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BardolinoCru chiama, St. Magdalener risponde: il confronto è di (alta) qualità

BARDOLINO – L’Alto Adige non è una regione: è un’unità di misura. Almeno nel mondo del vino italiano. Lo dimostra il confronto voluto sabato 7 dicembre dal Consorzio di Tutela del Bardolino col St. Magdalener Klassisch, il Santa Maddalena Classico altoatesino, nell’ambito di BardolinoCru 2019.

L’assemblaggio di Corvina veronese, Corvinone, Rondinella e Molinara delle tre neonate sottozone gardesane – i cosiddetti “Cru” di Montebaldo, La Rocca e Sommacampagna, da oggi presenti “in bollino” sulle etichette – ha retto bene l’accostamento con la Denominazione che esalta l’uva Schiava (Vernatsch).

Le due tipologie, oltre che dal colore – un rubino luminoso che, da solo, invita al sorso – sono accomunate da una beva agile e croccante, degna dei migliori vini di pronta beva. Senza disdegnare, però, una grande versatilità in tavola (pesce compreso) e le ottime capacità di affinamento nel tempo, degne dei grandi rossi internazionali.

Percorsi comuni anche quelli dei Consorzi guidati da Franco Cristoforetti e Josephus Mayr, che hanno condotto la degustazione di dodici etichette di Bardolino (due per sottozona, dal 2018 al 2014) e St. Magdalener Classico (dal 2018 al 2006). Al servizio i sommelier della delegazione Ais di Verona.

Coinvolte le cantine Le Tende e Vigneti Villabella per Montebaldo; Giovanna Tantini e Poggio delle Grazie per La Rocca; Albino Piona e Il Pignetto per Sommacampagna. Per l’Alto Adige: Tenuta Hans Rottensteiner, Untermoserhof Georg Ramoser, Cantina Bolzano, Glögglhof Franz Gojer, Ansitz Tenuta Waldgries e Unterganzner Josephus Mayr.

Da segnalare, su tutti, la straordinarietà dell’Alto Adige St. Magdalener classico 2016 “Vigna Rondell” di Glögglhof Franz Gojer. Sul fronte Garda, ottimo il Bardolino 2013 “Sp” di Albino Piona e il Bardolino 2016 della cantina Il Pignetto, entrambi della sottozona Sommacampagna.

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IL “CASO” GUERRIERI RIZZARDI
Più in generale, il percorso di qualità intrapreso dal Consorzio veronese – che si ritrova a operare nell’areale del Lago di Garda occupato anche da Lugana e Custoza – si dimostra concreto, alla prova del calice.

Il segno che quella dei “cru” sia molto più di una trovata di marketing risiede (anche) nella bocciatura dell’etichetta di una storica cantina della zona, come Guerrieri Rizzardi.

Il legno grande è ammesso per l’affinamento dei vini della sottozona, ma a livello organolettico i sentori ‘vanigliati’ non devono sovrastare il corredo: cosa che si verifica nel Bardolino “Tacchetto” della nota winery di Strada Campazzi, che non potrà dunque fregiarsi del “cru” Monte Baldo nell’ultima annata in commercio.

“Il progetto delle tre sottozone – chiarisce il presidente del Consorzio, Franco Cristoforetti – è in netta contrapposizione con quanto avvenuto nel 2001, anno in cui furono introdotti nel veronese vitigni internazionali come Merlot e Cabernet. Il vitigno che deve identificare il Bardolino dei cru è la Corvina, dunque un autoctono”.

“Vogliamo ‘rovinare’ il meno possibile quello che la natura ci offre – aggiunge Cristoforetti – nel segno di una netta discontinuità nei confronti degli ultimi 20 anni, in cui i progressi in ambito tecnologico del comparto vitivinicolo hanno portato diversi produttori a stravolgere il risultati della terra, in cantina”.

Tra gli obiettivi dei prossimi anni, anche il consolidamento di Bardolino e Chiaretto sui mercati internazionali. In particolare è sull’onda “pink” del rosato gardesano che punta il Consorzio, specie negli Usa e in Scandinavia.

Nel 2018 sono state prodotte 26 milioni di bottiglie – 16 di Bardolino – dai 1029 soci: 795 viticoltori, 120 vinificatori e 114 imbottigliatori che gestiscono 2.576 ettari, di cui mille riservati al Chiaretto.

Numeri ben più risicati quelli del St. Magdalener altoatesino. La Doc riconosciuta nel 1971, tre anni dopo la gardesana, produce 2 milioni di bottiglie su un areale di 200 ettari, situati tra i 250 e i 500 metri di altitudine, in provincia di Bolzano.

Può fregiarsi del termine “Classico” solo il vino di Santa Maddalena, Santa Giustina, San Pietro, Rencio e Coste. Oggi il St. Magdalener viene esportato in oltre 30 Paesi e va annoverato tra i vini simbolo dell’Alto Adige.

LA DEGUSTAZIONE

Bardolino Classico 2018, Le Tende (Montebaldo)
Profumatissimo, floreale, fresco. In bocca buona verticalità ed allungo su frutta (fragola e ciliegia) e, ancor più, su spezia (chiodo di garofano). Un vino molto fine ed elegante.

Bardolino Classico 2017 Morlongo, Vigneti Villabella (Montebaldo)
Vino più profondo e complesso, segno di quanto faccia bene il tempo al Bardolino. Al naso, oltre al frutto, una nota netta di finocchietto selvatico, tra ricordi di macchia mediterranea. Bella pienezza al palato, giocato sull’equilibrio tra la componente salina e la frutta matura (fragola, lampone). Il tannino parla di un vino in netta evoluzione.

Bardolino 2015, Giovanna Tantini (La Rocca)
Vino essenziale, dritto, più sale che frutto. Buona pienezza, bel retro olfattivo, largo e lungo. Un’etichetta più che mai godibile, ma che sta cercando la perfetta quadra, in questa precisa fase evolutiva.

Bardolino 2016, Poggio delle Grazie (La Rocca)
Frutto e spezia ben più marcata dei precedenti campioni, specie al palato, in chiusura. Sfodera addirittura un accenno goudron sul tannino. Dall’iniziale chiusura, il nettare vira al naso su ricordi di cera d’api, uniti al lampone e alla cannella. In bocca, l’accenno mielato si amalgama bene con le durezze.

Bardolino 2013 “Sp”, Albino Piona (Sommacampagna)
Eleganza assoluta, grande ampiezza, fiori e frutto di grande precisione.  E, per la prima volta nel panel, ecco l’agrume rosso, l’arancia sanguinella. In bocca si conferma su note eleganti e precise, fruttate. Il tannino parla di un’ottima prospettiva di affinamento. Curiosa la nota di zafferano che accompagna iodio e una fragolina da Pinot Nero, nel retro olfattivo.

Bardolino 2016, Il Pignetto (Sommacampagna)
Al naso fragola e lampone, di nuovo, ma di una maturità più compiuta. Sale e spezia marcata, ma molto ben integrata. Macchia mediterranea, rieccola. Tanto sale e frutto, perfettamente equilibrati. Vino splendido, dalla beva irresistibile.

Alto Adige St. Magdalener Doc Classico 2016 “Vigna Rondell”, Glögglhof Franz Gojer
Il vino della giornata, frutto di un cru di un ettaro che dà vita a 7 mila pezzi unici. Viti di 60 anni, rese sui 70 quintali. Acciaio e botte grande per 7, 8 mesi. Nel calice tutte le peculiarità del terreno di differente natura: dal porfido al calcare, oltre allo gneis. Frutto succoso, goloso, di estrema precisione. Rintocchi salini, speziati, ritorni terziari. Vino giovane, con tanta vita davanti, ma già godibilissimo e di eleganza assoluta. Un manifesto della Schiava.

Alto Adige St. Magdalener Doc Classico 2018 “Vigna Premstallerhof”, Rottensteiner
Rubino, frutto di bosco, gran concentrazione. In bocca sorso agile in ingresso, tendenzialmente morbido, che si irrobustisce in centro e in chiusura, dove sfodera una bella vena salina e un tannino che dimostra la gioventù.

Alto Adige St. Magdalener Doc Doc Klassisch 2017 “Hub”, Untermoserhof Georg Ramoser
Il più austero di tutti, bella batteria, più sulle durezze che sul frutto. Gran prospettiva. Tanto sale. Frutto in chiusura.

Alto Adige St. Magdalener Doc Classico 2016 “Moar”, Cantina Bolzano
Ottima prontezza di beva. Ma il vino mostra anche carattere e polpa, oltre al tannino e al sale. Vino assolutamente completo e ben fatto, equilibrato.

Alto Adige St. Magdalener Doc Classico 2015, Ansitz Tenuta Waldgries
Quattro anni e non sentirli, alla faccia della Schiava che dà vini di pronta beva. Un vino assolutamente ancora vivo, dal frutto pieno ed esplosivo, con ricordi di mora di rovo. Sale e tannino si dividono il sorso, mostrando ampi margini di ulteriore affinamento.

Alto Adige St. Magdalener Doc Classico 2006, Maso Unterganzner Josephus Mayr
Colore che tende al granato. Al naso gran complessità, con note terziarie evidenti e molto ben integrate. Al palato vino pieno: la buona vena glicerica è corroborata e rinvigorita da spezia e tannino, ancora presenti. Allungo salino.

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GoVolcanic 2019: i vini vulcanici italiani convincono Budapest. I migliori assaggi

BUDAPEST – I vini vulcanici italiani sono ormai una categoria ben definita, riconoscibile anche all’estero. Un movimento capace di riunire i produttori di alcune delle aree vitivinicole più vocate del Belpaese, accomunate dal terroir vulcanico. La conferma è arrivata lo scorso weekend a Budapest con GoVolcanic 2019, prima edizione del summit che si candida a diventare uno degli appuntamenti chiave per i vini vulcanici internazionali, in Europa.

Sotto lo stesso tetto i vignaioli di Soave, Monti Lessini, Etna e Vulture, ospitati da 40 produttori ungheresi delle regioni di Mátra, Tokaj, Somló, Bükk, Balaton, Ménes e Szerémség. Presenti anche diversi vigneron di Isole Canarie, Azzorre, Slovenia, Israele, Francia (Auvergne) e Slovacchia (Tekov, Tekovského regiónu).

Abbiamo avviato la valorizzazione dei vini da suolo vulcanico ormai 10 anni fa – commenta Aldo Lorenzoni, direttore del Consorzio Tutela Vini Soave e Recioto di Soave, nonché del Consorzio del Lessini Durello – ed è bello vedere che la nostra idea si sia sviluppata non solo in chiave nazionale, ma anche internazionale”.

“All’evento di Budapest faranno seguito summit in Francia e Germania – annuncia Lorenzoni – ma soprattutto siamo protagonisti come Lessini Durello, assieme al formaggio Monte Veronese e alla cantina Santo Wines di Santorini, del progetto ‘Gli eroi vulcanici d’Europa‘: una misura 1144 dell’Ue che coinvolge 6 Stati, in 3 anni. Momenti, questi, che trasformano i vini vulcanici in una vera e propria categoria”.

Buoni i riscontri in Ungheria, con 738 visitatori registrati in due giorni all’Holdudvar della Margitsziget, l’isola Margherita sul fiume Danubio, tra Buda e Pest. “Siamo entusiasti di aver generato l’interesse internazionale per questo evento – commenta l’organizzatrice Eva Cartwright – e speriamo di aver ispirato il pubblico a visitare di persona gli incredibili paesaggi da cui provengono questi vini vulcanici”.

La macchina organizzativa dell’edizione 2020 è già in moto: “La location sarà più grande – annuncia Cartwright – e accoglierà nello stesso edificio, oltre ai produttori di vino, anche quelli di alcune eccellenze gastronomiche locali. L’intento sarà sempre quello di giocare sul trinomio Vino-Cibo-Esperienza“.

I MIGLIORI ASSAGGI A GOVOLCANIC 2019

SPUMANTI
Lessini Durello spumante Brut “Vulcano”, Zambon: 90/100
La temperatura di servizio non aiuta al momento dell’assaggio, ma l’etichetta in questione è una vecchia conoscenza di WineMag.it. Un Metodo classico che sa abbinare al frutto polposo della Durella la verticalità ed essenzialità tipica dei vini vulcanici.

VINI BIANCHI
Tokaj 2017, Sanzon Rány: 94/100
Furmint, single cru: 6 grammi litro ammortizzati a dovere dall’impronta vulcanica del terreno. Naso che si presenta timido, su note di buccia d’agrumi, per poi esplodere (letteralmente) su frutta esotica, mandarino e macchia mediterranea. Leggera percezione talcata. Spettacolo puro al palato, nel gioco tra larghezza e verticalità, polpa e “vulcano”. Chiusura salina elegantissima, con ritorni leggeri di liquirizia.

Tokaji 2017, Homonna Attila: 93/100
Furmint e Hárslevelű. Minerale da vendere, sia al naso sia la palato. Le note di pietra bagnata si avvicendano col frutto. In bocca una gran verticalità, senza rinunciare ancora al frutto, in un quadro di perfetta corrispondenza gusto olfattiva che si arricchisce di accenni di macchia mediterranea. Splendido.

Soave Doc 2017 “Le Cervare”, Zambon: 92/100
Vino bocciato tre volte dalla commissione di degustazione della Doc, forse per l’utilizzo di lieviti indigeni poco standardizzanti. Eppure “Le Cervare” è uno dei Soave più tipici in circolazione, con le sue note agrumate e l’impronta vulcanica che si manifesta su pietra focaia e polvere da sparo, prima di una chiusura sulla mandorla amara.N

Nagy-Somlói Juhfark 2017, Somlói Apátsági Pince: 92/100

Juhfark è il nome del vitigno che corrisponde al Coda di pecora, autoctono della Campania. Evidente la matrice del terroir, affiancata da note di fiori secchi, agrumi e tè nero. Al palato ricordi di frutta secca e gran sapidità, che accompagna verso un finale lungo e corposo.

Rhine Riesling 2017 “Shop Stop”, Villa Sandahl: 91/100
Un Riesling renano prodotto nella zona del Balaton, in cui i 6 grammi litro di residuo aiutano a riequilibrare la gran verticalità e freschezza del vitigno. Tra i vini più “gastronomici” in degustazione a GoVolcanic 2019.

Olaszrizling Single vineyard 2017, Sabar: 90/100
Naso ampio, talcato, mentolato, agrumato. In bocca verticale, molto salato, in un quadro di apprezzabilissimo equilibrio. Gran bevibilità, tipica del vino semplice ma non banale, e ottima persistenza.

Vinho Branco Verdelho Ig Açores 2017 “Magma”, Adega Cooperativa dos Biscoitos: 90/100
La mano degli enologi Anselmo Mendes e Diogo Lopes è leggerissima in questo vino delle Canarie che rispetta al 100% il terroir vulcanico, senza alcun compromesso “di cantina”. Vino verticale e diretto, dalla gran beva.

VINI ROSSI

Cabernet Sauvignon Red Hills Lake Country 2017, Obsidian Ridge Vineyards: 95/100
Uno dei capolavori della viticoltura americana. Al 96% di Cabernet Sauvignon la cantina accosta un 2% di Petit Verdot e un 2% di Malbec. Il gioco fra terra, frutto e terziari incolla il naso al calice.

Dal muschio al sottobosco bagnato, passando per richiami minerali (la classica pietra bagnata), si passa ai frutti rossi e alla mora, prima di sfociare nella spezia. In bocca pieno, elegantissimo, verticale ma equilibrato, tra frutto, terziari. Il tannino è vivo e di prospettiva, ma non disturba. Il rosso che sbanca l’evento di Budapest.

Etna Doc Rosso 2012 “Millemetri”, Feudo Cavaliere: 93/100
Frutto rosso, agrume, mineralità, pietra bagnata e ricordi goudron. In bocca buona verticalità e gran eleganza. Ritorni di agrumi e frutta rossa anticipano una chiusura salina, lunga e precisa. Da provare anche il rosato di questa nobile cantina siciliana.

Do La Palma Vijariego negro, Viñarda: 92/100
Siamo alle Canarie, per un vino manifesto del terroir. Con questo Vijariego negro metti il naso sul vulcano e inspiri a pieni polmoni il “concetto”. Sintesi per il naso di questa etichetta che gioca su sentori di brace, minerali e di erbe, con buon apporto di polpa. In bocca dritto, stretto, fa salvare la parte minerale. Gran bevibilità.

Etna Rosso 2016 “Scalunera”, Torre Mora: 91/100
Frutto rosso croccante, erbe, liquirizia, radice, bella profondità e pulizia. Corrispondente e lungo. Bella prova sull’Etna quella di Torre Mora, la tenuta etnea del colosso toscano Piccini.

Bükki Zweigelt Mályi – Zúgó – dűló 2018 Organikus Szőlőbirtok és Pincészet, Sándor Zsolt: 89/100
Vino semplice, beverino, tutto frutto e terroir vulcanico. Gran facilità di beva e rispetto della tipicità dello Zweigelt.

VINI DOLCI
Recioto di Soave Docg Classico 2013, El Vegro: 94/100
Naso su goudron ed erbe aromatiche. Bocca dolce e tagliente. Un Recioto di Soave da incorniciare.

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Gamay del Trasimeno Doc 2016 “C’osa”, Madrevite

Ci sono legami profondi rimasti inspiegabilmente nascosti, oscuri. Custoditi nelle pieghe dei libri di storia, più che tra le colonne di inchiostro delle pagine, lasciate in testamento ai posteri. È il caso del Gamay del Trasimeno, vitigno della famiglia dei Grenache, diverso da quello di Borgogna. Se ne ha notizia, in Umbria, dalla metà del XV secolo. Col Colli del Trasimeno Doc Gamay 2016 “C’osa” di Madrevite si fa pace coi libri e con la storia. Un’etichetta manifesto di un movimento in crescita, che va ben oltre il marketing. Nel segno della qualità.

LA DEGUSTAZIONE
Rosso rubino luminoso, trasparente, dall’unghia  che tende al rosato. Ampie lacrime segnano come graffi il petto del calice: unico segnale tangibile dei 15 gradi di percentuale d’alcol in volume, che al naso prima e al palato poi, paiono impercettibili e integrati al corredo.

Avvicinando il naso al calice, col passare dei minuti, si comprende la natura estremamente cangiante del nettare: “C’osa” gioca a regalare nuovi sentori ogni 2, 3 minuti. Fino a che la bottiglia svanisce, senza neppure accorgersene.

Il naso si apre sui fiori e sulla frutta. Percezioni ammalianti di rosa e di violetta, unite a croccanti ricordi di ribes e di lampone maturo, anticipano sbuffi leggeri di pepe nero. Giunge in un secondo momento l’agrume, che porta la mente dritta a certi Beaujolais della Moulin à Vent.

Mentre la spezia si fa sempre più viva, ecco avanzare sentori terziari di vaniglia bourbon e liquirizia dolce, così come note di brace e fondo di caffè. Non manca, nel Gamay del Trasimeno di Madrevite, la macchia mediterranea, concentrata tra l’alloro e il rosmarino.

L’assaggio è carico di aspettative, che non vengono deluse. Si evolve come il naso, dalla frutta ai terziari, fino a guadagnare ricordi vegetali. Dal succo alla leggera percezione tannica, in un quadro di perfetta armonia ed equilibrio. A fare da sottofondo, una venatura salina che da un lato tende il sorso, dall’altro rende irresistibile la beva.

Il Colli del Trasimeno Doc “C’Osa” 2016 di Madrevite è un vino moderno, sincero e unico, perfetto per un consumo a tutto pasto, specie se in abbinamento a pietanze a base di carne. Per la precisione dei sentori e l’intrinseca concettualità, si presta a un consumo in solitaria, prima del pasto, condito da chiacchiere e sorrisi. Un vino spensierato, che fa pensare.

LA VINIFICAZIONE
Si tratta dell’etichetta di punta della cantina umbra Madrevite. “C’Osa” 2016 è stato affinato un anno in barrique francesi di secondo passaggio. La commercializzazione è iniziata a 6 mesi dall’imbottigliamento, per consentire al nettare di stabilizzarsi e iniziare a trovare a il suo equilibrio.

A tre anni dalla vendemmia, ottenuta tramite un’attenta selezione delle uve Gamay del Trasimeno raccolte nei vigneti di proprietà della cantina, nell’areale di Castiglione del Lago (PG), il vino si presenta in una interessante fase di pienezza evolutiva.

Il nome Madrevite riprende quello dell’omonimo strumento che veniva usato dai vignaioli umbri per fissare l’usciolo, la porticina frontale delle botti di legno. Un legame con il passato che guida la famiglia Chiucchiurlotto da tre generazioni, a partire dal 2001.

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Fiano Puglia Igp 2017 “Cicaleccio”, Cantina Giara

Ci sono vini capaci di materializzare paesaggi, coi loro sentori. Il Fiano Puglia IgpCicaleccio” 2017 di Cantina Giara, con quel nome e i profumi che evocano campi d’erba sterminati, fa addirittura da colonna sonora all’assaggio.

Alle note erbacee sottili si affiancano ricordi di arancio, zenzero candito, buccia di pompelmo, frutta esotica. Accenni fumè che si riverberano dal naso al palato, in un bel gioco con la matrice minerale-salina del nettare.

Dopo un ingresso di bocca morbido e fresco, sul frutto tropicale e su precisi ritorni d’agrume, è proprio il sale che chiude il sorso, chiamando inesorabilmente quello successivo. È l’apoteosi di uno dei Fiano di Puglia più buoni di sempre.

Il segno che un’accorta vinificazione “naturale” del bistrattato vitigno pugliese, oltre alla precisa scelta di non optare per i lieviti selezionati, favorisca alcune varietà più di altre. Le uve di “Cicaleccio”, curate come figlie da Giorgio Nicassio, provengono solo dai vigneti di proprietà della cantina, ad Adelfia, in provincia di Bari.

La vendemmia si compie in piccole cassette: bello apprendere questo dettaglio dal collo della bottiglia, dove un adesivo indica “Vendemmia 2017 raccolta a mano“. L’idea di una “vendemmia raccolta a mano” è molto più efficace della mera indicazione “uve raccolte a mano”. Sottigliezze filosofiche che in vini di concetto come il Fiano “Cicaleccio” sono macigni.

Le uve vengono condotte in cantina per la sola fermentazione spontanea, senza inoculo di lieviti selezionati, nonché per l’imbottigliamento. Un Fiano “non filtrato, non chiarificato, non barricato”, precisa il vignaiolo Nicassio, sulla retro etichetta. Inchiostro utile a chiarire da dove viene questo vino, figlio di mamma “Apulia in purezza“.

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I migliori assaggi al Mercato dei Vini dei Vignaioli Fivi di Piacenza 2019

PIACENZA – Tracciare i migliori assaggi al Mercato dei Vini dei Vignaioli Fivi di Piacenza diventa sempre più difficile, di anno in anno. Il livello dei vini in degustazione cresce al pari di un pubblico che, di edizione in edizione, affolla sempre più numeroso i padiglioni dell’Expo. Regola confermata anche nel 2019, con 22.500 ingressi. Il 9° Mercato è quello dei record, in attesa dell’edizione-compleanno del 2020. La prima in doppia cifra.

Al Mercato di Piacenza si beve bene, ci si diverte e si fanno affari. Lo dimostrano, da una parte all’altra dello “scontrino”, i carrelli dei clienti (stracolmi di vino) e la gara estiva dei vignaioli, per accaparrarsi una postazione.

Elementi che non suggeriscono – almeno per ora – ai vertici della Federazione di trovare una nuova location, anche se il continuo riferimento alla sostanziale impeccabilità di Piacenza Expo (ribadita in diversi comunicati stampa ufficiali) fa pensare che il dibattito sia nervosamente sul tavolo degli “stakeholder“.

Nel frattempo, sul calendario del vino, Vinitaly 2020 è già alle porte. Fivi conta di esserci con un numero crescente di rappresentanti. L’obiettivo? Consacrare, dopo Piacenza, anche quello abbiamo ribattezzato Fivitaly, superando la quota di 212 vignaioli presenti a Verona nel 2019 (un terzo del Mercato).

All’inizio del 2020 riprenderanno inoltre le trattative istituzionali della Federazione italiana vignaioli indipendenti. Secondo fonti ben accreditate, tra le priorità ci sarebbe la revisione dei meccanismi di rappresentatività nei Consorzi del vino italiano.

Nel mirino il D.Lgs 61/2010, che al momento determina il sostanziale predominio delle cooperative di primo e secondo grado nei Consorzi, a discapito dei piccoli e medi produttori tutelati da Fivi.

I MIGLIORI ASSAGGI AL MERCATO FIVI DI PIACENZA 2019


SPUMANTI

Metodo Classico Vsq 2016 Extra Brut “I Moschettieri”, Frecciarossa
Una delle aziende simbolo dell’Oltrepò pavese della qualità, portavoce dell’anima più elegante del territorio: il Pinot Nero, in veste spumantizzata con “I Moschettieri”. Avvolgenza assoluta del perlage, a far da contraltare alla bella tensione agrumata tipica del Noir oltrepadano.

Vino Spumante di qualità Vsq Brut millesimato 2012, Piè di Mont
Poco meno di 2 ettari per la cantina goriziana di Martina e Roman Rizzi, interamente vocata alla produzione di spumanti. Ottime le prove con i millesimati 2012 e 2016, base Chardonnay (60%), Pinot Nero (20%) e Ribolla Gialla (20%). Il vigneto di quest’ultima si trova piuttosto all’ombra e consente di giocare con la maturità del frutto apportato al sorso da Noir e Chardonnay.

Franciacorta Docg Brut Nature millesimato 2014, Bosio
Un Franciacorta che chiama il piatto e si rivela particolarmente versatile. A un naso prettamente floreale rispondono note saline, a chiudere un sorso largo e fruttato, connotato da una spuma cremosa e avvolgente. Un Nature in punta di fioretto.

Prosecco Doc Treviso Brut “San Vittore”, Azienda Agricola Crodi
Una cantina che sta recuperando varietà autoctone come Verdiso e Perera. Sette ettari per circa 30 mila bottiglie, tra cui spicca questo Prosecco Doc Treviso di buona profondità e lunghezza, contraddistinto da un “dosaggio” molto ben integrato e da una beva instancabile.

VINI BIANCHI

Verdicchio dei Castelli di Jesi Doc Classico Superiore 2018 “Luzano”, Marotti Campi
Che le Marche regalino vini degni del palcoscenico nazionale è risaputo, ma qui siamo di fronte a un vero fuoriclasse: il miglior bianco in assoluto al Mercato Fivi di Piacenza 2019. Ancora giovanissimo, presenta un naso da scoglio fiorito. Eccezionale verticalità, struttura e pienezza al palato, tra l’agrume, la mela verde e il salino. Chapeau.

Veneto Igt Garganega 2007, Tenuta Maraveja
Colli Berici, terra calda, dove i grandi vitigni bordolesi si sono adatti tanto da poter ormai essere definiti autoctoni. La prova provata che la zona è adatta anche alla Garganega risiede nella longevità di questa etichetta, ancora tutta sul frutto e sulla freschezza. Provare per credere.

Isola dei Nuraghi Igt 2018 Panzale, Berritta Dorgali
Accenni di Riesling, al naso, e di Trebbiano al palato per questo bianco ottenuto da uve Panzale, autoctone della vallata di Oddoene e un tempo usate per farcire i dolci tipici locali. Un progetto di recupero, quello avviato dai coniugi Antonio e Maria Paola e dai figli Serena e Francesco, che darà grandi risultati nel tempo.

Provincia di Pavia Igt Malvasia 2007 “Mia”, Azienda Agricola Martilde
Si chiamerà probabilmente “Mia” la Malvasia 2007 di Martilde in uscita in tiratura limitatissima (500 bottiglie) tra febbraio e marzo 2020. La cantina di Rovescala (PV) non smette mai di sorprendere coi suoi vini fuori dal comune, veraci e sinceri come Antonella Tacci e il marito Raimondo Lombardi.

Questa volta tocca a un bianco da uve Malvasia, frutto dell’assemblaggio di antiche vigne – che sfiorano gli 80 anni – e di impianti del 1975, con rese medie inferiori ai 50 quintali. Al naso il frutto e la mineralità, al palato una vena ossidativa che ammanta le note di frutta secca e miele. Vino che chiama il piatto, o un buon libro. Da prenotare.

Igt Costa Toscana Vermentino 2018 “Un po’ più su del mare”, Mulini di Segalari
Emilio Monechi e la moglie Marina Tinacci curano le vigne come figli. E in una terra di rossi come Bolgheri, anche il Vermentino è, per loro, molto più di un “trovatello”. Sorso sapido ed essenziale, il cui corredo è segnato dalla verticalità offerta da un 15% di Manzoni Bianco. Presto in commercio l’annata 2019, completata invece dal Viognier.

Terre Siciliane Igt Bianco 2017 “Dissidente”, Enò-Trio
Il lavoro eccezionale di Nunzio Puglisi (nella foto) ai piedi del “suo” Etna prende finalmente forme meritevoli di valicare i confini della regione. Lo sa bene chi assaggia da anni le chicche di questa cantina di Randazzo, che si esprime ad altissimi livelli anche con il provocatorio (e “Dissidente”, per l’appunto) Traminer: Nunzio e la figlia Désirée gli hanno messo la cravatta, pur continuando a leggerne l’annata nel calice. Avanti tutta.

Sannio Dop Fiano 2012 “Ver Sacrum”, Fosso degli Angeli
Una delle “cantine certezza” dell’intera Campania e, in generale, del Sud Italia quella condotta a Casalduni (BN) da Marenza Pengue. Alla sempre splendida Falanghina del Sannio, Fosso degli Angeli accosta al Mercato un Fiano 2012 che è solo all’inizio della sua lunga vita. Il breve passaggio in barrique lo proietta fuori dal beneventano, dritto in Europa, per esattezza in Francia: un Fiano con la valigia in mano, ma coi piedi ben saldi nel Sannio.

Mitterberg Igt Grüner Veltliner 2018, Garlider
Scisto e quarzite nel terreno regalano al calice note di fumé nette, che giocano sul frutto maturo di questo Grüner Veltliner. Vino che fa pensare ad abbinamenti gastronomici intriganti, dalla cucina locale a quella orientale.

Sillaro Igt bianco “8000”, Azienda Agricola Giovannini (magnum)
Jacopo e Maddalena Giovannini hanno scelto la bottiglia da 1,5 litri per la loro “8000”: solo 150 pezzi per questa Albana vinificata in anfora, alla georgiana. Frutto, sapidità, materia, spezia dolce. Ricorda, per certi versi, i Chinuri del Kakheti. Bella prova, ben al di là del marketing e delle mode legate agli “orange wine”. Da provare.

Passerina del Frusinate Igp 2017 “Maddalena”, Alberto Giacobbe
Davvero ben congegnata la macerazione di 7 giorni sulle bucce, che va ben al di là del colore splendido conferito al calice. Il tannino solletica i richiami esotici e di zenzero candito. L’affinamento di 6 mesi in tonneau fa da legante tra durezze e morbidezze, per uno dei sorsi più sorprendenti del Mercato Fivi 2019. La morte sua? ‘Na cacio e pepe.

Umbria Igt Grechetto 2018 “Grek”, Il Palazzone
Il bianco che vorresti (anzi, dovresti) avere sempre a disposizione in cantina, capace di abbinare frutto, freschezza, struttura e agilità nella beva. Persistenza di rara lunghezza.

Friuli Colli Orientali Doc Pinot Grigio 2017, Castello Sant’Anna
Pinot Grigio giocato sull’equilibrio perfetto tra struttura e polpa, su cui danza un accenno di tannino dettato dalla macerazione. Ottima la persistenza.

Terre Siciliane Igp 2018 “Ballerina”
L’Inzolia per la freschezza e la struttura, il Catarratto Lucido per il frutto esotico. Vino quotidiano di pregevole fattura, preciso e beverino. Pensato bene e realizzato ancor meglio.

Trentino Doc Chardonnay 2018 “Terre Bianche”, De Vigili
Sale a manciate, a sorreggere la polpa. Uno Chardonnay che esce dagli schemi trentini, ottenuto da un vigneto ricco di scheletro a Sorni. Caratteristiche tanto uniche da aver convinto Francesco De Vigili – giovanissimo, ma con le idee più che mai chiare nella sua Mezzolombardo (TN) – a usarlo come base per uno spumante in uscita tra almeno 50 mesi.

Langhe Doc Arneis, Cascina Rabaglio
Note mielose ed esotiche abbinate a un’ottima freschezza: vino intrigante, in equilibrio tra morbidezze e verticalità.

Vino bianco in anfora 2018 “Prometheus”, Azienda Agricola Bajaj
“Mi ispiro a Gravner”, ammette il giovane Adriano Bajaj Moretti, che nel Roero prova a imitare il maestro mettendo in anfore di terracotta l’Arneis. Quaranta giorni di macerazione conferiscono per materia e sostanza. Ma il focus resta sui primari, letteralmente esplosi e resi ancor più “grassi” dalla vendemmia tardiva.

A sorreggere il sorso una bella spinta sapida. Prova più che mai sensata e meritevole di attenzione, soprattutto per la pulizia e la precisione della beva, in grado di restituire (ancora integre) le caratteristiche del vitigno. Solo 700 bottiglie ne fanno una tra le chicche meritevoli di essere segnalate al Mercato Fivi di Piacenza 2019.

VINI ROSATI

Terre Siciliane Igt Rosato 2018 “Petalo”, Tenuta Enza La Fauci
Fiori e frutto. Perfetta corrispondenza tra naso e palato per un rosato più “rosso” che “bianco”: vino di carattere, minerale, con accenni speziati delicati. Sorprende soprattutto per l’estrema lunghezza e persistenza. Interessantissima la cantina produttrice: 2,5 ettari per 20 mila bottiglie complessive. Una boutique messinese.

VINI ROSSI

Cilento Dop Aglianico 2015 “Primalaterra”, Salvatore Magnoni
Sua maestà l’Aglianico, come mamma l’ha fatto (in Cilento). Pied de cuve e lieviti indigeni la formula prescelta da Salvatore Magnoni per la sua cantina di Rutino (SA), oltre a zero solforosa aggiunta (inferiore a 10 la totale).

Il vino offre un naso e un sorso di gran pulizia: fil rouge sulla frutta, sulla liquirizia e su ritorni balsamici e terrosi. Il tannino lavora benissimo sulla polpa e rivela le grandi prospettive di questo Aglianico cilentano.

Venezie Igt 2005 “Mezzocampo”, Canevin Maraveja
Splendida prova col Merlot sui Colli Berici, terra vocata dome poche al mondo per le varietà bordolesi. Vino che si regge su una struttura possente, eppure in grado di regalare un sorso di gran eleganza. Molto da dare, ancora, nel tempo.

Toscana Igt “Le Benducce”, Tornesi
Un Sangiovese di razza, pur succoso e beverino, coi suoi ricordi di ribes e fragoline di bosco mature, ma anche di agrumi. Chiude su una leggera percezione ferrosa e salina, che chiama il sorso successivo.

Rosso di Montalcino Doc 2018, Tornesi
Frutto meno esplosivo rispetto al Sangiovese che lo precede nell’assaggio al banco Fivi, ma la precisione delle note è la medesima. Il tannino, in fase di integrazione, lavora elegantemente sul frutto di un vino giovane e di prospettiva.

Brunello di Montalcino Docg Riserva 2012, Tornesi
Mentre il Brunello 2015 inizia il suo lungo percorso di vita con prospettive a dir poco eccellenti, oggi non resta che godersi a grandi sorsi la Riserva 2012 di Tornesi. Gran beva giocata sull’equilibrio tra frutto, terziari e rinfrescanti sferzate di rabarbaro e liquirizia.

Igt Toscana Sangiovese 2017 “Soloterra”, Mulini di Segalari
Un vero e proprio “Sangiovese di mare”, frutto della grande attenzione in vigna da parte di Emilio Monechi e della moglie Marina Tinacci. Vino di gran beva, dal frutto pieno abbinato a una bella profondità balsamica. Fa venir voglia d’estate e di merenda, all’aperto, servito fresco. Davvero una chicca per la zona di Bolgheri.

Cesanese di Olevano Romano Superiore Doc 2018, Alberto Giacobbe
Vino essenziale ed elegante giocato sul frutto croccante, rinvigorito dalla spezia (pepe bianco netto). Uno di quei rossi da avere sempre in cantina, semplici ma capaci di lasciare il segno e di farsi ricordare.

Cirò Doc Riserva 2013 “Dalla Terra”, Tenuta del Conte
Mariangela Parrilla (nella foto, al centro) ha il potere di materializzare Cirò nel calice, ovunque si stappi una sua bottiglia. Sole, cuore e amore: la formula più scontata e banale per semplificare un lavoro che, dalla vigna alla cantina, è certosino per arrivare a questo risultato.

L’anima del Gaglioppo anche in “Dalla Terra”, una Riserva che parla di frutto e balsamicità, di succosità della polpa e di tensione ferrosa, su cui scivola il tipico tannino. Vino bandiera.

Pinot Nero dell’Oltrepò pavese Doc 2014 “Giorgio Odero”, Frecciarossa
Stoffa da vendere per quello che, di anno in anno, si conferma uno dei migliori Pinot Nero oltrepadani, oltre che del Mercato Fivi. L’annata conta fino a un certo punto se ti chiami Frecciarossa: frutto, materia, succo, verticalità e freschezza. C’è tutto, pure per un confronto con altri territori noti per la produzione di Noir.

Verticale 2004 – 2012 Nizza Barbera “Ru”, Eredi di Chiappone Armando
Ad ogni annata le sue sfumature, tanto per chiarire il tipo di lavoro condotto da Daniele Chiappone a Nizza Monferrato (AT). Giovanissima e di ottime prospettive la 2012. Strepitosa la 2004, superiore alla 2005. Vegetale e balsamica la 2010, che supera la 2011 in termini di struttura.

Nebbiolo d’Alba 2016, Cascina Rabaglio
Un Barolo in miniatura, se non altro per il fatto che la vigna – nei pressi dell’Acino dei Ceretto – guarda l’area della nobile Docg, in località Santa Rosalia, ad Alba. Prendere oggi e dimenticare in cantina. Darà grandi soddisfazioni.

Pinot Nero dell’Oltrepò pavese Doc 2015 “Campo Castagna”, Castello di Stefanago
Pare di salire sulla barca dei pirati dell’Oltrepò pavese, avvicinandosi al banco di Castello di Stefanago. Gente che, modestamente, se ne frega di tutto quello che gli accade attorno e cammina su una via ormai tracciata, ben oltre le mode del “vino naturale”. Il Pinot Nero 2015 “Campo Castagna” è il manifesto di uno stile solo in apparenza scontroso.

Terribilmente tipico, gioca su un frutto pieno, tra la succosità e la croccantezza, sferzato da un accenno selvatico che è un timbro di fabbrica, marchiato a fuoco. Ancora giovane (lo dice il tannino) sarà in grado nei prossimi mesi (anni) di integrare ancor più la nota agrumata, sanguigna, ferrosa, per raggiungere l’apoteosi dell’equilibrio.

Sangiovese Rubicone Igp bio 2017 “Gigiò”, Azienda Agricola Giovannini
Vigna vecchia e sorso giovane per questo Sangiovese romagnolo (da clone ad acino grosso, dunque toscano) di gran polposità, freschezza e balsamicità.

Etna Rosso Doc Nerello Mascalese 2017 “Pussenti”, Enò-Trio
Stesse considerazioni riservate al Traminer di Enò-Trio, risultato tra i migliori bianchi del Mercato Fivi 2019: anche il Nerello Mascalese conferma le impressioni di una realtà in netta crescita qualitativa.

Il Nerello Mascalese Pussenti, in commercio da gennaio 2020, sta lì a tracciare una linea di demarcazione tra il passato e le prospettive di questa splendida realtà della Contrada Calderara, a Randazzo: una delle cantine da conoscere a tutti i costi, per capire l’anima dell’Etna.

Aglianico Beneventano Igt 2013, Azienda Agricola “I Pentri” di Falato Lia
Frutto rosso di gran precisione su un tannino elegante, ancora in fase di distensione. Gran beva per un Aglianico goloso come pochi.

Umbria Sangiovese Igt 2016 “Il Roccafiore”, Cantina Roccafiore
Eleganza da vendere per questo Sangiovese umbro, che con un ossimoro si potrebbe definire di semplice complessità: una beva sorprendente fa da contraltare a una struttura che suggerisce l’ottima gastronomicità.

Montepulciano d’Abruzzo Doc 2017 “Marcuzzo”, Azienda Agricola Luigi Di Ubaldo
È stampata su stoffa, così come tutte le altre della cantina Di Ubaldo, l’etichetta di questo Montepulciano che si esprime su note fruttate croccanti e su una buona struttura. Leggera salinità che chiama il sorso e regala una beva instancabile, oltre ad aggiungere opzioni per l’abbinamento in cucina.

Sicilia Igt Nero d’Avola 2011 “Curma”, Società Agricola Armosa
“Faccio i vini come piacciono a me”, dice l’enologo trentino Michele Molgg, che ha impiantato il suo primo vigneto in Sicilia nel 2003. Oggi gestisce 6 ettari sparsi, nelle aree identificate come le più vocate, nell’areale di Ragusa.

Il Nero d’Avola “Curma” è figlio di un appezzamento che sfiora il mare, lambendolo a una distanza di appena 20 metri. Una chicca da provare, frutto di lunghe macerazioni sulle bucce e di un approccio “naturale” alla produzione.

Colli Tortonesi Doc Monleale 2016, Canevaro Luca
Sulle orme di Walter Massa, una gran bella prova con la Barbera nell’alessandrino. Siamo nella vocatissima area di Monleale, sottozona della Doc Colli Tortonesi, resa nota dal Timorasso (oggi Derthona). Frutto e freschezza a sorreggere un sorso di gran prospettiva. La migliore etichetta di un vignaiolo giovane e coraggioso, da tenere d’occhio.

Cannonau 2017 (senza nome), Berritta Dorgali
Strepitosa prova con l’uva più nota della Sardegna per la famiglia Berritta nella zona di Dorgali. Il nome di questo vino – declinato in dialetto sardo – sarà svelato il prossimo anno, al momento della presentazione di quella che si rivela già essere una vera e propria chicca. Un Cannonau ottenuto da suolo basaltico che abbina un frutto strepitoso a una struttura invidiabile.

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Oltrepò pavese: Castello di Cigognola riparte dal Metodo Classico base Pinot Nero

Se il petrolio avesse le bolle (fini) sarebbe Pinot Nero. E l’Oltrepò pavese l’Arabia Saudita del Metodo classico italiano, coi suoi 3 mila ettari da trivellare. Lo sa bene Gabriele Moratti, figlio di Gian Marco e Letizia, a capo della holding Stella Wines. È grazie al rampollo della Saras che la cantina boutique Castello di Cigognola – dal nome del maniero acquistato dai Moratti nel 1982, con annessi 36 ettari di terreni, di cui 28 vitati – vuol tornare oggi a dire la sua, nel mondo degli Champenoise italiani.

“L’aspirazione – chiarisce il Ceo di Stella Wines, Gian Matteo Baldi – è competere a livello internazionale nel mondo del Metodo classico, partendo dalla consapevolezza di trovarci in un territorio particolarmente vocato, come l’Oltrepò pavese. Del resto, il dominio assoluto dello Champagne è un retaggio del passato. E, a nostro avviso, l’Italia non si è ancora espressa al massimo del suo potenziale”. È di poche parole, invece, Gabriele Moratti.

“Quasi astemio” ma col senso del buono, ammette di aver fatto sua quella massima di Confucio che dice: “Se sei la persona più intelligente della stanza, sei nella stanza sbagliata”. Per questo, per il rilancio di Cigognola, ha voluto al suo fianco Gian Matteo Baldi, ex Terra Moretti. Nessun bisogno di traslocare dalla stanza con vista Oltrepò, per lanciare la sfida di Cigognola al Metodo classico internazionale.

Tre le etichette presentate all’ora di pranzo, in centro a Milano, allo Spazio Niko Romito di Galleria Vittorio Emanuele II, vista Duomo. Si tratta della Moratti Cuvée dell’Angelo Pas Dosé 2012, della Moratti Cuvée ‘More Pas Dosé S.A. e della Moratti Cuvée ‘More Brut S.A.

Un triangolo di Oltrepò pavese Docg Metodo classico Blanc de Noirs – dunque Pinot nero vinificato in bianco – messi a confronto alla cieca con due Champagne (L’Ouverture di Frederic Savart e L’Audace di Pierre Garbais) e uno Sparkling Wine inglese (la Classic Cuvée di Nyetimber).

Una batteria da 6 nella quale gli spumanti di Castello di Cigognola hanno fatto un’ottima figura. Su tutti spicca la performance della Cuvée dell’Angelo 2012: sboccata di recente, ancora un po’ spigolosa, ma nettamente in grado di far comprendere le straordinarie potenzialità del Pinot Nero dell’Oltrepò.

“Rispetto a territori come la Champagne, che stanno pagando pegno dal punto di vista dei cambiamenti climatici – commenta Gian Matteo Baldi – nel pavese abbiamo il vantaggio di una arrivare a una perfetta maturazione fenolica, fondamentale per un Metodo classico di qualità”. Le scelte, in cantina, sono state drastiche.

“L’enologo Riccardo Cotarella – spiega Baldi a WineMag.it – ha seguito per qualche anno l’azienda ma ha preferito non far parte di un progetto dove le responsabilità fossero condivise fra tante persone, come deciso da Gabriele Moratti quando ha preso il timone di Castello di Cigognola”.

Una vera e propria “svolta generazionale” – per dirla con Baldi – che non ha però coinvolto l’enologo storico della maison oltrepadana, Emilio De Filippi, rimasto di fatto al suo posto.

E che, anzi, ha portato in Oltrepò un personaggio di grande rilievo per il Pinot Nero italiano: Federico Staderini, primo direttore di Ornellaia e deus ex machina di Podere Santa Felicita, cantina incentrata proprio sul Noir, sulle colline di Arezzo (“Cuna” è l’etichetta da assaggiare).

“Il concetto nuovo, nell’ambito della gestione delle risorse del personale – spiega ancora Gian Matteo Baldi – è quello di unire figure di grande esperienza ad altre più giovani, che cresceranno in azienda, senza più parlare di un enologo che rappresenti totalmente lo stile”.

Staderini, non a caso, segue solo il progetto di Castello di Cigognola legato al Pinot Nero vinificato in rosso. “Una persona di grande esperienza – commenta il Ceo di Stella Wines – che può essere di grande supporto ai nostri ragazzi. Troveremo magari anche qualcuno che possa affiancare De Filippi nel progetto legato al Metodo Classico. Abbiamo abbandonato l’idea di un enologo totalizzante“.

Altro nodo da sciogliere, in un territorio frammentato come l’Oltrepò pavese, è quello dell’adesione al Consorzio di Tutela. “Preferirei un no comment – risponde Baldi, interrogato sull’argomento da WineMag.it – ma se devo dire la mia, l’idea è che per tirare il fuori il talento, in questo territorio, ci sia bisogno di un grande lavoro”.

“La mia impressione è che in Italia l’individualismo sia ancora un elemento trainante – continua il Ceo di Cigognola – ma se ognuno si impegna a ottenere grandi risultati, con grande determinazione, ritrovandosi con quattro o cinque che condividono gli stessi obiettivi, le stesse spese e le stesse opportunità, è anche più facile”.

Castello di Cigognola verso un Club modello Corpinnat nell’area del Cava, accanto ad aziende come Monsupello o Conte Vistarino? Ipotesi che, al momento, pur senza conferme ufficiali, pare convincere la dirigenza.

“Con le due aziende citate abbiamo certamente parlato – conferma Baldi a WineMag.it – trovandoci molto allineati. Del resto, un Consorzio deve inglobare gli interessi di tante parti. Tra produttori simili è più facile trovare una comunità d’intenti”. Quel che è certo è che l’Oltrepò della qualità, da oggi, ha una nuova cantina protagonista.

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Reboro e Graticciaia, icone a confronto: i vignaioli del Trentino incontrano il Salento

Mille chilometri di distanza. L’acqua dolce dei laghi incastonati tra i monti, da una parte. Il mare salato e le spiagge infinite, all’altro estremo della linea immaginaria. Eppure, nel solco spazio-temporale di un calice di vino rosso, sembrano così vicini Reboro e Graticciaia. L’ultima idea dei Vignaioli del Trentino, promossa per rendere più fascinosa un’uva dai toni mascolini, nata dall’incrocio fra Merlot e Teroldego: il Rebo. E il frutto dell’intuizione di un genio scomparso troppo presto: Severino Garofano, l’uomo che dava del “tu” al Negroamaro, dandone prova alle Agricole Vallone.

Ben più di vini, insomma. Opere d’arte di vignaioli coraggiosi. Capaci di innovare la tradizione, rimanendo conficcati nella terra. Un matrimonio, quello tra Reboro e Graticciaia, che si è celebrato sabato 16 novembre alla Cantina Pisoni di Pergolese di Lasino (TN). A fare gli onori di casa Marco Pisoni, che ha accolto Francesco Vallone.

Fil rouge dell’evento, la medesima tecnica di produzione di Reboro e Graticciaia: l’appassimento delle uve sui graticci. Pressoché identici i risultati, in Valle dei Laghi e in Salento: le uve, stese dopo la raccolta, si disidratano e concentrano zuccheri e aromi. Una volta spremute, danno vita a vini speciali. Diversi ma fedeli alle caratteristiche del Rebo e del Negroamaro. Di certo, degli unicum.

“Per i Vignaioli del Trentino – ha spiegato Marco Pisoni – il Reboro è un’opportunità di promozione della Valle dei Laghi, nata sulla scorta del Vino Santo, altra eccellenza prodotta con l’uva locale Nosiola, appassita su graticci. Ci siamo dati un rigido disciplinare e intendiamo continuare a promuovere il Reboro nel mondo, nonostante in Trentino le istituzioni continuino a puntare su varietà meno ‘autoctone’, come il Müller Thurgau”.

“Il Graticciaia è il vino a cui la mia famiglia è più legata – ha aggiunto Francesco Vallone – e lo dimostra la nostra intenzione di aumentare nei prossimi anni le quantità prodotte. Il Negroamaro è l’uva più nobile del Salento e la tecnica di produzione suggeritaci da Severino Garofano e oggi portata avanti da Graziana Grassini rende ancora più speciale il frutto delle nostre viti ad alberello”.

LA DEGUSTAZIONE

– Reboro 2015, Maxentia (campione di botte): 91/100
Un’anteprima del Reboro di Enzo Poli, fresco d’elezione a presidente dei Vignaioli del Trentino, alla sua prima prova con la tipologia (con un totale di 1000 bottiglie). Colore rosso rubino impenetrabile.

Primo naso balsamico, concentrato, con ricordi netti di liquirizia e spezia. Al palato scalpita ancora, ma dimostra di essere sulla retta via, evidenziando una buona corrispondenza e lunghezza. Esordio da incorniciare.

– Reboro 2015, Cantina Pisoni: 92/100
Colore rosso rubino impenetrabile. Legno piuttosto evidente al naso in questa etichetta che ha solo 5 mesi di bottiglia, al momento: fondo di caffè e vaniglia. In bocca risulta fresco, di buona verticalità ed equilibrio: frutto rosso avvolto da ritorni terziari e chiusura salina. che chiama il sorso successivo. Gran bella beva, nonostante la possenza.

– Reboro 2014, Cantina Pisoni: 91/100
Colore rosso rubino impenetrabile. Primo naso meno ampio e meno profondo del procedente. Sorprende quando, grazie a un minimo d’ossigenazione, vira netto sugli agrumi. Poi la spezia, il tabacco, l’incenso. La macchia mediterranea. Di nuovo il fondo di caffè. In bocca è fresco ed elegante.

Precisione e finezza compensano bene il minor apporto di polpa e grassezza al palato, orfane dell’annata. Gran verticalità in chiusura, su ritorni agrumati e un accenno salino. Campione esemplare per un confronto con il Meridione tratteggiato da Graticciaia.

– Reboro 2013, Giovanni Poli: 95/100
Graziano Poli e il suo capolavoro, prodotto in circa 25 mila bottiglie. Colore ancor più concentrato e impenetrabile rispetto ai precedenti calici. Frutto rosso intenso e tanta macchia mediterranea al naso. Rosmarino, alloro, timo, disegnano un naso balsamico, che allargandosi abbraccia tinte di resina.

Qui l’agrume è leggero. Ben più netta, sempre al naso, la radice di liquirizia, il rabarbaro, la terra bagnata. Al palato ci si aspetta un vino altrettanto “scuro”. E invece è il tripudio della polpa e della frutta rossa matura, ben bilanciata dalla freschezza. Il tannino in chiusura suona la campanella dell’asilo: campione che ha gioventù da vendere.

Eppure aiuta, anche al momento, ad asciugare il frutto goloso e a tendere la beva come un elastico, per far canestro in gola. Vino da 15% vol. con 55 punti di estratto secco: un Reboro che vale il viaggio in Trentino ed è un viaggio in Trentino. Per la sua capacità di disegnare coi suoi sentori le quattro stagioni, nella Valle dei Laghi.

– Reboro 2012, Francesco Poli: 89/100
Colore rosso rubino impenetrabile. Al naso, oltre al frutto, una componente vegetale che si dipana tra ricordi di radice di liquirizia e rabarbaro. Bel frutto rosso al palato, scalfito da una leggera nota ossidativa. Ritorni vegetali in chiusura, che rivelano forse in maniera troppo marcata i tratti bordolesi del Rebo.

– Graticciaia 2001, Agricole Vallone: 94/100
Il colore granato, tipico del Negroamaro “invecchiato”, vale come il mantello del vincitore: siamo di fronte a un vino che ha fatto a pugni col tempo e ha vinto tutti e tre i round. La pulizia al naso è commovente: note d’agrumi tra la polpa e la buccia e tratti ematici, ferrosi, ma anche di terra bagnata.

In bocca ancora una bella freschezza, rimpolpata dall’ottima corrispondenza gusto olfattiva. Vino vivo ed elegante, si fa bere con agilità. Chiudendo su un tono per certi versi mieloso, condito da ribes e fragolina di bosco. Annata all’apice della sua fase evolutiva.

– Graticciaia 2005, Agricole Vallone: 93/100
Ci mette un po’ a mostrarsi per quello che è davvero, ben più timido del 2001. Alla ritrovata nota d’agrume, abbina un floreale di rosa, netto. Al palato è succoso ed elegante. Chiude su un tannino morbido, setoso.

– Graticciaia 2011, Agricole Vallone: 91/100
Si avverte un cambio di mano, già al naso. Vino che risulta più “grasso” dei precedenti e, per certi, acquista tratti di apprezzabilità internazionale. Rosso rubino intenso, al naso chiama la confettura di mora e di ribes, oltre alla spezia. Palato su note corrispondenti, riequilibrate da una buona freschezza. Chiusura su tannini di seta, salino leggero.

– Graticciaia 2013, Agricole Vallone: 92/100
Rosso rubino intenso. Al naso è complesso: arancia sanguinella, mora, dattero, terra bagnata. Terziari di liquirizia, vaniglia. L’ingresso al palato è potente, ma su tannini presenti ma eleganti, che giocano ad asciugare la polpa. Un equilibrio di cui giova la beva.

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Colli Tortonesi Timorasso: è l’ora della Val Borbera e di Terre di Libarna

DERNICE (AL) – Fossimo su un campo di calcio, saremmo già a metà dell’opera. In panchina Walter Massa. Allenatore d’esperienza. A Ezio Poggio la fascia da capitano. Sinonimo di fedeltà pioneristica ai colori. Col numero 10 Maurizio Carucci. L’artista e uomo immagine. Dopo aver conquistato il mondo col Timorasso, il Basso Piemonte si prepara a sfornare un nuovo fenomeno, chiamato Val Borbera. La cantera è sempre la stessa. Sulle carte ufficiali figura come Terre di Libarna, dal 2011 sottozona della Doc Colli Tortonesi, assieme alla più nota Monleale, caput mundi del movimento tornato alle origini col nome Derthona (antico nome di Tortona).

Il “feudo” del vignaiolo Walter Massa è pronto a raccontarsi in una veste più ampia e con nuovi attori, molti dei quali giovani. Ne è un esempio Carucci, front man degli Ex-Otago “ma ancor prima agricoltore, tornato alle origini per fare vino” con Cascina Barbàn. O ancora Nebraie, la cantina di Andrea Tacchella.

All’appuntamento con lo spin-off dei Colli Tortonesi non vuole mancare la cooperativa Vallenostra, resa nota da Roberto Grattone più per il formaggio Montebore che per il vino. Altra realtà consolidata della valle è l’Azienda agricola di Gianluigi Mignacco, oltre alla cantina simbolo del territorio, la Vinicola Ezio Poggio.

Del resto, la sottozona ha tipicità del tutto esclusive, consegnate al calice da una valle selvaggia, che deve il nome al torrente Borbera, affluente dello Scrivia. Siamo nella parte meridionale della Denominazione. Sempre in provincia di Alessandria. Ma al confine estremo con la Liguria. In piena area appenninica.

Venerdì 15 novembre 2019 il primo ritrovo ufficiale del gruppo di vignaioli, a Dernice (AL). Tutti in un luogo simbolo: la Foresteria La Merlina, ristorante tipico e albergo cult gestito dai coniugi Luciana e Marco Pietranera, da cui si gode di una vista mozzafiato, immersi nella natura, tra daini, cerbiatti e lupi.

“I vini qui sentono il mare, ma ancor più la montagna – commenta Ezio Poggio, primo a credere nella Val Borbera con la sua cantina -. Il valore aggiunto della sottozona sono le condizioni microclimatiche, perfette per produrre spumanti, ma anche vini longevi, in linea col resto dei Colli Tortonesi”.

La differenza – continua Poggio, che a dicembre presenterà il suo primo Metodo Classico da uve Timorasso – risiede nei ph più bassi, condizione ottima per la spumantizzazione. I vigneti si trovano dai 400 ai 600 metri. La vendemmia in Val Borbera inizia circa un mese dopo rispetto al resto della Doc”.

Ci sono venti chilometri, in linea d’aria, tra la cantina di Walter Massa, a Monleale, e quella di Ezio Poggio, a Vignole Borbera. A dividerle, appunto, l’Appennino su cui insistono le Terre di Libarna. Qui i vini risultano meno alcolici. Nella maggior parte dei casi, meno strutturati. Ma eleganti e dalla beva più agile e profonda, balsamica.

“Con i cambiamenti climatici in corso – sottolinea Poggio – la Val Borbera si è dimostrata meno soggetta ai condizionamento delle estati torride. Inoltre beneficiamo delle piogge, che qui cadono con la giusta copiosità”.

Oltre a Vignole Borbera, i Comuni interessati sono Borghetto di Borbera, Rocchetta Ligure, Cantalupo Ligure, Roccaforte Ligure, Cabella Ligure, Albera Ligure, Mongiardino Ligure, Grondona, Stazzano, Carrega Ligure, Dernice e la sponda destra dello Scrivia, ad Arquata Scrivia.

“Per fortuna – commenta Walter Massa – in Val Borbera c’è un bel movimento e non posso che complimentarmi con chi sta contribuendo a far sentire la Val Borbera nel vino. Questa, secondo me, è la valle più bella che c’è in provincia di Alessandria. Ci appartiene ed è giusto che dica in maniera forte che c’è”.

“Oggi – aggiunge Massa – il sistema migliore per fare promozione del turismo è prendere una bottiglia, metterci sopra un’etichetta e farle fare il giro del mondo. Se nella bottiglia c’è un grande prodotto, ottenuto secondo natura e, come nel caso della Val Borbera, grazie a un’uva locale come il Timorasso, le persone arrivano”.

Oggi l’Italia non è più Chianti, Valpolicella, Collio e Langhe, ma va dalla Valtellina fino a Pantelleria e dalla Sardegna fino al Carso. In questo territorio non ci manca niente, né sotto il profilo gastronomico, né paesaggistico, né ambientale. Abbiamo queste uve che parlano in dialetto: ascoltiamole”.

Secondo Massa, la Val Bolbera ha tutte le chance per farsi conoscere – e riconoscere – per i suoi spumanti: “Finché campo, non farò mai una bollicina a Tortona: non ho il mesoclima per fare spumante. I grandi vignaioli di Borgogna, che coltivano Chardonnay e Pinot Nero, non si sognano di imitare i colleghi che fanno Champagne”.

Da Beaune a Eppernay ci sono circa 120 chilometri. Da Monleale a Vergagni c’è solo una cosa: una galleria nell’Appennino: ma vale i 120 chilometri che dividono la Borgogna classica dalla Champagne”.

“La sottozona Terre di Libarna – conclude Massa – se la può giocare su due fronti: quello degli spumanti e quello del Timorasso. Noi, al di là della galleria, andremo avanti con un grande bianco, sempre da uve Timorasso, e un grande rosso, da uve Barbera”.

Eppure non rinuncia ai rossi, la Val Borbera. Lo dimostra il Mostarino di Cascina Barbàn, vero e proprio asso nella manica di Maurizio Carucci. Stefano Raimondi, ricercatore del Cnr intervenuto alla Foresteria La Merlina, ne tratteggia il (raro) profilo ampelografico: “Si tratta della varietà principe della valle, assieme al Timorasso”.

“È presente anche nel Bobbiese, in Val Trebbia – continua Raimondi – ed è citata storicamente nelle zone alte dell’Oltrepò pavese. Si trovava inoltre a Novi, prima che sparisse la viticoltura. È una varietà strana, che invaia molto tardi e, una volta invaiata, matura presto. In questa zona la maturazione è più regolare, proprio per via del microclima più fresco. E forse, proprio qui, potrà dare risultati più interessanti”.

A credere nelle potenzialità della Val Borbera è anche il Consorzio Tutela Vini Colli Tortonesi. “La sottozona Terre di Libarna – sottolinea il presidente Gian Paolo Repetto (nella foto) – è stata per tanti anni piuttosto ferma, ma ora c’è gran fermento, con nuove realtà che si affacciano alla produzione”.

“Siamo qui per fare squadra e continuare a promuovere tutta la zona, in tutte le particolarità che la arricchiscono ulteriormente”, aggiunge Repetto. Nel frattempo, nel futuro del Consorzio c’è un progetto ambizioso, volto a blindare la Denominazione dal punto di vista qualitativo.

“Con l’approvazione del nome Derthona, ormai in dirittura d’arrivo – annuncia Repetto a WineMag.it – distingueremo l’alta valle dalla basse valle e a dirci che questa è la strada giusta è la stessa Val Borbera, dove sussistono differenze sostanziali tra le due aree”.

“Ogni comune – precisa ancora il presidente del Consorzio Vini Colli Tortonesi – avrà un’altitudine minima in cui si potrà impiantare il Timorasso. L’obiettivo è escludere tutte le zone non vocate, che impattano sull’uva sia per la quantità di acqua che drena verso il fondo, sia per l’umidità mattutina e le gelate. Un lavoro certosino, che ci porterà a definire come altitudine minima dai dai 150 ai 450 metri sul livello del mare per la Doc”.

Pronto anche un piano per governare gli ettari vitati. “I 150 attuali – spiega Repetto – potranno arrivare a un massimo di 350 ettari nel 2030, attraverso bandi d’impianto sostenibili. Avremmo corso un po’ troppo se ci fossimo lasciati condizionare dal grande interesse che c’è in zona. Ci fa piacere, ma dobbiamo essere capaci di non rompere il giocattolo”.

I VINI DELLA SOTTOZONA TERRE DI LIBARNA (VAL BORBERA)

– Mostarino 2018, Cascina Barbàn: 89/100
Il nome della varietà è dovuto alla generosità dell’uva in pressa, tale da regalare tanto “mosto”. La macerazione con le bucce per 40 giorni è l’intervento più “invasivo” (si fa per dire) che i quattro giovani di Barbàn (Maurizio Carucci, la compagna Martina Panarese e gli amici Pietro Ravazzolo e Maria Luz Principe) operano nelle cantine di Figino, recuperate per dar vita al progetto enologico.

“Nessun additivo e zero solforosa aggiunta – spiega il cantautore venuto alla ribalta a Sanremo 2019, con gli Ex-Otago – per noi il vino deve rispecchiare il territorio e non vogliamo aggiungerci nulla”. Mostarino si comporta piuttosto bene nel calice, specie dopo qualche minuto di ossigeno. Belle notte di frutto rosso maturo, al palato e grandissima bevibilità. Una bottiglia che rischia di finire in fretta, senza neppure accorgersene.

– Vino bianco “Bolle in Valle”, Nebraie: 87/100
Si tratta del Timorasso rifermentato dell’Azienda agricola condotta da Andrea Tacchella. Anche in questo caso la lavorazione avviene secondo canoni naturali, senza aggiunta di additivi e solforosa. Il vino, non filtrato, si presenta torbido.

Profuma di fiori freschi, agrumi, pesca e albicocca matura. Al palato gran beva, su note corrispondenti. Altra bottiglia che finisce in fretta, ma per il futuro c’è da aspettarsi una maggiore caratterizzazione del vitigno, al momento “coperto” dalla rifermentazione e dai marcatori dei lieviti.

– Colli Tortonesi Doc Spumante Brut Terre di Libarna 2018 “Lüsarein”, Ezio Poggio: 91/100
È il Martinotti (Charmat) di Ezio Poggio. Non un’etichetta a caso, bensì quella che ha dato avvio alla spumantizzazione in Val Borbera, che si evolverà nel Metodo Classico a partire da dicembre 2019. La vigna si trova a 600 metri sul livello del mare, in una posizione spettacolare dal punto di vista paesaggistico.

Nel calice, fa capire subito di che pasta è fatto, con un perlage fine e persistente. Al naso richiami netti di agrumi, tra la polpa e la buccia d’arancia, impreziositi da sbuffi minerali che ricordano la pietra bagnata.

In bocca gran eleganza: la bollicina si fa piuttosto cremosa e avvolgente: serve ad ammansire una freschezza e una sapidità dirette, tanto da riequilibrare alla perfezione il sorso. Finale di buona persistenza, molto asciutto.

– Vino bianco 2018 “Costa di Cesco”, Vallenostra: 84/100
Uve Timorasso completate da un Cortese che tende a fagocitare la scena. Un vino che tende più a Gavi che a Tortona.

– Colli Tortonesi Doc Timorasso Terre di Libarna 2015 “Archetipo”, Ezio Poggio: 95/100
Giallo paglierino di grande intensità, con riflessi dorati. Naso ampissimo, che tende all’infinito col passare dei minuti. Fa tutto tranne che scomporsi col passare dei minuti, quando qualche grado in più nel calice consente al nettare di esprimersi ancora meglio sul palco, proiettandolo (in senso assoluto) tra i migliori vini bianchi italiani.

Un concerto di agrumi, macchia mediterranea, menta, con rintocchi di idrocarburo netti che portano alla mente il Riesling. Non mancano le spezie, che conferiscono ulteriore balsamicità. Al palato sale e freschezza assoluta. Infinita persistenza. Il campione della serata. Al momento, il pezzo da novanta della Val Borbera e della sottozona Libarna.

– Timorasso 2018 “Pian del tè”, Cascina Barban: 89/100
Ricorda per stile, ovvero la lunga macerazione sulle bucce (ancora una volta 40 giorni), il Timorasso di un altro grande dei Colli Tortonesi, Daniele Ricci. Qui però c’è più frutto e materia e meno ricerca della finezza ossidativa. Ottima freschezza, che disegna i contorni del vitigno e dalla Val Borbera.

Scaldandosi, il vino esprime un sentore netto di liquirizia, che ben si coniuga ai ricordi esotici. Palato corrispondente, largo sul frutto e al contempo tagliente, con bella persistenza su una mineralità iodica e un accenno di idrocarburo.

– Colli Tortonesi Doc Timorasso Terre di Libarna 2018 “Battilana”, Gianluigi Mignacco: 91/100
Vigna a Cantalupo per questo Timorasso che racconta in maniera perfetta, didattica, la Val Borber dei vini fini ed eleganti, con grandissime prospettive di evoluzione. Migliacco, del resto, in un gruppo di giovani può essere considerato a pieno titolo tra i veterani della sottozona Terre di Libarna.

Il nonno era maestro bottaio, tradizione andata perduta in zona, assieme al decadimento della viticoltura. Giallo paglierino alla vista. Agrumi e menta a connotare un naso dritto, diretto, minerale, nonostante la buona presenza di frutto maturo. Un vino che potrebbe definirsi “alpino”, montano, destinato a migliorare ancora in profondità e balsamicità, più che in ampiezza.

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Tullum Docg: 5 nuove anime dell’Abruzzo firmate Feudo Antico (Cantina Tollo)

Si scrive Tullum Docg, si legge Cantina Tollo. La cooperativa della provincia di Chieti, attraverso la Srl gioiello Feudo Antico, fa la parte del leone nella Denominazione di origine controllata e garantita istituita in Abruzzo il 4 luglio 2019. Ieri l’esordio dei teatini a Milano. A contribuire al parco vigneti, appena 18 ettari, sono (solo) altre tre cantine. Con ruoli del tutto marginali nella produzione delle circa 130 mila bottiglie complessive.

Si tratta dell’altra cooperativa locale, la Coltivatori Diretti Tollo (che non ha neppure un sito web definibile come tale, ma rivendica circa 7 ettari a Docg), della Di Pillo (società del segretario del Consorzio, Domenico Di Pillo, che opera solo come conferitore) e dell’Azienda Agricola Giacomo Radica – nota come Vigneti Radica.

Una cantina, quest’ultima, che investe molto nel marketing ed imbottiglia circa 10 mila “pezzi”. Ma con meno di un ettaro rivendicato nella Docg Tullum (0,6 per l’esattezza), non può che avere “interessi locali”. Il capostipite della cantina, Rocco Radica (per tutti, a Tollo, “Zì Rock”) è tra l’altro uno dei fondatori della stessa Coltivatori Diretti.

Non a caso, dunque, al ristorante vista Duomo dello chef abruzzese Niko Romito, è stato possibile degustare solo 4 etichette Dop, ormai prossime ad essere etichettate come Docg. Tutte prodotte dalla sola Cantina Tollo, che le presenterà nella nuova veste, “controllata e garantita”, a Vinitaly 2020.

“Le spese per la promozione della nuova Denominazione – si è affrettato a precisare Andrea Di Fabio, Direttore commerciale e Marketing di Feudo Antico (nella foto)- sono di fatto affidate all’iniziativa privata delle singole cantine aderenti, in autofinanziamento. Non contiamo molto sui contributi esterni”. Excusatio non petita. Ma tant’è.

Un viaggio, quello nel capoluogo lombardo della piccola Docg abruzzese, segnato peraltro dalla (pesante, ma evidentemente improrogabile) assenza del presidente del Consorzio di Tutela della neonata Denominazione di origine controllata e garantita Tullum, nonché di Cantina Tollo, Tonino Verna. A farne le veci, proprio il segretario (e produttore) Domenico Di Pillo.

“Oltre al prerequisito della qualità – ha spiegato Andrea Di Fabio – per dare avvio al procedimento utile all’ottenimento di una Docg che valorizzasse il territorio è stato necessario dimostrare la storicità della produzione e della commercializzazione del vino a Tollo, unico Comune ricompreso nella Denominazione”.

In età romana, nelle terre racchiuse nel triangolo fra le attuali città di Pescara, Chieti e Ortona, con Tollo al centro, la coltivazione della vite si è sviluppata in maniera florida. Lo dimostra il rinvenimento di “dolia” da vino e celle vinarie. Alcuni reperti sono oggi conservati al Museo Archeologico Nazionale di Chieti.

“A consentirci l’upgrade dalla Doc/Dop alla Docg – precisa Di Fabio – è stata insomma una cultura di produzione e di vendita profonda e radicata nel tempo. Non si tratta dunque di un’operazione autoreferenziale, anzi auspichiamo la nascita di nuove realtà nei 300 ettari potenziali della Denominazione”.

LE 5 TIPOLOGIE DELLA DOCG TULLUM

Cinque le tipologie di vino previste dalla Docg Tullum. Passerina, Pecorino, Montepulciano per dar vita a “Rosso” e “Rosso Riserva” e, infine, Chardonnay per lo Spumante Metodo Classico (minimo 36 mesi sui lieviti, esclusivamente nella tipologia Brut).

I vini bianchi Docg saranno sul mercato da gennaio 2020. Ancor più drastica la scelta sui rossi: la prima annata in commercio sarà la 2015, nonostante sia possibile venderli dall’anno successivo alla vendemmia. Tutti i vini saranno disponibili da aprile 2020, quando faranno il loro esordio ufficiale alla kermesse di Verona Fiere.

“In termini di rese – sottolinea a WineMag.it Andrea Di Fabio – il passaggio dalla Dop alla Docg non ha segnato grandi differenze, essendo già molto selettive nell’ambito della Dop nata nel 2008. Sui bianchi, Pecorino e Passerina, siamo sui 90 quintali per ettaro, contro i 140 quintali della Dop Abruzzo e i 220 quintali dell’Igp Abruzzo”.

Sul Montepulciano, che non potrà essere nominato come tale nella Docg (essendo già una Dop regionale) le rese saranno di 110 quintali per ettaro, contro i circa 150 quintali della Dop. Nel passaggio alla Docg è stato escluso l’uso del Trebbiano e stralciata la tipologia ‘passito’.

Le etichette saranno destinate al solo segmento Horeca (ristorazione e hotel), escludendo la Grande distribuzione organizzata (Gdo), ovvero il mondo dei supermercati (canale moderno). “Il posizionamento – annuncia Di Fabio – sarà quello premium e super premium“.

Sul fronte dei prezzi franco cantina, ad oggi Passerina, Pecorino e Rosso Tullum Docg escono da Tollo (o meglio da Feudo Antico) a 8,50 euro. Più costoso lo spumante Docg, che risulta a listino a circa 12 euro a bottiglia. Il mercato di riferimento è l’estero, con particolare attenzione ai Paesi emergenti, sul fronte orientale.

LA DEGUSTAZIONE

– Tullum Dop Spumante Metodo classico Brut 2014: 90/100
Buona prova con lo Champenoise per Cantina Tollo (Feudo Antico) in una terra non certo conosciuta per la produzione di “bollicine”. Valutazione ancor più positiva se si tiene conto del millesimo 2014. Alla vista, bel giallo paglierino accesso e brillante. Il perlage risulta mediamente fine e mediamente persistente.

Buona presenza di questo Blanc de Blancs al palato, su note cremose tipiche dello Chardonnay. Sorso burroso, giocato sulla pasticceria e sull’esotico. Finale asciutto, fruttato di pesca, come il centro bocca. Persistenza sufficiente e finale asciutto.

Chardonnay 100% da vigneti coltivati in collinare nel comune di Tollo, a 130 metri sul livello del mare. Terreno sciolto, sabbioso e lievemente calcareo. Vendemmia manuale, in piccole cassette, a metà agosto.

Fermentazione in serbatoi di acciaio inox, a temperatura controllata. Permanenza sui lieviti in vasche di vetrocemento e acciaio, per almeno 6 mesi. Rifermentazione in bottiglia, secondo i canoni del Metodo Classico. Sosta minima di 30 mesi.

– Tullum Dop Passerina 2018: 92/100
Giallo paglierino, naso floreale fresco, frutta esotica e agrume come arancia e pompelmo rosa. Una Passerina di rara precisione, capace di sfoderare oltre all’attesa frutta anche accenni minerali, marini e di spazia bianca.

Al palato si fa ricordare per un’ottima freschezza. Centro bocca giocato sulla frutta e chiusura salina. Discrete potenzialità di ulteriore affinamento in bottiglia. Si tratta di una Passerina in purezza, ottenuta da vigneti in collina nel comune di Tollo, in località Santa Lucia e Pedìne, a 230 metri sul livello del mare.

Terreno sciolto, sabbioso, tendenzialmente calcareo. Vendemmia  a metà ottobre, macerazione a freddo a contatto con le bucce e fermentazione in serbatoi di acciaio inox a temperatura controllata. Affinamento sui lieviti, in vasche di vetrocemento per 6 mesi.

– Tullum Dop Pecorino biologico 2018: 89/100
Primo approccio non ottimale. Il vino rivela una netta riduzione e un marcatore selvatico, che tende a non svanire mai del tutto. Con l’ossigenazione si fanno largo, al naso, agrumi e fiori freschi. In bocca il vino rivela una bella consistenza, dettata dal gioioso gioco tra agrumi e sale.

Allungo sulla frutta matura, esotica, sostenuta da una buona freschezza. Scaldandosi, il nettare guadagna una nota netta di liquirizia, corrispondente tra naso e palato. I vigneti di Pecorino si trovano a Tollo, in località San Pietro, San Biagio, Piane Mozzone, Sabatiniello e Macchie, tra i 120 e i 200 metri sul livello del mare.

Vendemmia nella prima decade di settembre, starter fermentativo spontaneo ad opera dei lieviti non selezionati e successiva fermentazione e affinamento in vasche di cemento. Il vino viene imbottigliato senza essere filtrato né stabilizzato.

– Rosso Tullum Dop 2014: 90/100
Rosso rubino pieno, impenetrabile. Naso gioioso, dominato da frutta rossa come ribes e lampone maturo, tendenti alla confettura. Leggeri sbuffi di spezia. In bocca il vino mostra un corpo medio e una buona freschezza, tale da rispondere alla rotondità e morbidezza delle note fruttate.

Il tannino, di cacao, allunga il sorso, contribuendo a complessità e persistenza. Montepulciano 100% da vigneti coltivati in collinare, a Tollo, in località Sterpari, Piane Mozzone, Colle Cavalieri, Vaccareccia, San Biagio, Macchie e Colle Secco, da 190 a 250 metri sul livello del mare.

Vendemmia nella seconda decade di ottobre, macerazione delle bucce a temperatura controllata in serbatoi di acciaio inox e affinamento in vasche di cemento vetrificato, per 14 mesi. Leggero appassimento in cella per un 10-15% delle uve.

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Puglia Top Wines Road Show: i 10 migliori assaggi a Milano

MILANO – Si è aperto ieri, con il banco di degustazione di 60 etichette al The Westin Palace e una buona risposta del pubblico, il Puglia Top Wines Road Show. Il “tour metropolitano” dei vini pugliesi a Milano, organizzato dal Movimento Turismo del Vino Puglia, prosegue fino al 17 novembre (qui il calendario), per promuovere le etichette dei soci di Mtv Puglia. Tra i 10 migliori assaggi di WineMag.it qualche conferma e qualche novità assoluta.

I MIGLIORI ASSAGGI DEL PUGLIA TOP WINES ROAD SHOW


VINI BIANCHI
– Salento Igt Verdeca 2018 “Askos”, Masseria Li Veli (Cellino San Marco, BR)
È della cantina rivelazione del Puglia Top Wines Road Show a Milano il vino bianco che convince maggiormente al The Westin Palace. Giallo paglierino con riflessi verdognoli, si mostra generosa al naso, su ricordi esotici, agrumati e leggermente speziati. Alla cieca, potrebbe essere scambiato per un altoatesino.

In bocca una Verdeca che mostra di avere molte più carte da giocarsi della semplice freschezza. A convincere è tutta la linea di questa realtà brindisina, che ha avviato un progetto di ricerca, selezione e valorizzazione dei vitigni autoctoni pugliesi.

– Gravina Dop Bianco 2017 “Poggio al Bosco”, Cantine Botromagno (Gravina di Puglia, BA)
Una dama. Greco Mascolino, Greco e Malvasia per un vino riconoscibile tra mille nel panorama dei bianchi pugliesi. A un naso di mare e di frutta esotica polposa, abbina un palato di buona struttura, gran freschezza e sensazionale gastronomicità.

Una vera e propria chicca, frutto di un cru situato a 600 metri sul livello del mare; una zona incontaminata, al confine con il più importante polmone verde della Puglia Centrale, il Bosco Difesa Grande. Un vigneto impiantato nel 1991 con uve selezionate in collaborazione con l’Università di Agraria della Basilicata.

VINI ROSATI

– Salento Rosato Igp 2016 “Diciotto Fanali”, Apollonio (Monteroni di Lecce, LE)
Una vecchia conoscenza dei lettori di WineMag.it: la vendemmia 2015 è infatti tra i migliori 100 vini 2018 della nostra testata. La casa di Monteroni di Lecce si conferma ad altissimi livelli anche con la vendemmia 2016. Un Negramaro in purezza, vinificato in rosa, ottenuto da vecchie vigne ad alberello. Frutto, consistenza, struttura.

– Nero di Troia Igp Murgia Rosato 2018, Azienda Agricola Mazzone (Ruvo di Puglia, BA)
Altra nostra vecchia conoscenza, il “Dandy” di Mazzone. Fa parte della linea “Trendy”, con “Trousse”. Anche la vendemmia 2018 dimostra che, oltre al marketing, c’è la sostanza. Un rosato materico, che a una freschezza esemplare abbina il frutto croccante del vitigno (ciliegia, ribes) e un’ottima persistenza.

VINI ROSSI

– Castel del Monte Rosso Riserva Docg 2013 “Il Falcone”, Azienda Vinicola Rivera (Andria, BT)
Fuori di metafora, vino che annata dopo annata si conferma al top della produzione di vini rossi della Puglia, in termini di finezza, eleganza e tipicità. Ottenuta da una base di Nero di Troia, la Riserva di Rivera si rivela suadente al naso, su ricordi di viola e ciliegia. Corrispondente al palato, dove dà il meglio di sé in un quadro di ottima corrispondenza. Tannini finissimi, struttura importante ma non prepotente, ha una lunga vita davanti.

– Primitivo Salento Igt 2017 “Askos”, Masseria Li Veli (Cellino San Marco, BR)
Delicatezza, eleganza, potenza. Può un vino coniugarle? La riposta è nel calice di “Askos”, Primitivo giocato sulla sottigliezza dei sentori, più che sulla classica grassezza e polposità del frutto. Dopo un naso preciso e giocoso, tra ciliegie, mirtilli e cannella, il palato regala un sorso mutevole: l’ingresso è una spremuta, un frullato. Ma già in centro bocca, freschezza e tannino, uniti a ricordi di pepe, riportano la beva su canoni seriosi. Il finale è lungo ed elegante.

– Negroamaro Salento Igp 2015 Collezione Privata Cosimo Varvaglione, Varvaglione (Leporano, TA)
Eleganza e potenza per questo Negroamaro che fa parte della collezione privata di casa Varvaglione. Pregevole, al naso, la pulizia delle note fruttate spiccatamente mature, sferzata da richiami pepati, di spezie dolci e di liquirizia. Al palato il vino si conferma “importante” e strutturato. La freschezza compensa le note fruttate mature e la vena balsamica regala una beva corposa ma agile. Vino di assoluta gastronomicità.

– Salento Igt 2017 “Mlv”, Masseria Li Veli (Cellino San Marco, BR)
Il “taglio” con percentuale di vitigni internazionali più centrato del Puglia Top Wines Road Show di Milano. In questo caso Cabernet Sauvignon al 30%, completato da Primitivo (40%) e Negroamaro (30%).

Naso intenso e profondo, sui frutti di bosco e sulla spezia. Al palato rivela una struttura potente ma elegante. Il tannino tiene a bada la grassezza del frutto e la chiusura risulta così asciutta, giocata su pregevoli ritorni terziari, tra la liquirizia e il fondo di caffé.

– Castel del Monte Doc Nero di Troia 2017 “Violante”, Azienda Vinicola Rivera (Andria, BT)
Frutto abbinato a una struttura non banale per uno dei rossi di Rivera che conduce verso il top di gamma, costituito da “Il Falcone”. La base vitigno, del resto, è sempre il Nero di Troia. L’affinamento in cemento, dopo un naso floreale, fruttato e leggermente speziato, regala freschezza e piacevolezza al sorso.

– Nero di Troia Puglia Igp 2016 “Sico”, Cantine Le Grotte di Pasquale dell’Erba (Apricena, FG)
Giovane cantina fondata nel 2014 nella provincia foggiana. Mora netta al naso per il Nero di Troia “Sico”, con spolverate di spezia nera. Buona corrispondenza al palato, morbido e goloso, ma senza risultare banale. Buona anche la persistenza, su ricordi di erbe e macchia mediterranea.

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Cantina Lodali a Treiso: una storia d’amore lunga 80 vendemmie

TREISO – Gli sguardi della gente. Penetranti come coltellate. Giudicanti, indignati o compassionevoli. Eppure tutti tremendamente uguali. Vestiti di quell’ironia beffarda che i bempensanti riservano ai temerari, cercando di convincersi che siano mezzi matti, che prima o poi falliranno. Per arrivare a festeggiare nel 2019 le 80 vendemmie di Cantina Lodali a Treiso (CN), la signora Maria Margherita Ghione ha dovuto costruirsi attorno almeno due corazze. La prima per proteggere il cuore. La seconda gli occhi.

Oggi, Rita – in paese la conoscono tutti con questo nome – è una donna del vino senza spillette da mostrare né slogan ritriti da snocciolare sui palchi. Un’eroina con una storia di vita e d’amore da raccontare, all’insegna del Nebbiolo e delle sue sfaccettature più alte, che in Piemonte significano Barbaresco e Barolo.

Rita, classe 1941, faceva la parrucchiera quando Lorenzo Lodali, figlio di Giovanni Lodali, fondatore nel 1939 di una grande cantina a Treiso, le chiese di sposarlo: “Ma devi lasciare il lavoro”, le disse. Lei non esitò un attimo.

Appese forbice e pettine al chiodo. Chiuse il negozio. E il 15 agosto 1976 diventò la moglie di uno dei vignaioli più in vista di Treiso. Erano gli anni in cui Lorenzo lanciava sul mercato i primi cru di Barolo e Barbaresco.

Ma la soddisfazione più grande della coppia fu Walter: il figlio tanto desiderato, nato nove mesi dopo il matrimonio, nel 1977. Proprio nella città dell’amore, Venezia, qualcosa ruppe l’idillio. All’improvviso.

“Era notte fonda – racconta la signora Rita – e Lorenzo continuava a tossire. Uscì a farsi un giro, per prendere un po’ d’aria. Ma non servì a nulla. Dovemmo tornare a casa, a Treiso, interrompendo il tour al quale eravamo stati invitati per ritirare cinque premi“. La diagnosi del medico, un amico fidato di Milano, fu terribile.

Con il figlio ancora piccolo, la signora Rita capì che aveva poco tempo per imparare il mestiere. “Senza dirlo chiaramente – racconta – mi mettevo accanto a Lorenzo, mentre lavorava. Con la scusa di stargli vicino, annotavo come compilava le carte e come si muoveva in cantina. Facevo domande per capirne di più, insomma. Ho imparato così anche a scrivere a macchina, perché non ero mica una ‘studiata’ come lui”.

Il marito di Rita scompare nel 1982, a pochi giri di lancette da quel “sì” sull’altare e quando Walter aveva solo 4 anni e mezzo. “La gente del paese e la banca si aspettava che vendessi tutto – commenta decisa la signora Rita – ma feci di testa mia. Ricordo ancora gli sguardi e le chiacchiere, attorno alla mia decisione di non mollare l’azienda”.

Qualcuno, di certo, pensava fossi matta. Ma oggi posso dire che tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per mio marito: la cantina non poteva chiudere o essere venduta. Al posto di vendere io e mio figlio abbiamo investito. E oggi siamo qui a festeggiare le 80 vendemmie di Lodali”.

La grande festa, in compagnia dei dipendenti, dei clienti e della stampa, si è svolta lo scorso 29 ottobre a Treiso. L’aperitivo e la cena curata dagli chef di Florian Maison e de La Ciau del Tornavento, Umberto De Martino e Maurilio Garola, hanno fatto da contorno a momenti di sentita commozione, a coronamento del grande legame tra mamma Rita e il figlio Walter.

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“Abbiamo tenuto duro con un consulente enologo – sottolinea la regina di casa Lodali – fino a quando Walter si è iscritto alla scuola enologica. Il professore mi diceva che non aveva voglia di studiare, ma ho saputo convincerlo! La mia soddisfazione più grande è stata quando il docente è venuto in cantina a dirmi che adesso è lui che deve imparare da Walter!”.

“Fin da piccolo, a 7, 8 anni – conferma Walter Lodali, un omone dallo sguardo gentile – andavo in cantina a mettere le bottiglie vuote sulla macchina imbottigliatrice. Mia mamma mi ha insegnato a fare le fatture, a scrivere a macchina. Le devo tutto. Di donne del vino, oggi, ce ne sono tante. Ma negli anni Ottanta, c’era lei. E forse altre due”.

Andava da sola al mercato del vino di Alba, in mezzo a soli uomini, tra cui Gaja. Tutti le dicevano che si sarebbe ‘mangiata’ tutto, che avrebbe venduto tutto. Erano sicuri che non ce l’avrebbe fatta.

Adesso, essere qua a festeggiare le 80 vendemmie, per me è la conferma di aver scelto la strada giusta: quella di continuare sui passi segnati da mio padre e mia madre e, ancor prima, da mio nonno”.

“Ottanta vendemmie sono un piccolo traguardo, ma un grande stimolo ad andare avanti con la consapevolezza di vivere la vita più bella del mondo: semplicemente quella dei contadini, che coltivano la vite riuscendo a dare un’emozione, trasformando con serietà e pazienza l’uva in vino”, chiosa Walter Lodali.

Ed è il Barbaresco, ancor più del Barolo, la migliore espressione dei vini dell’ormai storica cantina di Treiso. Rocche dei Sette Fratelli (Giacone) più del Bricco Ambrogio, dunque, il cru che il figlio di Giovanni Lodali è riuscito a valorizzare e rilanciare.

Gli investimenti dell’azienda continuano nella Denominazione, con il nuovo impianto nell’area ricompresa nel cru Bricco di Treiso, che darà i suoi primi frutti tra circa cinque anni.

La produzione di Barbaresco passerà così da 15 a 28 mila bottiglie, staccando ulteriormente il Barolo (per il quale Lodali ha l’autorizzazione all’imbottigliamento fuori territorio, come cantina storica) fermo a 18 mila.

“Mi sento più barbareschista che barolista – ammette Walter Lodali – perché sono di Treiso, l’azienda è di Treiso e nel cuore e nel sangue ho il Barbaresco. Senza dimenticare il Nebbiolo, che è il più grande vitigno del mondo!”.

LA DEGUSTAZIONE

Nebbiolo d’Alba Doc 2018 “Sant’Ambrogio” (Magnum): 91/100
Annata in commercio dall’inizio del mese novembre. Si presenta nel calice di un rubino intenso, luminoso, con riflessi granati. Il naso è suadente e disegna note di frutta a bacca rossa e nera molto precise, giustamente mature, croccanti.

Spiccano ribes e fragolina di bosco, sulla mora. Note accese di spezia stuzzicano le narici, avvolte in un soffice velo di rosa, viola e cipria. In bocca è un tripudio di gioventù assoluta, su note corrispondenti al naso. Con l’ossigenazione, il vino guadagna in complessità e freschezza.

Le uve provengono dai vigneti del Comune di Pocapaglia (CN). La vendemmia avviene a mano, in cassette. Alla pigia-diraspatura e alla macerazione a temperatura controllata per circa 12 giorni, fa seguito un affinamento di 12 mesi in botti da 26 ettolitri di rovere di Slavonia. Tre mesi in bottiglia precedono la commercializzazione.

Barbaresco Docg 2016 “Lorens” (Magnum): 94/100
Un Barbaresco che, in una parola, si può definire “profondo”. Le note balsamiche giocano su una vena di agrumi e frutti rossi di gran precisione, ammantate dal fiore di viola. Dopo un approccio iniziale prepotente, anche l’alcol si integra e lascia spazio al bel bouquet. Il frutto, pieno e croccante, risulta corrispondente al palato.

Spazio anche a liquirizia e mentuccia, in un sorso fresco e di grandissima prospettiva. Elegante il tannino: ruvido al punto giusto, asciuga ma non tronca il sorso, pur rilevandosi (giustamente) in fase giovanile. Ottima la persistenza. Vino destinato ad avere un’ottima evoluzione in bottiglia.

Le uve provengono esclusivamente da Treiso. Il Nebbiolo viene diradato all’invaiatura e raccolto a mano in cassette, al momento della piena maturazione. Seguono pigia-diraspatura, macerazione a temperatura controllata per circa 25 giorni e affinamento per 24 mesi in barrique e tonneau. Dodici i mesi di bottiglia prima della commercializzazione.

Barolo Docg 2015 “Lorens” (Magnum): 92/100
Vino che tinge il calice di un rubino intenso e luminoso, con riflessi granati. Colpisce per la maturità del frutto, più piena di quella del Barbaresco. L’impressione, al netto di un tannino vivo, è che ci si trovi di fronte a un Barolo gustoso e goloso, giocato su prontezza, freschezza e facilità di beva. Un Barolo che ha comunque molta vita davanti.

Le uve provengono da vigneti di proprietà di Lodali, nel comune di Roddi (Bricco Ambrogio). Come per il Barbaresco, il Nebbiolo viene diradato all’invaiatura e la vendemmia avviene in maniera manuale, in cassette.

La tecnica di vinificazione prevede pigia-diraspatura, macerazione a temperatura controllata per circa 25 giorni e 30 mesi di affinamento in barriques e tonneaux. Dodici i mesi di bottiglia che anticipano la commercializzazione.

Moscato d’Asti Dop 2019: 89/100
Gran freschezza e beva instancabile per questo Moscato d’Asti che accompagna alla perfezione la pasticceria e il fine pasto. Giallo paglierino acceso, profuma di fiori freschi e ha un sapore armonico, dettato dall’aromaticità dell’uva.

La zona di produzione è quella di Treiso. Anche per il Moscato, la vendemmia di cantina Lodali avviene in maniera manuale, con selezione dei migliori grappoli. La fermentazione avviene in autoclave e si protrae per circa un mese. Sono tre i mesi che precedono la commercializzazione.

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Terre Siciliane Igp Nero d’Avola Syrah 2014 Sikane, Baronia della Pietra

Non serviva l’ennesima prova per dimostrare che esistono eccezioni nelle annate generalmente giudicate “sfortunate” per il vino. Il Terre Siciliane Igp Nero d’Avola Syrah 2014 Sikane dell’Azienda agricola Baronia della Pietra sta lì come un obelisco. A confermare la regola, in Sicilia.

A pochi giorni dal Mercato Fivi 2019, ecco un’etichetta da non perdere, assieme al resto della produzione della cantina di Alessandria della Rocca (AG), guidata dalla famiglia di Salvatore Barbiera.

LA DEGUSTAZIONE
A quasi 6 anni dalla vendemmia, il vino veste il calice di un rosso rubino pieno, con lievi riflessi granata. Al naso Sikane 2014 è ammaliante. Alle note di piccoli frutti di bosco (ribes e lamponi, ma anche mirtilli e more mature) si affiancano ricordi netti di una succosa arancia sanguinella.

Splendida la vena balsamica esaltata dall’ossigenazione: mentuccia, una resina di pino leggera. Richiami alla macchia mediterranea, nelle sue espressioni più fresche del timo e del rosmarino. Non poteva mancare il tocco del Syrah, con la sua spezia nera addomesticata dal legno, utilizzato in maniera enciclopedica in fase di vinificazione.

Si arriva all’assaggio con molte aspettative e il sorso non delude. Anzi. L’ingresso di bocca evidenzia la buona struttura del vino, che ha retto alla perfezione i “colpi” dell’annata 2014 e del tempo trascorso in bottiglia.

Freschi richiami di menta, scaldati da accenni di vaniglia dolce, giocano con un tannino finissimo. I frutti di bosco anticipano un finale lunghissimo, connotato da una vena salina corroborante e da ritorni di macchia mediterranea.

La beva è instancabile: precisa, asciutta, senza rinunciare alla polposità. I 14 gradi di alcol risultano ben integrati. Perfetto l’abbinamento di Sikane con le bontà gastronomiche della tradizione locale, come il pecorino stagionato dei Monti Sicani, l’agnello al forno con patate, carne e salsiccia alla brace e pasta alla Norma con melanzane fritte.

LA VINIFICAZIONE

La zona di produzione del blend di Nero d’Avola e Syrah di Baronia della Pietra è la contrada Chinesi, nel Comune di Alessandria della Rocca, piccolo borgo della provincia di Agrigento. Siamo a un’altitudine di 400 metri sul livello del mare. Il suolo è di matrice calcarea ed alcalina ed è ricco di calcio.

La vendemmia inizia generalmente nella seconda settimana di settembre. La fermentazione viene condotta in acciaio, a una temperatura controllata che si aggira attorno ai 28 gradi. Salvatore Barbiera ricorre a recipienti di acciaio anche per l’affinamento del vino atto a divenire Sikane.

Dopo cinque mesi di riposo, il nettare viene trasferito in barrique usate, dove resta ad affinare per circa 10 mesi. Seguono tre mesi di ulteriore affinamento in bottiglia, prima della commercializzazione.

L’Azienda agricola Baronia della Pietra è arriva nello splendido territorio delle Terre Sicane – nuovo eldorado della viticoltura siciliana – sin dal 1860. Domenico Barbiera ha piantato gli ulivi, mentre Salvatore ha implementato la vigna, in contrada Chinesi.

Una terra un tempo abitata dai Sicani, coltivata dagli arabi, poi appartenuta alla Chiesa di Agrigento, su concessione dei Normanni. Infine acquistata dalla nobile famiglia dei Barresi, anch’essa di origine Normanna.

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Rosso Barbera 2019: i migliori 10 (+20) assaggi al Castello di Costigliole d’Asti

COSTIGLIOLE D’ASTI – Grande successo per Rosso Barbera 2019. Oltre mille gli accessi alla tre giorni andata in scena dal 2 al 4 novembre, al Castello di Costigliole d’Asti (AT). Una location degna della crescente attenzione dei produttori piemontesi nei confronti della Barbera.

È recente, infatti, il riconoscimento in Piemonte della terza Docg dedicata al noto vitigno a bacca rossa. Si tratta del Nizza Docg, che è andato ad affiancarsi alla Barbera d’Asti Docg e alla Barbera del Monferrato Superiore Docg.

Per l’esordio di Rosso Barbera, evento che nasce dalle ceneri di “Barbera – Il gusto del territorio”, sono stati coinvolti i sommelier Ais della delegazione di Asti. “Grazie alla concessione del castello da parte del Comune e alla nostra collaborazione tecnica – commenta Paolo Poncino (nella foto, sotto) delegato locale dell’Associazione italiana sommelier – l’evento è finalmente decollato”.

“Siamo molto soddisfatti – aggiunge Poncino – soprattutto per i numeri. Lo scorso anno la manifestazione ha coinvolto 80 produttori, quest’anno 150. La copertura geografica è stata dunque molto più capillare e utile, ai nostri ospiti, per comprendere le differenze tra le varie espressioni di questo vitigno, importantissimo per il Piemonte”.

“La Barbera – sottolinea il delegato Ais di Asti – è buonissima vinificata in acciaio, nella sua versione più fresca. Ma si presta ottimamente anche ad essere affinata in legno, con diversi tempistiche e tipologie di botte. Un vino, dunque, molto versatile e gastronomico“.

Diverse le zone rappresentate ai banchi d’assaggio. Corposo il numero di Barbera proveniente dall’Astigiano. Buona la rappresentanza di altri territori piemontesi, come Alba (Cuneo), le Colline Novaresi (Novara) e i Colli Tortonesi (Alessandria).

Non sono mancati rappresentanti dal vicino Oltrepò pavese, con quattro etichette provenienti da San Damiano al Colle, Rovescala, Canneto Pavese e Montecalvo Versiggia, tutti Comuni in provincia di Pavia. Ecco dunque i migliori assaggi di WineMag.it a Rosso Barbera 2019.

TOP 10

1) La Montagnetta – Roatto (AT): Barbera d’Asti Docg Superiore 2016 “Piovà”
2) Mossio – Rodello (CN): Barbera d’Alba Doc 2017
3) Accornero e Figli – Vignale Monferrato (AL): Barbera Del Monferrato Doc 2016 “Giulin”
4) Pomodolce – Montemarzino (AL): Colli Tortonesi Doc Monleale 2011 “Marsen”
5) Gatto Pierfrancesco – Castagnole Monferrato (AT): Barbera d’Asti Docg Superiore 2017 “Vigna Serra”

6) Michele Chiarlo – Calamandrana (AT): Nizza Docg Riserva 2016 “La Court”
7) Dacasto Duilio – Agliano Terme (AT): Nizza Docg 2017 “Moncucco”
8) Tenuta Il Falchetto – Santo Stefano Belbo (CN): Barbera d’Asti Docg Superiore 2017 “Lurei”
9) Cascina Delle Rocche Di Moncucco – Santo Stefano Belbo (CN): Barbera d’Asti Docg 2017 “Vigne Erte”
10) Gianni Doglia – Castagnole Delle Lanze (AT): Barbera d’Asti Docg 2018 “Bosco Donne”

MENZIONI

11) Cascina Fiore – Costigliole d’Asti (AT): Barbera d’Asti Docg 2016
12) Baldi Pierfranco – Costigliole d’Asti (AT): Barbera d’Asti Docg Superiore 2015 “Castelburio”
13) Sant’Anna Dei Brichetti – Costigliole d’Asti (AT): Barbera d’Asti Docg Superiore 2015 “Vigna Dei Brichetti”
14) Bianco Marco – Costigliole d’Asti (AT): Barbera d’Asti Docg Superiore 2015 “Vigna Del Mor”
15) Montalbera – Castagnole Monferrato (AT): Barbera d’Asti Docg 2018

16) Bava – Cocconato (AT): Barbera d’Asti Docg 2018 “Libera Pianoalto”
17) Cantina Sant’Evasio – Nizza Monferrato (AT): Barbera d’Asti Docg 2018
18) Dacasto Duilio – Agliano Terme (AT): Barbera d’Asti Docg 2018 “La Maestra”
19) Gaudio Bricco Mondalino – Vignale Monferrato (AL): Barbera d’Asti Docg 2018 “Zerolegno”
20) Coppo – Canelli (AT): Barbera d’Asti Docg 2018 “L’avvocata”

21) Sei Castelli – Agliano Terme (AT): Barbera d’Asti Docg 2018 “Ventiforti”
22) Cascina La Barbatella – Nizza Monferrato (AT): Barbera d’Asti Docg 2017 “La Barbatella”
23) Cascina Valle Asinari – San Marzano Oliveto (AT): Barbera d’Asti Docg 2017
24) Scarpa – Nizza Monferrato (AT): Barbera d’Asti Docg 2016 “Casa Scarpa”
25) Bava – Cocconato (AT): Piemonte Doc Barbera 2018 “Viva In Bottiglia Gura” (metodo ancestrale)

26) Malabaila Di Canale – Canale (CN): Barbera d’Alba Doc Superiore 2016 “Mezzavilla”
27) Olim Bauda – Incisa Scapaccino (AT): Nizza Docg 2016 “Cru Bauda”
28) La Gironda – Nizza Monferrato (AT): Nizza Docg 2016 “Le Nicchie”
29) Franco Roero – Montegrosso D’Asti (AT): Barbera d’Asti Docg Superiore 2017 “Mappale 213”
30) Prasso Piero – Mongardino (AT): Barbera d’Asti Docg Superiore 2016 “Colli Astiani”

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I vini di Garbole: apostrofi rossi tra il punto G e il fattore H

Capelli lunghi avvolti nel codino. Barba e pizzetto sistemati per l’occasione. Camicia nera con qualche bottone slacciato, a fare il paio con le maniche arrotolate sull’avambraccio. È un Ettore Finetto in versione “balera” quello che ha presentato la scorsa settimana i vini di Garbole alla stampa, al ristorante Tre Cristi di Milano.

Un impatto deflagrante quello del vignaiolo veneto sul capoluogo lombardo. Un po’ come avere di fronte un uomo senza spazio e senza tempo. Un alieno che non vola, per dirla con Battiato. Qualcuno venuto dalle stelle, al posto che dalla Valpolicella. Ma niente paura.

Alla cena coi piatti (deliziosi) dello chef Franco Aliberti in abbinamento, fila tutto liscio che manco in Romagna. Ma hai bisogno di qualche giorno per riprenderti, dopo l’incontro con uno che fa vini di musica. E te li sbatte in faccia – o meglio sotto il naso e in bocca – tutti assieme. Fermando il tempo tra l’entrée e il dessert.

Un concerto in quattro atti degno del Teatro alla Scala. Senza intermezzi. Solo apostrofi. Rossi. Tra il punto G di Garbole. E il fattore H che identifica, anzi codifica, le etichette: “Heletto” 2012, “Hatteso” 2011, “Hurlo” 2011 ed “Hestremo” 2011. Non serve Saw – L’enigmista, per decifrarli. Solo sensibilità, silenzio. E orecchio.

Ci vuole il cuore, invece, per leggere tra le righe di certe affermazioni di Ettore Finetto. Un minimo di fatica, insomma, per non scambiarlo per megalomane o egocentrico. Ché tutti gli artisti lo sono un po’, figurarsi quelli in grado di comporre musica liquida (25 mila bottiglie da 20 ettari di terreno). Una questione di pura sensibilità, all’ennesima potenza.

Non sono appassionato del mondo del vino, sono appassionato del mio mondo del vino. Non vado dove c’è gente che parla di vino. Ma ho poche certezze. Una di queste è che ogni produttore della Valpolicella dovrebbe avere il santino di Romano Dal Forno sul comodino. Non tanto per i vini: su quelli ognuno può avere la sua idea. Ma per la sua intelligenza e finezza”.

LA DEGUSTAZIONE

Rosso Veneto Igp 2012 “Heletto”, Garbole: 94/100
Vino che risulta ancora un po’ spigoloso, di primo acchito. Con l’ossigenazione tutto cambia, verso l’equilibrio. Del resto, è un vino vivo, quello di Garbole. In mutamento. Ma il punto è che tutto cambia come d’improvviso.

Il legno risulta via, via sembra più integrato, grazie al corredo offerto dall’appassimento delle uve su graticci, che si protrae fino a 40 giorni nell’unico ambiente non climatizzato della cantina. L’ossigenazione porta tanta profondità, tanta spezia, tanto calore. Si avverte l’amarena, così come il fico fresco. La mora, il mirtillo. Il tabacco.

E ancora: la corteccia di pino, la resina. Ma anche la macchia mediterranea, il rosmarino, il cioccolato bianco. Un naso che fa salivare. Al primo assaggio, il vino sembra scontroso e duro. Poi il sorso sembra asciugarsi, virando dalla marmellata al frutto pieno. Come in una macchina del tempo azionata al contrario.

Un quadro di corrispondenza assoluta, in cui gusto e olfatto si incontrano e si odiano, per poi amarsi all’improvviso. Alla follia. Anzi, all’unisono. Per chi assiste, la sensazione è quella di una strana pace e armonia musicale dei sensi, in cui si inizia a bere Heletto col naso. Magia.

Amarone della Valpolicella Dop 2011 “Hatteso”, Garbole: 95/100
“Uno degli Amaroni più centrati che abbiamo messo in bottiglia”, sostiene Ettore Finetto. Per dargli ragione, occorre seguire la trama già nota. Il solito refrain. Il vino appare scontroso al naso, all’inizio. Comunica calore e pienezza, ma anche un animo selvatico e permaloso. Tanto alcol, forse. Il retro della bottiglia conferma l’impressione (16.5% vol.).

Poi, clic. Succede qualcosa. Ecco, ancora una volta, cioccolato e frutto molto maturo. Iniziano a materializzarsi anche rabarbaro e radice di liquirizia. I vini di Garbole sono così: vanno in sottrazione nell’aggiunta.

Si schiariscono nel tempo, una volta versati nel calice. Sono debuttanti sul palco, col microfono che fischia e il pubblico che rumoreggia, senza aver ascoltato neppure una nota. Ma quando iniziano a cantare, cala il silenzio.

Si distingue tutto, adesso. Ogni singolo accordo. Prende spazio una vena mentolata, che conferisce gran balsamicità sia al naso sia al sorso: ricco, pieno, ruggente. Dagli esordi in sordina, il nettare vira su una gran verticalità, dettata da una freschezza che tiene a bada la concentrazione assoluta data dall’appassimento.

Se “Heletto” diventa grande in sottrazione, “Hatteso” migliora nell’approfondimento dei sentori: dall’etereo glicerico al sotteso del muschio, del fungo, della terra bagnata. Un vino che diventa grande nascondendosi, al posto di esplodere. Un vino che prende tempo per le strofe. Per raccontare meglio ritornello e finale.

Rosso Veneto Igp 2008 “Hurlo”, Garbole: 96/100
Il nome, nemmeno a farlo apposta, è nato dal commento di un ristoratore che lo ha assaggiato alla cieca, in una batteria di vini da tutto il mondo: “Questo è un vino da urlo”. Nel blend, oltre alle tradizionali uve della Valpolicella, si celano i frutti di vitigni autoctoni sconosciuti come Saccola, Pontedarola, Spigamonti, Segreta.

È un vino che è dentro e fuori. Sotto e sopra. Pare la sintesi dei precedenti. E, al contempo, la loro somma. Somma più sottrazione uguale “Hurlo”: calcolo da annotare sui libri di scuola, tra la proprietà transitiva e il teorema di Pitagora.

Vino grasso ed essenziale. Vino dell’ossimoro. Profondo e alto. Fiore e (sotto)terra. Alcol e radice. “Questa è la massima espressione del vino mai ottenuta da Garbole”, commenta Ettore Finetto. Difficile dargli torto. Basta osservare quanto “Hurlo” riesca davvero a condensare il meglio di “Heletto” e di “Hatteso”.

Recioto della Valpolicella Dop Riserva 2011 “Hestremo”: 96/100
Un vino che Ettore e il fratello Filippo producono “per rispetto della storia, perché l’Amarone è qualcosa che è stato ‘inventato’ più di recente, in Valpolicella”. La base ampelografica è quella tradizionale, sin dalla prima bottiglia, prodotta nel 2008.

Se “Hurlo” è per i Finetto la “massima espressione” del vino, “Hestremo” è la “massima espressione dell’uva”. “E scordatevi che si tratti per forza di un vino da dessert – ammonisce il vignaiolo – perché questo è un vino da panino in su”.

Si tratta dell’etichetta di Garbole più lineare e corrispondente alle aspettative, visto soprattutto il profondo legame con la tradizione e col metodo di produzione. È il vino migliore con cui concludere l’assaggio dei vini della cantina, per quanto sia rassicurante e moderno.

Convince sin dal naso, profondissimo nonostante i richiami alla confettura. Prugna, fico, amarene, fichi, datteri. In bocca, la corrispondenza dei sentori è perfetta. Il sorso di “Hestremo”, tuttavia, sfodera gran verticalità e il tannino perfetto per tenere a bada l’imponente (e sensuale) residuo.

Mentre a ogni sorso sembra suonare sempre più forte “Killing me softly” dei Fugees – ma è solo un’impressione – Ettore Finetto annuncia l’ultimo progetto: “Dar vita a un nuovo vino, ovvero ‘Hurlo’ bianco. Stesse uve della versione rossa, con vinificazione in bianco”. Silenzio. È già iniziato il countdown per la nuova creatura di Garbole.

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Gallo Nero is back: i migliori dieci Chianti Classico a Milano

MILANO – Tutto tranne che una questione di piume. Il Gallo Nero è tornato a Milano per alzare la cresta: tra gli appassionati, sì. Ma soprattutto al cospetto della ristorazione, nella città che più di tutte, in Italia, esprime l’internazionalità. Il Consorzio Vino Chianti Classico mancava nel capoluogo lombardo da 13 anni . Lunedì 28 il gran ritorno, grazie alla collaborazione con l’Associazione italiana sommelier (Ais).

Sessantaquattro i produttori presenti banco di assaggio al The Westin Palace. Ad assaggiare i Chianti Classico oltre 700 persone in 5 ore. Tutti operatori del settore Food and Beverage.

“Siamo tornati a Milano dopo un’assenza un po’ ingiustificata – ha commentato a caldo Carlotta Gori, direttore del Consorzio, intervistata da WineMag.it – e l’accoglienza è stata davvero straordinaria”.

Con il 2019 riportiamo al centro del nostro trade l’Italia – ha precisato Gori – e Milano è la vetrina da dover ritrovare, riscoprire e con cui dover riallacciare una duratura relazione, soprattutto sul fronte della grande ristorazione milanese, la più internazionale del nostro Paese”.

Come anticipato ieri da WineMag.it, il presidente del Consorzio, Giovanni Manetti, ha consegnato al sindaco di Milano, Giuseppe Sala, una bottiglia di Chianti Classico 1946 della collezione storica di Badia a Coltibuono. In quell’anno furono terminati i lavori di ricostruzione del Teatro alla Scala, dopo un restauro post bellico effettuato in tempi record.

“Milano all’epoca divenne simbolo, attraverso il suo teatro principale, di una speranza per tutto il Paese – ha evidenziato Manetti – e il suo spirito di rinascita si coglie ancora oggi nello slancio verso il futuro e nel suo dinamismo.

Questo la rende lo scenario ideale per presentare i nostri vini, ed è nostra volontà mettere nell’agenda di questa città un grande evento di Denominazione ogni anno”.

I MIGLIORI DIECI CHIANTI CLASSICO A MILANO

1) Chianti Classico Docg Riserva 2015, Setriolo
Un gigante. Frutto croccante e succoso, in un sorso capace di abbinare una gran profondità, raccontata da spezie, note balsamiche e ricordi di rabarbaro. Il capolavoro, a Castellina in Chianti (SI), di Susanna Soderi.

2) Chianti Classico Docg 2015, Setriolo
Vino sulla scorta del fratello maggiore, la Riserva della stessa annata. Succosità e una beva più snella e “pronta”, ma tutt’altro che banale. Bello ritrovare anche in questo calice le note profonde della Riserva, in una veste più gentile.

3) Chianti Classico Docg Gran Selezione 2016 “Vigna Contessa Luisa”, Villa Calcinaia Conti Capponi
Ci spostiamo nella zona di Greve in Chianti (FI) per la chicca dei Conti Capponi, che si dedicano con estrema passione a 20 ettari di vigneto sugli 80 di proprietà. Un vino giocato sull’essenzialità e su una beva asciutta, connotata da un tannino elegante e di prospettiva. Un vero Signore.

4) Chianti Classico Docg Riserva 2015, Villa Calcinaia Conti Capponi
Vino che marca in maniera netta le differenze con la Riserva, sfoderando un frutto ben più maturo e godurioso. Tra le Riserve in degustazione a Milano, forse la più gustosa e beverina.

5) Chianti Classico Docg Gran Selezione 2015 “San Marcellino”, Rocca di Montegrossi
Altro vino dotato di un frutto pieno, in un gioco divertentissimo col tannino. Colpisce per la freschezza e la verticalità ossuta, che reggono un alcol sostenuto ma per nulla percettibile: serve guardare l’etichetta per accorgersi dei 15% vol.

6) Chianti Classico Docg 2017, Castello di Ama
L’etichetta dal frutto più preciso, nonostante la maturità piena e la “succosità” evidenziata nel sorso. La beva è instancabile, perché retta da una freschezza riequilibrante. Un Sangiovese in purezza che chiama il piatto, ma che sarebbe ottimo anche da solo, per annaffiare momenti di totale spensieratezza.

7) Chianti Classico Docg 2017, Tenuta di Arceno
Altro Sangiovese connotato da un frutto delizioso, minuzioso, pieno e pulito. Gran beva e consistenza.

8) Chianti Classico Docg Riserva 2016, Rocca delle Macìe
Di nuovo a Castellina in Chianti (SI) per una Riserva di grandissimo carattere e struttura possente, nonostante la gran eleganza e il frutto pieno. Vino da acquistare oggi e dimenticare in cantina.

9) Chianti Classico Docg 2017 “Ora”, Savignola
Vino d’entrata della casa di Greve in Chianti (FI). Scalpita ancora e dopo l’assaggio arriva la conferma: è in bottiglia da appena 3 mesi e sarà sul mercato dal 2012. L’anteprima promette benissimo.

10) Chianti Classico Docg 2016, Caparsa
Spazio a una cantina di Radda (SI) vicina, con grande cognizione di causa, ai canoni “naturali”. Nel calice un “vino quotidiano”, capace di sfoderare un frutto di piena maturità e una struttura agile, ma presente. Abbastanza per finirne una bottiglia a tavola, senza neppure accorgersene.

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Tenuta Ridolfi e il “brand” Montalcino: l’avventura di Valter Peretti in Toscana

MONTALCINO – Poteva fare il dandy col Prosecco, mettendo il piede fuori di casa. Ma voleva “un territorio puro”. Lontano dalle mode, dai disciplinari dettati dal mercato. Un “brand del vino italiano ancora spendibile”. Con queste premesse non potevano che incontrarsi Giuseppe Valter Peretti e Montalcino. Tenuta Ridolfi, acquistata nel 2011 dal noto imprenditore veneto, titolare della “Conceria Cristina” di Montebello vicentino (VI), è per lui “molto più di una questione di business”.

È il sogno che ha voluto cucirsi addosso. Iniziando a ritagliarne i contorni da più lontano. Proprio come farebbe un sarto. Nel 1992 Peretti sbarca a Larciano, in provincia di Pistoia. Ulivi e qualche ettaro di vigna da Chianti servono a prendere le misure al Brunello. Di lì a 20 anni, “zac”. Il percorso si compie.

A Montalcino, Peretti conosce Gianni Maccari (nella foto sopra) attuale factotum di Tenuta Ridolfi. Uno a cui dare in mano le chiavi del sogno, viste le precedenti collaborazioni con aziende del calibro di Poggio di Sotto, uno dei gioielli di ColleMassari Wine Estates.

Ingenti investimenti sul fronte della tecnologia, sia in vigneto sia in cantina, consentono a Ridolfi di entrare nell’olimpo dei grandi di Montalcino. Oggi la tenuta di Località Mercatali conta 21 ettari, tutti certificati biologici: 13,4 a Brunello di Montalcino, 1 ettaro a Rosso di Montalcino e il resto a Chianti, per ora non prodotto.

Tra le novità introdotte in seguito all’acquisizione dei terreni, un’attenzione green per la produzione, grazie al solo utilizzo di rame e zolfo e di tecniche come la confusione sessuale per contrastare la tignola e il sovescio per riequilibrare la fertilità del terreno.

Pratiche imitate in seguito dalle aziende circostanti Tenuta Ridolfi, tanto da creare un polmone verde nell’areale nord est di Montalcino. L’ottima materia prima, vendemmiata a mano, viene condotta in cantina e selezionata acino per acino, grazie a sofisticati macchinari dotati di selettori ottici.

Diverse le tipologie di legno presenti nella bottaia, che presto sarà ampliata per far spazio a numerose barrique. Una parte integrante della visione del Brunello di Giuseppe Valter Peretti e necessarie, in particolare, per la produzione del “Donna Rebecca”, l’unicum della cantina.

LA DEGUSTAZIONE

Vino Spumante Rosé Brut, Tenuta Ridolfi: 90/100
Numeri in crescita di anno in anno per il Metodo Martinotti (Charmat) di casa Ridolfi. Quest’anno saranno 12 mila le bottiglie, duemila in più della vendemmia 2018, in degustazione. Aumentano anche i mesi di autoclave, da una base iniziale di tre, nel 2016, fino ai 6 dello spumante 2019, in commercio dal prossimo anno.

Uno sparkling ottenuto da uve Sangiovese in purezza, raccolte tramite diradamento delle vigne del Brunello e del Rosso. Molto profumato al naso, tra fiori freschi e frutta rossa, convince ancor più al palato con le sue note precise ed invitanti di ciliegia, lamponi e fragoline.

Non manca una leggera vena minerale, che racconta la presenza di calcare e fossili nei terreni della tenuta. Un Brut da 10 grammi litri di residuo, perfettamente integrati nel sorso. La prova provata che il Sangiovese si può spumantizzare con ottimi risultati (in questo caso in un’azienda di Ravenna, la CPS), come stanno facendo ormai diverse aziende toscane.

Rosso di Montalcino Doc 2016, Tenuta Ridolfi: 93/100
Vino in stato di grazia, specie in una batteria di Brunelli da annata certamente non semplice, come la 2014. Un vino giocato su finezza ed eleganza, col vitigno in prima linea. Rosso rubino di buona luminosità e trasparenza, alla vista.

Al naso molto tipico e fragrante. Ha bisogno di qualche minuto per liberare completamente tutto il ventaglio di profumi: alle note nette di ciliegia e lampone si accostano ricordi di macchia mediterranea, balsamicità, liquirizia e una leggera vena speziata.

Anche in bocca questo Rosso guadagna consistenza e carattere col passare dei minuti. I precisi e croccanti sentori di frutta rossa si legano a una gran freschezza che rende il sorso dinamico, piacevole e di ottima lunghezza.

Brunello di Montalcino Docg 2014, Tenuta Ridolfi: 92/100
Trentasei mesi in botti di rovere di Slavonia da 25 a 35 ettolitri, più un 3% della massa che affina in barrique. Prima della commercializzazione, minimo 12 mesi di riposo in bottiglia. Vino importante e corposo, come nelle attese.

Le lunghe macerazioni e i continui rimontaggi del mosto in acciaio regalano un’estrazione esemplare dei primari del Sangiovese. La leggera ma presente nota vanigliata, specie in chiusura, imbriglia croccantezza del frutto e mineralità, regalando un sorso incentrato su equilibrio e piacevolezza.

Brunello di Montalcuno Docg 2014 “Donna Rebecca”, Tenuta Ridolfi: 91/100
Vino tecnicamente ineccepibile, nel solco dello stile chiesto da Giuseppe Valter Peretti al winemaker Gianni Maccari. Si tratta della “chicca” di Tenuta Ridolfi, prodotta nel 2014 in sole 1.800 bottiglie, in pieno stile borgognone. Un vino pensato per elevare, all’ennesima potenza, l’internazionalità del Sangiovese toscano.

La vinificazione avviene interamente in barrique della Tonnellerie Baron, con fermentazione e macerazione della durata di 90 giorni a temperatura controllata di 26 gradi. Fondamentali i batonnage giornalieri, tramite rotazione dei piccoli contenitori di legno, come vuole la tradizione borgognotta.

Ne risulta un Brunello fuori dagli schemi della Denominazione. Morbidezza e note conferite dal legno dominano un sorso che mostra comunque una buona spalla acida, capace di garantire freschezza ed equilibrio alla beva. Il sorso è suadente, setoso e spiccatamente femminile.

Brunello di Montalcino Docg Riserva 2016, Tenuta Ridolfi: 95/100
Assaggio da botte e non può che essere così, dal momento che il vino sarà in commercio non prima di gennaio 2021, per via del disciplinare di produzione che impone cinque anni di affinamento per la Riserva, uno in più del tradizionale Brunello.

Strepitose le attese: frutto, materia, tannino estremamente elegante e legame col territorio all’ennesima potenza. Il vino che, al momento, sembra esprimere più di tutti le potenzialità di Tenuta Ridolfi a Montalcino.

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degustati da noi Gli Editoriali news news ed eventi vini#02

Grignolino e Dolcetto: dieci etichette da fare assaggiare al vostro amico enofighetto

EDITORIALE – D’accordo, avete riso? Adesso dimenticate la rima, sempre da evitare nel linguaggio giornalistico – specie nei titoli – e godetevi questa lista di dieci etichette di Grignolino e Dolcetto da far bere al vostro amico enofighetto.

Prima, però, un grazie a Go Wine, l’associazione capitanata da Massimo Corrado che ha avuto il coraggio di portare a Milano – ieri pomeriggio, all’Hotel Michelangelo – due grandi vitigni del Piemonte, mai del tutto tramontati. Dettaglio non trascurabile: sono tutte etichette dal prezzo inferiore ai 10 euro.

1) Dolcetto d’Alba Doc 2018 “Bric ‘dla Vila”, Azienda Agricola Giorgio Sobrero (Montelupo Albese, CN)
Semplicemente straordinario: l’assaggio che sbanca il tavolo. L’etichetta va sul mercato a partire dall’agosto successivo alla vendemmia, dopo una vinificazione minuziosa in acciaio e un periodo di (necessario) riposo in vetro.

Un Dolcetto giocato sulla croccantezza e l’armonia, che sfodera un tannino tipicamente langarolo. Ma coinvolge e convince già al naso, con la sua nota tipica di marasca, piccoli frutti rossi e fiori di viola mammola.

La vigna da cui prende vita è costituita da viti particolarmente vecchie e poco produttive, sul punto più alto di una collina che dà il nome all’etichetta: “Bric ‘dla Vila”. Terreni molto simili a quelli di Serralunga, e si sente. Chapeau.

2) Dolcetto d’Alba 2018, Cascina Castella di Cassino Silvio (Roddino, CN)
Macerazione a cappello sommerso per un’estrazione ottimale delle sostanze utili allo scopo, chiaro a chi assaggia: un Dolcetto che abbia corpo e struttura, ma che mantenga netta e intatta la bevibilità. Ne risulta un vino materico, giocato su precisione del frutto, freschezza e pulizia. Pregevole il finale, disteso ma asciutto.

3) Dogliani Docg 2018, Poderi Luigi Einaudi (Dogliani, CN)
Non sarà l’etichetta di punta di questa nota cantina barolista, ma avercene di vini di “seconda fascia” fatti così. Se poi si considera che di questa etichetta vengono prodotte ben 150 mila bottiglie, l’amico enofighetto dovrà farsene ancor più una ragione.

Un Dolcetto (Dogliani Docg, nel caso specifico) che si esprime in punta di fioretto, sia al naso sia al palato. Al palato predomina la nota calcarea, gessosa, essenziale, che conferisce gran finezza ed eleganza al sorso. Bella chiusura ammandorlata per questo vino che nasce dall’assemblaggio delle uve dei vigneti San Luigi, San Giacomo e Madonna delle Grazie.

4) Dolcetto d’Alba Doc 2015 “I Terrazzamenti – Vigne Eroiche”, Terrenostre (Cossano Belbo, CN)
Vino da piazzare alla cieca in una batteria di Sangiovesi, tanto per far ribaltare dalla sedia il vostro amico enofighetto. Un Dolcetto di gran struttura, che riesce a portare nel calice tutta la preziosità delle viti di 30 anni disposte su terrazzamenti, tra i muretti a secco.

Un nettare di struttura possente ma elegante, che alle note fruttate tipiche del Dolcetto (principalmente more e marasca) abbina ricordi di corteccia, goudron e inchiostro. La leggera speziatura finale (pepe nero) chiama il sorso successivo, ben amalgamata ad un accenno salino.

5) Grignolino d’Asti 2018, Fratelli Biletta – Cascina Moncucchetto (Casorzo, AT)
One shot “Grigno”. Se una sola carta da giocarvi per spiegare il Grignolino al vostro amico enofighetto, scegliete questa. Tipicità all’ennesima potenza per uno dei vini più schietti presenti al banco allestito a Milano da Go Wine.

Il “Grigno” del Grignolino si sente eccome, con tutta la sua asperità. Ma il sorso è piacevolmente riequilibrato dalla vena fruttata, di precisione commuovente. Ne risulta un assaggio più che mai centrato, asciutto, essenziale come chi parla poco, perché sa che basta guardarlo negli occhi per capire cos’ha da dire.

6) Dogliani Docg 2018 “Briccolero”, Chionetti Quinto (Dogliani, CN)
Un altro “esemplare” di Dolcetto di gran tipicità, giocato sulla precisione e croccantezza del frutto. Il tutto senza che  il tannino si vergogni di salire sul palco, evidenziando tutta la gioventù del sorso. Tra gli assaggi più preziosi dell’intero tasting, in termini di potenzialità future e valorizzazione di vitigno e terroir.

7) Ovada Docg 2018 “Du Sü”, Tenuta La Piria (Rocca Grimalda, AL)
Frutti rossi (ciliegia e mora) e fiori (violetta) ancora una volta esplosi nel calice, per un Dolcetto dalla gran bevibilità, rinvigorita da un finale ammandorlato e vagamente salino, certamente essenziale. Colpisce per la capacità di coniugare verticalità e polpa.

8) Dolcetto di Diano d’Alba Docg Sorì Pradurent Superiore 2017, Alario Claudio (Diano d’Alba, CN)
La filosofia della cantina viene premiata, in particolar modo, dal calice di questo Dolcetto: la raccolta posticipata è un rischio coi tempi che corrono, ma regala un tannino presente ma levigato e un frutto di gran pienezza, colto prima di sfociare nel marmellotoso. Il legno, in vinificazione, fa il resto. Un vino che parla di un’ottima materia prima e della sapienza di chi la lavora.

9) Grignolino d’Asti Doc 2018 “Leserre”, Caldera (Asti, AT)
Cantina alla quinta generazione e, c’è da scommetterci, il Grignolino da queste parti è sempre stato così. Del resto siamo nella patria del rosso piemontese: Portacomaro. Il calice si illumina di un rubino luminoso, dal quale si liberano delicati sentori floreali e precisi richiami di frutta rossa e nera.

Al palato scalpita, come deve fare un Grignolino d’annata. Il tannino è presente ma non disturba. Anzi, fa venire in mente modi speciali per imbrigliarlo: come abbinarci un bella frittura di pesce. Il colore, del resto, aiuta a considerare più “rosato” che rosso “Leserre”. Vino tipico e divertente.

10) Dogliani Superiore Docg 2018 “Terra”, Cantina Clavesana (Clavesana, CN)
Si conferma ad alti livelli Cantina Clavesana, realtà che come poche in Italia riesce a coniugare numeri e qualità. Succosità del frutto espressa all’ennesima potenza – tanto da toccare il frutto di bosco, oltre alla classica marasca – per un Dolcetto che non rinuncia comunque a struttura e verticalità.

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degustati da noi vini#02

Pighin “affina” i bianchi del Collio, in attesa della Docg

Tre bottiglie e una certezza: “Il Collio merita una Docg”. Si è presentato così a Milano, Roberto Pighin. Con Ribolla Gialla, Friulano e Malvasia sotto al braccio, che manco un francese con la baguette.

Poche cose, ma tutte meditate, nella valigia preparata a Spessa di Capriva (GO), smontata ieri al ristorante Ceresio 7. Un pranzo con la stampa per mostrare i tre pezzi (pregiati) di un puzzle su cui soffia solo il vento (gelido) della burocrazia.

Già perché la Docg, eventuale frutto dell’assemblaggio delle tre varietà più rappresentative del Collio Goriziano (la tanto discussa Gran Selezione) sarebbe solo una questione di buonsenso. In un Paese “normale”. In attesa di Vinitaly 2020, quando presenterà il suo Collio Bianco Doc, Roberto Pighin coccola le sue certezze.

Ed elogia il lavoro del suo enologo: “Paolo Valdesolo, ormai in pensione, ha formato in 20 anni di preziosa collaborazione con la nostra cantina il suo successore, il giovane Cristian Peres. A lui si devono alcune innovazioni tecnologiche, oltre alla scelta di lavorare con legni mai invasivi, che conferiscono ulteriore carattere alle etichette”.

LA DEGUSTAZIONE

Questo l’unico dictat di Pighin al suo winemaker, che ha risposto con convinzione: parlano chiaro i vini nella valigia pensata per la trasferta milanese del patron. Il Collio Doc Ribolla Gialla 2018 (89/100) sfodera un naso ampio e intenso per la varietà.

Merito delle flottazioni del mosto con l’azoto, utili all’estrazione dei primari delle uve. Ancor prima, un gran lavoro in vigna, innanzitutto sulle rese: non si superano gli 80 quintali per ettaro. Il tonneau sul 10% della mass arrotonda la beva quanto basta, senza snaturare il varietale.

Dando anzi quel tocco di vaniglia, appena percettibile, che incomplessisce il vino, sia al naso che al palato. Tanto fiore fresco e tanto agrume, poi, su una mineralità che sfocia nella mandorla. Allungo finale piacevole, sul frutto, ma anche sul sale.

Ancor più interessante il Collio Doc Friulano 2018 (91/100). Al naso una nota minerale netta, di pietra bagnata. Fumo di sigaretta, frutto esotico e – ancora una volta – un fiore fresco, intenso. Accenno appena percettibile di idrocarburo.

In bocca è apprezzabilissimo il gioco tra una verticalità gessosa e la polpa: tra il sale e la sua essenzialità, e un frutto maturo che regala una misurata grassezza al sorso. Più che mai sufficiente la persistenza di un calice che fa della complessa bevibilità (non è un ossimoro, provare per credere) il suo fondamento filosofico.

Si chiude – alla grande – con il Collio Doc Malvasia 2018 (93/100). Leggermente velato il giallo paglierino di cui si tinge il calice. Naso nuovamente molto profumato, ben bilanciato tra l’aromatico e il secco.

Note di frutta secca come arachidi e nocciola contribuiscono alle venature più austere dell’etichetta, pur sempre bagnate dal succo di pesche e albicocche di generosa maturità. Un naso che continua a cambiare, mutevole come la temperatura nel bicchiere.

L’ossigenazione e quel mezzo grado in più si traducono in sbuffi verdi, di buccia di pompelmo e cedro. Non mancano ricordi di timo, anice e pepe bianco. In bocca la vena alcolica tiene a bada l’acidità (e dunque la freschezza) tanto da far risultare il sorso equilibrato e terribilmente “pericoloso”.

Samo di fronte a una di quelle bottiglie che si perdono tra le chiacchiere dei buoni amici, o tra le righe di un buon libro, davanti a un camino. La gran gastronomicità suggerisce di osare negli abbinamenti.

LA CANTINA

Le tre etichette presentate a Milano da Roberto Pighin sono il frutto di un capolavoro della natura. Un anfiteatro di vigneti situati nel cuore del Collio, nella zona vocata di Spessa di Capriva. Trenta ettari, tra i “cru” di altri nomi storici.

L’azienda agricola, in realtà, comprende anche un’altra tenuta a Risano, nelle Grave. Qui la produzione è più vasta (900 mila bottiglie) ed è assicurata da 160 ettari di vigneti.

“In queste zone, a partire dal 1963 – spiega Roberto Pighin – la mia famiglia coltiva l’amore per la terra e la passione per il buon vino. Una passione fondata su un preciso valore: difendere sempre la più alta qualità del vino, dalle vigne alla tavola”.

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Poggio della Dogana, missione Sangiovese di Romagna

“Dovete venire a vedere questo”. Cercavano il colpo di fulmine nelle campagne romagnole, i fratelli Aldo e Paolo Rametta. Quello che, di lì a poco, sarebbe divenuto Poggio della Dogana, si è materializzato all’improvviso. Come un miraggio quel cascinale in vendita a Castrocaro Terme e Terra del Sole (FC), circondato dai vigneti. “Amore a prima vista”, per dare vita alla liaison col Sangiovese di Romagna.

“Molto più di una scelta di business”, assicurano i due imprenditori del settore delle energie rinnovabili, che per la loro avventura nel mondo del vino – iniziata 4 anni fa – possono contare sui due soci Cristiano Vitali ed Emanuele Coveri.

In cantina l’enologo Francesco Bordini, uno che al Sangiovese dà del tu, intenzionato a dare un’impronta “naturale” a tutta la produzione: “Lieviti indigeni e fermentazioni spontanee sono le due novità che, pian piano, introdurremmo su tutta la produzione”, annuncia il winemaker a WineMag.it.

La Romagna è il territorio più a nord dove si produce Sangiovese – spiega Bordini – aspetto importante nell’ambito dei cambiamenti climatici. Inoltre, l’individuazione di 12 sottozone, indicabili in etichetta, costituiscono un ulteriore elemento di valorizzazione delle singole peculiarità del terreno, nonché del vitigno”.

L’occasione per scoprire i vini di Poggio alla Dogana è stata ieri, al ristorante Moebius di Milano. Lo chef Enrico Croatti, romagnolo, li ha già scelti per la sua carta dei vini. E ha pensato a un menu ad hoc, in abbinamento.

LA DEGUSTAZIONE

Romagna Doc Sangiovese Superiore 2018 “I Quattro Bastioni”: 92/100
Vino esemplare per la filosofia della cantina. Tutta la succosità del Sangiovese in un calice che esalta l’essenzialità del frutto e, al contempo, il terroir dello “spungone” romagnolo, antica formazione rocciosa “col mare dentro“, che conferisce mineralità ai rossi della zona. Beva facile, ma tutt’altro che banale. Un biglietto da visita di carta patinata.

Romagna Doc Sangiovese Castrocaro e Terre del Sole 2017 “Santa Reparata”: 90/100
Vino che si presenta di un colore più carico e impenetrabile del precedente. Più materia e polpa, sia al naso sia al palato. Un Sangiovese gastronomico, che sfodera un tannino di cacao e una freschezza viva, tali da consentire di osare con piatti strutturati e relativamente grassi, nell’abbinamento a tavola.

Romagna Doc Sangiovese Superiore Riserva 2017 “Poggiogirato”: 87/100
Prima bottiglia sfortunata, si passa alla seconda: meglio, ma l’utilizzo di lieviti indigeni stressa ancor più la gioventù del vino, esaperandone le asperità. “Poggiogirato” ha ancora bisogno di bottiglia per trovare il perfetto equilibrio.

Le zaffate di zolfo iniziali si disperdono con l’ossigenazione, ma il carattere selvatico del Sangiovese romagnolo permane. In bocca il vino si conferma scalpitante come un puledro. Etichetta da attendere ancora.

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Prima Alta Langa, debutto record a Milano. L’idea: più Nebbiolo nelle future cuvée?

MILANO – Quando si dice “più forti della sorte”. Sono tornati in Piemonte dimenticandosi della pioggia e del traffico i 29 produttori langaroli intervenuti ieri alla Prima dell’Alta Langa, a Milano. Il debutto da record della giovane Denominazione spumantistica nel capoluogo lombardo è avvenuto a Palazzo Serbelloni. Circa 850 gli operatori Horeca coinvolti, tra cui 150 giornalisti di settore, nel centralissimo Corso Venezia.

Una giornata più che mai positiva – tira le somme il presidente del Consorzio, Giulio Bava – in cui finalmente ci siamo confrontati con Milano, il mercato più importante per il mondo del vino italiano”.

Tra tanti assaggi convincenti, connotati da conferme assolute come l’Azienda Agricola Pecchenino e new entry come Poderi Cusmano, la novità è il possibile aumento della percentuale di Nebbiolo nella cuvée. Una scelta in favore del vitigno autoctono delle Langhe.

Nulla di ufficiale, ma il dibattito è aperto tra i produttori per alzare l’asticella della tipicità, oltre la quota del 10% attualmente ammessa dal Disciplinare. A confermarlo in esclusiva a WineMag.it è un veterano come Sergio Germano.

So di prove di spumantizzazione che hanno dato risultati decisamente interessanti in Alta Langa – commenta il numero uno della storica cantina Ettore Germano di Serralunga d’Alba – ma non essendoci delle regole precise intorno al Nebbiolo, al momento ci sono tante espressioni, tanti stili. E forse un po’ di confusione”.

“È un vitigno che può dare carattere e personalità: personalmente ho intenzione di usarlo in futuro – annuncia Germano – per dare un risultato più ‘langarolo’ ai miei spumanti. Volendoci distinguere nel panorama mondiale, è bello ‘combattere’ ad armi pari con la Champagne, con Pinot Nero e Chardonnay“.

“Ma dare una vena di territorio un po’ più profonda, potrebbe avere un senso: non sarebbe comunque un obbligo ma un’opportunità. Ovviamente solo a fronte di sperimentazioni pluriennali”, conclude Sergio Germano.

Non è un nebbiolista Gianmario Cerutti, storico produttore di Moscato di Canelli salito volentieri sul treno dell’Alta Langa: “Crediamo nelle Denominazioni che portano il nome di un territorio – spiega il vignaiolo Fivi – e per questo abbiamo voluto aderire al Consorzio, avviando l’iter previsto per iniziare a produrre il Metodo classico dai vigneti autorizzati”.

Quello dell’Alta Langa è un bel progetto – continua Cerutti – perché c’è un territorio, c’è una filosofia, una realtà concreta, un marketing solido. E un Consorzio che tiene conto di una visione di alta qualità, più che dell’aumento del numero delle bottiglie. Anche per questo la crescita della Denominazione è costante e solida”.

L’Alta Langa, del resto, viaggia su rotaie sgombre d’ostacoli sul mercato italiano, confermando il suo ruolo di “nicchia in espansione” anche grazie alle défaillance storiche di zone spumantistiche come l’Oltrepò pavese. La Docg piemontese è passata da 16 a 40 produttori e da 600 mila a 2 milioni di bottiglie, in 6 anni.

“Entro il 2022 – annuncia il presidente del Consorzio, Giulio Bava – pensiamo di superare quota 3 milioni di bottiglie, sulla base di un ampliamento della base vigneti, sino a 350 ettari. Stiamo acquisendo un’autorevolezza sempre più importante, confermata dalle tante nuove aziende che scelgono di produrre Alta Langa”.

“Numeri – precisa Bava – che non sono frutto di una volontà speculativa. Occorre infatti una programmazione di 7 anni: bisogna pensare a una vigna che può dare solo Alta Langa, senza possibilità di attingere ad altre uve; aspettarne i frutti, per almeno quattro anni. Poi altri 3 anni di affinamento minimo, per uscire sul mercato”.

PRIMA DELL’ALTA LANGA A MILANO: I MIGLIORI ASSAGGI


LA CONFERMA

Azienda Agricola Pecchenino

Si conferma ad altissimi livelli l’Alta Langa disegnata nei calici dall’Azienda Agricola Pecchenino di Dogliani (CN). Ottime entrambe le etichette portate in degustazione a Milano, che evidenziano gran carattere, nerbo e capacità di raccontare il terroir.

In realtà si tratta sempre di “Psea“, Pas Dosé 2015 (secondo anno di produzione nella classica bottiglia da 0,75 cl) e 2014 (in versione magnum, per la prima volta). Si tratta della medesima cuvée, che prevede una prevalenza di Pinot Nero (70%) sullo Chardonnay (30%). Entrambe le varietà provengono dai vigneti di Bossolasco.

LA NOVITÀ
Poderi Cusmano
Sede di una delle ultime realtà entrate a far parte del Consorzio dell’Alta Langa è l’ex cooperativa delle mele di San Marzano Oliveto (AL). “Da una selezione delle nostre migliori uve produciamo i 5 vini della linea ‘Tenute Rade‘ – spiega Daniele Cusmano (nella foto sopra) – tra cui 25 mila bottiglie di Alta Langa”.

In degustazione il Pas Dosé 2014, ottenuto da un 70% di Pinot Nero e un 30% di Chardonnay, 50 mesi sui lieviti. “No barrique, no malolattica”, si affretta a spiegare il titolare della cantina. Il risultato è gratificante.

Alla gran pienezza e verticalità del sorso, si abbina una larghezza del frutto riequilibrante, spiegata dal solo utilizzo di mosto fiore. Pregevole chiusura salina, sussurrata ma capace di chiamare in fretta il sorso successivo. Chapeau.

LE GARANZIE
– Alta Langa Docg Blanc de Noir Pas Dosé 2014 “For England”, Contratto (magnum)
– Alta Langa Docg Blanc de Blancs Pas Dosé 2014, Contratto (magnum)

– Alta Langa Docg Riserva 2013, Coppo (magnum)

– Alta Langa Docg Pas Dosé 2013 “Zero”, Enrico Serafino
– Alta Langa Docg Rosé de Saignée Brut 2015 “Oudeis”, Enrico Serafino

– Alta Langa Docg Extra Brut 2015, Ettore Germano

– Alta Langa Docg Pas Dosé 2012, Giulio Cocchi
– Alta Langa Docg Pas Dosé 2011, Giulio Cocchi (jeroboam)
– Alta Langa Docg Rosé Brut “Rösa”, Giulio Cocchi

– Alta Langa Docg Brut Nature 2011 “Vigna Gatinera”, Fontanafredda

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Ais Veneto: in beneficenza 700 magnum di Malanotte 2010 di Bonotto delle Tezze


Ais Veneto rinnova il suo impegno nel sociale con la bottiglia di Alba Vitae 2019. L’azienda coinvolta per questa nona edizione è Bonotto delle Tezze con il suo Malanotte Docg 2010, imbottigliato in formato magnum. Solo 700 le bottiglie a disposizione.

Il ricavato sarà devoluto alla Fondazione Oltre il Labirinto, che si dedica a bambini, ragazzi e adulti affetti da autismo. In particolare sarà finanziata la costruzione di un laboratorio polifunzionale, adibito a punto di appoggio e di lavoro per le attività dell’associazione, negli spazi di Alternativa Ambiente di Vascon di Carbonera.

L’edizione limitata del Malanotte 2010 sarà acquistabile da venerdì 18 ottobre fino a fine gennaio al costo simbolico di 50 euro, tramite la pagina web di Ais Veneto. Sarà possibile ritirarla presso la sede di una delle sette delegazioni provinciali.

Per AIS Veneto questo appuntamento è diventato un’importante occasione di dialogo con il territorio regionale – commenta Marco Aldegheri, Presidente di Ais Veneto – che non passa solo attraverso la valorizzazione della migliore tradizione enologica veneta, ma anche attraverso il sostegno a iniziative meritevoli come quella della Fondazione Oltre il Labirinto”.

“Il progetto di Alba Vitae è cresciuto molto in questi nove anni e ogni edizione è stata in grado di innescare una grande gara di solidarietà, che siamo fiduciosi si ripeterà anche in questa occasione”, conclude Aldegheri.

“Alla maggiore età i ragazzi con autismo sono meno tutelati e supportati dai servizi socio-sanitari – evidenzia Mario Paganessi, Direttore della Fondazione – ma con questi laboratori li aiutiamo ad acquisire delle competenze professionali per poter iniziare una vita di autonomia. Oggi facciamo un altro passo in avanti, grazie a questa iniziativa di Ais Veneto”.

LA DOCG MALANOTTE
Il Malanotte, raccontato di recente da WineMag.it (qui il link) è legato all’omonimo borgo medievale situato a Tezze di Piave, non lontano da Conegliano (TV). Si tratta di un vino monovitigno prodotto a partire dai grappoli dell’autoctono raboso Piave, fulcro del lavoro di Bonotto delle Tezze che da anni si impegna nella sua valorizzazione.

Le uve del Malanotte 2010 sono state raccolte manualmente durante una vendemmia tardiva e parte di queste – tra il 15% e il 30% – sono state fatte appassire in fruttaio. Particolarità di questa edizione limitata è l’affinamento del vino per 8 anni tra botti grandi, piccole e acciaio, il doppio rispetto ai tempi minimi previsti dal disciplinare.

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Ecco De Buris 2009, l’Amarone Riserva di Tommasi che danza col Tempo


Gli mancano solo le lancette. Ma si può leggere come un orologio “De Buris 2009, l’ultimo ambizioso progetto d’arte e di vino della famiglia Tommasi. Linguaggi universali che si fondono con il concetto di Tempo, vero lusso dei giorni nostri. Per gli esseri umani, così come per il prodotto della vite. Un elemento vivo. Che nasce. Cresce. E “muore”. Di vita ne ha ancora tanta davanti l’Amarone della Valpolicella Classico Doc Riserva 2009 “De Buris”, presentato durante la cena di gala di mercoledì 16 ottobre, al Mudec di Milano.

Solo 6.739 bottiglie e 248 magnum, frutto del vigneto “La Groletta“, situato nel comune di Sant’Ambrogio di Valpolicella. Duecentocinquanta metri di altitudine e rese molto basse per le uve che, dopo essere maturate, sono tornate ben presto a fare i conti con le lancette, appassendo per centodieci giorni esatti. Un lasso che, nel calice, si tramuta in complessità assoluta.

LA DEGUSTAZIONE (punteggio 95/100)

L’arte si fa largo nel tempo e il tempo si riflette sul vino, sin dal colore dell’Amarone Riserva 2009 “De Buris” di Tommasi. Un nettare di un rosso rubino intenso, con riflessi tendenti al granato. Il vortice delle lancette si tramuta anche in profumo complesso. Intenso e suadente.

A dieci anni dalla vendemmia, dal calice si libera una danza di terziari, che ammanta con saggezza un fiore di viola e di rosa bagnata. Fumo di sigaretta, tabacco, liquirizia. Ma anche rabarbaro ed erbe amare. Tutti lì a divertirsi, su una giostra di piccoli frutti di bosco e ricordi d’agrume. Come l’arancia sanguinella.

Sbuffi speziati tentano di cambiare ritmo alla musicalità dei vortici. Note che tendono sempre a un dolce compostissimo, accompagnato da leggeri rintocchi di cera d’api. In bocca, tanta grazia si tramuta in un’esplosione di freschezza. Il frutto, già percepito al naso in tutta la sua perfetta maturità, rotola su un pavimento bianco, elegante. Di sale.

La frutta si fa confettura, nera e rossa come la mora e la ciliegia. Ma la percezione zuccherina è bilanciata dalla mineralità, che finisce per prevalere e diventa elemento fondante da considerare per il perfetto abbinamento di “De Buris” 2009.

Tutti caratteri che sottolineano la precisa fase di un vino che sta ancora crescendo, ma che è già grande. Un Amarone arrivato in tempo, per iniziare a farsi stringere nell’abbraccio di un calice che gli starà sempre più a pennello. Nel segno – non ultimo – di una facilità di beva eccezionale.

Non sapremo mai se l’aveva immaginato così sin dall’inizio, l’enologo Giancarlo Tommasi, proiettando nel futuro ogni singolo chicco d’uva di Corvina, Corvinone, Rondinella e Oseleta raccolto nel vigneto La Groletta.

IL PROGETTO CULTURALE

Di certo, “De Buris” è il racconto del passaggio generazionale della famiglia Tommasi, suggellato da un’arte che diventa strumento di celebrazione del terroir, inteso come “nudo artistico”. Tanto sono arrivati a rappresentare nelle loro illustrazioni i quattro artisti chiamati in causa dalla storica casa vinicola della Valpolicella.

Andrea Mongia, Giacomo Bagnara, Antonio Sortino e Alice Piaggio hanno rappresentato “il Tempo, il Luogo e il Patrimonio” racchiuso in ognuna delle quattro Stagioni, pensate come diverse occasioni di consumo del vino nei luoghi da cui prende vita “De Buris”.

Antonio Sortino ha raffigurato la Primavera 2009 nel vigneto di De Buris. Lo sviluppo delle gemme è proseguito velocemente nei primi mesi caldi, dando avvio a una fioritura anticipata rispetto alla media.

Ad Alice Poggio l’Estate 2009, stagione contraddistinta dal bel tempo iniziale, dalle precipitazioni di luglio e dal caldo torrido di agosto. Prima della normalizzazione di settembre, il mese della vendemmia.

Andrea Mongia ha raccontato l’Inverno 2009 a Villa De Buris (nella foto sotto), le cui radici affondano nell’epoca romana. E l’inverno, per l’Amarone, significa appassimento: le uve, una volta pigiate, hanno reso il 40% in vino.

A Giacomo Bagnara il compito di raffigurare lo scorrere del tempo, in un’illustrazione che si fa vortice irrefrenabile di forme morbide e dure. Come le sfide che riserva la vita, mentre scorrono inesorabili le lancette.

“L’intera stagione 2009 – commenta Giancarlo Tommasi – resterà scolpita nella memoria della nostra famiglia e del nostro territorio, la Valpolicella. Se ci guardiamo alle spalle, vediamo dieci anni di attenzioni costanti e ossessive, che ci hanno condotto da quella vendemmia al recentissimo avvio della commercializzazione”.

“Dieci anni in cui ci siamo presi, di anno in anno, tutto il tempo per capire le uve e il vino –  conclude l’enologo di famiglia – per fare le scelte giuste e aggiungere alla grandezza dell’Amarone bevibilità ed eleganza”.

Neppure il tempo di cambiarsi la camicia che per “De Buris” 2009 inizia il tour internazionale, o meglio il “De Buris Grand Tour“. Tra le mete prescelte dalla famiglia Tommasi ci sono gli Stati Uniti e il Nord America, dove sono in programma masterclass nelle più importanti città. Le Stagioni più belle, del resto, sono quelle ancora da vivere.

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Modena Champagne Experience 2019: i migliori 20 all’edizione della consacrazione


MODENA –
Sarà ricordata come l’edizione della consacrazione, la 2019 di Modena Champagne Experience. Buona la terza, insomma, per Club Excellence, l’associazione di distributori e importatori diretta da Lorenzo Righi, che il 13 e 14 ottobre ha raccolto a ModenaFiere oltre 4.500 persone.

A fare la differenza, in questo 2019, non è solo l’incremento di visitatori, ma un’organizzazione impeccabile sotto tutti i punti di vista, compresa un’offerta food variegata e di altissimo profilo. Tra le nuove tendenze scovate tra i banchi di assaggio c’è lo Champagne senza solfiti aggiunti, o da viticoltura biodinamica, con diverse etichette convincenti, alcune delle quali risultate tra i migliori assaggi di WineMag.it.

Un trend destinato a crescere nei prossimi decenni. I vigneron della Champagne, attraverso il proprio Comité Interprofessionnel di Epernay, sono impegnati dal 2000 in una politica di sviluppo sostenibile che ha in gran parte ridotto l’impatto ambientale della produzione.

Tra i macro obiettivi da raggiungere, la soglia “Zero erbicidi” entro il 2025 e il 100% delle aziende con una certificazione ambientale entro il 2030. Un quadro evidente anche tra le maison presenti in Emilia Romagna.

I NUMERI
Modena Champagne Experience 2019 segna un +15% di affluenza rispetto al 2018, con un deciso incremento nelle visite degli operatori del settore. Un segnale dell’interesse crescente per lo Champagne, in crescita pressoché costante dopo la crisi del 2008, che segnò un brusco calo nelle importazioni.

In quell’anno – spiega Lorenzo Righi – le vendite di Champagne in Italia, che fino ad allora si attestavano attorno a 10 milioni di bottiglie annue, subirono un crollo a causa della crisi e arrivarono a quota 5 milioni e 400 mila bottiglie. La situazione ha cominciato a migliorare gradualmente nel 2012, fino ad arrivare ai numeri attuali di circa 7,6 milioni di bottiglie“.

L’Italia resta un mercato target importante per le bollicine francesi. Settimo mercato per volume a livello mondiale (escludendo la Francia) e quinto in termini di valore. “Segno – commenta il direttore di Club Excellence – che non solo gli italiani consumano tanto Champagne, ma anche di qualità elevata“.

Siamo molto lieti che la nostra intuizione di tre anni fa abbia avuto modo di concretizzarsi e crescere nel tempo, fino ad arrivare ad una manifestazione che possiamo considerare oggi a tutti gli effetti un punto di riferimento a livello nazionale e una delle prime in Europa per tutto l’universo dello Champagne”.

Saltate le “Maison classiche”, gli assaggi di WineMag.it si sono concentrati sul resto dei padiglioni. Ecco i 20 (+3) migliori assaggi a Modena Champagne Experience 2019, tra 80 delle 125 maison presenti ai banchi di assaggio, per un totale di circa 250 assaggi tra le 500 tipologie di Champagne proposte da Club Excellence.

I MIGLIORI ASSAGGI A MODENA CHAMPAGNE EXPERIENCE 2019

Brut Nature Grand Cru Blanc de Blancs S.A., Bonnaire: 90/100
Uvaggio: 100% Chardonnay
Dosaggio: 2,2 g/l
Mesi sui lieviti: 48
Importatore: Bolis distribuzione

Brut Prestige Grand Cru Blanc de Blancs S.A., Bonnaire: 93/100
Uvaggio: 100% Chardonnay
Dosaggio: 6 g/l
Mesi sui lieviti: 60
Importatore: Bolis distribuzione

Brut 1er Cru 2012 “Oenophile”, Pierre Gimonnet & Fils: 92/100Dosaggio: 2,2 g/l
Uvaggio: 100% Chardonnay
Dosaggio: 0 g/l
Mesi sui lieviti: 72
Importatore: Gruppo Meregalli

Blanc de Noirs 2014, Albert Lebrun: 91/100
Uvaggio: 100% Meunier
Dosaggio: 4 g/l
Mesi sui lieviti: 42
Importatore: PS Premium Wine Selection

Millésime 2012, Encry: 93/100
Uvaggio: 100% Chardonnay
Dosaggio: < 1 g/l
Mesi sui lieviti: 50
Importatore: Proposta Vini

Longitude S.A., Champagne Larmandier-Bernier: 92/100
Uvaggio: 100% Chardonnay
Dosaggio: 3 g/l
Mesi sui lieviti: –
Importatore: Teatro del Vino

Terre de Vertus 2013, Champagne Larmandier-Bernier: 94/100
Uvaggio: 100% Chardonnay
Dosaggio: 0 g/l
Mesi sui lieviti: –
Importatore: Teatro del Vino

Silexus Sézannensis Extra Brut S.A., Champagne J. Vignier: 91/100
Uvaggio: 100% Chardonnay
Dosaggio: 5 g/l
Mesi sui lieviti: 60
Importatore: BP Bere e Passione

Absolu Extra Brut S.A., Paul Goerg: 91/100
Uvaggio: 100% Chardonnay
Dosaggio: Pas Dosé
Mesi sui lieviti: 48-72
Importatore: Ruffino

Esprit Brut Nature S.A., Henry Giraud: 91/100
Uvaggio: 80% Pinot Noir, 20% Chardonnay
Dosaggio: 7-8 g/l
Mesi sui lieviti: 18
Importatore: Ghilardi Selezioni

Blanc de Craie S.A., Henry Giraud: 93/100
Uvaggio: 100% Chardonnay (55% Aÿ, 45% Montagne de Reims)
Dosaggio: 7 g/l
Mesi sui lieviti: 24
Importatore: Ghilardi Selezioni

Cuvée ‘B S.A., Champagne Bourgeois-Diaz: 92/100
Uvaggio: 100% Chardonnay
Dosaggio: < 6 g/l
Mesi sui lieviti: –
Importatore: Les Caves de Pyrene

Extra Brut S.A., Francis Orban: 92/100
Uvaggio: 100% Meunier Noir
Dosaggio: 3 g/l
Mesi sui lieviti: 24
Importatore: Pellegrini

L’Orbane Cuvée Parcellaire Extra Brut 2011, Francis Orban: 95/100
Uvaggio: 100% Meunier Noir
Dosaggio: 3 g/l
Mesi sui lieviti: 72
Importatore: Pellegrini

Rosé Brut S.A., Francis Orban: 90/100
Uvaggio: Meunier Noir
Dosaggio: 8 g/l
Mesi sui lieviti: 24
Importatore: Pellegrini

Cuvée Louis S.A., Champagne Tarlant: 98/100
Uvaggio: 50% Chardonnay, 50% Pinot Noir
Dosaggio: 0 g/l
Mesi sui lieviti: 180
Importatore: Teatro del Vino

Zero Rosé Brut Nature, Champagne Tarlant: 94/100
Uvaggio: 50% Chardonnay, 44% Pinot Noir, 6% Meunier
Dosaggio: 0 g/l
Mesi sui lieviti: 60
Importatore: Teatro del Vino

Brut Nature S.A. (Senza Solfiti aggiunti), Drappier: 95/100
Uvaggio: 100% Pinot Noir
Dosaggio: 0 g/l
Mesi sui lieviti: 36
Importatore: Partesa

Concordance Extra Brut 2014 (Senza Solfiti aggiunti), Champagne Marie-Courtin: 92/100
Uvaggio: 100% Pinot Noir
Dosaggio: 0 g/l
Mesi sui lieviti: 36
Importatore: Soavino – Vigne senza confine

L’Osmose Extra Brut S.A., Pierre Gerbais: 93/100
Uvaggio: 100% Chardonnay
Dosaggio: 3-4 g/l
Mesi sui lieviti: 36
Importatore: Les Caves de Pyrene

Franc de Pied 1er Cru 2012, Champagne Nicolas Maillart: 96/100
Uvaggio: 100% Pinot Noir
Dosaggio: 0 g/l
Mesi sui lieviti: 60
Importatore: Rêverie Sas

Grand Cru Brut S.A., Paul Clouet: 92/100 (etichetta qualità prezzo)
Uvaggio: 80% Pinot Noir, 20% Chardonnay
Dosaggio: 6 g/l
Mesi sui lieviti: 96
Importatore: Visconti 43

Grand Cru Cuvée Prestige Brut S.A., Paul Clouet: 94/100 (etichetta qualità prezzo)
Uvaggio: 90% Pinot Noir, 10% Chardonnay
Dosaggio: 6 g/l
Mesi sui lieviti: 144
Importatore: Visconti 43

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Oche e cavalli in vigna, non son tutte rose e fiori: parola di Roberto “Ironman” Di Filippo


Le oche che passeggiano in vigna e i cavalli usati per trainare l’aratro, al posto dei trattori. Immagini idilliache, degne di paesaggi bucolici pennellati da Vincent Van Gogh, John Constable o William Turner. Eppure, chi pensa che la biodinamica sia il Mulino Bianco della viticoltura, deve ricredersi. Una chiacchierata con Roberto Di Filippo e, puff. Le cose appaiono da un’altra prospettiva. Courbetiana.

Due gravi incidenti – più un terzo finito bene – non hanno scalfito gli ideali di questo temerario vignaiolo umbro, che nella sua Cannara (PG) conduce dal 2009 30 ettari di vigneto certificati biologici, secondo i principi della viticoltura biodinamica. Cornoletame e fasi lunari, dunque. Ma soprattutto oche (circa 400) e nove cavalli, su 4 ettari.

Animali con cui Roberto Di Filippo è entrato ormai in simbiosi. Potesse parlare, lo confermerebbe pure Bebè, il suo “cavallo preferito”. Un amore forte come il titanio. E non si tratta di un eufemismo.

“Sono una specie di RoboCop o Ironman– scherza il vignaiolo di origini salernitane – ho tre viti e un chiodo di titanio di quasi mezzo metro nella gamba. Non suono in aeroporto solo perché è metallo puro! Il dottor Roberto Valieri, che mi ha operato per due volte a Perugia, dice che è orgoglioso di me e di come sono andate le operazioni”.

La cronaca dei due incidenti è per cuori forti. “Non avevo molta esperienza nell’addestramento dei cavalli – racconta Di Filippo – e stavo addestrando Bebè, arrivato da noi da puledro. Era il 18 aprile 2014. Lo stavo guidando a redini lunghe in un filare, tirando un tronco da 200 chilogrammi”.

“All’improvviso si spaventa per una macchina e inizia a correre. Cerco di fermarlo, ma mi rendo ben presto che non riesco a tener testa al suo peso: circa una tonnellata. In un attimo mi trovo a terra, steso. Guardo la gamba e la vedo girata a 45 gradi: tibia e perone fratturati”.

Attorno inizia ad accalcarsi il personale della cantina Di Filippo, oltre ad alcuni passanti. “Istintivamente, ho preso la gamba e me la sono raddrizzata da solo. Le ossa avevano riportato una frattura netta, composta ma non esposta. Tuttora chi ha assistito a questa scena la ricorda con orrore! In realtà ho agito per istinto, per via di tutta l’adrenalina che avevo in corpo”.

Di lì a due mesi, Roberto Di Filippo è di nuovo in piedi, grazie a una placca di titanio nella gamba. “Zoppicavo ancora quando gli amici di Castello di Tassarolo mi hanno convinto a partecipare a una gara con il cavallo, che prevedeva un percorso a gincana, con un tronco lungo 6 metri. Sono riuscito incredibilmente ad arrivare primo”.

Il secondo incidente, però, è dietro l’angolo. “Stavo addestrando Bebè, questa volta su un trailer costruito da me, sempre secondo i principi dell’agricoltura biodinamica. Un’auto fa manovra, Bebè si spaventa e parte: va incontro a delle pietre, a tutta velocità. Rischiavo di essere catapultato fuori dall’attrezzo, quindi sono saltato giù, atterrando proprio sulla gamba già ammaccata. Risultato? Frattura del piatto tibiale“.

All’ospedale lo stesso medico, ma il pensiero di Roberto Di Filippo è un altro: “Adesso come lo dico a mia moglie?”. “La stessa cosa che mi è frullata nella testa di lì a pochi mesi – ammette il vignaiolo di Cannara – quando, nel tentativo di dividere la vecchia cavalla Olga in calore e Diamante, uno stallone, mi sono preso un calcio che mi ha scaraventato a 3 metri. In quel caso, solo tanto dolore”. Matrimonio salvo, un’altra volta.

“Sono ferite di guerra – scherza Di Filippo – che valgono però come monito a chiunque pensa che la viticoltura biodinamica sia tutta rose e fiori. Gli incidenti, d’altro canto, sono avvenuti quando non avevo ancora una grande esperienza nell’addestramento dei cavalli”.

“Oggi come oggi – rassicura il produttore – Bebè è affidabilissimo, come tutti i cavalli che usiamo per condurre i turisti in giro in carrozza. Merito anche di Daniele Cardullo, addestratore di fama nazionale che ci affianca nelle attività in campo”.

Non ci si può improvvisare viticoltori biodinamici – ammonosce Roberto Di Filippo – e va ricordato che la biodinamica non comporta necessariamente l’utilizzo di animali. Ai giovani dico: diventate agricoltori, siate vignaioli autentici, duri e di testa dura. Ma sappiate che è dura. Dobbiamo riumanizzare l’agricoltura e la viticoltura”.

“L’importante – aggiunge il vignaiolo umbro – è recuperare la nostra identità di agricoltori, che ormai abbiamo perso. La biodinamica si è ormai evoluta in biotecnologia: non è detto che tutte le tecniche originarie siano ancora perfette. Il mio è un approccio molto pragmatico, per certi versi olistico e umanistico”.

I VINI DELLA CANTINA DI FILIPPO

Occasione della chiacchierata con Roberto Di Filippo è stata la presentazione della gamma di vini di Cantina Di Filippo, lunedì 14 ottobre al ristorante Tiraboschi 6, a Milano. Perfetti gli abbinamenti con i piatti dello chef Gianluca Panigada.

La schiettezza di Di Filippo appare evidente anche nei calici. Al centro l’assoluta riconoscibilità dei vitigni, grazie all’applicazione di principi vicini al mondo del “vino naturale”, ma senza gli estremismi che accontentano ormai solo una schiera sempre meno nutrita di ultrà vinnaturisti.

Scordiamoci che fare vino naturale significhi lasciare tutto in mano alla natura – sottolinea Roberto Di Filippo – perché piuttosto è vero l’opposto. Chi rinuncia alle pratiche enologiche più comuni deve essere ancor più bravo e più preparato degli enologi.

I vignaioli come me sono passati dall’essere considerati i freak del biologico degli anni 80, ai freak delle oche e dei cavalli dei tempi moderni. Quello che non si dice, è che per la gran parte di noi il progetto in vigna ha una base scientifica forte, reale, documentata da anni di studi e di applicazioni”.

Che il focus sia sulla ricerca della tipicità lo si capisce sin da subito: dal Grechetto frizzante Igt dell’Umbria 2018 (92/100) che si rifà al mondo dei “Col Fondo”. Molto più di una versione umbra del “Prosecco delle origini”.

Malafemmena” – questo il nome di fantasia, in onore di Antonio “Totò” De Curtis – è di fatto uno dei frizzanti più centrati nel panorama enologico italiano, fuori dai confini di un Veneto che ha fatto da apripista.

Si prosegue con due versioni di Grechetto dell’Umbria Igt, una delle quali “Senza solfiti aggiunti” (90/100). A convincere maggiormente è proprio questa etichetta, che appare più diretta e senza fronzoli.

Al frutto esotico risponde la vena “dura” e “cruda” tipica del vitigno: muscolo e chiusura leggermente amarognola, al limite della percezione tannica. Il tutto in un quadro comunque equilibrato, che stimola la beva. Ancora più accentuata la vena fruttata nel Grechetto “convenzionale” (87/100) in vendita anche nei supermercati NaturaSì.

Il viaggio continua nell’universo dei vini rossi di Cantina Di Filippo. Grazie a un lavoro scrupoloso in vigna, Roberto “Ironman” riesce a portare nel calice due etichette di grandissimo valore. Per motivi differenti.

Colpisce la prontezza di beva del Montefalco Sagrantino Docg 2015 “Etnico” (91/100) classico vino in grado di accontentare sia il palato più accorto e “tecnico” sia il palato del semplice amatore. Tannino presente ma disteso e maturità perfetta del frutto, parlano della scelta perfetta nell’epoca di raccolta delle uve.

Fondamentale anche il lavoro in cantina, dove Di Filippo effettua la macerazione di una notte su un terzo della massa, mentre la parte restante viene vinificata in rosso, in maniera classica: l’obiettivo è estrarre esclusivamente colore e primari (frutto e varietale), per poi effettuare l’assemblaggio.

Non poteva mancare una versione più “tradizionale” del noto rosso umbro, offerta dal Montefalco Sagrantino Docg 2015 (94/100) la cui bottiglia è contraddistinta dal medaglione centrale, color argento.

Un vino di eleganza assoluta, che sfodera – come nella migliore delle attese – una complessità maggiore di quella di “Etnico”. È il Sagrantino classico, quello da aspettare per lo meno cinque anni prima che inizi a trovare il suo equilibrio, nella sua crescita verso l’apice della “forma”.

Alle note nette di sottobosco si accosta una vena minerale, che ricorda la pietra focaia. Il tannino è naturalmente ruvido, ma evidenzia tutta la sua natura nobile nel controbilanciare la vena fruttata del sorso. Un altro vino che si fa bere con facilità, se accostato al piatto giusto.

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***DISCLAIMER*** L’articolo è frutto di un pranzo-degustazione organizzato per la stampa dalla cantina e dal relativo ufficio stampa. I commenti espressi sono comunque frutto della completa autonomia di giudizio della nostra testata, nel rispetto assoluto dei nostri lettori

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Malanotte sì: alla scoperta della Docg del Piave, con l’Unno 2010 di Antonio Facchin

Cosa ci fa un Unno a cavallo, sulla “cavalchina” di Borgo Malanotte? A guardar bene, non potrebbe esserci immagine migliore per descrivere il carattere irruento del Raboso Piave, vitigno con cui è possibile produrre – unito al Raboso Veronese – la prima Docg a bacca rossa della provincia di Treviso. Si tratta della Malanotte Docg, nota anche come Piave Malanotte Docg. Quell’Unno, sull’etichetta del vino simbolo della cantina Antonio Facchin, è nientemeno che il re Attila.

Il valoroso e temibile “Flagello di Dio”, secondo la leggenda, attraversò la pianura del Piave passando per Tezze di Piave, frazione del piccolo borgo di Vazzola (TV). È qui che si erge Borgo Malanotte, un vero e proprio museo a cielo aperto che deve il nome alla famiglia trentina di mercanti di lana “Malanotti” o “Malenotti”, che ci visse nel Seicento.

L’epoca d’oro, segnata dalle sfarzose (e discusse) feste notturne orchestrate dall’ultima abitante, Camilla, è finita. Oggi Borgo Malanotte è diventato il cuore geografico dell’omonima Docg, fortemente voluta da un manipolo di vignaioli intenzionati a valorizzare al massimo la straordinarietà del Raboso.

Poche regole ma chiare per la Denominazione di origine controllata e garantita divenuta realtà nel 2010, sotto il “cappello” del Consorzio Vini Venezia. Due vitigni, il Raboso del Piave o il Raboso Veronese; appassimento delle uve in pianta o sui graticci, per un minimo del 15% e un massimo del 30%, in modo da distendere tannini e struttura degna dell’Unno Attila.

Infine, commercializzazione possibile solo a partire da 3 anni dalla vendemmia, dopo 12 mesi di sosta in legno grande o barrique e 4 mesi di bottiglia. Il resto lo fa lo stile del vignaiolo o della cantina produttrice.

“Malanotte del Piave – spiega Stefano Quaggio (nella foto sotto) direttore del Consorzio Vini Venezia – è una delle due Docg tutelate dal Consorzio Vini Venezia, assieme al Lison Docg. Si tratta di un e vero e proprio prodotto di nicchia. Lo scorso anno sono state imbottigliate circa 40 mila bottiglie di Malanotte”.

Il trend è positivo per questa piccola Docg veneta. “Abbiamo notato che di anno in anno cresce l’interesse dei produttori nei confronti di questa tipologia, che per tutte le cantine rappresenta il top di gamma. A dare una spinta decisiva alle vendite è l’estero. Non a caso, il prossimo anno il Consorzio Vini Venezia sarà presente al VinExpo di Hong Kong: il mercato cinese si sta rivelando una piazza importante per i nostri produttori”.

I prezzi del Malanotte del Piave Docg risultano interessanti per i buyer internazionali, soprattutto se si considera la tipologia: si spazia dai 16 ai 30 euro medi a scaffale, per un vino rosso che subisce un affinamento minimo di 3 anni in cantina. L’obiettivo è quello di crescere ancora, in valore.

La superficie vitata è invece ben circoscritta dall’areale della Doc Piave. “La cosa interessante – evidenzia ancora Quaggio – è che ogni anno i produttori cambiano, decidendo se produrlo o meno. Ad oggi non sono mai stati più di venti all’anno. Chi crede nel Raboso del Piave e nella sua massima espressione, generalmente produce Malanotte”.

Rispetto al Raboso Doc, la Docg presenta regole di produzione ben più rigide. Non solo sul fronte della vinificazione e dell’affinamento minimo in cantina, ma anche su quello delle rese. Non si possono superare i 120 quintali per ettaro.

“Non è semplice contenere il Raboso – sottolinea ancora il direttore del Consorzio Vini Venezia – dal momento che è un vitigno molto produttivo. Basti pensare che i grappoli maturi pesano circa 1 chilogrammo ciascuno ed è un attimo riempire una cassetta”.

Vignaioli come Antonio Facchin (Antonio Facchin & Figli), Antonio Bonotto (Bonotto Delle Tezze) e Marino Cecchetto (Ca’ di Rajo), desiderosi di produrre un Raboso del Piave di qualità superiore, hanno avviato in zona la pratica dell’appassimento, divenuta nel 2010 uno dei punti cardine del rigido disciplinare della Docg Malanotte.

L’UNNO 2010 DI ANTONIO FACCHIN: LA DEGUSTAZIONE (95/100 WineMag.it)

Tra le etichette più rappresentative della Docg c’è senza dubbio l’Unno 2010 di Antonio Facchin, degustato da WineMag.it in occasione di Feel Venice 2019. La rassegna enogastronomica, andata in scena a Venezia il 5 ottobre, ha visto protagoniste le cinque Denominazioni del vino “veneziano”.

Doc Venezia, dunque, accanto a Doc Piave, Doc Lison-Pramaggiore, Lison Docg e, appunto, Malanotte del Piave Docg. Tra diversi assaggi di annate più recenti e ancora condizionate dal legno, l’Unno 2010 di Antonio Franchin è quello che garantisce, al momento, il migliore compromesso tra terziari e tipicità del Raboso.

Nel calice, il vino si presenta di un rosso rubino pieno, mediamente trasparente, luminoso. Buona la densità. Naso intenso, in cui l’Unno si esprime su note di lamponi e ribes che fanno da contraltare a una speziatura elegantissima.

Il quadro, complesso, si allarga a note di corteccia, resina e aghi di pino. Ma anche a tracce di macchia mediterranea (rosmarino) e fumo. In bocca, splendido sottofondo salino su cui si dipana una trama di frutta rossa croccante.

Un vino che diventa da mordere in centro bocca, dove l’Unno 2010 si fa succoso e irresistibile nella beva. Chiusura asciutta, di gran pulizia, su un tannino presente ma non disturbante. Capitolo a parte per l’alcol: i 15% vol. risultano incredibilmente integrati, rendendo la bottiglia “pericolosa” come una torta per un bambino goloso.

Quanto alla vinificazione, la raccolta delle uve avviene a mano, tra la fine di ottobre e i primi giorni di novembre, dai filari allevati a Capovolto e Bellussi (nota anche come “Bellussera“, nella foto sopra).

La macerazione sulle bucce avviene secondo i procedimenti più innovativi. Seguono svinatura e diversi travasi. Il 30% delle uve viene sottoposto ad appassimento naturale sui graticci e viene pigiato solo a fine gennaio.

L’affinamento minimo è di 24 mesi in acciaio e di 36 mesi in botte grande, per l’80% Rovere Allier (quercus sessilis) e per il 20% di Slavonia. Prima della commercializzazione, l’Unno affina per 12 mesi in bottiglia.

A TAVOLA CON L’UNNO E IL “PICCANTINO” TOMASONI

Per l’abbinamento dell’Unno 2010 di Antonio Facchin, doveroso ricorrere al territorio, ma con una proposta accattivante. Quella che offre il Caseificio Tomasoni col suo “Piccantino“, al di là del logico pairing con le carni carni rosse e la cacciagione.

Si tratta della “forma” eletta “Miglior formaggio aromatizzato e stagionato” nel 2014, in occasione della prima edizione della selezione casearia “Erbe de Casari“.

Come è facile dedurre dal nome, si tratta di un formaggio semi stagionato da tavola a pasta compatta, impreziosito da pezzetti di peperoncino che donano gusto e regalano un contrasto gradevole col latte vaccino e caprino.

Il Piccantino è perfetto per chi ama sapori decisi e piccanti, in abbinamento al Malanotte Docg di Antonio Facchin anche a fine pasto. Due realtà che camminano a braccetto nell’area del Piave, per attaccamento al territorio.

Il caseificio artigianale Tomasoni, infatti, ha una storia lunga oltre 60 anni nella produzione di formaggi freschi, stracchini, ricotte e robiole con latte vaccino, di capra e bufala. Fondato da Primo Tomasoni nel 1955, oggi l’azienda è diretta dai figli, Moreno, Nicoletta e Paola, nonché dalla nipote Eva.

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Appius 2015: la sesta “firma” di Hans Terzer sul gioiello di Cantina San Michele Appiano


MILANO –
Pablo Picasso diceva che “l’arte spazza la nostra anima dalla polvere della quotidianità”. Citazione più che mai azzeccata per Appius 2015, sesta annata di uno dei vini simbolo di Cantina San Michele Appiano, che porta la firma del winemaker Hans Terzer. La quotidianità “spezzata” è innanzitutto quella altoatesina. Dopo aver presentato sin dagli esordi le nuove annate del suo gioiello nell’altrettanto sua Appiano (BZ), Cantina St. Michael-Eppan ha scelto in questo 2019 Milano.

Una decisione – quella concretizzatasi ieri sera a Palazzo Bovara – dettata dai lavori in corso per l’ammodernamento del sito produttivo da 2,5 milioni di bottiglie complessive annue, rese possibili da una rete di 330 soci viticoltori, che lavorano “come preziose formichine” – parola di Hans Terzer – ben 385 ettari di vigneto.

Secondo elemento di discontinuità? La scelta dell’accompagnamento culinario, affidato sino allo scorso anno allo chef stellato Herbert Hintner, “vicino di casa” di Cantina San Michele Appiano.

Giocando in trasferta, il presidente Anton Zublasing ha pescato dal cestello l’opzione esotica (l’unica in grado di non scontentare nessuno degli chef tradizionalmente ‘resident’ di Milano): quella di Wicky Priyan del Wicky’s, che ha letteralmente deliziato gli ospiti di Palazzo Bovara con i profumi e i sapori della sua deliziosa Innovative Japanese Cuisine.

Del resto, se di vino si parla, l’opera d’arte deve concretizzarsi nel calice. Non prima, però, di aver affascinato alla vista, ancora chiusa. La bottiglia di Appius 2015 si presenta di fatto con un elegantissimo mantello nero, con scritte e “spolverate” d’oro.

“Non tentate di fotografarla perché è impossibile”, scherza Hans Terzer dopo aver svelato la bottiglia, nascosta per tutta la sera sotto un telo scuro. Riflessi che hanno del metafisico, nel loro prendersi gioco dell’obiettivo delle fotocamere, prima di trovare la giusta inquadratura e angolatura.

Tempo che scorre mentre ci si rende che sì, la bottiglia è bella. Ma ciò che conta è fotografarne (e apprezzarne, poi) l’anima: il contenuto. Roba comunque per pochi “eletti”: solo 6 mila bottiglie, più “qualche grande formato”. Né tante né poche, per un’opera d’arte in “limited edition“.

LA DEGUSTAZIONE

E allora eccolo Appius 2015 finalmente nel calice, a concretizzare le aspettative di un Terzer “sempre più convinto che la via maestra sia quella di una cuvée di vini bianchi concentrata sullo Chardonnay, cui altre varietà bianche fanno da completamento”.

Dunque Chardonnay (55%), Pinot Grigio (20%), Pinot Bianco (15%) e Sauvignon (10%). L’anima nera della bottiglia si fa dorata e densa, d’un giallo paglierino luminoso, con riflessi verdolini lievissimi.

Intenso il naso, quasi esplosivo: racconta più che altro di un Sauvignon di immensa finezza, dalle note erbacee tenere come pochi riescono a coglierle, persino in Alto Adige. Gli fa da spalla il Pinot Bianco, coi suoi preziosi tintinnii agrumati.

A sentori più che altro “duri”, non possono che rispondere – per il principio dell’equilibrio – Pinot Grigio e Chardonnay, con la dosata grassezza che disegna la cifra stilistica di Terzer. Al palato una perfetta corrispondenza. È tutto un rincorrersi di note tropicali d’ananas, banana e mango, ma anche di albicocca e pesca.

Il sorso è al contempo morbido e verticale, vista la freschezza balsamica della mentuccia e della resina di pino, che giocano con la frutta e il sale. Il tutto prima di un finale lungo e asciutto, su ritorni intensi d’agrume e soluzione iodica. Punteggio: 96/100.

IL PROGETTO

La vinificazione di Appius 2015 avviene in botti di legno, così come la prima parte dell’affinamento, svolta in barrique e tonneaux per circa un anno. Segue poi un ulteriore affinamento di tre anni sui lieviti, in tini d’acciaio inox.

Il nome di fantasia “Appius” deriva dalla radice storica e romana di “Appiano”. Prima annata sei anni fa, con la vendemmia 2010, seguita da 2011, 2012, 2013 e 2014. Una cuvée che, anno dopo anno, vuol essere capace di rappresentare fedelmente il millesimo ed esprimere la creatività e la sensibilità del suo autore, Hans Terzer.

Anche il design della bottiglia e la sua etichetta sono reinterpretati di vendemmia in vendemmia. Lo scopo è di concepire una “wine collection” in grado di entusiasmare gli appassionati di vino di tutto il mondo.

Quest’anno la raffigurazione creativa di Appius, ideata e realizzata dai “Brand Performers” di Life Circus di Bolzano, esprime “un concetto d’insieme e il legame tra Natura e Persone, la coesione tra il Terroir, i viticoltori e la Cantina di San Michele Appiano”.

“Una primordiale nube di particelle – spiega un rappresentante dell’azienda – che racchiude l’incessante movimento e l’addensarsi di elementi come terra, acqua, luce, stagioni, e rappresenta la visione appassionata di ricerca verso l’eccellenza”.

Ma soprattutto, l’etichetta di Appius 2015 “permette una libera interpretazione, affinché ogni wine lovers possa averne un’intima ispirazione”. Prima di stappare la bottiglia, s’intende. Cin, cin.

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Vigna Solenga 2015, il Buttafuoco storico che illumina la strada all’Oltrepò pavese


“Tanta fatica, tanta passione, tanta volontà. E i risultati, anche se arrivano, sono minimi rispetto allo sforzo necessario per raggiungerli”. Che il Buttafuoco storico “Vigna Solenga” fosse molto più di un semplice vino per la famiglia Fiamberti, era chiaro a tutti. Mai, però, qualcuno era riuscito a sintetizzare così bene il concetto come ha fatto ieri Ambrogio Fiamberti, al Chic’n Quick dello chef Claudio Sadler.

La vendemmia 2015 del rosso simbolo di una delle cantine storiche dell’Oltrepò pavese ha sfilato a due passi dal Naviglio, come un guerriero tornato vincitore in patria col suo esercito, dopo la battaglia. Con l’armatura tirata a lucido e lo sguardo fiero all’orizzonte.

Già, perché è questo l’effetto che fanno i migliori vini di uno dei territori più massacrati d’Italia dalle (il)logiche dei commercianti d’uva, quando superano i confini pavesi per approdare con successo a Milano (città in cui dovrebbero essere presenti per principio costituzionale, nelle carte di tutti i ristoranti che si definiscano tali).

Uno squillo di tromba prodotto in sole 2 mila bottiglie, dunque una vera e propria chicca enologica. Del resto, il Buttafuoco Storico “Vigna Solenga” 2015 è quello che fa dire “buona la seconda” a Giulio Fiamberti, orgoglioso figlio di Ambrogio.

Il cru fu acquistato dai miei antenati nel 1814 e fu ‘ritoccato’ solo negli anni Venti del Novecento. Dopo il necessario reimpianto avvenuto nel 2007, abbiamo dovuto attendere 7 anni prima di poter produrre di nuovo il nostro Buttafuoco Storico, sulla base delle regole del Consorzio fondato nel 1996″.

Peccato che “7 anni”, a partire dal 2007, voglia dire 2014. “Un’annata particolarmente sfortunata in Oltrepò – ricorda Giulio Fiamberti – come in altri territori d’Italia. Eccoci dunque a presentare con grande soddisfazione questa 2015, prima vendemmia della Vigna Solenga dopo il reimpianto“.

UN VINO BANDIERA

Un vino che indica la strada a tutto l’Oltrepò pavese: quella della zonazione e dei “cru“, come leva per puntare alla qualità assoluta, da raccontare ai mercati, dalla vigna fin dentro (e fuori) dal calice.

“Sono assolutamente convinto che l’Oltrepò, così come qualunque altra grande zona di produzione di vini, non sia tutta uguale – commenta Fiamberti -. Ciò non vuol dire che una zona sia migliore dell’altra, ma che ci siano delle specificità da valorizzare in ognuna, prima di tutto a livello ampelografico”.

Un territorio come il nostro – aggiunge il produttore oltrepadano – con differenze impressionanti di altitudini, di microclimi, di terreni e di esposizioni, non può fare a meno della zonazione. Altri territori hanno, per fortuna o sfortuna, una maggiore omogeneità. Da noi, la zonazione diventa non soltanto una strada da seguire: è assolutamente necessaria“.

Un passaggio non ancora affrontato in maniera seria, a livello consortile. “Conforta, per ora – chiosa Fiamberti – che molte aziende simbolo dell’Oltrepò abbiano avviato questo percorso autonomamente, all’interno dei vigneti di proprietà. Chiunque alzi l’asticella nel nostro territorio, per noi è solo un amico e un compagno di viaggio“.

E “l’asticella” oltrepadana si alza anche in enoteca e nella ristorazione, grazie al Buttafuoco Storico “Vigna Solenga” 2015. L’etichetta di Fiamberti sarà in vendita attorno ai 35 euro nelle migliori “botteghe” del vino.

Al ristorante, sarà invece in carta attorno ai 45 euro: il posizionamento che merita un Oltrepò che ha bisogno di sdoganarsi dalle logiche della Grande distribuzione organizzata, puntando a mercati degni del proprio valore.

Del resto, come sottolinea Giulio Fiamberti, “nel ‘Vigna Solenga’ c’è tutta la storia della nostra famiglia e anche il suo futuro, dal momento che per noi il Buttafuoco è la cifra dell’azienda e vogliamo che lo sia sempre di più”.

“Siamo convinti che i cru siano una chiave di successo per tutti i territori che producono grandi vini rossi, tra cui va annoverato l’Oltrepò pavese del Buttafuoco Storico”. Il calice, del resto, conferma questa tesi.

LA DEGUSTAZIONE

[Voto WineMag.it: 94/100 – Rapporto qualità prezzo: 5/5] Parola d’ordine “finezza” per sintetizzare quello che c’è da aspettarsi dal calice di “Vigna Solenga” 2015, uvaggio di Croatina (50%), Barbera (40%), Uva Rara (5%) e Ughetta di Canneto (5%).

A garantirla sono i conglomerati di Rocca Ticozzi presenti nel terreno: ghiaie di origine marina che offrono preziosi sali minerali alle radici della pianta, permettendo un eccellente drenaggio delle acque.

La Valle Solinga, strettissima, accentua poi le escursioni termiche tra vetta e fondo valle, utili a trovare il giusto punto di equilibrio tra i vari gradi di maturazione delle uve, che crescono tra i 200 e i 280 metri sul livello del mare.

La freschezza e la sapidità garantite dalle condizioni microclimatiche, si traducono nel calice in una estrema raffinatezza ed eleganza, capaci di garantire al Buttafuoco Storico 2015 “Vigna Solenga” una beva davvero instancabile. Merito di una sapiente estrazione durante la lunga macerazione e di un utilizzo di legni non invasivi.

Evidenti anche le garanzie di positivo affinamento negli anni a venire, quando l’ulteriore periodo “in vetro” amalgamerà tra loro le varie componenti. A beneficiarne sarà soprattutto la parte olfattiva, al momento ancora leggermente “slegata”. Il guerriero ha solo il raffreddore. Roba da niente. Domani sarà già passato.

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degustati da noi vini#02

Il Pinot Nero dell’Ahr in 12 etichette: il volto “rosso” della Germania “bianchista”


Si estende per 25 chilometri, lungo l’omonimo fiume. Ma per capire qual è la fortuna dell’Ahr non occorre osservare l’orizzonte. Meglio stare col naso all’insù. Osservando le ripide rive che affascinarono i Romani, cui si devono le prime tracce di viticoltura eroica. Oggi, l’Ahr si è affermata come una delle zone più vocate per la produzione del Pinot Nero (Spätburgunder) a livello internazionale. Assieme a Baden, nel Rheingau, costituisce la risposta “a bacca rossa” al “bianco” Riesling, vino e vitigno bandiera di una Germania più che mai “bianchista”, almeno nell’immaginario comune.

Siamo al confine nord del Palatinato (Rhineland-Palatinate) a una quarantina di chilometri a sud dalla città di Bonn. Il confine col Belgio è a un’ora di viaggio, imboccando la Liebfrauenstraße in direzione ovest. Con i suoi 560 ettari vitati, 480 dei quali allevati con uve rosse, l’Ahr – dal celtico “aha”, “acqua” (del fiume) – risulta la decima regione viticola tedesca.

Le 1.800 ore di sole e i 560 millimetri di piogge annue, garantiscono al Pinot Nero una perfetta maturazione e avvicinano l’Ahr alle caratteristiche microclimatiche di paradisi vitivinicoli ben più noti come Appiano, in Alto Adige, o l’Alsazia.

Un’area che, paradossalmente, ha goduto dei cambiamenti climatici, responsabili dell’innalzamento della temperatura media. Quello che invece non è cambiato è il vero valore aggiunto dell’Ahr: il terreno.

Le viti affondano le radici in un substrato di rocce sedimentarie come grovacca e ardesia, arenarie grigiastre che assicurano una buona permeabilità del suolo, evitando pericolosi ristagni. Non mancano loess e conglomerati di origine vulcanica.

La Vdp Ahr è una vera e propria nicchia nel panorama internazionale del Pinot Nero. Si conferma tale anche nel quadro tedesco, assestandosi sul 3% della produzione complessiva a denominazione. L’indice di conversione economica è invece di tutto rispetto, nonostante siano meno di un quinto le aziende vocate alla qualità assoluta.

Le circa 200 mila bottiglie prodotte fruttano di fatto 1,6 milioni annui. Rigidissimi i disciplinari, specie se si tratta dell’apice della piramide qualitativa. Solo 6 le aziende autorizzate alla produzione dei Grand Cru.

Risicatissime le rese per questa tipologia. Si parla infatti di 56 quintali per ettaro. Facile dunque capire perché i Pinot Noir della valle dell’Ahr siano così rari da trovare in Italia.

In occasione delle Giornate del Pinot Nero 2019, organizzate a Egna e Montagna (BZ), Dennis Appel (nella foto, a destra), direttore commerciale & Marketing di Weingut Meyer-Näckel ha presentato la Verband Deutscher Prädikats und Qualitätsweingüter (Vdp) Ahr attraverso il racconto di dodici etichette.

Hanno aderito al tasting promosso dall’Associazione Giornate del Pinot Nero, presieduta da Ines Giovanett (nella foto), sei produttori tedeschi: Weingut J.J. Adeneuer, Weingut Deutzerhof Cossmann-Hehle, Weingut H.J. Kreuzberg, Weingut Meyer- Näckel, Weingut Nelles e Jean Stodden – Das Rotweingut.

LA DEGUSTAZIONE: IL PINOT NERO DELL’AHR IN 12 ETICHETTE


Eck Spätburgunder GG 2016, Weingut Deutzerhof Cossmann-Hehle: 89/100
L’etichetta è frutto di un singolo cru (“GG” sta infatti per “Grosses Gewächs”, i “Grand Cru” del vino tedesco). D’estate, nel vigneto si raggiungono fino a 50 gradi centigradi.

Si tratta Pinot Nero, ma dello storico clone “Kaastenholz”, connotato da una bacca ancora più piccola e compatta, con rese di 25 ettolitri per ettaro. Colore rubino luminoso, trasparenza tipica del vitigno. Un Pinot Noir che, al naso, evidenzia oltre al frutto una spezia netta, scura.

Legno piuttosto integrato. In bocca buona presenza, pienezza e una straordinaria vena sapida che controbilancia, con la sua “durezza”, le percezioni terziarie conferite dall’affinamento in barrique. Vino giovane.

Monchberg Spätburgunder GG 2016,Weingut Deutzerhof Cossmann-Hehle: 88/100
Le uve di Pinot Nero provengono in questo caso dal Grand Cru a forma di anfiteatro che si trova di fronte alla sede aziendale, a Mayschoß. Piccole quantità di argilla e loess nel terrreno, oltre all’ardesia e allo scisto.

Lieviti non selezionati per questa etichetta, che matura ancora una volta in barrique di rovere. Il colore è più carico del precedente. Naso e bocca si confermano quelle di un Pinot Noir dal taglio più internazionale e “grasso”.

In bocca, però, la nota verde e la chiusura su ricordi di buccia di lime disegnano un rosso dalle tinte vagamente “tropicali”. Centro bocca succoso e sapidità attenuata dalla perfetta maturità del frutto. Gran facilità di beva.

JS Spätburgunder GG Gutswein 2017, Jean Stodden – Das Rotweingut: 89/100
Impronta netta di frutti di bosco e fiori, come la violetta. Al naso anche una nota “verde”, riconducibile al mallo di nocciola. Sottobosco sia per la componente fruttata che per quella terrosa, che ricorda funghi porcini e muschio.

L’affinamento in barrique chiama sbuffi di fondo di caffè e caramellina mou. In bocca gran raffinatezza ed eleganza per questo Pinot Noir che rivela un’ottima struttura. Trama tannica chiaramente arrotondata dal legno.

Dernauer Hardtberg Spätburgunder GG 2016, Weingut Stodden – Das Rotweingut: 87/100
Diciotto mesi in barrique nuove: legno piuttosto invadente, sia al naso che al palato. Vino certamente gastronomico, dal contributo alcolico piuttosto marcato. Le note speziate conferiscono freschezza a un sorso di prospettiva. Un Pinot Noir dell’Ahr da aspettare.

Ahr Spätburgunder Devonschiefer R 2016, Weingut H.J. Kreuzberg: 89/100
Ancora una volta barrique nuove, al 100%. Naso in linea con i precedenti assaggi: frutto di bosco e fondo di caffè, questa volta corroborati da un bouquet di erbe aromatiche, con il rosmarino in evidenza. Bella eleganza al palato.

Vino di un’essenzialità piena, che va ben oltre la mera percezione scheletrica del terroir. Colpisce per la gran precisione del frutto, a dispetto di un naso ampio e un po’ troppo condizionato dal legno, al momento. Nel retro olfattivo, ancora una volta è il sale a controbilanciare i terziari “grassi” della barrique.

Ahr Silberberg Spätburgunder GG 2015, Weingut H.J. Kreuzberg: 88/100
Secondo vino della linea “Collezione Vdp” della cantina di Dernau. Frutto rosso più pieno e maturo del precedente. L’effetto è quello di un vino più “caldo”, se non altro per la percezione alcolica.

In bocca ancora una volta è la percezione glicerica a dominare la scena. Anche il frutto è maturo. La spezia risulta corroborante, nel gioco con una leggera percezione salina e amaricante.

Ahr Spätburgunder Blauschiefer Vdp 2016, Weingut Meyer Näkel: 89/100
Legno usato e si sente, nel senso che il legno “non” si sente come in altri campioni in degustazione, esaltando appieno il frutto del Pinot Nero e il terroir dell’Ahr. Al naso anche una macchia mediterranea netta, con richiami di rosmarino ed erme aromatiche come la salvia.

Siamo di fronte a un vino più che mai essenziale, dritto, verticale, che si allarga in centro bocca e si accende di spezia in chiusura, con richiami di liquirizia e leggero fumé. Gran eleganza, in definitiva, con tannini fitti ma delicati e un leitmotiv minerale, suggerito dal terreno ricco d’ardesia. Un Pinot Noir sussurrato all’orecchio, con grande garbo.

Ahr Silberberg Spätburgunder GG 2016, Weingut Meyer Näkel: 88/100
Sedici mesi di affinamento in barrique, di cui il 70% nuove. Fermentazione in tini aperti per un massimo di 16 giorni. Legno un po’ invadente al naso: ne risente il frutto, ancor più conoscendo l’abilità della cantina ad un’estrazione croccante dei primari, toccata con mano nel precedente campione in degustazione.

Anche al palato, medesima situazione. Vino certamente gastronomico, con contributo alcolico piuttosto marcato che chiama necessariamente il piatto. Non mancano acidità e freschezza, che fanno ben sperare per un positivo equilibrio futuro tra le varie componenti.

Ahr Spätburgunder Gutswein 2016 “J.J. Adeneuer N° 1”, Weingut J.J. Adeneuer: 87/100
Legno nuovo al 60%, come sempre barrique. Frutto di bosco maturo, cui fa eco un ricordo di miele. In bocca sorprendente freschezza e croccantezza del frutto. Un palato pieno, con tannini eleganti e in fase di integrazione.

Ahr Gärkammer Spätburgunder GG 2016, Weingut J.J. Adeneuer: 89/100
Rubino più carico dei precedenti, alla vista. Naso che va ben oltre al frutto, con richiami di radice di liquirizia. In bocca il legno si sente, ma non impedisce al frutto e alla macchia mediterranea di esprimersi, specie in un finale che si rivela assieme speziato e salato.

Ahr Pinot Noir 2016, Weingut Nelles: 89/100
Parte bassa valle Ahr. Unica azienda che ha tra i suoi vigneti un terreno vulcanico. Il Pinot Nero è village, con uve selezionate solo da quel Comune. Affinato solo in botte grande e acciaio. Frutto e origano netto al naso. Salvia.

Al palato tra i vini più sapidi dei due flight in degustazione tra i Pinot Noir dell’Ahr. Chiusura su pietra focaia e ritorni di sale netti, oltre a origano. Buona eleganza, gran gastronomicità. Chiama (anche) piatti di pesce.

Ahr Spätburgunder GG Heimersheimer Burggarten 2016, Weingut Nelles: 90/100
Gran parte della massa matura in barrique nuove, per 15 mesi. Tra i nasi più suadenti, rotondi e al contempo intriganti della batteria, per la capacità del frutto di slanciarsi fra i terziari.

Il legno si sente ma non disturba, anzi rende più complesso il quadro con le sue note tostate, sia al naso che in bocca. Palato fresco e salino, con ritorni di frutta croccante. Chiusura leggermente speziata, ottima persistenza.

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Ahr, la nuova frontiera del Pinot Nero

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degustati da noi vini#02

Franciacorta Docg Riserva 2011 non dosato “Bagnadore”, Barone Pizzini


Chi lo ha detto che arrivare “dopo” è peggio? Dopo oltre 70 mesi di affinamento in bottiglia, il Franciacorta Docg Riserva 2011 non dosatoBagnadore” è stato presentato in anteprima al Ristorante Viva della chef stellata Viviana Varese. Un’etichetta che Barone Pizzini ha saputo sapientemente attendere, immettendo sul mercato prima la vendemmia 2012.

Dire che ne è valsa la pena è poco. Bagnadore 2011 è un Franciacorta di grande schiettezza al palato. Teso, equilibrato. Capace di assicurare una lunghissima longevità. “Per noi un’annata strepitosa – commenta Silvano Brescianini, general manager di Barone Pizzini – che potremmo quasi dire fortunata. Ci aspettiamo grandi cose anche dall’annata 2016, alla quale per certi versi assomiglia la 2011″.

“Le favorevoli condizioni climatiche – continua Brescinini – hanno permesso l’ottenimento di basi spumante di eccellente qualità, tanto che viene concessa la riserva vendemmiale. Le condizioni si sono rivelate ottimali anche per la composizione acidica e la concentrazione del prodotto”.

Un successo, quello di Bagnadore 2011, legato secondo il manager di Barone Pizzini anche “ad una maturità aziendale che ci ha permesso di raggiungere degli ottimi risultati”. Risale allo stesso anno, inoltre, l’avvio della collaborazione con il professor Leonardo Valenti dell’Università di Milano (a sinistra nelle foto), in qualità di agronomo ed enologo.

Numerosi i riconoscimenti ottenuti da Bagnadore 2011 sulle guide Guide enologiche del 2020: 3 Bicchieri dal Gambero Rosso, 4 viti dell’Ais 5 Grappoli da Bibenda, tra i Migliori Spumanti da L’Espresso 2020, Vino Slow da Slow Wine, Corona da Vini Buoni d’Italia di Touring Club.

Un Franciacorta che va ben oltre il calice e l’etichetta. “Bagnadore – spiega Piermatteo Ghitti, amministratore delegato della Barone Pizzini – rappresenta e interpreta nel migliore dei modi la nostra filosofa aziendale. Siamo stati infatti i primi a produrre Franciacorta da viticoltura biologica certificata. Ma è anche un vino a cui sono particolarmente affezionato”.

“Questa Riserva – spiega Ghitti – nasce infatti per volontà di mio padre Pierjacomo, tra i fondatori della Barone Pizzini, con lo scopo di celebrare la nostra famiglia: siamo infatti detti i ‘Bagnadore’, dal nome del torrente che scorre accanto alla nostra dimora quattrocentesca di Marone, sul lago d’Iseo”.

LA VINIFICAZIONE
Ventimila le bottiglie prodotte per l’annata 2011, frutto di rigore e tanta pazienza, oltre che di una selezione accurata delle uve. La tecnica di vinificazione prevede un leggero passaggio in legno, ma soprattutto un prolungato affinamento e nessun dosaggio.

Bagnadore 2011 nasce dal sapiente matrimonio delle migliori uve Chardonnay (60%) e Pinot Nero (40%), provenienti da un unico vigneto: il Roccolo. Piante di oltre vent’anni, che godono dei benefici di una posizione spettacolare.

Si trovano infatti nei pressi di un bosco che mitiga il calore, garantisce un’ottima escursione termica e favorisce la biodiversità. Le uve vengono vendemmiate separatamente, pressate e affidate per 8 mesi alle barrique e altrettanti mesi in vasche inox, dove maturano prima di essere assemblate.

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