Il vino oggi sotto la nostra lente di ingrandimento è il frutto dell’amore nato tra Claudia e Pablo in quel di Montalcino, sul finire degli anni 80.
Un rapporto nato tra colleghi, dipendenti di un’azienda del posto, che si è trasformato in un percorso di vita comune. Suggellato da tre figlie, dall’acquisto del podere Pascena e dalla costruzione della loro cantina, nel 2002.
Da allora hanno cominciato la loro produzione di vini di gran pregio, dalla personalità sorprendente, ma fortemente legata alla tradizione.
LA DEGUSTAZIONE
10.149 bottiglie prodotte per questo ottimo Sangiovese in purezza, che al calice esprime un bellissimo rosso rubino con un leggero riflesso violaceo.
Al naso è intenso e complesso con i caratteristici sentori di viola ed amarena cui segue un leggero richiamo morbido di camomilla e, sul finale, un richiamo più energico di chiodi di garofano.
In bocca esprime la sua personalità: in un perfetto matrimonio tra morbidezze e durezze, la sapidità leggera si accompagna ad un tannino moderato e vellutato. La sensazione pseudocalorica è appagante assieme alla rotondità del vino.
La persistenza al palato richiama dolci ricordi di sottobosco regalando lunghi secondi di piacere prima di riappoggiare le labbra al calice per il sorso successivo. Se si accompagna il tutto con un bel tagliere di formaggi o un maialino arrosto, il quadro si completa.
LA VINIFICAZIONE
Prodotto con uve Sangiovese provenienti dal vigneto Pascena sito ad un altitudine di 250 metri sul livello del mare su terreno collinare ricco di argilla a bassa fertilità. La vinificazione avviene in acciaio con fermentazione delle bucce per 9 giorni a temperatura controllata inferiore ai 28°, per poi procedere all’invecchiamento di 12 mesi in botte, acciaio inox e barrique usate.
L’Azienda Agricola Claudia Ferrero si trova nel Podere Pascena, tra Sant’Angelo in Colle e Sant’Angelo in Scalo. Dispone di 5,5 ha di vigneto, di cui 3 a Montalcino metà iscritti a Brunello e metà a Rosso di Montalcino e 2,5 a Montenero d’Orcia, a pochi km da Montalcino ma già nella Maremma Toscana nei quali si coltivano Alicante, Montepulciano, Merlot, Cabernet e Sangiovese.
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Senza mezzi termini, uno dei migliori vini bianchi italiani qualità prezzo (attorno ai 10 euro) presenti sul mercato Horeca. E’ il Biferno Bianco Doc 2015 Kantharos di Angelo D’Uva. Una delle innumerevoli prove che il Molise “esiste”. E che il Molise “del vino”, esiste eccome.
LA DEGUSTAZIONE
Nel calice, questo blend di Trebbiano e Malvasia si presenta, a due anni dall’imbottigliamento, di un giallo dorato, simile a quello della camomilla. Al naso è particolarmente intenso e complesso. Dapprima emergono note esotiche e di frutta matura, albicocca sciroppata, ananas, melone giallo.
Sorprendono i richiami a frutta a polpa rossa come l’amarena e il lampone stramaturo, di quello che si spappola appena lo prendi in mano. Il sottofondo, olfattivo e musicale, è quello di un sottile miele millefiori, corroborato da una preziosa vena campagnola, conferita dalla foglia di pomodoro rinsecchita.
L’ingresso in bocca è corrispondente al palato, più morbida che dura. Poi l’acidità accende il sorso, d’un tratto. Caldo per l’alcolicità, il Biferno Bianco Kantharos Angelo D’Uva trova un perfetto equilibrio al palato, grazie al calibro di un’acidità che sembra dosata col misurino.
Retro olfattivo sullo stesso fil rouge, citrico, tutto giocato su note di lime e pompelmo. Una chiusura austera rispetto alla “grassezza” e all’opulenza del primo bacio col nettare. Un vino, questo Kantharos di D’Uva, che alla cieca potrebbe essere scambiato per un Gewurztraminer di ottima fattura. Filo conduttore, l’aromaticità che accomuna Traminer e Malvasia.
In cucina, questo ottimo vino del Molise, perfettamente maturato in bottiglia – anche se non si tratta, formalmente, di un pensato per lunghi affinamenti – si presta bene all’accompagnamento di piatti della cucina asiatica, speziati, o di carni leggere.
LA VINIFICAZIONE
Sono Trebbiano (90%) e Malvasia (10%) a comporre il delizioso blend molisano Kantharos. Milleseicento ceppi per ettaro la densità d’impianto delle viti, che affondano le radici in un suolo argilloso e calcareo. La vinificazione prevede diraspatura e pressatura soffice delle uve.
Segue la chiarifica con flottazione. La fermentazione avviene invece alla temperatura controllata di 15 gradi. Il Biferno Doc Bianco Kantharos affina poi in acciaio per 4 mesi e riposa in bottiglia diverse decine di giorni prima di essere commercializzato.
Angelo D’Uva è uno di quelli che si fa chiamare ancora “vignaiuolo”. Con quel “iu” che sottolinea, forse, ancora meglio il concetto. La sua terra è Larino, in Molise: regione che ha tanto da dare all’enologia italiana. La storia della cantina “è una storia di famiglia”.
Fu il nonno Angelo a piantare i primi vigneti, negli anni Quaranta. Il figlio Sebastiano, negli anni 60-70 contribuisce alla crescita della cantina. Ad Angelo, l’attuale titolare, si deve la definitiva consacrazione. Un percorso iniziato nel 2001, anno in cui dà avvio alla trasformazione diretta delle proprie uve e alla produzione di vini Doc e Igt.
“Coniugare l’esperienza contadina e le moderne conoscenze e tecnologie enologiche” è il credo di Angelo D’Uva, condiviso dal suo giovane enologo Donato Di Tommaso. Per entrambi “un buon vino inizia da un frutto sano e la vinificazione deve essere semplice ed essenziale. Perché il vino sia una sincera e schietta espressione della sua terra”.
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MILANO– Nel 2017 si può essere “Valpolicella” senza cadere nella trappola dei residui zuccherini e della piacioneria. Come? Contrapponendo al “Marmellata style” il “Chianti Style”. Chiedere per credere a Luciano Begnoni di Santa Sofia Wines.
Cantina che, dalla frazione Pedemonte di Valpolicella di San Pietro in Cariano (VR) esporta fuori dall’Italia l’86% della produzione totale, pari a 600 mila bottiglie.
Nord Europa, Usa e Canada sono mercati “maturi” per questa storica realtà veneta a conduzione famigliare. Sulla scia di brand come il “Chianti”, Begnoni & Company propongono a un portafoglio di 120 importatori – erano solo 4 fino a metà degli anni Novanta – dei vini di una Valpolicella raccontata col garbo e l’eleganza che distingue i vini toscani. Senza perdere d’occhio, anzi valorizzando, la tipicità della Valpolicella.
Nei vini di Santa Sofia, dunque, si trova innanzitutto il frutto. La spezia tipica della Corvina. Il colore, tutt’altro che impenetrabile e cupo, degli Amarone in giacca e cravatta. L’apoteosi, l’emblema, il simbolo fulgido di questa filosofia è l’Amarone “Gioè”, vendemmia 1997.
Un vino tanto aristocratico quando democratico. Ancora lì, ad esibirsi dopo 20 anni, come un ventenne, sul palco della degustazione organizzata nel pomeriggio al ristorante Non solo lesso di Milano. Un viaggio che sorprende dal primo all’ultimo assaggio, per la precisa scelta stilistica della cantina veronese, che trova perfetto riscontro in ogni calice.
Del resto, Luciano Begnoni e il giovane enologo Matteo Tommasi – classe 1991 entrato in organico in occasione dell’ultima vendemmia – raccontano bene il il fil rouge che accomuna i vini Santa Sofia. “Eleganza e bevibilità di prodotti pensati per poter essere stappati e consumati per intero, a tavola, da due persone. Senza lasciarne un goccio”. Confermiamo.
LA DEGUSTAZIONE Valpolicella Doc Classico 2016. Chiudete gli occhi e immaginate di non sapere cosa ci sia nel calice. La delicatezza delle note fruttate e la loro eleganza porterà dappertutto, tranne che ai confini della Valpolicella. Almeno di quella che siamo abituati a riscontrare, nel 90% dei casi.
Già, perché questo “Classico” veronese di Santa Sofia è un rosso non convenzionale. E non v’è dubbio, ad occhi aperti. Ma si comporta come un grandissimo rosato. Di Puglia, per dirla tutta. Di quelli fini.
Di quelli che non s’abbandonano alle regole del mercato, che vogliono rosè di pronta beva, facili, piacioni. Ci ricorda, per dirla tutta, quel gran pezzo di bravura di Severino Garofano che è “Girofle”.
Il primo impatto con i vini di Valpolicella di Santa Sofia, di fatto, è una botta in testa dalla quale ti riprendi solo al termine, al Recioto. Vini che fanno perdere la memoria. Anzi, meglio: vini capaci di ricodificare le coordinate geografico-gustative di chi vi si accinge per la prima volta.
Il Valpolicella Doc Classico di Santa Sofia è una sorta di microchip essenziale, innestato sottopelle dal chirurgo Begnoni, per proseguire il resto del tasting. I sentori sono pennellate leggere di fiori freschi, di frutta a bacca rossa come ribes e melograno, di lamponi appena colti e capaci di tingere di rosa anche il tipico pepe della Corvina. Un capolavoro di ossimorica leggerezza e sostanza, considerato che si tratta del vino d’entrée.
Valpolicella Ripasso Doc Superiore 2015. Dopo tanta grazia, non tragga in inganno il naso più “grasso” del secondo vino proposto da Santa Sofia. Si passa a un Ripasso che di scolastico ha ben poco, se non il nome. In realtà, più che un “Ripasso”, il calice evidenzia quanto già scritto in precedenza: ovvero che si può essere Valpolicella con garbo.
Qui il corpo è quello di un vino che segue il Valpolicella “base”, ma che non precede l’Amarone, come accade nel 90% dei Ripassi in circolazione. Dunque ancora spazio per un’eccellente bevibilità, tutta giocata sulla freschezza e sulle note di spezia dell’uvaggio.
Il passaggio in legno di 9 mesi è chiaramente pensato per ammorbidire il verde dei tannini. E favorire così, ulteriormente, il prevalere della frutta. Ancor più al sorso che al naso.
Valpolicella Doc Classico Superiore 2015 “Montegradella”. Eccolo qui, il “Baby Amarone” di Santa Sofia. Un vino, questo sì, pensato per un buon “invecchiamento” in bottiglia. Del resto, Montegradella è il vino storico della casa vinicola di San Pietro in Cariano.
La maggiore concentrazione delle uve – allevate nell’omonimo vigneto con esposizione a Sud – è evidente alla vista e all’olfatto. Non a caso, la vinificazione prevede un appassimento sulla pianta di 40-45 giorni, seguita da un passaggio in legno di 8-12 mesi. Altri 6 mesi di affinamento in bottiglia, poi la commercializzazione.
Ne scaturisce un rosso di 14 gradi (abbondanti), ben integrati in un sorso che fa però intendere d’avere ancora molto da esprimere, nell’alleanza con il tempo.
Amarone della Valpolicella Docg Classico 2012. Frutta, eleganza, coerenza. Il fil rouge di Santa Sofia non si spezza neppure a tirarlo forte, fin sulle vette della gamma. In passerella, quest’Amarone 2012 si fa notare per la pacatezza della propria complessità, in un perfetto mix tra muscoli e raffinatezza.
Alle note fruttate di ribes e prugna fanno eco freschi sentori erbacei di rabarbaro e mentuccia. Pennellate che sembrano messe lì apposta ad attutire lo spirito bollente e il calore che contraddistingue il vino rosso simbolo della Valpolicella.
L’affinamento di 36 mesi in botti di rovere di Slavonia, oltre alla perfetta maturazione e concentrazione delle uve, regala richiami di incenso, liquirizia, cioccolato dolce e (di nuovo) pepe nero. La beva non ne risente, anzi: un sorso tira l’altro, sempre in un quadro di perfetto equilibrio tra le note tendenti al dolce (mai stucchevoli) e i preziosi “sbuffi” di zenzero fresco.
Amarone della Valpolicella Doc Classico 1997 “Gioè”. Signori e signore, giù il cappello. “Gioè” è assieme la sorpresa e l’atteso compimento della degustazione odierna dei vini di Santa Sofia. Perché se l’Amarone lo sai fare, la 1997 te l’aspetti esattamente così.
Il colore tiene (eccome), ed è il minimo. Il naso, a più di due ore dall’apertura della bottiglia, si presenta ancora timido. Aiutiamo il nettare ad aprirsi e attendiamo. Eccolo lì. Sotto all’alcol si scorge una corazza animale, quasi grezza, che poi a sua volta si scansa. Lo fa lentamente, uscendo da un letargo ventennale.
E’ la volta delle percezioni più profonde, quelle che aspettavamo. Arriva al naso la macchia mediterranea, unita a una balsamicità quasi montana: resina, eucalipto, note leggere di miele d’acacia e liquirizia dolce. Frutti rossi di una marmellata “secca”, contraddistinta da uno zucchero dosato col contagocce.
Il palato scherza a fare il timido in ingresso, giusto per imitare il naso. Poi s’accende, con sorprendente corrispondenza, sorretto da acidità e alcol. Si lascia alle spalle le percezioni più grezze, per mostrare la potenza della frutta sotto spirito, in particolare i mirtilli. Seguono note dolci di fico secco, che accompagnano un sorso lungo.
Prima annata nel 1964 per “Gioè”. Da allora, ne sono state prodotte solo 17 annate. Diciasette. In cinquant’anni. Qualcosa vorrà pur dire. Ma possiamo ritenerci fortunati. L’ultima è la 2011. La 2013 è in preparazione. E, con buone probabilità, poi toccherà alla 2017. Ti aspettiamo, Gioè.
Recioto della Valpolicella Docg / Doc Classico 2011 / 2001. Se Gioè commuove, il Recioto di Santa Sofia è lì per asciugare le lacrime, con la carezzevole avvolgenza delle note mature di frutta rossa. Un vino rosso “passito” che non ha mai trovato – chissà perché? – la sua giusta collocazione nell’Olimpo dell’enologia mondiale. Merce rara, al pari dei Sagrantino di Montefalco e dei Moscato di Scanzo, per citare altri rossi “dolci” tanto rari quanto preziosi.
Per dirla tutta, la figura migliore la fa la 2001. Ed è tutto un dire. Ancora piuttosto “verde” il Recioto 2011, surclassato nel calice (addirittura in termini di pienezza) da un 2001 da sballo: piccola frutta rossa e nera vestita della consueta eleganza, balsamicità di resina e menta pestata che, unita al pepe, chiama il sorso successivo. C’è tutto: un vino che non stanca mai.
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“Il n’est Champagne que de la champagne” ovvero “Non è Champagne se non è della Champagne”. Verissimo, ma non è detto che a fare lo Champagne debba essere per forza un francese.
Ed in effetti un’eccezione c’è. Si chiama Enrico Baldin, italiano quanto il tricolore, produttore di Champagne. E che Champagne!
La storia di Enrico e di Encry, la sua cantina, la si potrebbe riassumere semplicemente citando Eleanor Roosevelt: “Il futuro appartiene a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni”. È infatti una storia di sogni e di caparbietà quella che l’ha portato ad essere ciò che è oggi.
Abbiamo avuto modo di ascoltarla proprio dalla sua viva voce, grazie ad un’interessante serata organizzata dalla sezione Onav di Varese. Serata che ha visto Enrico Baldin e i suo vini protagonisti sotto l’occhio (ed il naso!) attento dei presenti. Cinque le proposte di Enrico per sorprendere i suoi ospiti, tutte provenienti dal Grand Cru, 100% Chardonnay, di Mesnil sur Oger.
LA DEGUSTAZIONE Apre la serata il Blanc de Blancs Brut. Base annata 2012 più il 20% di vini di riserva 2004 e 2006. Niente malolattica e utilizzo di estratto di vinaccioli per bloccare le fermentazioni (Enrico è molto attento a limitare l’utilizzo di solforosa). Quarantadue mesi sui lieviti e 4,5 g/l di dosaggio.
Colore paglierino carico con riflessi dorati, perlage fine e persistente. Note spiccate di mela verde, poi pesca e pera, un sentore erbaceo di fieno che si sposa con le note tostate e mandorlate.
Freschezza d’agrume e dolcezza di miele. In bocca pieno ed equilibrato, di grande sapidità e lunga persistenza.
Segue il Zero Dosage. Stesso vino del precedente ma non dosato. lo avevamo già incontrato durante “Mare di Champagne” ad Alassio e confermiamo il nostro parere.
Al naso è graffiante e molto minerale, inizialmente sembra quasi chiuso. Si apre poi sulla sua grande verticalità con note di agrume (pompelmo, lime) e frutta a polpa bianca. In bocca spiccano la sapidità e la finezza del perlage. La lunga persistenza è ben supportata dalla morbidezza.
Grand Rosé. 95% Chardonnay e 5% di Pinot Noir vinificato rosso proveniente da un altro Grand Cru: Bouzy. 36 mesi sui lieviti, 3 g/l di dosaggio. Accattivante nel colore, più tenue seppur intenso rispetto a molti altri Champagne.
Al naso è intenso e pulito. Frutti rossi come lampone e fragolina di bosco che si mescolano ai sentori tipici dello Chardonnay, un rosé non-rosé. In bocca la sapidità è appena smorzata dalla rotondità del Pinot.
La quarta proposta è Blanche Estelle, uno champagne nato dall’unione di 4 produttori divisi su 3 villaggi Grand Cru. 36 mesi di affinamento e 6 g/l di dosaggio.
L’idea è quella di creare in cooperativa con altri vigneron uno Champagne più morbido ed immediato che possa essere commercializzato in mescita a prezzi più contenuti.
Il risultato è un prodotto di grande bevibilità, diverso dal resto della gamma Encry. Al naso profumi di cipria e confetto con note fruttate. Morbido in bocca seppur supportato da una buona acidità. Persistenza più breve rispetto ai precedenti assaggi.
Chiude la carrellata il Millésime 2009. Racconta Enrico che in prima fermentazione si è dovuto abbassare la temperatura per via dell’esuberanza delle uve. 72 mesi, 4,5 g/l il dosaggio. Colore dorato e perlage finissimo. Molto evoluto al naso, sembra anche più vecchio del 2009.
Note di torrefazione, nocciola, terziario di caffè e liquirizia. Molto fine al naso con una nota di dolcezza burrosa pur senza aver fatto legno. Grande acidità e sapidità al palato. Lunga persistenza.
LA STORIA DI VEUVE BLACHE ESTELLE – ENCRY La storia di Encry comincia quando Enrico, pur grande amante delle bollicine, non apparteneva per cultura professionale al mondo vinicolo. Lui si occupava all’epoca di ingegneria naturale e ripristino ambientale con particolare attenzione alle tecniche di idrosemina.
Tecniche che possono essere applicate anche in vigna per rinfoltire l’erba fra i filari. Quelle tipologie di erba che non entrano in competizione con la vigna ma al contrario favoriscono una buona ossigenazione del terreno e agevolano il proliferare di quegli insetti che favoriscono le azioni antiparassitarie.
Proprio questa sua specializzazione ha portato, 17 anni fa, Baldin in contatto con un vigneron che necessitava del suo aiuto per migliorare le proprie colture. Colture di Chardonnay a Mesnil sur Oger, in piena Côte de Blancs, Grand cru posto proprio fra le vigne di alcune grandi Maison. Il vigneron in realtà non produce vino, si limita a conferire uve o mosti proprio a quelle Maison.
È di Enrico l’idea, nel 2004, di mettersi a produrre Champagne in collaborazione col vigneron, rilevando da lui 3,5 ettari di vigna ed investendo nella costruzione di una cantina. Coltivazione biologica e biodinamica “non estrema”, pressa tradizionale da 4000 kg, vinificazione in solo acciaio. Estrema attenzione alla qualità in ogni fase.
Nel 2007 le prime bottiglie sono pronte e ben etichettate col neonato marchio Encry (dal soprannome di Enrico, Enry, con in più la C di Champagne) quando il CIVC (Comité interprofessionnel du vin de Champagne) blocca la vendita. Perché? Perché ad Encry manca la “fondatezza”, vale a dire una storia alle spalle che possa in qualche modo “garantire” la serietà e la tradizione della Maison.
Dopo quattro mesi è il socio-vigneron di Baldin a trovare la soluzione: suo nonno aveva in fatti registrato relativamente a quel terreno un marchio di Champagne, Veuve Blache Estelle, nel 1917. Mai prodotto un solo litro di vino, ma tant’è, il marchio esiste ormai da un secolo e tanto basta a garantire una “fondatezza”. Enrico rileva il marchio e rinomina i propri vini come “veuve Blache Estelle – Encry”. Il gioco è fatto!
Ed invece no. Il CIVC si mette ancora di traverso. Il Comité non accetta che un francese possa cedere il blasone ad un non-francese. La soluzione questa volta arriva da Nadia, la compagna di Enrico. Lei ha una zia francese, basta far nominalmente figurare lei come depositaria del marchio ed anche questo ostacolo è superato. Dopo l’ennesimo tira e molla il CIVC è costretto a riconoscere Vue Blache Estelle Encry (anche se con un escamotage non viene concesso di utilizzare da dicitura RM, Récoltant Manipulnat, in etichetta).
Volontà, caparbietà, intelligenza, grande qualità in vigna e nel bicchiere. Ingredienti che sembrano la trama di un romanzo. Il romanzo dell’italiano che andò in terra di Francia a produrre il più prestigioso dei vini francesi.
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Vinaccero di Cantina Coppi è ottenuto da uve Aleatico 100%, coltivate in contrada Marchione, a Conversano, in provincia di Bari. Contrada molto nota, per via del famoso Castello Marchione, residenza estiva del Conte di Conversano.
Il terreno di quest’areale è quello tipico della valle d’Itria: calcareo-carsico, ben drenato. Il vino nel bicchiere si presenta di colore rosso scuro molto compatto, che ricorda la buccia della melanzana.
La fermentazione è controllata, con il contatto del mostro con le bucce, in modo da poter cedere il colore ed il tannino. L’affinamento avviene in acciaio, per 18 mesi. Ma risultano fondamentali i successivi 2 anni, in botte. La lavorazione del vino viene perfettamente letta nelle fasi di degustazione.
LA DEGUSTAZIONE All’olfatto il vino è austero, complesso, spiccano i sentori di frutti rossi, ribes, amarene, more, ciliegie mature. Seguono le sensazioni di spezie come la cannella. Al gusto è abboccato, caldo, con un tannino ben presente ma elegante, che si integra perfettamente nella struttura del vino. Vinaccero di Cantina Coppi chiude con una leggera nota minerale.
Un vino da tutto pasto, ideale con i primi piatti conditi da sughi importanti (come le tagliatelle ai funghi porcini). Accompagna bene anche zuppe di legumi e cereali o dolci come la crostata ai frutti rossi. Si consiglia di aprirlo con largo anticipo o decantarlo, per apprezzarne gli aromi.
LA CANTINA
L’azienda Coppi nasce nel 1882. Nel 1966 entra in azienda un giovane enologo, innamorato del suo territorio ed appassionato del suo lavoro: è Antonio Coppi. Nel 1979 rileva la cantina che, a tutt’oggi, è di proprietà della famiglia.
Essendo tra i primi viticoltori della regione, Antonio compie immensi sacrifici per far conoscere i vitigni pugliesi e i suoi vini in tutto il territorio nazionale e non solo. Gli anni Settanta sono quelli in cui le uve pugliesi arricchivano i vini del nord e della Francia.
L’enologo Coppi è stato tra i primi a comprare un’imbottigliatrice, fermamente convinto della valore del suo lavoro e della sua terra. Un amore trasmesso anche agli eredi dell’azienda: i figli Lisia, Miriam e Doni.
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Sotto la lente di vinialsuper, per la sezione “Horeca”, dedicata ai vini in vendita solo nelle enoteche e in ristorazione, Il Pigato Vigne Veggie di Massimo Alessandri.
Il nome Pigato deriva dal dialettale “pigau”, che significa macchiato. Raggiunta la piena maturazione, piccole macchie scure (le “pighe”) ricoprono gli acini rendendoli decisamente poco attraenti alla vista.
Basta assaggiare qualche buon vino Pigato, però, per accorgersi che quelle macchie non sono affatto difetti. E che da quei chicchi “sporchi” possono nascere grandi vini.
LA DEGUSTAZIONE
Il Riviera Ligure di Ponente Pigato Doc 2015 “Vigne Veggie” di Massimo Alessandri si presenta giallo paglierino tenue, con ancora accenni lievemente verdolini. Il naso è intenso e complesso, dolce e panciuto, di fiori d’acacia, mela dolce e matura, mandorla, erbe aromatiche e iodio.
L’ingresso in bocca potente, di corpo deciso. L’alcool e la frutta matura da una parte e soprattutto la sapidità dall’altra, ne fanno un vino nel complesso equilibrato, anche se la sensazione alcolica è un po’ troppo evidente, il che ne penalizza la bevibilità. Il finale è lungo e speziato di liquirizia e pepe bianco. Un buon Pigato che manca di un po’ di finezza complessiva per diventare grande.
LA VINIFICAZIONE Il Pigato “Vigne Veggie” di Alessandri è ottenuto da uve provenienti dall’omonimo vigneto “Vigne Veggie”, situato a Ranzo, nell’entroterra di Albenga, zona tra le più vocate per questo vitigno. La fermentazione avviene per il 90% in acciaio e in tonneaux di rovere da 600 litri per il restante 10%.
Massimo Alessandri inizia a produrre il proprio vino nel 1996 ed in poco tempo diventa uno dei più affidabili produttori di Pigato della regione. Tutti i vigneti si trovano nel Comune Ranzo. Dello stesso produttore è possibile trovare Vermentino, Granaccia e persino un Syrah in purezza.
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Arriva a novembre sul mercato la Ribolla Riserva 2003 di Gravner. Ma solo in formato magnum, in vendita al pubblico a circa 200 euro la bottiglia. Si tratta di una selezione ottenuta con le ultime uve raccolte nei due vigneti di Runk (Oslavia) da viti piantate nel 1915 e nel 1950 e viene proposta solo nella versione magnum, più adatta ai lunghi affinamenti.
Entrambi i vigneti da cui proviene sono stati espiantati subito dopo la raccolta per lasciare spazio a nuove viti di ribolla. Una decisione maturata perché il terreno è ricco di ponca, un’argilla molto compatta.Questo rende difficile, se non impossibile, aggiungere viti nuove senza lavorare il terreno.
“Il 2003 è stata un’annata molto calda e con pochissima pioggia – ricorda Josko Gravner – giudicata da molti difficile e di dubbia qualità. Ora, a distanza di 14 anni, possiamo invece dire che è stata un’ottima annata, almeno da noi”.
La Ribolla 2003 è rimasta in anfora per più di 10 mesi e, per la prima volta tra i vini di Gravner, ha passato 6 anni in botte prima dell’imbottigliamento avvenuto nel 2010. Altri 7 anni di affinamento in bottiglia, numero caro a Gravner, e la Ribolla 2003 è pronta per il mercato.
LA VENDEMMIA 2017
“Anche il 2017 – prosegue Gravner – è stata un’annata particolare, con condizioni meteorologiche che non hanno giocato a nostro favore: troppe piogge fra la fine di settembre e l’inizio di ottobre hanno fatto marcire gli acini prima che arrivassero a maturazione”.
A distanza di vent’anni dalla prima piccola fermentazione in anfora che ha rivoluzionato il modo di fare e intendere il vino dell’azienda, Gravner quest’anno ha raccolto solo uve botritizzate e i pochi acini rimasti integri. Il raccolto – molto basso – sarà probabilmente, per la prima volta nella storia dell’azienda, solo di Ribolla dolce. “Anche in questo caso – conclude Gravner – soltanto il tempo saprà dirci se abbiamo fatto la scelta giusta”.
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Louis Roederer è una delle poche Maison de Champagne ancora gestita dalla famiglia fondatrice. Una storia che affonda le radici nel lontano 1776, a Reims. La cantina ottiene il nome attuale nel 1833, quando viene ereditata da Louis Roederer, che intraprende un percorso di crescita e ristrutturazione in controtendenza rispetto alle altre realtà della regione.
A differenza di altre Maison (i cosiddetti Négociant Manipulant) che acquistano uve da altri vignaioli, Louis è convinto che il segreto di un grande vino risieda nella terra. Inizia così a investire nell’acquisto di vigne nei territori dei Grand Cru e Premier Cru. Un approccio da piccolo vignaiolo (Récoltant Manipulnat, come si dice Oltralpe) ma su larga scala.
Nel 1850, la Maison Roederer può contare su 100 ettari di proprietà. Oggi su oltre 240 ettari, suddivisi in 410 appezzamenti fra la Montagne de Reims, la Cote de Blancs e la Vallée de la Marne. Unica nel suo genere, la cantina coniuga in sé tanto l’abilità enologica propria delle grandi Maison quanto l’attenzione alla viticoltura tipica dei Vigneron.
Per dar modo di conoscere ed approfondire gli Champagne di Louis Roederer lo scorso 20 ottobre la sezione Onav di Varese ha organizzato un’interessante degustazione.
LA DEGUSTAZIONE Sette le proposte. Apre la serata il Brut Premier, il “base” di casa Roederer, lo champagne pensato per dare continuità alla Maison dopo la prima guerra mondiale.
Vinificazione in fusti di rovere per la cuvée composta dal 40% di Pinot Noir, 40% di Chardonnay e 20% di Pinot Meunier. Tre anni di affinamento sui lieviti, 6 mesi di riposo in bottiglia dopo la sboccatura, 9 g/l di dosaggio.
Giallo paglierino brillante, perlage piuttosto fine. Molto pulito al naso con note fruttate di mela, di agrume, vegetali di fieno ed una dolcezza di crema pasticcera. In bocca il perlage è un poco aggressivo. Grande acidità e buona sapidità. Evidente la presenza del Meunier. Equilibrato con una dolcezza di miele e camomilla che accompagna la breve persistenza.
Brut Rosè Vintage 2011. Annata difficile con inverno secco, primavera calda ed estate fresca e piovosa che costrinse a vendemmia anticipata. 63% Pinot Noir, 37% Chardonnay. Il 22% dello Chardonnay è vinificato fusti di rovere mentre il 13% fa fermentazione malolattica. Quattro anni di affinamento e 6 mesi di riposo in bottiglia dopo sboccatura. 9 g/l il dosaggio zuccherino.
Color buccia di cipolla brillante, il perlage è piuttosto fine e persistente. Al naso è più timido del brut con note di melograno, gesso e salmastre di ostrica seguite da una speziatura di pepe bianco.
Un poco aggressivo il perlage, di buona acidità, chiude su di una nota amarognola forse dovuta al residuo zuccherino.
Blanc de Blanc Vintage 2008. Annata con primavera molto piovosa ed estate secca che hanno dato una maturazione lenta e progressiva delle uve. 100% Chardonnay, il 15-20% vinificato in botti di rovere con battonage settimanale e nessuna fermentazione malolattica, 5 anni di affinamento sui lieviti ed un dosaggio zuccherino di 8-10 g/l.
Paglierino con riflessi dorati al naso è molto fine, delicato. Uno champagne che non urla i propri sentori ma che sussurra note floreali e fruttate contornate da un profumo di erba tagliata. Molto elegante in bocca non rivela il proprio dosaggio zuccherino forte di una grande mineralità. Lunga la persistenza.
Brut Nature 2009 e Brut Nature 2006. Una mini verticale. Il Brut Nature 2009 nasce in un’annata ricordata come una delle migliori in Champagne, con inverno rigido e secco ed estate soleggiata ed asciutta. 70% di Pinot Noir e Pinot Meunier, 30% Chardonnay. 25% della vinificazione in rovere, nessuna malolattica, nessun dosaggio zuccherino.
Colore paglierino con riflessi dorati. Naso molto espressivo ove si riconoscono note floreali di ginestra, frutta bianca, agrumi, mandorla e marzapane ed una nota di tabacco da pipa. Al palato il perlage è molto piacevole in contraltare con la schietta acidità del pas dosé.
Il 2006 è l’anno che suggella le varie prove della Maison, iniziate nel 2003, per la realizzazione del primo Brut Nature. 70% di Pinot Noir e Pinto Meunier, 30% Chardonnay. Fermentazione spontanea del 100% dei vini in botti di legno. Nessun dosaggio.
Colore più carico rispetto al 2009 al naso è più chiuso con sentori simili a quelli del 2009 contornati da una nota dolce di confetto. In bocca è teso e pulito con una grande mineralità.
Vintage 2009. 70% Pinot Noir, 30% Chardonnay. 30% circa dei vini vinificati in legno. 9 g/l di dosaggio. Color giallo dorato con perlage molto fine e persistente. Estremamente pulito al naso con note di cera d’api, di frutta disidratata, note di spezie, di tostatura e di pasticceria.
Finissimo in bocca col perlage che accarezza il palato, uno champagne rotondo con acidità e mineralità perfettamente bilanciate. Lunga la persistenza.
Chiude la degustazione Cristal 2007. Annata con primavera calda ed estate fresca chiusa da una vendemmia in condizioni ideali. La cuvée, ottenuta da vecchie viti, si compone del 58% Pinot Noir e 48% Chardonnay con il 15% dei vini vinificati in rovere. 9,5 g/l il dosaggio.
Colore dorato con perlage finissimo. Pulizia assoluta al naso con agrume maturo, tostatura che vira al fumé e note minerali di pietra focaia. Bocca equilibrata ed estremamente armonica. Finale lungo.
LA STORIA DEL CRISTAL Correva l’anno 1867 quando la Maison Roederer confezionò una versione speciale della propria Cuvée de Prestige per lo Zar di Russia Alessandro II.
A causa di tensioni nazionali ed internazionali si temevano attentati alla vita dello Zar e così, in occasione della “Cena dei tre imperatori” cui Alessandro II avrebbe partecipato (insieme a Guglielmo I di Prussia ed al principe Otto von Bismarck) venne realizzata una bottiglia particolare.
La bottiglia era in cristallo trasparente (da cui il nome) per garantire che al suo interno vi fosse champagne e non qualche liquido infiammabile o esplosivo.
Allo stesso modo il fondo della bottiglia era piatto per evitare che vi si potessero nascondere altre minacce. La bottiglia così nata, adornata da una etichetta dorata che ne esalta l’eleganza, divenne un’icona a tal punto da essere oggi considerata dagli economisti un “bene di Veblen”.
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Martin Abraham è un vignaiolo atipico, schivo, definirlo timido è quasi un eufemismo. Quando lo si incontra, che sia in cantina, che sia al banchetto di una fiera pare sempre meravigliato.
È come se non si rendesse conto dell’immensa bellezza dei suoi vini, ma non si può non restarne folgorati. Sotto la lente di ingrandimento di vinialsuper, il Gewurztraminer di Weingut Abraham, annata 2014.
LA DEGUSTAZIONE
Il Gewurztraminer di Weingut Abraham ha un colore giallo dorato carico, limpido e trasparente.
Il naso è al primo impatto di frutta tardiva ed essiccata come albicocca, papaya, con una punta di agrume candito, arancio. Parte poi immediatamente un sentore speziato meraviglioso, zenzero , anice stellato e cardamomo.
Ma è al palato che spiazza maggiormente: non ha un residuo zuccherino stancante, ma è secco elevato alla seconda con 1,3 g/l di zucchero.
Caldo e morbido, come si addice al vitigno e anche in parte al minimo passaggio in rovere grande è un vino estremamente complesso. Perfetto come da accompagnamento a piatti asiatici e con uno straordinario rapporto q/p.
LA VINIFICAZIONE Il vitigno dal quale provengono le uve utilizzate è un clone locale di Traminer, chiamato Laimburg 14. Allevato su terreno morenico, misto a pietrisco vulcanico ricco di minerali come porfido e quarzo è stato piantato nel 2000.
Dopo la vendemmia tardiva, con uva parzialmente attaccata da botrite nobile segue fermentazione spontanea sulle bucce per quattro settimane. Dopo la pressature soffice avviene la fermentazione normale, la malolattica ed un affinamento in botti di rovere.
Weingut Abraham si trova ad Appiano (Bz) sulla strada del vino. La filosofia dell’azienda si basa sul riconoscimento della sapienza e della creatività dei propri avi da trasmettere ai propri figli secondo il principio della sostenibilità: umiltà, senso di responsabilità e libertà di pensiero.
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Voliamo in Grecia per il racconto di Melissanthi 2016, vino bianco biologico prodotto da Porto Carras nell’area della Denominazione di origina controllata Meliton Slopes (Protected Designation of Origin, “Pdo”). Un blend di uve autoctone della Macedonia, allevate sulla penisola centrale della Calcidica.
LA DEGUSTAZIONE
Nel calice, Melissanthi 2016 si presenta di un giallo dorato. Naso dall’impronta minerale netta, come nelle migliori delle aspettative per un vino greco. Il contorno è piacevole, tra la la frutta esotica, l’agrume maturo e il melograno.
Non mancano i richiami vegetali alla macchia mediterranea, soprattutto al rosmarino. Completa l’olfatto di Mellisanthi una nota di miele millefiori, che avanza nel calice grazie all’ossigenazione, assieme a ricordi di cera d’api e liquirizia dolce.
Un olfatto complesso, dunque. Al palato, questo blend di Porto Carras risulta tagliente, per la buona acidità espressa, ma in netto equilibrio con le altre componenti. Melissanthi gioca quasi esclusivamente su note agrumate, dall’ingresso sino al fin di bocca. Intervallate da percezioni erbacee già apprezzate all’olfatto.
La chiusura, amarognola, ricorda quella di certi vermentini sardi. Questo bianco greco si abbina con piatti di mare, primi leggeri a base di pasta, carni bianche e cucina orientale.
LA VINIFICAZIONE
Mellissanthi 2016 è ottenuto da uve Athiri, Assyrtiko e Roditis allevate nella Pod Meliton Slopes. Si tratta di piante di 45 anni di età, situate a un’altezza compresa fra i 300 e i 400 metri sul livello del mare. Le viti affondano le radici in terreni prettamente sabbiosi.
Uva volta raccolte le uve, la tecnica di vinificazione prevede un contatto del mosto con le bucce a bassa temperatura. La fermentazione avviene in acciaio, con l’aggiunta di lieviti selezionati, alla temperatura di 16-18 gradi. Il vino matura in seguito sulle bucce per diversi mesi, prima della filtrazione e dell’imbottigliamento che anticipano la commercializzazione.
Domaine Porto Carras vanta il più grande vigneto in Grecia atto alla produzione di “organic wines”, vini biologici. Quattrocentocinquanta gli ettari a disposizione della cantina di Sithonia, realizzata nel 1970. E’ al noto enologo Émile Peynaud, professore dell’Università di Bordeaux, che si deve parte del successo di Porto Carras. Oggi vengono allevate 26 differenti varietà di uva.
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Torniamo in Alto Adige, terra capace di regalare grandi vini, per parlare di Metodo Classico. La nostra attenzione cade oggi sull’extra brut Cuvée Marianna di cantina Arunda, sboccatura gennaio ’17.
LA DEGUSTAZIONE Veste il calice con bel colore paglierino carico e brillante con evidenti riflessi dorati. Il perlage è inizialmente raccolto, ci mette qualche istante prima di liberarsi nel bicchiere, ma superata l’iniziale timidezza ecco apparire delle belle catenelle, fini, ricche, vivaci e continue.
Al naso è complesso. Apre immediatamente su note terziarie di noci, di burro e di vaniglia. Seguono note di frutta fresca come albicocca e pesca ed una bella freschezza agrumata. Chiude il quadro olfattivo un piacevole sentore di frutto rosso che ricorda la fragola. Un bouquet particolare, molto elegante e ricercato.
In bocca il perlage mostra tutta la sua eleganza rendendo il sorso cremoso ed ampio. Ritroviamo tutti i profumi percepiti al naso contornati da una buona sapidità. Armonico ed equilibrato. Lunga la persistenza. Un Metodo Classico che non teme abbinamenti gourmet con preparazioni di pesce o di carne bianca.
LA VINIFICAZIONE Le uve provengono dalle zone vitivinicole di Terlano e Salorno, terroir ricchi di porfido e calcare. La cuvée si compone del 20% di Pinot Nero vinificato in bianco e dall’80% di Chardonnay vinificato in barrique. Minimo 60 mesi di affinamento sui lieviti prima della sboccatura e basso dosaggio zuccherino (4g/l).
Sektkellerei Arunda, di Meltina (BZ), è con ogni probabilità la cantina più alta d’Europa forte dei suoi 1200m s.l.m.. Fondata da Josef Reiterer nel 1979, dopo lunga esperienza in altre realtà. Arunda produce solo spumanti Metodo Classico selezionando le uve nei terroir più vocati della regione. Dieci etichette diverse che raccontano le differenti sfumature del territorio.
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Torniamo ad occuparci delle bollicine di Capitanata, torniamo a parlare di Cantine d’Araprì. Dopo il Metodo Classico Brut Rosè degustiamo oggi il Gran Cuvée XXI Secolo, millesimo 2009.
LA DEGUSTAZIONE
Giallo dorato luminoso con riflessi brillanti presenta un perlage molto fine con catenelle lente e persistenti. Al naso si presenta fine ed intenso.
Apre su note agrumate, scorza d’arancia e mandarino, per evolversi su note di frutta bianca matura come albicocca e pesca. Chiude su note terziarie di pane tostato e tabacco con un leggero sentore di miele. Un ventaglio olfattivo complesso ed elegante.
In bocca è ampio ed il fine perlage dona cremosità ed ulteriore spessore, mentre la vivace acidità sostiene il sorso donando piacevolezza ed agilità al sorso. Uno spumante tutt’altro che banale, “per intenditori”, ma immediato e dotato di grande facilità di beva.
LA VINIFICAZIONE Gran Cuvée XXI Secolo è un millesimato (spumante in cui i vini base provengono da un’unica vendemmia) prodotto solo nelle annate migliori, quando le uve esprimono a pieno il loro potenziale.
Ottenuto da assemblaggio di uve Bombino Bianco, Pinot Nero e Montepulciano vendemmiate separatamente per cogliere la migliore maturazione delle uve. Fine agosto per il Pinot Nero, metà settembre per il Bombino Bianco, fine settembre/inizio ottobre per il Montepulciano.
Raccolta e selezione dei grappoli manuale. Lungo affinamento sui lieviti, minimo 60 mesi, e basso dosaggio zuccherino (4g/l) completano il processo produttivo.
LA CANTINA Buone escursioni termiche, clima mitigato dal vicino mare e dal promontorio del Gargano, terreni argillo-calcarei con presenza di limo e sabbia. Ecco i segreti di questo terroir, scelto nel ormai lontano 1979 da tre amici, Girolamo d’Amico, Louis Raspini e Ulrico Priore (“d’Araprì”, dalle iniziali dei cognomi), che decisero di fondare in San Severo l’unica realtà vinicola pugliese specializzata in metodo classico.
Gran Cuvée XXI Secolo è il primo prodotto millesimato da lungo affinamento editato da questa cantina. Prodotto che sembra aver vinto la sfida del tempo presentandosi armonico e complesso, in grado di reggere l’abbinamento con strutturate preparazioni di pesce ma anche in grado di esaltare con la sua freschezza le semplici preparazione delle cucina del territorio, come il “pane e pomodoro” o i formaggi stagionati.
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Incrocio di laboratorio tra Barbera e Nebbiolo Dronero (Chatus) ad opera del professor Giovanni Dalmasso, autorevole ampelografo italiano cui si devono i testi fondamentali sulla viticultura italiana, il vitigno Albarossa, pur essendo “nato” nel 1938, è stato iscritto sul Catalogo Nazionale delle Varietà di Viti solo negli anni 70 e solo dal 2001 al registro dei vitigni idonei alla coltivazione del Piemonte.
Da allora, un piccolo gruppo di pionieri, tra cui Michele Chiarlo ha deciso di avviarlo alla produzione con le prime bottiglie commercializzate a partire dalla vendemmia 2006.
LA DEGUSTAZIONE Rosso rubino molto carico, il Piemonte Doc Albarossa di Michele Chiarlo apre su note vinose intense. Correttamente decantato si esprime con piccoli frutti rossi e neri su fondo di tabacco.
Di struttura media e buona freschezza il Piemonte Doc Albarossa di Chiarlo ha un tannino levigato che rende morbida una beva tutta declinata sul frutto col finale lungo dai richiami di tabacco. Un vino in perfetta simmetria naso bocca.
Se l’intenzione di Dalmasso era di coniugare le caratteristiche dei due vitigni, colore e freschezza dell Barbera ed eleganza del Nebbiolo, in questo caso domina un filo di più la Barbera (per rusticità) e meno il Nebbiolo (per finezza), ma il risultato è senza dubbio un assaggio interessante e di grande bevibilità.
LA VINIFICAZIONE Prodotto con uve Albarossa allevate nel vigneto di 3 ettari sito in località Montaldo Scarampi. Le vigne sono esposte a sud, sud est ad una altezza di 250 metri sul livello del mare, su terreni di origine sedimentaria marina.
La vendemmia è manuale ed è preceduta, a fine estate, da diradamento dei grappoli in eccesso. Michele Chiarlo, dal 1956, con una proprietà di 110 ettari tra Langhe, Monferrato e Gavi è un riferimento assoluto dei vini del Piemonte.
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Il Cabernet Sauvignon e il Merlot sono due tra i principali vitigni rossi internazionali (assieme al Syrah) che hanno contribuito a plasmare il gusto internazionale del vino. Non a caso sono i protagonisti di due veri big mondiali: il Bordeaux e i cosiddetti Supertuscan.
LA DEGUSTAZIONE
Proprio da questi due vitigni nasce il Maldafrica di Cos, Terre siciliane Igp che con la vendemmia 2013 si presenta nel calice di un rosso rubino fitto, intenso e luminoso. Il naso alterna note di frutta fresca, lampone, ribes e ciliegia a floreali di rosa, fino a sentori mediterranei e speziati di rosmarino, cioccolato, liquirizia.
In bocca è di medio corpo, estremamente scorrevole, fresco e croccante di frutta fresca. A discapito del nome sembra un vino del nord. Il tannino è un poco verde (il Cabernet Sauvignon è presente più in bocca che al naso), ma la morbidezza del frutto compensa egregiamente rendendo questo Maldafrica dannatamente piacevole.
È piuttosto corto, scivola via veloce, ma altrettanto velocemente chiama un nuovo sorso.
Si consiglia di degustarlo a non più di 12-14 gradi per esaltarne le note più fresche. Probabilmente si tratta di uno di quei vini che sfidano le rigide temperature di servizio “da manuale” e potrebbe addirittura essere servito dopo una sosta in frigorifero.
LA VINIFICAZIONE
Il Maldafrica è un blend in parti uguali di Merlot e Cabernet Sauvignon, da agricoltura biologica come tutti i prodotti della cantina Cos. Fermenta a contatto con le bucce, in anfore di terracotta su lieviti indigeni. Prima della commercializzazione riceve un affinamento in botti di Slavonia e poi in bottiglia.
Cos nasce nel 1980 a Vittoria, in provincia di Ragusa, quasi sulla punta sud orientale della Sicilia, dove i profumi e i colori dell’Africa si mescolano con fascino alla nostra tradizione. Gianbattista Cilia, Giusto Occhipinti e Cirino Strano, i tre amici fondatori, ne danno il nome.
I due capisaldi della produzione di Cos sono l’agricoltura biodinamica, e la vinificazione in anfore di terracotta. Nel 2005 è la prima cantina a vendemmiare rispettando la neonata Docg Cerasuolo di Vittoria, di cui Cos rappresenta un punto di riferimento imprescindibile.
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Sembra di vederlo, assaporando il “Morinaccio… sui lieviti”, il suo autore: Gianluca Morino. Già, perché il “Morinaccio”, forse, è il vino di Cascina Garitina che meglio esprime il carattere dell’appassionato vignaiolo Fivi di Castel Boglione, borgo di 600 anime in provincia di Asti, in Piemonte.
Un vino con cui divertirsi seriamente, il “Morinaccio… sui lieviti”. Un po’ come si può fare con Gianluca Morino. Un coerente ossimoro enologico. A partire da quella retro etichetta, in cui il produttore consiglia una temperatura di servizio tra i 4 e gli 8 gradi.
Assieme a Niades, il “Morinaccio… sui lieviti” è il “vino estivo” di Garitina. Il resto dell’assortimento della cantina, religiosamente incentrato sulla Barbera, è costituito da vini più impegnativi: “da carne” o da “meditazione”, volendo semplificare il concetto.
E allora lo ascolti, Gianluca Morino, all’inizio del tête-à-tête col “Morinaccio”. Siete tu e lui. E lui, il Morinaccio, è stato appena versato nel calice a 6 gradi. Un gioco serio non può che iniziare alle regole dell’autore dell’opera. Rosso porpora pressoché impenetrabile, ma con unghia rubino, riempie il vetro di una spuma generosa, che si dissolve in qualche secondo. Liberando al naso fiori e frutta. C’è la viola, qualche richiamo pulito alle erbe di campo.
LA DEGUSTAZIONE
C’è il contorno vinoso e grezzo di una Barbera ruvida, pensata per dissetare nelle calde giornate estive, accentuato dalla scelta (un tocco d’autore) di aggiungere una piccola percentuale di Freisa al momento dell’imbottigliamento (una tradizione che Morino porta avanti ancora oggi, conferendo nuova vita, di vendemmia in vendemmia, all’intuizione di un nonno reso così immortale).
Il gioco continua, ma cambiano le regole. La bottiglia è sul tavolo, priva di glacette o di qualsiasi accorgimento utile al mantenimento della temperatura (bassa) originaria. E appena il “Morinaccio… sui lieviti” inizia a scaldarsi, fino a raggiungere la temperatura di 15 gradi, il divertimento continua. Sul serio.
Al posto di perdere quel po’ di eleganza-grezza delle Barbere “mosse”, il calice comincia a gettare fuori sentori di bosco fini, netti, chiari. Puliti. Il vino si fa più morbido: al naso il sentore nuovo è quello della fragola matura, che si scopre corrispondente al palato.
Così come risultano vicini, naso e bocca, anche nello zafferano. Buona la persistenza, tutta giocata tra la frutta rossa e le cinghiate di un cuoio che riporta tutto sul piano dell’ossimoro. Un gioco che non vorresti finisse mai, per quanto serio e godurioso allo stesso tempo.
Morale: prendere sul serio Gianluca Morino è giusto. Ma con la consapevolezza che neppure lui lo fa sempre, con se stesso. D’altronde, da uno che passa sui social 23 delle 24 ore di cui si compone l’umana giornata, non t’aspetti certo vini così buoni.
LA VINIFICAZIONE
“Morinaccio… sui lieviti”, come detto, è un 100% Barbera ottenuto da piante di età compresa fra i 31 e 48 anni. L’allevamento è a Guyot basso, con una densità di 4-4,5 mila ceppi per ettaro, a 280-310 metri sul livello del mare. La resa è di 9 tonnellate per ettaro su unterreno di medio impasto, tende all’argilloso.
La vendemmia avviene manualmente, in piccole ceste. La vinificazione prevede diraspapigiatura, fermentazione e macerazione a cappello sommerso per un totale di 5-6 giorni. Dopo la svinatura, Gianluca Morino cerca di conservare nel vino quei 7-8 grammi residui di zuccheri che torneranno utili per la rifermentazione naturale in bottiglia.
Al momento dell’imbottigliamento si aggiunge un 2-3% di Freisa dolce, come un tempo faceva il nonno. Il vino non ha solfiti aggiunti e non viene filtrato né chiarificato. L’imbottigliamento avviene nella settimana santa, ovvero in occasione della prima luna dopo l’equinozio di primavera, momento in cui avviene il risveglio vegetativo dei lieviti naturali. Il “Morinaccio… sui Lieviti” affina poi in bottiglia, per un minimo di due mesi.
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Torniamo “virtualmente” a Cocconato d’Asti, vivace borgo sede di numerose manifestazioni enogastronomiche tra cui Cocco Wine, evento annuale siglato Go Wine al quale abbiamo partecipato lo scorso anno.
A riportarci lì è un vino simbolo del Monferrato, la Barbera d’Asti Superiore Docg prodotta, in questo caso, dalla Cantina di Nicola Federico, vendemmia 2014.
LA DEGUSTAZIONE
La Barbera d’Asti Superiore Docg 2014 di Nicola Vini è una Barbera in purezza. Avvicinando il naso al calice è un piccolo cestino di frutti rossi come mora, ciliegia e prugna. Non manca una lieve speziatura di vaniglia indice di un parco uso del legno.
Al palato è un crescendo di sensazioni fruttate in un corpo fresco e goloso. Un calice di assoluta finezza ed eleganza. A tavola si beve in scioltezza, senza indugio. Se siete in zona il borgo vale una visita. E anche la Barbera di Cocconato merita una chance. Da gustare in cantina da Nicola, magari abbinata ad un pranzo nel loro agriturismo.
In cucina, la Barbera d’Asti Superiore Docg si abbina a risotti con legumi, sartù di riso, polenta con salsicce, gallina o agnello brasati ed ovviamente con la bagna cauda e il fritto alla piemontese.
LA VINIFICAZIONE
Come da disciplinare di produzione, la Barbera d’Asti Superiore Docg prevede un affinamento minimo di 14 mesi di cui minimo 6 mesi in botti di rovere di qualsiasi dimension con decorrenza 1° Novembre dell’anno di raccolta delle uve.
La Cantina di Nicola Federico nasce nel 2002 quando Federico decide di trasformare in attività quella che fino ad allora era solo la passione del nonno. Nei cinque ettari di prioprietà, tra Cocconato e Passerano Marmorito la Barbera rappresenta il 50% dei vitigni coltivati dall’azienda oltre a Grignolino, Freisa, Albugnano e Chardonnay.
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Un ingresso in bocca elegante, col vino che scivola sul palato in maniera suadente, senza spigoli. Il primo bacio con il Brunello di Montalcino Docg 2006 di Pian dell’Orino è dritto, morbido.
Una leggera sensazione calda accarezza il palato. Tannino vellutato, sensazioni di frutta cotta ben bilanciata tra acidità e zucchero. Chiude come un grande Sangiovese deve fare dopo 11 anni: nelle morbidezze.
Il retro olfattivo è invece incentrato sulla spezia, a completare il quadro di un grande Brunello.
LA VINIFICAZIONE
Il Brunello di Montalcino si ottiene da un unico vitigno, il Sangiovese grosso. Le uve per questo vino vengono dai vigneti “Pian Bassolino” e “Cancello Rosso”, a Castelnuovo dell’Abate, frazione di Montalcino. Prima della vendemmia l’uva viene controllata direttamente sul tralcio per raccogliere un prodotto perfettamente integro e un livello ottimale di maturazione.
Le uve subiscono una seconda selezione manuale prima della diraspatura. Il processo di vinificazione avviene in tini d’acciaio inox dotati di un sistema di controllo della temperatura. A una prima fase di macerazione prefermentativa a freddo segue la fermentazione alcolica con fermenti indigeni a temperatura controllata non superiore a 34°C.
La macerazione postfermantativa, della durata di 2-3 settimane, conferisce al vino le caratteristiche strutturali idonee ad un lungo invecchiamento. Terminata la fermentazione il vino viene travasato in botti di rovere da 25 hl, dove avviene la fermentazione malolattica.
Dopo la permanenza in botte, per un periodo di 2-3 anni, quando il vino ha raggiunto un buon livello di affinamento, viene imbottigliato senza essere filtrato. Il Brunello rimane in bottiglia ancora un anno prima di essere etichettato e commercializzato.
PIAN DELL’ORINO
Sono circa 6 gli ettari su cui può contare Pian dell’Orino. La cantina si trova a pochi metri dalla Tenuta Greppo di Biondi Santi, proprio in località Piandellorino, a Montalcino. Un’azienda agricola fondata su un profondo studio della natura dei terreni e delle loro caratteristiche.
L’obiettivo, più che centrato, è quello di produrre vini di Toscana “dalla personalità molto spiccata, che riflettono il carattere di ogni vigneto in modo netto e riconoscibile”.
Winemag.it, wine magazine italiano incentrato su wine news e recensioni, è una testata registrata in Tribunale, con base a Milano. Un quotidiano online sempre aggiornato sulle news e sulle ultime tendenze italiane ed internazionali. La direzione del wine magazine è affidata a Davide Bortone, giornalista, wine critic, giudice di numerosi concorsi internazionali e vincitore di un premio giornalistico nazionale. Winemag edita inoltre con cadenza annuale la Guida Top 100 Migliori vini italiani. Winemag.it è un progetto editoriale indipendente e di elevata reputazione in Italia e in Europa. Puoi sostenerci con una donazione.
Il Pinot Grigio (Pinot Gris) è una mutazione del più celebre Pinot Noir, da cui eredita la capacità di stupire per finezza e profondità olfattiva.
Lo si trova prevalentemente in Alsazia (fino al 1984 chiamato Tokay d’Alsace), in Italia (Alto Adige, Friuli e Veneto soprattutto) e in Germania (Grauburgunder se secco o Ruländer nelle versioni dolci), anche se negli ultimi anni si sta diffondendo (evviva!) anche in Nuova Zelanda, Argentina e California.
Basta uno sguardo per notare la decisa consistenza di questo Unterebner, che si presenta giallo paglierino brillante e luminoso. Il naso è intenso, di grande complessità e finezza. Si parte con le note fruttate di pera, pesca e agrume leggero.
Con un po’ di pazienza arrivano spezie dolci, in particolare vaniglia, e poi camomilla e fieno caldo. Infine, come a benedire il sorso, una nota balsamica di tè e incenso.
L’ingresso in bocca è potente, caldo, di grande struttura ed equilibrio. Morbido e succulento, conserva grande piacevolezza grazie soprattutto alla sapidità. Lunghissimo, lascia la bocca pulita e calda, e torna il tè. Davvero difficile non finire la bottiglia una volta iniziata.
LA VINIFICAZIONE
L’uva raccolta interamente a mano svolge la sua fermentazione in botti di legno e parzialmente in tonneaux, dove avviene anche la fermentazione malolattica. Affina in grandi botti e in parte in tonneaux, sempre a contatto con i lieviti, fino ad agosto e riposa in bottiglia altri 4 mesi almeno prima della commercializzazione.
Tramin è una delle più antiche cantine sociali dell’Alto Adige, con sede a Termeno, sulla strada del vino, meta obbligata di ogni winelover che si rispetti! Proprietari della cantina sono 300 contadini viticultori che lavorano la terra nelle microzone di Termeno, Ora, Egna e Montagna su una superficie totale di circa 260 ettari, 15 dei quali sono oggi coltivati secondo i disciplinari biologici e biodinamici.
Tutti i vini top di gamma della cantina, quindi anche l’Unterebner, provengono da terreni nei quali, dal 2007, non viene utilizzato alcun diserbante, e la mission aziendale è quella di estendere l’abolizione degli erbicidi a tutti i 260 ettari di coltivazione.
Un progetto ambizioso che che ci auguriamo possa prendere forma al più presto per fare di Tramin davvero un “laboratorio permanente di viticoltura illuminata”.
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È stato presentato oggi Ferrari Perlé Zero, il primo Pas Dosé (spumante senza aggiunta zuccherina in dosaggio) di Casa Ferrari.
Perlé Zero nasce da un sapiente lavoro in cantina, dove i vini base di più annate vengono affinati con materiali diversi: l’acciaio, che esalta l’espressione del frutto e dell’eleganza aromatica dello Chardonnay, il legno, che conferisce struttura e ricchezza gustativa, e il vetro, che dona un ulteriore tocco di profondità ed espressività.
Una volta imbottigliata, la cuvée affronta un lungo affinamento sui lieviti, di almeno 6 anni, prima di venire sboccata senza l’aggiunta di zuccheri, ossia a dosaggio zero.
Ogni cuvée identifica quindi un preciso assemblaggio, unico e irripetibile, ed è comunicata in etichetta con un richiamo all’anno del tirage. Quella presentata in anteprima è la Cuvée Zero 10, un mosaico di tre millesimi diversi, 2006, 2008 e 2009, messo in bottiglia nel 2010.
La veste grafica, disegnata dallo Studio Robilant Associati, è “coerente con la nuova immagine della linea Perlé”. La cromia scelta è il verde inglese, che comunica “eleganza e un’idea di naturalità”.
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L’Italia, culla di vitigni autoctoni spesso allevati da aziende di piccole e medie dimensioni, difficilmente reperibili in gdo e talvolta anche in enoteca. Vinialsuper affronta per la prima volta un vino appartenente alla Doc Pergola. Siamo nella Marche con una vera chicca regionale: il Pergola Aleatico Doc Vernaculum annata 2015 prodotto da Fattoria Villa Ligi.
LA DEGUSTAZIONE Il Pergola Aleatico Doc 2015 Vernaculum al naso ha una freschissima espressione di visciola e percoca succosa. Un profumo semplice, invitante che sgombra la testa da qualsiasi speculazione enoica per lasciare il passo solo a pensieri genuini e sinceri come è questo vino.
Il connubio caratteristico di ciliegia e percoca ritorna continuamente in bocca. Nessuno spigolo, giusta freschezza, piacevolissima espressione territoriale che gioca sull’immediatezza.
Vernaculum è distribuito nel canale horeca, mentre in grande distribuzione è presente il Pergola Aleatico Le Tinte, un prodotto dalle caratteristiche gustative del tutto simili, sempre firmato Villa Ligi.
LA VINIFICAZIONE Prodotto con uve 100% aleatico allevate su terreni tendenzialmente argillosi esposti ad est in vigneti di 25 anni. La vendemmia è effettuata manualmente: l’uva viene diraspata quindi sottoposta a criomacerazione per 14 ore a 6 °C; la fermentazione avviene con lieviti selezionati a temperatura controllata per 6-8 giorni con rimontaggi 2 o tre volte al giorno. Fermentazione malolattica guidata.
La maturazione avviene in serbatoi di acciaio inox per 4 mesi cui segue successivo affinamento in bottiglia per 2 mesi.
Villa Ligi si trova a Pergola, in provincia di Pesaro Urbino ed è di proprietà della famiglia Tonelli. L’azienda vanta ormai un’attività centenaria giunta alla terza generazione. Rispettosi del territorio e delle tradizioni, ma anche attenti all’innovazione necessaria e corente con la filosofia produttiva producono Pergola Aleatico, Bianchello del Metauro, Marche Rosso Igt, Marche Chardonnay Igt e Marche Riesling Igt.
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Siamo in Toscana, in provincia di Siena per raccontarvi del Vino Nobile di Montepulciano prodotto da Corte alla Flora. Una Docg, quella del Nobile, certamente tra le più conosciute di Toscana, insieme a Chianti e Brunello. L’annata nel calice è la 2009: ottima secondo gli annuali del Nobile.
LA DEGUSTAZIONE Il Vino Nobile di Montepulciano Docg 2009 Corte alla Flora ha un naso timido, aperto su ricordi erbacei e terrosi. Pian piano comincia a distendersi in marasca e piccoli frutti scuri fino a lasciare finalmente spazio a liquirizia, chiodi di garofano e pungenza di pepe nero.
In bocca è suadente, morbido con, tuttavia, un’anima di freschezza che ne sostiene bene il corpo. La complicità di un tannino ben definito, insieme ad una inattesa salinità ne esalta la piacevolezza. Un momento magico nella sua curva di evoluzione che lo porterà ad avere altrettanta vita davanti.
Il Vino Nobile di Montepulciano è ottimo con secondi piatti a base di selvaggina e formaggi stagionati come il Pecorino di Pienza.
LA VINIFICAZIONE Il Vino Nobile di Montepulciano Corte alla Flora è un blend di tre vitigni: Prugnolo Gentile (80%), Cabernet Sauvignon (10%) e Merlot (10%). L’invecchiamento avviene per 18 mesi in botti e barrique con ulteriore affinamento in bottiglia per 10 mesi.
Corte alla Flora si trova a Montepulciano, sulla via per Cervognano. Qui su terreni argillosi e calcarei si estendono i 90 ettari di proprietà di cui 35 allevati a Prugnolo Gentile. Nei restanti ettari Merlot, Syrah, Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc e Petit Verdot trovano il loro habitat ideale.
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L’Aglianico del Vulture. Vino di lunga ed antica tradizione se si pensa che già il poeta latino Orazio, originario di Venosa alle pendici del Vulture, ne parla nei suoi scritti esaltando le bellezze della sua terra e la bontà del suo vino. E proprio a Venosa ha sede cantina Madonna delle Grazie di cui oggi degustiamo l’Aglianico del Vulture Doc Bauccio, vendemmia 2009.
LA DEGUSTAZIONE Rosso rubino intenso, per nulla trasparente, con riflessi granati. Al naso si svela subito una nota fruttata, di frutti neri e rossi maturi, seguita da vicino dai sentori speziati. Mirtillo, mora e prugna molto maturi che si alternano elegantemente a pepe nero, liquirizia ed un accenno di fieno.
In bocca è pieno, strutturato. L’alcolicità elevata (14,5%) non infastidisce e ben si integra con la buona acidità ed i tannini, fini e vellutati, creando una sensazione di grande equilibrio. Lungo ed elegante il finale.
LA VINIFICAZIONE Aglianico in purezza (100%) da vigneto sulle pendici del Vulture. Viti di età media di 50 anni. Raccolta manuale e cernita in pianta per garantire la miglior qualità delle uve. Vinificazione in piccoli contenitori con frequenti follature. Dopo la maturazione sulle fecce fini Bauccio riposa un minino di 12 mesi in tonneaux di rovere francese.
LA CANTINA Tecniche non invasive, niente pesticidi e insetticidi, e rispetto del ciclo naturale della vite. Era il 2003 quando per la prima volta Giuseppe Latorraca decise di coltivare e vinificare le antiche vigne di famiglia e di farlo nel rispetto e nella valorizzazione del territorio: il monte Vulture.
Antico vulcano spento sulle cui pendici l’Aglianico ha trovato l’habitat adatto, fatto di mineralità e di un clima particolare. Madonna delle Grazie coltiva solo uve Aglianico, poste in diverse contrade di Venosa, tutte fra i 400 ed i 550 metri sul livello del mare, vinificando per singole parcelle per raccontare le diverse personalità delle viti e dei vini.
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Nel calice di vinialsuper oggi un vino prodigo di emozioni, prodotto in quella terra generosa che è l’Irpinia. Siamo in Campania con il Taurasi Docg annata 2009 prodotto dalla Cantina D’Antiche Terre, Manocalzati (Av).
LA DEGUSTAZIONE Rosso rubino carico con riflessi granati, il Taurasi Docg D’Antiche Terre ha un naso intenso, schietto e mediamente fine. Apre con una nota pungente che necessita di una adeguata aereazione per essere domata. Ma una volta superato il suo essere schivo, ecco emergere la sua vera natura liberale. Note fruttate di ciliegia, marasca e prugna lasciano spazio a ricordi di liquirizia e alloro. Frequenti sono anche i rimandi di vaniglia e note terziarizzate di tabacco.
Avvolge il palato con una rotondità che evolve verso però sfumature più austere. Il nerbo acido è molto fresco e il tannino, a distanza di otto anni, presidia ancora la bevuta. Sufficientemente equilibrato ed elegante, si fa apprezzare nel finale intenso e di lunga persistenza. Complessivamente un calice seducente e memorabile: un vino “gastronomico”, che cerca decisamente l’abbinamento in tavola.
LA VINIFICAZIONE Il Taurasi Docg D’Antiche Terre, è prodotto con uve 100% Aglianico. La vinificazione avviene con presse a membrana. La fermentazione in presenza di buccia viene sottoposta a frequenti rimontaggi per estrarre il colore. La maturazione avviene in vasche di acciaio inox cui seguono passaggi in botti di legno grande e per periodi variabili in barriques per un periodo complessivo di tre anni oltre ad un affinamento in bottiglia di 18 mesi. D’Antiche Terre dispone di circa 40 ettari vitati. L’azienda, nata nel 1989, ha cominciato a vinificare nel 1993. Attualmente gestita a conduzione familiare produce i principali vini irpini bianchi e rossi (Greco, Fiano, Taurasi, Aglianico).
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Vinialsuper quest’oggi Vi porta a nord est, dove il sole sorge in primavera estate. Siamo nella regione dei grandi numeri del vino, quella che rappresenta da sola il 36% dell’export nazionale: il Veneto. Sotto la lente di ingrandimento un vino interessante: il Merlot del Veneto Igt annata 2009 del produttore Terre di San Rocco, azienda in forte espansione nel territorio di San Vendemiano in provincia di Treviso. La denominazione Veneto Igt (acronimo di indicazione geografica tipica) è una delle più vaste in Italia e comprende una serie di bianchi e rossi prodotti sia in versione ferma che frizzante sia in versione passito. Ma passiamo subito alla recensione di questo rosso.
LA DEGUSTAZIONE All’analisi visiva, il Merlot del Veneto Igt 2009 Terre di San Rocco si presenta di un rosso rubino scuro con un unghia nel calice brillante e viva. Ottima la scorrevolezza e la tendenza ad archi stretti. Al naso, sentori di fichi cotti al forno ben si legano alla balsamicità dell’eucalipto ed ad un bouquet floreale di petunie e ribes. Al palato il gusto è molto deciso. Un tannino pulito e molto suadente va a sfociare in un bellissimo peperone verde che conferisce freschezza alla beva che mai si stanca nel continuo ricercare note di piccoli frutti rossi e una delicatissima confettura di more.
Il Merlot del Veneto Igt 2009 ha una gradazione di 13,5%. S accosta alla pasta e fagioli alla veneta o all’arrosto d’oca, ma si fa apprezzarea anche al cospetto di un bel taglio di fiorentina.
LA VINIFICAZIONE
Il Merlot del Veneto Igt 2009 Terre di San Rocco è prodotto con uve 100% Merlot allevate secondo il metodo GDC. La produzione di questo vino si concentra tutta in 4800 ceppi per ettaro con una resa di 1-1,2 kg per ceppo. Sui terreni non viene effettuata alcuna concimazione e la vendemmia è rigorosamente manuale. L’uva, accuratamente selezionata viene diraspata e pigiata per poi fermentare in recipienti troncoconici d’acciaio con macerazione lunga di 16/18 giorni. Successivamente riposa per 16/18 mesi in vasche di acciaio inox.
Terre di San Rocco nasce quasi all’alba del nuovo millennio, nel 1999 anno in cui furono impiantate le prime barbatelle. I terreni di proprietà si trovano in quello che veniva chiamato ”Borgo di San Rocco” per i ritrovamenti in una vecchia casa colonica, di un affresco di San Rocco con il cane che lo accudì durante la malattia nutrendolo del pane che prendeva dalla tavola del suo padrone per portarlo al rifugio del Santo. Quel cane, simbolo di fedeltà e dedizione, è diventato il simbolo dell’azienda.
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Non tutte le grandi bollicine sono prodotte all’interno di DOC o DOCG in territori storicamente vocati alla spumantizzazione. È il caso di Cantine d’Araprì di San Severo in provincia di Foggia. Ad animare con il suo perlage il calice di vinialsuper, lo Spumante Metodo Classico Brut Rosè, sboccatura 2016 prodotto laggiù, in Puglia, in Capitanata.
LA DEGUSTAZIONE Nel bicchiere è brillante. Di un bel colore buccia di cipolla carico, quasi salmone, con riflessi dorati che ricordano l’oro rosa usato in gioielleria. Al naso è immediatamente fresco e floreale. Seguono note di frutti rossi e frutta matura. L’immancabile lisato, la ”crosta di pane” tanto cara ai sommelier, si manifesta poco dopo sotto forma di un profumo leggermente tostato a completare il bouquet. La leggerissima nota zuccherina (5g/l il dosaggio) lo controbilancia l’acidità rendendolo morbido al palato. Giustamente sapido e piacevolmente beverino chiude il sorso con una buona persistenza nella quale ritroviamo gli aromi percepiti al naso. Uno spumante equilibrato che grazie alla sua morbidezza, al buon corpo e alla sapidità non eccessiva può ben accompagnare piatti saporiti e sapidi come, ma non solo, quelli della cucina del territorio in cui nasce (ottimo col caciocavallo podolico).
LA VINIFICAZIONE Brut Rosé è ottenuto da uve Pinot Nero e Montepulciano con basse rese per ettaro. Le vendemmie sono separate per i due vitigni, fine agosto per il Pinot Nero e fine settembre per il Montepulciano, per poter cogliere la migliore maturazione delle uve, con raccolta e selezione manuale dei grappoli. Affinamento in bottiglia minino di 24 mesi.
Tre amici, Girolamo d’Amico, Louis Raspini ed Ulrico Priore, originariamente accomunati dalla passione per la musica (ancora oggi suonano jazz insieme) decidono nel 1979 di fondare Cantine d’Araprì (dalle iniziali dei cognomi), ad oggi l’unica realtà pugliese che produce solo ed esclusivamente spumanti Metodo Classico. Lo fanno spinti dalla voglia di valorizzare il proprio territorio, di nobilitarlo attraverso il prestigio delle bollicine e dal desiderio di rivalutare i vitigni tipici, primo fra tutti il Bombino Bianco.
I loro vigneti sono allevati secondo la tradizionale forma della pergola pugliese su un territorio, a ridosso del promontorio del Gargano e da esso protetto, fatto di terra asciutta, ma generosa, ventoso e poco piovoso in cui la produzione è limitata, ma di ottima qualità. Palazzo d’Araprì, antico palazzo storico ristrutturato dall’azienda nel centro di San Severo è oggi bellissima sede aziendale nonchè cantina di affinamento. Cantina che grazie alla sua naturale conformazione, posta esattamente sopra la falda acquifera, garantisce umidità uniforme e temperatura constante a 13°, condizioni perfette per l’affinamento ”sur lie” degli spumanti.
Nel corso dei sui quasi quarant’anni di attività d’Araprì ha ricevuto svariati premi e riconoscimenti per i sui vini. Vini che sanno rivelare i loro segreti a chi li sa ascoltare.
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Sono da poco in commercio le nuove annate dei vini di Joško Gravner: Ribolla 2009, Bianco Breg 2009 e Rosso Breg 2005, in attesa della Ribolla Riserva 2003 che uscirà in autunno.
Quella del Breg Bianco sarà una delle ultime annate di questo storico vino della cantina di Oslavia, che vedrà nel millesimo 2012 l’ultima in commercio. Il Bianco Breg è infatti un uvaggio di Sauvignon, Pinot Grigio, Chardonnay e Riesling Italico, tutti vitigni che Gravner non coltiva più da qualche anno, a favore dei soli ribolla e pignolo, con il quale è prodotto il Rosso Breg. Una decisione maturata sin dai tempi dell’amicizia con Veronelli, e finalmente portata a compimento.
”È stata un’annata asciutta la 2009 – spiega Joško Gravner – con poche precipitazioni in autunno che non hanno permesso un grande sviluppo di botrite nobile sui grappoli. La 2005 invece è stata più equilibrata, con piogge durante tutto il periodo estivo e autunnale”.
Tutti e tre i vini sono prodotti secondo la filosofia del produttore giuliano: fermentazione con lunga macerazione in anfore georgiane interrate, con lieviti indigeni e senza controllo della temperatura. Dopo la svinatura e la torchiatura il vino torna in anfora per almeno altri 5 mesi prima di iniziare l’affinamento in grandi botti di rovere, dove i bianchi sono rimasti 6 anni, mentre il rosso Breg 5 anni. Imbottigliati in luna calante senza chiarifica o filtrazione, terminano il loro affinamento in bottiglia. Sia i due bianchi che il Rosso Breg vanno serviti a temperatura di cantina di 16-18° C. Prezzo al pubblico 70 euro per i due bianchi, 90 euro per il Rosso Breg.
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Tappa in Puglia, più esattamente in provincia di Foggia, per il racconto del Cabernet Sauvignon di Cantine Losito, azienda all’avanguardia nel panorama dauno, produttori bio certificati dal 1997.
All’esame visivo, il vino si presenta di un rosso rubino impenetrabile, con leggeri riflessi violacei. La rotazione del nettare nel calice evidenzia archi molto ampi e lacrime che lente scivolano sulle pareti del bicchiere.
Al naso predominanza netta delle note dovute all’affinamento in legno: terziari, dunque, di cacao e caffè. Un olfatto intrigante, completato da sentori speziati di pepe e da un leggero spunto vanigliato.
La beva del Cabernet Sauvignon di Cantine Losito è quella dei rossi dal sorso facile, ma tutt’altro che banale. Un vino vigoroso e fresco, con note vegetali di peperone (tipiche del vitigno) e un bouquet di salvia e menta. Il tutto accompagnato da una sapidità sostenuta.
Un rosso molto ben equilibrato, con ricordi di sottobosco (more e ribes maturi) che lasciano spazio a un finale di polvere di caffè Arabica. Gli abbinamenti consigliati sono con le carni grasse, anche nella variante con riduzioni alla frutta, e piatti a base di tartufo.
LA VINIFICAZIONE La vinificazione di questo Cabernet parte da una raccolta meccanica di ultima generazione, molto selettiva, che riesce a valorizzare solo acini sani e maturi. Segue poi un’ulteriore selezione e pulizia dell’acino sulla macchina.
Il periodo di raccolta è fine settembre, da impianti con un sistema di allevamento a cordone speronato. La macerazione avviene in acciaio a temperatura controllata, con rimontaggi frequenti per quindici giorni. Il vino viene poi affinato per sei mesi mesi in botti di rovere francese, prima di essere imbottigliato.
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Sarà un’estate all’insegna delle bollicine “Made in Friuli”. E’ quanto emerge dai primi dati diffusi dalla Viticoltori Friulani La Delizia di Casarsa, la più grande cantina del Friuli e una delle maggiori in Italia per dimensioni.
Nei primi sei mesi dell’anno sono state infatti vendute 700 mila bottiglie di spumante Naonis, raddoppiando le vendite rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Se il Prosecco continua a trainare la linea del colosso di Orcenico Inferiore di Zoppola (PN), guadagna sempre maggiore appeal la cuvée Jadér, prodotto originale La Delizia a partire dal nome.
“Continuiamo a crescere – spiega il direttore commerciale de La Delizia, Mirko Bellini (nella foto) -: basti pensare che in questo inizio 2017 abbiamo già venduto più bottiglie di Naonis che in tutto il 2015 e siamo vicino al traguardo globale del 2016, quando vendemmo poco più di un milione di bottiglie”.
Il segreto di questo successo? “Si tratta di un prodotto di qualità – risponde Bellini – che piace immediatamente. Racconta il Friuli e allo stesso tempo ha una vocazione internazionale. Il tutto corredato da un’etichetta, un logo e un design della bottiglia che lo rendono riconoscibile al pubblico, che anche per questo motivo lo sta richiedendo sempre di più. In particolare lo Jadér ci identifica, essendo un prodotto sviluppato interamente da noi, sia per l’uvaggio che per il nome e il packaging: quando richiedono questo spumante, di fatto scelgono di bere il nostro marchio, non generiche bollicine”.
LE PROSPETTIVE Pochi dubbi, dunque, sulle prospettive dell’estate 2017. “Stiamo aumentando le vendite in tutta Italia nel canale Horeca – conclude Bellini – con un interessante sviluppo nelle località di mare, segno di come il consumatore associ le nostre bollicine ai suoi momenti di relax, felicità, benessere e festa. Tutte indicazioni importanti per noi. Una conferma che la strada intrapresa è quella giusta. Se poi aggiungiamo che le vendite di Naonis stanno crescendo anche in Friuli, terra giustamente molto esigente vista la sua tradizione vitivinicola, non possiamo che essere soddisfatti”.
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Esistono due Doc in Liguria che prevedono l’utilizzo del Rossese. Quella della Riviera Ligure di Ponente con menzione del vitigno e quella ufficiale, oggi sotto la nostra lente di ingrandimento di Dolceacqua.
Quest’ultimo, borgo medioevale famoso soprattutto per il suo ponte romano a schiena d’asino definito un “gioiello di leggerezza” da Monet che ne dipinse ben quattro tele è uno dei 14 comuni situati lungo la Valle di Nervia e la Valle di Crosia dove si produce questo rosso per certi versi contraddittorio: austero e generoso al tempo stesso.
LA DEGUSTAZIONE
Rosso rubino intenso con riflessi che tendono al granato sull’unghia. Così si presenta il Rossese di Dolceacqua Superiore “Posaù” prodotto da Maccario Dringeberg.
Un ottimo biglietto da visita il colore che già ci fa immaginare piacevoli sensazioni olfattive. Ed infatti il Posaù non delude quando mettiamo il naso nel bicchiere. Elegante e fine, ma allo tempo stesso deciso, ricco di sentori fruttati, frutti rossi in primis, accompagnati da un tipico sentore di macchia mediterranea. Sul fondo si percepiscono note speziate appena accennate e assai piacevoli che suggeriscono come il Posaù avrebbe potuto riposare ancora qualche tempo in cantina.
In bocca è equilibrato e rotondo, ritroviamo tutti i profumi sentiti al naso seppur in forma più lieve. I tannini, presenti ma non invasivi, aiutano a sottolineare la morbidezza e la sapidità del vino. Il finale non molto persistente è dotato di una buona freschezza che invoglia alla beva.
LA VINIFICAZIONE
Ottenuto vinificando solo uve Rossese con l’utilizzo di lieviti indigeni, macerazione lenta a temperatura controllata, ed affinato 12 mesi in acciaio il “Posaù” è quello che si dice un cru. Un vigneto di poco più di un ettaro le cui viti arrivano anche a 60 anni d’età posto nel cuore della DOC Rossese di Dolceacqua su terreno marno-sabbioso i cui pendii proibitivi ben si addicono alla definizione “viticultura eroica” spesso utilizzata per definire l’enologia ligure.
Realtà storica del ponente ligure la cantina Maccario Dringenberg ha fatto della territorialità la propria bandiera, territorialità che ritroviamo tanto nella scelta di vinificare i propri prodotti per singoli cru (o singola vigna), Posaù, Curli, Luvaira, Brae, quanto nella scelta del sistema d’allevamento tradizionale ad alberello e nel lavoro manuale in vigna. Scelte di passione e di sacrificio per coltivare questo territorio capace di dare molto ma tutt’altro che facile.
Il risultato di questo amore per il proprio lavoro e la propria terra lo abbiamo qui, nel bicchiere, pronto per essere scoperto ed assaporato, magari accompagnato da un buon piatto. Suggerimenti? Carni bianche oppure un buon primo piatto di carne.
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Guardi il bicchiere, ci metti il naso, lo porti alla bocca. Sembra facile e per molti aspetti lo è, anche se a volte l’analisi di un vino richiede uno sforzo in più per comprenderlo a pieno. Ma quando a richiedere lo ”sforzo in più” è il cru ”Sanct Valentin” della cantina di San Michele Appiano ci si sacrifica volentieri.
LA DEGUSTAZIONE
L’Alto Adige Doc Pinot Bianco ”Sanct Valentin 2013” di San Michele Appiano, col suo giallo paglierino carico, limpido e trasparente ci aspetta e ci intriga col suo colore pieno.
Al naso è ricco, intenso, sprigiona da subito sentori di frutta matura a polpa bianca. Ed allora ecco la pesca, l’albicocca e poi il melone e la mela verde, acidula quel tanto da non rendere stucchevole la “sinfonia di frutta”. Seguono le note floreali, leggere, ed una nota minerale vagamente fumè.
In bocca è ricco. Molto morbido e strutturato, ma di una struttura ed intensità quasi vellutata che non lo fa certo perdere di eleganza, forte anche di una bella freschezza che supporta il sorso. Sorso non agile e beverino, come spesso troviamo nei bianchi, ma profondo e denso. Sul fin di bocca ecco apparire la mineralità che ci accompagna lungo tutta la lunga persistenza.
LA VINIFICAZIONE
L’annata 2013 ha visto la raccolta e selezione manuale delle uve, 100% Pinot Bianco da vigna selezionata, nella prima metà di ottobre. La metà del raccolto svolge in barrique/tonneaux le fermentazioni alcolica e malolattica e una macerazione sui lieviti. La parte rimanente è vinificata in grosse botti di quercia. Dopo poco meno di un anno i due vini sono assemblati e maturano assieme per altri 6 mesi in contenitori d’acciaio.
“Kellerei St. Michael– Eppan” recita l’etichetta che riporta il nome della cantina in lingua tedesca come solo può essere in terra Altoatesina, il Südtirol, ovvero la “Cantina Produttori San Michele Appiano”. Produttori perché si tratta di una realtà cooperativa che ad oggi conta più di 350 soci viticoltori.
Nata agli inizi del secolo scorso, come testimonia la bellissima sede in stile Liberty, è cresciuta negli anni forte della passione delle famiglie di viticoltori che ne sono via via entrate a far parte, forte del rispetto per il territorio e forte del rispetto per l’uva, per le sue singole varietà ed i suoi cru sino ad arrivare, oggi, ad essere un vero punto di riferimento per l’enologia Altoatesina.
San Michele è oggi in grado di fornire una linea completa di prodotti, dal top di gamma “Sanct Valentin” alla “Classica” ed alla “selezione”, ed in ognuna di esse troviamo i vitigni che rappresentano questa terra: Gewürztraminer, Pinot Bianco, Pinot Grigio, Sauvignon, Pinot Nero, Lagrain. In ogni bottiglia ritroviamo il varietale, il territorio, la cantina. Sintesi perfetta di quella “terra di mezzo” stesa fra la Stretta di Salorno ed il Brennero.
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