato dalla contrazione dialettale di “minna” (la forma dell’acino ricorda il seno femminile). Il restante 40% è composto da Catarratto, Carricante, Coda di Volpe, Grecanico e Inzolia.

Nel calice, “Versante Nord” bianco regala tutte le sfumature di una “cuvée” sapiente. Bello il colore dettato dal mancato filtraggio, in un gioco tra il torbido e il luminoso. Il succoso e l’asciutto. Anche naso e palato gareggiano sul filo dell’ossimoro.

La nota sulfurea e di pietra focaia domina la scena ma lascia spazio, pian piano, al frutto a polpa bianca del Catarratto e alla mineralità e al fiore d’agrume del Carricante. Con l’ossigenazione il quadro si amplia su ricordi di liquirizia, agrumi canditi e calde spezie: un matrimonio coi tempi di macerazione, che si protraggono fino a 5 giorni. Al palato si ritrova tutto questo.

“Versante Nord” entra sul frutto e si sviluppa sulla preziosa nota vulcanica. Mineralità e accenni di tannino – nuovo, calcolato retaggio della permanenza sulle bucce – sembrano troncare il sorso, che poi si riaccende sulla sapidità e su note di radice di liquirizia, di agrumi, di zenzero. Lunghissima la persistenza di un vino che invoglia al riassaggio. Diverso, ma sempre se stesso, ogni cinque minuti.

IL VIGNAIOLO
Eduardo Torres Acosta, giovane enologo spagnolo originario delle Canarie, opera sul versante Nord dell’Etna dal 2013. Trova casa a Randazzo, dove fonda l’azienda agricola che porta il suo nome, a garanzia dell’obiettivo da raggiungere. Due gli ettari attualmente di proprietà, capaci di dar vita a 12 mila bottiglie.

L’approccio di Eduardo Torres Acosta al vigneto e in cantina è il più naturale possibile, nell’ottica di restituire nel calice le caratteristiche uniche del vulcano, senza condizionamenti o compromessi. Una filosofia maturata dopo le prime esperienze in Sicilia, come enologo da Arianna Occhipinti e a Passopisciaro.

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Alassio: si chiude con successo la VII edizione di Un Mare di Champagne

ALASSIO (SV) – Grande successo per la VII edizione di Un Mare di Champagne, manifestazione dedicata alle bollicine d’oltralpe che si conferma essere uno dei principali appuntamenti italiani ad esse dedicato.

Nei due giorni di apertura si sono registrati oltre 1200 partecipanti che hanno potuto assaggiare le 1800 bottiglie stappate per l’occasione. Oltre 200 etichette a rappresentare 65 produttori, tra Maison e Vigneron, con assaggi guidati dai sommelier Fisar e accompagnati dalle eccellenze gastronomiche italiane e internazionali ospitate nelle 12 aree dedicate al food.

Manifestazione che, nella rinnovata cornice del Diana Grand Hotel, si conferma essere un evento “pop”, fresco e dinamico, la cui formula soddisfa esigenze e curiosità tanto del grande pubblico quanto quelle di appassionati ed addetti del settore.

Utile e comodo (salvo qualche piccolo inconveniente tecnico) il nuovo sistema di degustazione affidato al bicchiere intelligente MEMORvINO, grazie al quale i partecipanti hanno potuto ricevere via mail il loro personale percorso attraverso le etichette di Un Mare di Champagne, con le caratteristiche di ogni vino degustato.

GLI ASSAGGI DI WINEMAG
Grandi conferme e piacevoli novità. In tale mare di bollicine diventa difficile identificare chiaramente delle tendenze di settore, ma ciò che sembra emergere come tratto comune è la ricerca di grande freschezza nel calice ed un uso sempre più contenuto del legno in vinificazione. Si conferma inoltre il trend già visto e percepito da chi segue il mondo delle bollicine francesi: una riscoperta e rivalutazione sempre maggiore del Meunier sia utilizzato come vitigno in purezza che sottolineandone la presenza nelle cuvée.

Grandi conferme da parte dei nomi più noti. Bollinger sempre inattaccabile col suo “entry level” Special Cuvée, Ayala fedele a se stessa su tutta la linea, così come Drappier, Veuve Cliquot con il suo ottimo Vintage 2008 e più ancora con EBEO (Extra Brut Extra Old) ottenuto da soli vini di riserva, particolarmente intenso nel colore e nei profumi ,ed Encry Vue Blanche Estelle (da noi già incontrato) dai vini sempre precisi, “dritti”, ed eleganti.

Fra i nomi meno noti il primo a farsi notare è Chassenay D’Arce con due prodotti. Cuvée Pinot Blanc Extra Brut 2009 è ottenuto da sole uve Pinot Bianco di una piccola parcella recuperata, solo parzialmente vinificato in legno e con dosaggio molto basso (3 g/l dichiarati); si presenta chiaro nel colore e con un’effervescenza viva ma vellutata al palato, fresco e floreale con una leggera nota fruttata ed un tocco di miele è dotato di un sorso scorrevole. Cuvée Rosé è conivolgente al naso con sentori di frutti rossi e frutti canditi ed una nota balsamica quasi mentolata.

Sempre sul fronte dei Rosé coglie la nostra attenzione Cuvée Prestige Millesime 2013 delle piccola Masion JM. Gobillard & Fils. Interessante tutta la linea di Gobillard, fra cui segnaliamo anche la Cuvée Privilege de Moines, ma è per l’appunto il Rosé millesimato 2013 che stupisce per la sua eleganza e compostezza nel sorso nonostante sia dotato di grande potenza espressiva.

Sempre un Rosé, il D Rosé di Devaux, piace per le sue note fruttate di albicocca e ribes e per la sua lunga persistenza. Così come piace il Coeur de Bar, sempre di Devaux, blanc de noir dalla Côte des Bar (sotto zona meno nota e spesso snobbata) che si rivela intenso, pieno ed un po’ irruente come il Pinot Nero sa essere. Buona performance per Lanson di cui segnaliamo Gold Label 2009, un vintage ricco di frutta candita e dalla beva piena ed appagante. Uno Champagne gourmet come si sul dire.

Si diceva del Meunier. Blanc de Meunier Millesime 2012 di Jean Michel, Brut 1°Cru Blanc de Noir di Gardet e Blanc de Meunier Brut Nature di Laurent Lequart sono i tre prodotti più riusciti da noi degustati. Dritto, fresco, verticale il Laurent Lequart, decisamente più rotondo il Gardet, entrambi molto varietali. Il 2012 di Jean Michel è forse il più pieno e teso, quello dei tre che può più trovare una collocazione a tavola.

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Vsq Metodo Classico Brut “Avenir”, San Patrignano

Chardonnay e Pinot Noir per Avenir, il Metodo classico 36 mesi sui lieviti della cantina San Patrignano. Solo uno dei prodotti frutto dell’impegno dei ragazzi dell’omonima comunità di Coriano (Rimini), che nei diversi settori di formazione riscoprono i loro talenti e affinano capacità e mestieri indispensabili per il loro reinserimento nella società, dopo un passato turbolento.

LA DEGUSTAZIONE
Alla vista, Avenir si presenta di un giallo paglierino luminoso. Al naso succosi ritorni fruttati di mela Golden e intensi richiami speziati di lievito e crosta di pane, che esprimono nel complesso un naso ampio ed etereo.

In bocca è suadente, rivelando una splendida vena acida che dona grinta alla beva. La persistenza gustativa è compatta e con un bell’equilibrio sul finale. Avenir ha grande mineralità ed è versatile nell’abbinamento. La spuma è fine e vivace.

Da abbinare ad una tartare di salmone, a scampi crudi, tagliolini all’uovo con pomodori e astice, cappesante e crostacei alla griglia, carpaccio di manzo all’extravergine di oliva.

LA VINIFICAZIONE
La zona di produzione è Coriano, nei pressi di Rimini. I due ettari di Chardonnay e Pinot noir si trovano a 200 metri sul livello del mare, su terreno calcareo-argilloso con forma di allevamento a guyot e densità di oltre 6 mila piante per ettaro.

La raccolta delle uve è precoce e viene effettuata rigorosamente a mano ad inizio agosto, durante le prime ore del mattino per mantenere inalterate la freschezza ed il tenore zuccherino delle uve, con rese di circa 80 quintali per ettaro.

La vinificazione avviene secondo il Metodo classico o Champenoise, lo stesso dello Champagne. Le uve, dopo un’attenta selezione in vigna, vengono pressate senza l’eliminazione del raspo con rese in mosto pari al 50%.

Il mosto fiore viene repentinamente raffreddato e tenuto al riparo dall’aria onde evitare ossidazioni, successivamente la fermentazione avviene a basse temperature. Sul finire dell’inverno viene preparata la “liqueur de tirage” che insieme al vino verrà messa in bottiglia per far partire la rifermentazione o “presa di spuma”.

Solo dopo 36 mesi di sosta sui lieviti le bottiglie saranno posizionate sulle pupitres per poter eseguire manualmente il remuage. Segue il tradizionale degorgement e l’aggiunta della liqueur d’expedition.

Avenir, così come gli altri prodotti e servizi offerti dalla comunità di San Patrignano, sono acquistabili nei punti vendita della cooperativa sociale, situati soprattutto nel Nord e nel Centro Itali. Qui l’elenco completo.

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Franciacorta Satèn Brut Docg 2015, Ferghettina


Impossibile confonderlo sullo scaffale. Il Franciacorta Satèn Docg 2015 di Ferghettina, con la classica forma della bottiglia quadrata, è uno degli spumanti Metodo classico bresciani più riconoscibili. Una quadratura (del cerchio) che torna anche nel calice.

LA DEGUSTAZIONE
Chardonnay 100%, come previsto dal disciplinare del Franciacorta, per questa etichetta di Ferghettina che nel bicchiere si presenta di un giallo paglierino intenso e brillante, con un perlage fine ed elegante.

Al naso le caratteristiche note dettate dai lieviti, piccola pasticceria, fiori gialli ed un accenno di erbe aromatiche. All’esame gustativo, la minor pressione di anidride carbonica rende l’assaggio molto elegante. La percezione della spuma è briosa, ma di grande avvolgenza, su note di pasticceria e frutta gialla perfettamente matura.

Perfetto l’abbinamento con del pescato crudo, come frutti di mare, ostriche o un’orata. La bottiglia esprime il meglio di sé bevuta particolarmente fredda, stappata a 4 gradi per poi far riscaldare leggermente il prezioso nettare nel bicchiere.

LA VINIFICAZIONE
I vigneti di Chardonnay utili alla produzione del Satèn si trovano a un’altezza di 250 metri sul livello del mare. Ferghettina raccoglie manualmente i grappoli di Chardonnay interi, attorno alla metà di agosto. La resa si attesta tra i 90 e i 95 quintali per ettaro.

La pressatura avviene con una pressa pneumatica che garantisce la massima delicatezza all’operazione. Durante la vinificazione vengono separati i mosti in due frazioni.

Il mosto fiore, che ha le caratteristiche qualitative migliori e che viene utilizzato per la produzione di Franciacorta, e mosto di seconda spremitura, che non viene destinato all’imbottigliamento. La fermentazione alcolica viene svolta in vasche di acciaio a temperatura controllata compresa tra 16 e 18 °C.

Il vino base riposa in vasca fino alla primavera successiva alla vendemmia. Trentasei mesi (minimo) sui lieviti e dosaggio di 6 grammi litro per questo Satèn. Ne vengono prodotte annualmente circa 50 mila bottiglie da 0,75 lietri e 5 mila da 1,5 litri. La prima annata risale al 1996.

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Il futuro della Lugana? Meno zucchero, ovvero più tipicità per la Turbiana


PESCHIERA DEL GARDA –
Un tasting di nuove e vecchie annate, per capire il futuro della Lugana. Lo ha organizzato Le Morette, che ieri ha messo a disposizione della stampa di settore cinque annate, dalla 2016 alla 2008, di tre etichette simbolo della cantina: Mandolara, Riserva e Benedictus. Dieci vini in totale.

La degustazione, ancor più che esaltare le potenzialità di lungo affinamento del vitigno a bacca bianca tipico della zona di Peschiera del Garda e di Sirmione, la Turbiana, ha sottolineato il cambio di rotta della cantina veronese.

L’ultima annata in degustazione – la 2016, non ancora in commercio – è un faro per l’intera Denominazione, che rischia di perdere la rotta della tipicità per cedere al fascino delle sirene di un export che si assesta al 70% della produzione complessiva.

La chiave, a Le Morette, è una malolattica non svolta, oltre alla mancata correzione e standardizzazione delle diverse annate “garantita”, fino agli anni precedenti, dal residuo zuccherino. La Turbiana, così, ne guadagna in verticalità e in salinità. In una parola, in “tipicità”.

Assicurando alle tre etichette di Lugana Doc il corretto posizionamento sul mercato, al netto dei tre diversi stili di vinificazione di Mandolara (acciaio), Benedictus (tonneau di rovere) e Riserva (lieviti indigeni e botte di rovere da 500 litri). Etichette capaci di rivolgersi a consumatori diversi, ma pur sempre “evoluti”.

La cantina, oggi guidata dei fratelli Fabio e Paolo Zenato, ha inoltre intrapreso da diversi anni la strada della sostenibilità. Un aspetto strettamente legato ai cambiamenti climatici, su cui ha posto l’accento l’agronomo Marco Tonni (nella foto sotto).

LE PECULIARITÀ DEL VITIGNO

“La Turbiana – ha spiegato l’esperto – è una varietà tardiva e neutra, poco aromatica. Il vantaggio del vitigno è che ha più tempo per assorbire sali minerali dal terreno e quindi risulta minerale. Fino a 20 anni fa, una delle difficoltà era costituita dal raggiungimento di gradazioni alcoliche accettabili. Oggi abbiamo il problema opposto”.

Cercando di ritardare la maturazione della Turbiana – ha suggerito ancora Tonni – otterremo più sapidità e saremo in grado di compensare nel calice le conseguenze delle annate calde, riequilibrando alcol e durezze.

Ritardare la vendemmia è l’opposto di quanto fatto in passato, quando era diversa persino la forma d’allevamento del vitigno Turbiana e la densità d’impianto dei vigneti della nostra zona”.

Ha fatto passi da gigante, di fatto, la viticoltura in quest’area adiacente il Lago di Garda. Fino a 25 anni fa, non era difficile trovare 3 mila piante per ettaro nei vigneti spinti a una produzione massiva, che riguardava principalmente vino in damigiana, in molti casi frizzante.

Oggi la media è di 5 mila piante per ettaro, con la conseguente attenzione alla competizione radicale e a una forma d’allevamento che punti sulla qualità, più che alla quantità. Una vera e propria rivoluzione.

È cambiato molto anche in cantina – sottolineano i fratelli Zenato – da quando è entrata nell’ordine di idee la gestione del freddo, in grado di garantire la conservazione ed esaltazione degli aromi, assieme ad altre pratiche come la pressatura soffice degli acini”.

Nella conquista dei nuovi mercati, il Lugana appare in sostanza diviso tra la necessità di essere “fresco, fragrante, approcciabile e moderno”, come lo descrive il neo presidente del Consorzio di Tutela, Ettore Nicoletto, e la scommessa del vino da lungo affinamento, in grado di competere con altre Denominazioni venete, come il Soave.

“Le aziende che hanno giocato un ruolo fondamentale nell’affermazione del Lugana – ricordano i fratelli Zenato – oggi sono gestite da nuove generazioni di produttori diventati anche turisti del mondo. Gente decisa a portare in giro per il globo questo vino, destinato a non rimanere ancora per molto sconosciuto agli occhi dei consumatori”.

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Le nuove “Comete” di Tenuta Alois Lageder: sul mercato da giugno


Perché “Comete“? Le comete prima s’illuminano, poi percorrono la propria orbita, fino alla loro distruzione. Alcune impiegano anni, altre pochi istanti. Ma ogni volta ci lasciano delle tracce. La Tenuta Alois Lageder presenta gli ultimi esperimenti eseguiti in vigneto e in cantina e lancia sul mercato, a partire dal mese di giugno 2019, le nuove Comete.

“Alcuni di questi esperimenti si dissolvono mentre altri diventano stelle e parte integrante del nostro assortimento”, spiega Alois Clemens Lageder, che ha avviato questo progetto nel 2017.

In vista dell’aumento delle temperature quali sono i vitigni che potrebbero avere un ruolo fondamentale in Alto Adige nel futuro? La fermentazione a grappolo intero può aumentare la percezione della freschezza? Quali possibilità offrono le varietà resistenti ai funghi? Queste sono solo alcune delle domande su cui si concentrano le nuove Comete.

La voglia di sperimentare, lo spirito innovativo e la curiosità di giocare con varie componenti, hanno dato vita alla linea “Le Comete”. Ogni Cometa è un vino unico e irripetibile, come un’impronta digitale. Esattamente come la speciale etichetta applicata a queste bottiglie, che rappresenta una coda di cometa disegnata a mano, con un polpastrello.

Da giugno la linea si arricchirà con nove nuovi vini “esperimenti” in limited edition: MIN · XVI, THUR · XVI, RAH · XVI, TAN · XV, SOU · XVII, SOU MA · XVII, SEM ∙ XVII, BLA ∙ BLA 2, ZIE ∙ XVI.

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