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L’Ovada Docg e quel tentativo di somigliare al Barolo

MILANO – A distanza di quasi un anno da Vinitaly 2019, il Consorzio di Tutela dell’Ovada Docg ha riproposto ieri a Milano, in collaborazione con Ais, una degustazione di annate storiche non del tutto convincente. Se è vero che il Dolcetto “invecchia” bene dalle parti di Ovada, il reiterato tentativo di “somigliare al Barolo – con vini anni 90 al limite della potabilità – rischia di adombrare le doti (eccellenti) dell’Ovada “giovane”. Confondendo ancor più i consumatori, che hanno appena iniziato a “digerire” la manovra (dialettica) dal “Dolcetto” all’“Ovada”, tout court.

Ne ha tante di cose da raccontare il vino simbolo del Monferrato Ovadese, nei suoi primi anni di vita. Viene da chiedersi a chi giovi forzare la comunicazione di un Consorzio nato nel 2013 sulle doti da maratoneta di un atleta prezioso sin dai primi cento metri della “corsa”.

La chiamano #OvadaRevolution, ma sembra più #OvadaConfusion. Una sindrome del lungo affinamento a tutti i costi propagatasi forse dai vicini di casa del Gavi Docg, che sbandierano la longevità del Cortese senza avere scorte di vecchie annate in cantina. Cui prodest?

In zona, ovvero in quella fetta di Piemonte limitata all’Alessandrino, pare avere le idee chiare più di tutti il Derthona, illuminato dal genio più rinnovabile dell’energia green di Walter Massa e dalle scelte di un Consorzio guidato quasi sottovoce – ma con grande determinazione – da Gian Paolo Repetto.

Il punto è che le vicende e le storie delle varie Denominazioni dell’Alessandrino finiscono per mescolarsi ai banchi d’assaggio, come quello allestito ieri al The Westin Palace di Milano. L’Ovada Docg e il Dolcetto d’Ovada, accanto al Gavi e al Derthona, sono pezzi dello stesso puzzle che amplificano il rumore di scelte (forse) discutibili.

Difficile trovare Dolcetti capaci di far davvero gridare al Barolo o al “Barolino”, tra le vecchie annate in degustazione. Ecco una selezione degli assaggi più convincenti tra i 27 produttori presenti alla prima milanese dell’Ovada Docg.

  1. Ovada Docg 2017 “1919”, Alvio Pestarino. Splendido frutto, freschezza balsamica, tannino di gran eleganza, gran persistenza. Un vino capace di rappresentare appieno l’eccellenza della Denominazione. Ottenuto da un “cru” aziendale, l’etichetta del giovanissimo enologo Andrea Pestarino (nella foto) celebra nel migliore dei modi i 100 anni della cantina di Capriata d’Orba (AL).
  2. Ovada Docg 2018 “Du Sü”, Tenuta La Piria. Frutti rossi (ciliegia e mora) e fiori (violetta) esplosi nel calice, per un Dolcetto dalla gran bevibilità, rinvigorita da un finale ammandorlato e vagamente salino. Colpisce per la capacità di coniugare verticalità e polpa. Altro vino simbolo della Docg.
  3. Ovada Docg 2018 “Celso”, Cascina Boccaccio. Un Ovada Docg giocato tutto sull’espressività del frutto, polposo e pieno: la leggera volatile porta al naso i profumi, senza disturbare. Tannino elegante per un vino da godere oggi, eppure di gran prospettiva.
  4. Ovada Docg Riserva 2016 “Le parole servono tanto ma il cuore fa di più”, Cascina Gentile. Giovane e bravo Daniele Oddone, che si districa tra le varie denominazioni dell’Alessandrino con risultati sempre convincenti. Sotto i riflettori, in particolare, il suo impegno a Ovada in qualità di vicepresidente del Consorzio. Gran bel frutto per una riserva versatile e dall’eccellente bevibilità, in commercio da metà marzo.
  5. Ovada Docg 2016, Castello di Tagliolo. Best of nell’utilizzo del legno per questa etichetta che coniuga una beva tonda, senza rinunciare ai piacevoli “spigoli” tipici del vitigno. Un vino che esalta il gran lavoro in vigna, assieme alla mano dell’enologo.
  6. Ovada Docg 2016, Tenuta Elena. Terreni in parte tufacei per questa etichetta, che racconta una mineralità curiosa, al naso. Sorso agile, tannino elegante e di prospettiva. Frutto e balsamicità come cifra definitiva.

UNA DENOMINAZIONE IN CRESCITA

“È la prima volta che un gruppo così numeroso di aziende esce dai ‘cortili’ per presentarsi unito a Milano – commenta il presidente del Consorzio di Tutela dell’Ovada Docg, Italo Danielli, intervistato da WineMag.it – ed è proprio in città e in luoghi d’eccellenza come questo che la nostra Denominazione si vuole collocare”.

“Siamo tra i produttori dei grandi rossi piemontesi – continua il numero uno dell’ente – e vogliamo raccontarlo e ribadirlo nelle sedi opportune: oggi a Milano e presto a Vinitaly 2020. Mete importanti, che fino a poco tempo fa era difficile anche solo immaginare”.

“Il Consorzio è nato nel 2013 con 12 aziende, adesso siamo 37 e piano, piano stiamo creando una massa critica importante. I produttori stanno capendo che assieme, facendo un passo in avanti da colleghi e non da concorrenti, si possono raggiungere risultati importanti”.

Secondo i dati più aggiornati, riferiti al 2018, l’Ovada Docg ha superato quota 100 mila bottiglie. “Un numero esiguo – sottolinea Danielli – ma considerati gli imbottigliamenti del 2017, il 2018 ha registrato una crescita del 20%: numeri in controtendenza nel panorama italiano, che dimostrano quanto il territorio stia credendo nel progetto”.

Un disegno che riguarda anche la superficie vitata della Docg, oggi a quota 100 gli ettari complessivi. “Abbiamo un’opzione favorevole nell’ottica di crescita del peso specifico della Denominazione – evidenzia ancora il presidente del Consorzio – ovvero la possibilità di rivendicare la Docg sui terreni iscritti a Dolcetto d’Ovada Doc”.

Si tratta di altri 500 ettari vitati complessivi, già a disposizione dei produttori. “Ovviamente – precisa Dainelli – il disciplinare della Docg è più restrittivo e prevede, per esempio, rese massime di 70 quintali all’ettaro per il ‘base’ e 60 per la Riserva, mentre la Doc si assesta sugli 80 quintali per ettaro. Le nostre rese sono comunque attorno ai 50″.

“Raccolta delle uve, vinificazione e imbottigliamento devono avvenire all’interno del territorio della Denominazione – conclude Danielli – e non a caso stiamo puntando sul nome Ovada Docg per identificare il nostro Dolcetto: un modo per tutelare l’unicità della Denominazione, impossibile da garantire utilizzando semplicemente il nome del vitigno”.

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Oltrepride: Frecciarossa compie 100 anni di orgoglio in Oltrepò e presenta Anamari 2017

Più che un vino, una dichiarazione d’amore e d’orgoglio. Frecciarossa compie 100 anni e li celebra con una nuova etichetta, che sa di tradizione e futuro: Anamari 2017, Rosso Riserva Oltrepò Pavese Doc. Un vino legato a doppio filo al territorio pavese, ottenuto con le uve autoctone Croatina, Barbera, Uva rara e Vespolina. Solo 2297 bottiglie, più 50 magnum.

Una chicca che esalta le potenzialità dell’Oltrepò e dà il via a un progetto che potrebbe coinvolgere altri produttori. A spiegarlo è proprio Valeria Radici Odero, quarta generazione della famiglia di origini genovesi arrivata a Casteggio (PV) nel 1919: “La nostra zona ha bisogno di un vino identitario forte, che provenga esclusivamente da qui”.

Il Pinot Nero, pur importante per l’Oltrepò e per la nostra azienda, cresce in Oregon, in Borgogna, in Alto Adige. Croatina, Barbera, Uva rara e Vespolina sono nostri, sono solo qui. Per questo dobbiamo valorizzarle e puntarci. Sono uve che danno vini rossi da lungo affinamento, con un potenziale infinito”.

Parole che assumono un’importanza ancora più marcata, se si considera quanto Frecciarossa – azienda di 20 ettari complessivi, più 3 pronti ad essere impiantati – sia legata al Pinot Nero. Non ultimo con eccellenze mondiali come l’etichetta “Giorgio Odero“, Noir di rara finezza e longevità.

“Pensando ai nostri cent’anni e all’identità forte di cui ha bisogno l’Oltrepò pavese – chiosa Valeria Radici Odero – siamo tornati a fare questo vino di cui avvertiamo la necessità, assieme a un altro ristretto gruppo di produttori”.

Tra le ipotesi, anche quella di trovare un nome comune per tutti i vini ottenuti dall’uvaggio tipico oltrepadano. Del resto, Anamari 2017 non è un vino totalmente nuovo. Piuttosto un ritorno di fiamma.

“Lo produceva mio nonno – precisa Radici Odero – poi è stato ripreso da mia madre Margherita col nome di ‘Villa Odero‘. Fino al 1997, quando abbiamo preso la decisione di vinificare i singoli vitigni in purezza, rinunciando all’uvaggio”.

Anche il nuovo corso dell’etichetta, col suo nome che rievoca i popoli Celti che abitavano l’Oltrepò, è un mix di tradizione e novità. A curarlo sono i due enologi piemontesi di Frecciarossa: il veterano Gianluca Scaglione, in forza da vent’anni alla cantina di Casteggio, e la giovane new entry Cristiano Garella.

Un vino, Anamari 2017, vinificato in tini troncoconici, utili a far esplodere il varietale, il frutto, il terroir, senza snaturare l’uva con i sentori di legno. Gran beva per la nuova etichetta di Frecciarossa, che si conferma ad altissimi livelli anche nel campo dei vini potenzialmente “al bicchiere” al ristorante, visto il sorso tutto sommato semplice, ma mai banale.

Convince Anamari, sopratutto per la lettura del tannino della Croatina: presente in chiusura, ma preso per le briglie da un frutto preciso, croccante. Oltre che da una salinità concentrata, che invita al calice successivo.

“Un vino dalla leggerezza moderna“, come lo descrive Valeria Radici Odero. Parere confermato da Armando Castagno, ospite delle celebrazioni per i cent’anni di Frecciarossa andate in scena ieri a Villa Odero, splendida dimora in stile Liberty di proprietà della famiglia, immersa tra i vigneti di Casteggio.

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A Grandi Langhe 2020 spicca la “longevità” dei Barolo 2016

Una quinta edizione, quella di Grandi Langhe 2020 (ad Alba, 27 e 28 gennaio), col segno “più“. Aumentano infatti gli ingressi da parte degli operatori del settore, +30% rispetto al 2019. Oltre 2000 professionisti provenienti da 34 paesi nel mondo per degustare le nuove annate di Barolo 2016, Barbaresco 2017 e Roero 2017, e delle altre denominazioni di Langhe e Roero.

“Oltre un terzo dei partecipanti è arrivato dall’estero, a conferma del fatto che il nome di Grandi Langhe si sta affermando sempre di più anche fuori dall’Italia” – dice il presidente del Consorzio di Tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani Matteo Ascheri.

Fra i 206 banchetti si disegna il tratto di una nuova annata, in particolare per il Barolo 2016, in gran forma e con ogni probabilità destinata a farsi ricordare a lungo nel calice: un’annata nel pieno delle potenzialità di affinamento per il rosso simbolo delle Langhe.

GLI ASSAGGI DI WINEMAG.IT

Conferme e novità, grandi e piccoli produttori fra gli assaggi di WineMag. Ecco quelli più convincenti.

Barolo Bussia Docg 2016, Fogliati. Un Barolo ricco, pieno e scorrevole. Naso che coinvolge alternando il frutto ad un terziario aromatico che a tratti ricorda sentori di brace. Tannino vellutato e grande freschezza. Un Barolo che sembra parlare la stessa lingua del vicino di cru (e, coincidenza, di banchetto) Giacomo Fenocchio. Ottima prima vendemmia per i fratelli Annalisa e Guido Chiappa.

Sono loro la “storia di copertina“. Ragazzi poco più che trentenni che hanno recuperato i vigneti di famiglia fra Castiglione Falletto e Monforte. Viti di circa 70 anni, condotte in regime bio, estese su 7 ettari ma di cui al momento solo 2,8 sono produttivi.

Circa 6000 bottiglie per una sfida ed una scommessa che, a giudicar dal loro primo Barolo, è vinta con ampio margine. Ne è conferma anche il Langhe Nebbiolo Docg 2018. Fiori e frutto al naso scalcianti nella loro gioventù ed una bocca sostenuta dalla stessa sapida mineralità del Barolo.

Barolo Bussia Docg 2016, Giacomo Fenocchio. Un nome che è una certezza ma in questo caso la mano di Claudio ha disegnato una linea di cru (Cannubi, Castellero, Villero e Bussia) che da soli spiegano il motivo di tanto successo. Il Bussia in particolare ha un naso ricco e profondo ed una mineralità che restano nella memoria.

Così come il Barolo Bussia Docg 2010, chiaramente più evoluto ed intrigante ma in qualche modo “fratello maggiore” del 2016. Due annate che messe a confronto hanno molto di cui parlare.

Barolo Docg 2016 “La Tartufaia”, Giulia Negri – Serradenari. Grande riconferma per Giulia, che dopo l’ottima performance del 2019 con “La Tartufaia” 2015 presenta qui una nuova annata del suo cru. Diverso eppur con la stessa prospettiva il 2016 ha naso complesso ed è avvolgente al palato in un gioco continuo fra freschezza e tannino.

Barolo Scarrone Docg 2016, Bava. Un Barolo ruvido che apre su note fruttate per chiudere il sorso con un tannino a tratti spigoloso. Vino che lascia immaginare possibilità di allungo e maggior finezza nel tempo. Impressione confermata dall’assaggio del Barolo Scarrone Docg 2011; vino succoso, pieno e fresco.

Un 2011 che per freschezza “e gioventù” se la gioca con molti 2016 presenti. Quando rispettare il vino ed il territorio paga “sulla distanza”.

Barolo Riserva Docg 2013, Virna Borgogno. Conquista subito per la sua balsamicità mentolata. Una freschezza al naso che fa da contraltare a terziari, piacevoli ed evidenti, “scuri” di spezie e frutta rossa surmatura.

Barbaresco Montersino Docg 2017, Albino Rocca. Pulito, preciso, “didattico” nel senso più bello del termine. Barbaresco che non fa discutere fra “modernità” e “tradizione”, semplicemente si fa apprezzare e gustare.

Barbera d’Alba Superiore Doc 2017, Marengo Mauro. Naso intenso e ricco di frutto rosso, lieve nota di legno. Armonico e sapido in bocca non nasconde la sua viva freschezza.

Langhe Nebbiolo Doc 2017, Garesio. Un Nebbiolo che apre ematico ed agrumato per regalare note floreali e di frutto rosso in un secondo momento. Piacevolmente scorrevole e minerale al sorso è dotato una piacevolissima persistenza.

Il Barolo Gianetto Docg 2016, sempre di Garesio e qui presente in campione per degustazione perché non ancora imbottigliato, è un vino di struttura in cui il tannino si presenta ancora in modo potente. Da riassaggiare fra qualche tempo.

Sul fronte dei bianchi a stupire è il Vino Bianco “Sabbia” 2017 di Demarie. Un Arneis macerato e brevemente affinato in barrique. Colore carico ma non “ornage”, occorre lasciarlo scaldare un po’ nel bicchiere per poterne godere a pieno.

Circa 3000 bottiglie che conquistano il naso con profumi di pesca, albicocca, camomilla ed un po’ di spezia. In bocca è sapido, fresco e di corpo. Lunga la persistenza sulle stesse note del naso.

Deltetto sfoggia una coppia di Arneis in splendida forma. Roero Arneis Docg 2018 “San Michele” è profumato al limite dell’aromatico. Frutta esotica che dona morbidezza e frutta bianca che da freschezza. Roero Arneis Riserva Docg 2017 “San Defendente” mostra una maggiore evoluzione.

Note morbide accompagnate da una mineralità di idrocarburo. Il campione di “Atto a diventare” San Defendente 2018 conferma la propensione della cantina ai bianchi da invecchiamento.

Langhe Nascetta Doc 2018, La Rachilana. Vitigno ancora poco noto e poco coltivato vista la sua scarsa rappresentazione qui a Grandi Langhe 2020. Quella di La Rachilana si fa notare per la sua facilità di beva. Apre il sorso in modo verticale per poi allargare su note fruttate durante la persistenza, non lunghissima ma assolutamente piacevole.

Langhe Doc Sauvignon 2018, Silvano Bolmida. Attenzione ai terreni ed alle tecniche di viticoltura che pagano (ancora) regalando un Sauvignon non banale. Pulito e preciso, sapido. Grande frutta e varietale ma senza quella potenza della “foglia di pomodoro” che solitamente ci si aspetta da questi vini. Un’etichetta già presente nella Guida TOP 100 – 2019 di WineMag.it.

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Anteprima Amarone 2016: meglio le “prove di botte” delle bottiglie. Ed è un bene

VERONA – Diciotto vini già in bottiglia e trentasei “prove di botte”, ancora in affinamento. Questi i numeri di Anteprima Amarone 2016, l’annuale kermesse che ha visto protagonista il rosso simbolo della Valpolicella nella giornata di ieri, sabato 1 febbraio.

Dopo l’esordio con la stampa, il Palazzo della Gran Guardia apre oggi al pubblico di appassionati, dalle 10:00 alle 20:00. Si potrà degustare l’ultima annata immettibile per legge in commercio, la 2016 per l’appunto.

La prova del calice dimostra quanto l’Amarone della Valpolicella sia una Denominazione in profonda trasformazione, che non ha ancora trovato un’uniformità stilistica definitiva. I tanti tentativi di alleggerire il sorso, per venire incontro ai desiderata dei nuovi consumatori, non vanno sempre a buon fine.

Dall’analisi dei 54 campioni in degustazione emerge una buona percentuale di vini scheletrici, senza materia. Vini che si perdono al naso e scivolano via troppo in fretta, al palato. Il tentativo esasperato di mettere “a dieta” l’Amarone ha effetti devastanti su alcuni dei vini della vendemmia 2016.

In questo quadro poco consolante, c’è ancora chi riesce a fare grandi Amaroni, capaci di abbinare materia, frutto, succosità e freschezza, senza sforare nelle esuberanze delle confetture o nelle penitenze monastiche delle strutture. Vini, questi, che convincono parlando pressoché al futuro.

Già, perché ad Anteprima Amarone 2016 sono proprio le “prove di botte” a raccontare le cose più belle, immaginandone le prospettive. Un buon segno se si considera qual è la dimensione cui aspira l’Amarone, pur nella fase di riassestamento della Denominazione.

Ovvero restare un vino rosso da lungo affinamento, capace di regalare emozioni a distanza di molti anni dalla vendemmia. Di seguito i migliori assaggi e tutti i punteggi assegnati da WineMag.it in occasione della degustazione alla cieca.

1. Accordini Stefano, Classico “Acinatico” (bottiglia): 88/100
2. Albino Armani, Classico (botte): 85/100
3. Aldegheri, Classico (botte): 88/100
4. Bennati (bottiglia): 86/100
5. Bertani, Valpantena (bottiglia): 87/100
6. Bolla, Classico (botte): 85/100
7. Bottega, “Il Vino degli Dei”: 85/100
8. Brolo Dei Giusti Soc. Agr. (botte): 91/100
9. Cà Dei Frati, “Pietro dal Cero” (botte): 90/100
10. Ca’ Rugate, “Punta 470” (botte): 84/100
11. Camerani Marinella, “Botte 65 – Vigneto Adalia” (botte): 91/100
12. Campagnola Giuseppe, Classico “Vigneti Vallata di Marano”: 87/100
13. Cantina Valpantena Verona, Valpantena “Torre del Falasco” (botte): 88/100
14. Clementi, Classico (botte): 90/100
15. Corte Figaretto, Valpantena “Brolo del Figaretto” (botte): 90/100
16. Costa Arènte, Valpantena (botte): 84/100
17. Dal Cero in Valpolicella (botte): 90/100
18. F.lli Degani, Classico (bottiglia): 89/100

19. Domini Veneti by Cantina Valpolicella Negrar, Classico (bottiglia): 85/100
20. Falezze di Luca Anselmi (bottiglia): 85/100
21. Fasoli Gino, “Alteo” (botte): 85/100
22. Fattori (botte): 88/100
23. Gamba, Classico “Campedel” (botte): 86/100
24. Giovanni Ederle (bottiglia): 88/100
25. I Tamasotti (botte): 93/100
26. Ilatium Morini, “Campo Leon” (botte): 85/100
27. La Collina Dei Ciliegi, Valpantena (bottiglia): 86/100
28. Lavagnoli (bottiglia): 85/100
29. Le Bignele, Classico (botte): 83/100
30. Le Guaite Di Noemi (botte): 93/100
31. Monte Del Frà, Classico “Tenuta Lena di Mezzo” (bottiglia): 89/100
32. Monteci, Classico (botte): 92/100
33. Cantine Giacomo Montresor, Classico “Capitel della Crosara” (botte): 90/100
34. Novaia, Classico “Corte Vaona” (botte): 89/100
35. Pasqua Vigneti e Cantine (botte): 89/100
36. Riondo – Collis (botte): 88/100

37. Roccolo Grassi (bottiglia): 88/100
38. Santa Sofia, Classico (botte): 87/100
39. Santi, Classico “Santico” (botte): 86/100
40. Sartori, Classico “Reius” (botte): 92/100
41. Secondo Marco, Classico (botte): 94/100
42. Selùn di Marconi Luigi, Classico “Fiori del Pastello” (botte): 88/100
43. Tenuta Chiccheri (bottiglia): 84/100
44. Tenuta Santa Maria di Gaetano Bertani, Classico Riserva (botte): 90/100
45. Tinazzi, “Ca’ de’ Rocchi – La Bastia” (bottiglia): 89/100
46. Valentina Cubi, Classico “Morar” (botte): 84/100
47. Vigna ‘800, Classico (botte): 91/100
48. Vigneti Di Ettore, Classico (bottiglia): 87/100
49. Villa Rinaldi, “Corpus” (botte): 83/100
50. Villa San Carlo (botte): 88/100
51. Zanoni Pietro (botte): 84/100
52. Zeni 1870, Classico “Vigne Alte” (bottiglia): 88/100
53. Zýmē di Celestino Gaspari, Classico (botte): 91/100
54: F.lli Degani, Classico “La Rosta” (bottiglia): 82/100

IL COMMENTO DEL CONSORZIO
Per Andrea Sartori, presidente del Consorzio Tutela vini Valpolicella: “Archiviamo un’edizione che ha sancito, tra le altre cose, il successo di vendite dello scorso anno sia all’estero che in Italia”.

“Guardiamo al 2020 consapevoli di poter contare su un’eccellente nuova annata – continua il massimo rappresentante dell’ente veronese – ma anche preoccupati per il moltiplicarsi di incognite sulle principali piazze internazionali. Servirà per questo intensificare gli sforzi e le professionalità con l’obiettivo di monitorare e ascoltare sempre di più i mercati e le tendenze dei consumi globali”.

Per il direttore del Consorzio Tutela vini Valpolicella, Olga Bussinello: “In questa ottica, anche il Consorzio lavorerà ancora di più sull’osservazione delle dinamiche socioeconomiche del territorio per combinare nel migliore dei modi le caratteristiche produttive con quelle dell’offerta. Il protocollo d’intesa che faremo a breve con Avepa va in questa direzione e ci fornirà un outlook importante e aggiornato per le politiche di filiera da adottare in Valpolicella”.

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Vino Rosso “Cardinale”, De Toma

Non solo passito nell’areale della Docg più piccola d’Italia. Scanzorosciate, il piccolo comune alle porte di Bergamo noto per la produzione del Moscato di Scanzo, si dimostra terra “fertile” per le varietà bordolesi. Lo dimostra l’ottima tenuta nel tempo del Vino Rosso “Cardinale” dell’Azienda Vitivinicola De Toma. La vendemmia 2014 risulta perfettamente integra e in grado di regalare ulteriori emozioni nel tempo.

Rosso rubino con riflessi e unghia granata, mediamente trasparente. Al naso una grande precisione delle note fruttate: fragolina di bosco, lampone, ciliegia. Al sottofondo di erbe mediterranee si accostano una speziatura elegante e richiami iodati.

Evidente, sin dal naso, la presenza nell’uvaggio di varietà bordolesi, contraddistinte dalle tipiche note erbacee che sfociano in ricordi di humus, terra bagnata, fungo. In bocca il nettare esprime una buona eleganza, a dimostrazione di quanto il taglio di Merlot, Cabernet Sauvignon e Moscato sia ben riuscito, dalle parte di Scanzorosciate.

Elegante anche il tannino di questo “Cardinale”, contraddistinto da un centro bocca tutto frutto e freschezza e da una bella venatura salina, in chiusura. Un rosso perfetto per accompagnare piatti a base di carne, dai ricchi primi al ragù ai secondi come arrosti e cacciagione, senza disdegnare i formaggi stagionati.

LA CANTINA

“Cardinale” – Merlot (50%), Cabernet Sauvignon (30%) e Moscato di Scanzo (20%) affinati in barrique – è solo uno dei vini nella meditata gamma di De Toma. Una cantina specializzata nella produzione di Moscato di Scanzo, che ha saputo diversificare la produzione, tanto da contemplare anche un Franciacorta, da vigneti in affitto nel bresciano.

A gestire la cantina è Giacomo De Toma, un tempo capitano di Boeing su tratte internazionali. Oggi pilota privato, in giro soprattutto per i cieli d’Europa. Ma col cuore sempre tra le sue vigne di Scanzorosciate.

La famiglia De Toma, giunta ormai alla quinta generazione, possiede 2,5 dei 32 ettari vitati del paesino alle porte di Bergamo e produce 4 delle 50 mila bottiglie da mezzo litro dell’intera Denominazione di origine controllata e garantita. Un “gioco” molto ben riuscito, dunque, la produzione di “Cardinale”, il rosso più importante della gamma.

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I 10 migliori assaggi alla NOT – Rassegna dei vini franchi 2020

PALERMO – Oltre cento aziende vinicole italiane ed europee, con 500 vini in degustazione alla seconda edizione di NOT – Rassegna dei vini franchi svoltasi a Palermo ai Cantieri Culturali alla Zisa (18-19-20 gennaio). Un’edizione ricca, ideata e curata da Giovanni Gagliardi, Stefania Milano, Franco Virga e Manuela Laiacona.

“Not – riferisce proprio Laiacona a WineMag.it – è una riunione di amici produttori, patrimonio umano che sono i vignaioli. L’evento nasce dall’idea di unire teste, e quindi persone, che condividono la stessa filosofia di vita e la stessa visione della natura”.

“È la prima rassegna di questo genere – continua Laiacona – che si realizza al sud Italia e al centro del Mediterraneo. Rispetto all’anno scorso, il format è rimasto uguale ma abbiamo voluto intensificare i momenti di confronto tra i produttori, con dei talk dedicati ma anche le masterclass con dei giornalisti di settore”.

Attraverso banchi di assaggio, incontri, degustazioni e conferenze, la rassegna si è articolata come momento di conoscenza per il grande pubblico degli appassionati di vino, per il mondo della ristorazione e della distribuzione, per la stampa.

I MIGLIORI ASSAGGI A NOT 2020

Igp Sicilia Catarratto vino biologico 2013 “Cinque inverni”, Possente
Macerazione sulle bucce per 15 giorni senza l’aggiunta di anidride solforosa per questa novità in casa Possente da vigneti coltivati a Salaparuta. Al colore si presenta giallo oro con sentore intensi di miele e pesca gialla. In bocca rivela il suo straordinario tannino.

Altomare 2018, Controvento
70% Trebbiano d’Abruzzo e poi Passerina, Malvasia di Candia e Fiano da uve provenienti da vigne coltivate su suoli di origini calcarea. Nel bicchiere si presenta con un giallo oro brillante e al naso un’esplosione di profumi. In bocca l’aromaticità della malvasia regala una grande persistenza

Colline Savonesi Igt 2018 Lumassina, Terrazze Singhie
Due giovani ed un piccolo sogno a Finale Ligure. 0, 6 ettari di vigneto quasi centenario su delle terrazze con muretti a secco coltivato in regime biodinamico. La Lumassina di Terrazze Singhie si presenta di un bel coloro dorato carico ed un profumo di zagara, pietra focaia e salsedine. Al palato una bella mineralità accompagna un elegante acidità da un finale lungo.

Grillo 2016 “Il litro”, Badalucco
L’ultima creazione di Pierpaolo e Beatriz è un blend a base di uve Grillo da differenti annate: 2016, 2017 e 2018. Lo stile è quello dei più interessanti marsala, la zona di produzione è contrada Triglia, la bottiglia di 100 ml. Un vino libero, con note di frutta matura, una sorprendente sapidità ed una persistenza che non stanca mai.

Montepulciano d’Abruzzo 2018, Cirelli
Vini in anfora prodotti in ettari di vigneto abruzzese: eccolo il biglietto da visita di Francesco Cirelli. Il suo Montepulciano d’Abruzzo è un vino sincero e gioioso. Al colore è un rosso rubino intenso, il bouquet di erbe di campo e piccoli frutti rossi.  Al palato è fresco, sapido ed equilibrato.

Vino Bianco fermo Igp Terre Siciliane 2018, Barraco
Una vigna di Grillo di cinquant’anni che dista un chilometro dal mare. Il colore è oro brillante, al naso profumi di agrumi caramellati e nocciole tostate. Al palato viene fuori tutta la sapidità delle terre sabbiose in cui si trova il vigneto ed un’incantevole spalla acida che lo accompagna a spasso nel tempo.

Spumante Metodo Classico Rosé Brut Nature 36 mesi 2015, Casa Caterina
75 % Pinot Nero, 25 % Pinot Meunier per questo 36 mesi franciacortino senza dosaggio zuccherino e senza aggiunta di solfiti. La sboccatura è del 2019, il ricordo quello di un ottimo champagne rosè. Nel calice le bollicine sono persistenti, il colore è il classico buccia di cipolla. Al naso piccoli frutti rossi ed un sapore minerale.

Terre Siciliane Igt Nerello Mascalese 2018 “Glouglou”, Elios
Un vino spensierato che racconta l’ultima novità di Guido e Nicola prodotto nell’area di Monreale. Espressione giovane di un Nerello Mascalese in purezza vinificato in acciaio. Profumi di frutta rossa fresca accompagnano una beve minerale e rinfrescante.

Côtes du Rhône 2018 “Ciaulà, Domaine de l’Agramante
Un ingegnere siciliano trapiantato in Francia che con questo blend di Grenaccia, Sirah e Counoise racconta di quel personaggio di Pirandello che di colpo si rende conto della bellezza della luna. Rosso rubino alla vista e aromi speziati al naso. Fine e persistente, si apprezza subito.

Romangia Bianco Igt Vermentino 2018, Dettori
Eccezionali i Cannonau di Dettori, ma anche questo Vermentino ha molto da dire. Nasconde benissimo i suoi quasi 16% da uve provenienti da un vigneto del 1971 che a tratti possono farlo assomigliare ad un rosso. Alla vista giallo dorato con riflessi ambrati, al naso ciliegie sotto spirito e i fichi secchi. I tannini sono straordinari, la persistenza lunghissima.

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Teroldego Evolution-Revolution: 9 assaggi della futuribile Docg del Trentino

Teroldego Evolution” per i romantici. “Teroldego Revolution” per chi ama metterci del pepe. Di certo, un modo per controbattere alla “involution” di un territorio che “declassa a vino sfuso il 50% delle uve potenzialmente Doc” e si presta morfologicamente alla produzione industriale: il Trentino della Piana Rotaliana, dove 9 cantine hanno unito le forze per proporre un Teroldego di qualità. Degno della Docg.

Se ne parla per davvero, dalle parti di Mezzocorona (TN). Eppure, l’idea di assurgere il vino simbolo del territorio alla Denominazione di origine controllata e garantita, non vede concordi neppure le aziende della Teroldego Evolution-Revolution. Almeno alle condizioni prospettate dal Consorzio Tutela Vini del Trentino.

“Non c’è ancora nulla di certo – spiega a WineMag.it il presidente del gruppo di viticoltori, Francesco De Vigili – ma pare che l’idea sia quella di proporre una Docg del Teroldego con rese di 80 quintali per ettaro. Una cifra che pare oggettivamente una forzatura, considerando tutti gli attori in gioco”.

La proposta delle 9 cantine della Teroldego Evolution-Revolution (De Vescovi Ulzbach, De Vigili, Marco Donati, Dorigati, Endrizzi, Foradori, Gaierhof, Martinelli e Zeni) come precisa ancora De Vigili, verterebbe piuttosto sui 90 quintali.

O, piuttosto, su un ritorno alle origini, anche senza Docg, per iniziare un percorso di “Evoluzione”-“Rivoluzione”: 130 quintali per ettaro, “come nel sensato disciplinare degli anni Settanta, poi rivisto e modificato al rialzo fino a quota 170 quintali, che finiscono per alimentare lo sfuso e danneggiare l’immagine del Teroldego Rotaliano“.

“La revisione del disciplinare dalla Doc – commenta Francesco De Vigili – è per noi una priorità nel 2020. In quel contesto ci piacerebbe parlare anche di zonazione, dal momento che si tratta di un’area circoscritta a soli 440 ettari, ma con differenze abissali a livello di microclima e terreno, capaci di dar vita a vini diversi dal medesimo vitigno”.

La porzione di Piana Rotaliana in cui è consentita la produzione di Teroldego Rotaliano è quella compresa nei comuni di Mezzolombardo, Mezzocorona e nella frazione di Grumo del comune di San Michele all’Adige, tutti in provincia di Trento. Due i “grandi cru”: “Pasquari” ed “Enti chiari“.

Una conoide di origine glaciale, contenuta tra due monti e sferzata da un lato dalle correnti fredde del valico della Rocchetta, provenienti dall’Adamello e dal Brenta; dall’altro dal vento mite noto come “Ora del Garda“.

Che un tempo la Piana Rotaliana fosse occupata dalla morena di un ghiacciaio lo dicono le strisce longitudinali ben visibili sui monti, a varie altezze: il segno della pressione del ghiaccio sulla roccia, che ha lasciato “tacche” indelebili. Il resto lo ha fatto il fiume Noce schiantandosi nell’Adige, alle porte di San Michele.

I sedimenti, più o meno argillosi, calcarei e granitici, sono stati appianati dall’uomo sin dai tempi dei Celti e dei Reti, ben prima che il “Teroldego” diventasse noto come “Tiroler gold“, ovvero “l’Oro del Tirolo”.

Secondo alcune ricostruzioni locali, il nome del vitigno trentino deriverebbe piuttosto dalle “Teroldeghe“, ovvero gli appezzamenti di terreno riservati storicamente alla coltivazione del Teroldego. Di certo, la prima citazione risale a un rogito notarile del 1490. Storicità, autenticità e tradizione di un autoctono che merita grande rispetto.

LA TEROLDEGO EVOLUTION-REVOLUTION IN 9 ETICHETTE

  • Teroldego Rotaliano Doc 2018, De Vigili: 89/100
    Rubino intenso, unghia violacea, impenetrabile. Floreale fresco di viola, frutta matura, prugna, lampone, mora, marasca. Spezia piena, calda come la cannella, pepe nero accennato. Ottima corrispondenza gusto olfattiva, tannino elegante, morbido, setoso. Gran freschezza e salinità, che accompagna fino al lungo fine-sorso.
  • Teroldego Rotaliano Doc 2018, Dorigati: 89/100
    Varietale in grande spolvero ma, a differenza del precedente campione, la vinificazione in legno di rovere ammorbidisce il sorso e gli conferisce una leggera nota tostata. Non manca la speziatura, sempre calda e leggera. Vino che si potrebbe definire in stile Beaujolais, per il frutto, l’eleganza, la freschezza.
  • Teroldego Vigneti delle Dolomiti Igt 2017 “Morei”, Foradori: 92/100
    Vinificato in anfora a contatto sulle bucce, poi cemento. Varietale esploso al naso: frutti di bosco, balsamicità mentolata, leggera spezia come la curcuma, intrigante. In bocca più verticale di quanto faccia presupporre il naso. Freschissimo, ritorni fruttati e tannino vivo. Un vino di prospettiva, che allunga su frutto, menta e spezia. Necessario dargli tempo nel calice, affinché si esprima al meglio.

  • Teroldego Rotaliano Doc 2017 “Lealbere”, Zeni: 85/100
    Colore più trasparente degli altri e corredo più “leggero”. Frutta molto matura, prugna disidratata, mela cotogna, marasca, carruba, confettura di fragola. In bocca corrispondente, con chiusura vagamente amara.
  • Teroldego Rotaliano Doc 2016 “Leoncorno”: 92/100
    Naso splendido, che porta per certi versi in Francia, a Bordeaux, o in Toscana, a Bolgheri. Immensa concentrazione, menta, stecco di liquirizia. In bocca entra dritto, per poi ammorbidirsi e tornare nuovamente sulle durezze, con una nota salina e un tannino molto elegante. Vino che gioca una partita a sé, nel contesto della batteria della Evolution-Revolution. Un nettare decisamente gastronomico, che chiama il piatto.
  • Teroldego Rotaliano Doc Superiore 2016, Gaierhof: 87/100
    Vino semplice ma ben fatto, connotato dalla precisione del frutto e da una speziatura leggera, al naso. Bella freschezza al palato, che dialoga bene con la parte fruttata, conferendo un buon equilibrio. Bell’allungo fresco.

  • Teroldego Rotaliano Doc 2016 “Sangue di drago”, Az. Agr. Marco Donati: 94/100
    Frutta giustamente matura, legno in sottofondo a completare e incomplessire il corredo, senza prevalere. Composta di mirtillo, menta, brace leggerissima. Un naso molto complesso in cui fa la sua comparsa l’agrume, ma anche una vena talcata. In bocca straordinariamente beverino, fresco, su frutta, cannella, arancia candita. Chiude su note di fondo di caffè, tostatura e caramella mou, molto ben integrate col frutto.
  • Teroldego Rotaliano Doc 2016, De Vescovi Ulzbach: 87/100
    Il naso più “mediterraneo” di tutti, tra spezia, mirto, liquirizia e chiodo di garofano che giocano sulla linea della frutta matura e su un accenno di pietra bagnata. Bella freschezza al palato. Chiusura ancora una volta equilibrata, tra minerale e frutto.
  • Teroldego Rotaliano Doc 2015, Martinelli: 91/100
    Gran bel naso, ben oltre il frutto nero, più che rosso. La nota freschissima e balsamica della mentuccia, lo stecco di liquirizia, l’accenno minerale, lo rendono intrigante e distintivo. In bocca una gran pulizia, che sfocia in una chiusura altrettanto precisa, tra la spezia e il sale. Vino più che mai beverino e godibile, grazie all’ottima freschezza. Un Teroldego che ha ancora tanto da dire, in prospettiva.
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Carta del vino calabrese oltre Cirò: i tesori della regione, da Palizzi a Cosenza

Le ruote della Fiat Panda sbattono violentemente sui grossi massi della strada sterrata. Seconda marcia ingranata, in salita. Il motore urla, tra una botta e l’altra. Si arriva in cima tra lo stralunato e il divertito. Come dopo un giro in giostra. Tra una buca e l’altra, schivate d’un soffio, tocchi terra e ti senti Cristoforo Colombo. Dietro, solo la polvere.

“Eccolo. Lì c’è il più grosso, lo vede?”. Scende serafico dalla sua auto-carro armato il professor Orlando Sculli, abituato com’è ad arrampicarsi tra le mulattiere del Reggino. Col dito indica qualcosa costruito con la pietra scura, nascosto dalla sterpaglia ingiallita dal sole.

Uno straordinario palmento, sotterrato dalle erbacce secche. Qualcosa che, dopo due settimane di peregrinazioni tra vigneti e viticoltori calabresi, pare sintetizzare al meglio lo stato di fatto della Calabria del vino.

L’immagine più fulgida di una terra dagli immensi tesori nascosti, coperti dalla noncuranza, dall’incapacità di fare sistema. Dalla timidezza imprenditoriale “suggerita” dalla presenza della ‘ndrangheta.

Tesori a disposizione di tutti, che è possibile scoprire solo “per caso”, dopo aver percorso strade impervie e costellate da segnali inquietanti. Come le cancellate improvvisate dai pastori, lungo le strade pubbliche, nelle campagne del circondario di Ferruzzano (RC).

Proprio lì si “nascondono” oltre 700 palmenti abbandonati. Un calcolo a cui è giunto proprio il temerario professor Sculli, dopo anni di studi autofinanziati e chilometri percorsi a rincorrere il proprio amore per la verità e la storia.

Fil di ferro e barriere sulle strade di tutti (in realtà di nessuno). Là in mezzo ai campi, le numerose testimonianze di quanto la Calabria sia stata “culla della viticoltura” italiana, sin dai tempi antichi.

Lo sa bene il vignaiolo Santino Lucà, che venti chilometri più a nord di Ferruzzano sta combattendo un’eroica battaglia, pressoché solitaria. “Prima qui c’erano tutte vigne – dice col finestrino abbassato, indicando le aspre colline del Comune di Bianco – ora invece tutti si danno al bergamotto, molto più redditizio”.

Un’onda verde, quella dell’agrume utilizzato in profumeria per il suo pregiato olio essenziale, che si solleva da Villa San Giovanni, 13 chilometri a nord di Reggio Calabria, e raggiunge Monasterace, interessando tutta la costa meridionale della Calabria. Per oltre 150 chilometri.

“C’è troppo lavoro da fare in vigna rispetto ai campi di bergamotto – evidenzia Lucà – e poi qui i vini vengono forti. Il trend mondiale, ai giorni nostri, è quello di vini a bassa gradazione. Per questo tutti stanno abbandonando il vigneto. Un vuoto che diventa terra fertile per l’industria del bergamotto”.

Attorno a Santino Lucà lavorano incessantemente ruspe, escavatori e rulli, utili a preparare il terreno per i nuovi impianti di Citrus bergamia. Ma Lucà resiste, nel labirinto di Cnosso della sua Bianco. Anzi, rilancia: ha in programma nuove acquisizioni e la realizzazione di una sala degustazione e accoglienza, tra i vigneti.

“La tradizionale produzione di Greco di Bianco o Mantonico passito – spiega – è messa a dura prova. Il futuro della viticoltura in quest’area si deciderà nell’arco dei prossimi 20 anni, un po’ come in tutta la Calabria”.

Eppure, di vini e di esempi di viticoltura eroica è piena questa terra baciata dal sole, in cui convivono il più aspro e asciutto e il più montano e rigoglioso dei paesaggi. Dalle vigne a picco di Palizzi (RC), sulla punta meridionale della regione e del continente Europa, si vede il mare all’orizzonte.

Bisogna essere un po’ geni e un po’ “folli”, come Nino Altomonte, per pensare di mettere le radici tra le “timpe”, i pericolosi costoni su cui affondano le radici i vigneti. “Sono il re delle timpe“, scherza Altomonte, mentre mostra le piante di Nerello Mascalese, Nerello Calabrese, Inzolia, Malvasia e Moscato Bianco. È qui che si produce uno dei vini di maggiore qualità dell’intera Calabria: il Palizzi Igt.

Vitigni resi celebri dal fenomeno Etna, come il Nerello, si trovano anche in provincia di Catanzaro. Lo sa bene Vittorio Corasaniti, collaboratore di Santino Lucà che tra le montagne di Davoli, in località Ziia, ha individuato un vigneto storico, con piante ad alberello di 70 anni, a piede franco.

“Si tratta dell’eredità di un vignaiolo di 92 anni, scomparso di recente”, spiega Corasaniti. Evidente il filo invisibile che segna una continuità morfologica e ampelografica tra il vulcano siciliano e il sud della Calabria. “In 25 minuti di elicottero saremmo sull’isola”, sottolinea Corasaniti.

L’origine del terreno è differente, così come il microclima. Ma pare davvero di essere sulla “Muntagna”, mentre si cammina tra le piante antiche di Nerello, Greco Bianco, Guardavalle, Greco nero (Magliocco) e “Castiglione”, noto anche come Tsirò (Gaglioppo). Veri e propri monumenti naturali, salvati dalla scomparsa.

COSTA TIRRENICA E COSENTINO IN FERMENTO

Ma non è solo la Costa Ionica calabrese a riservare sorprese. C’è gran fermento nella zona tirrenica, in provincia di Vibo Valentia. Si chiamerà Costa degli Dei la nuova Doc pronta a nascere per iniziativa di Cantine Artese, Casa Comerci, Marchisa, Cantine Benvenuto e Cantina Masicei.

Poco meno di 400 gli ettari complessivi. Il cuore della nuova Denominazione sarà il Comune di Nicotera, con 167 ettari (63,67 rivendicabili). Segue Drapia, con 105 ettari, di cui 61,65 rivendicabili. Terzo gradino del podio per Limbadi, con 52,46 rivendicabili sui 105 complessivi.

Sono ben 38, tuttavia, i Comuni vibonesi potenzialmente interessati dalla nuova Doc del vino calabrese. Si punterà tutto sul Magliocco Canino per i rossi e sullo Zibibbo per le varietà a bacca bianca. “Quello che speriamo di ottenere – spiega Cosmo Rombolà di Cantina Masicei – è uscire da questa sorta di anonimato che contraddistingue la parte tirrenica della regione, nota più che altro per la bellezza delle sue spiagge”.

E a crescere, con un numero sempre maggiore di aziende capaci di imporsi sui mercati (non solo nazionali) con etichette di qualità, è anche la provincia di Cosenza. Merito di vignaioli come Dino Briglio, che con L’Acino Vini sta portando San Marco Argentano in tutto il mondo.

“In particolare – spiega Briglio – è il Giappone che sta dando grandissime soddisfazioni non solo per il Magliocco, vitigno principe di questa zona, ma anche per le altre varietà”. Stesso imprinting per Masseria Perugini, il regno di Giampiero Ventura, che conduce l’azienda assieme alla compagna Daniela De Marco e al socio Pasquale Perugini.

“L’idea – spiega Ventura – è portare avanti un’idea di Calabria costruita sui capisaldi delle origini. Non vorremmo andare avanti, ma tornare indietro, per raccontare in maniera autentica la nostra terra, nel calice”. Ecco spiegata la scommessa Guarnaccino, vitigno autoctono su cui sta puntando moltissimo Masseria Perugini, reimpiantandolo.

Sempre nel Cosentino, per l’esattezza a Malvito (CS), Tenute Pacelli pare invece un’isola a metà tra la Toscana e la Calabria, con qualche contaminazione campana. Agli originari Sangiovese, Canaiolo e Malvasia vengono affiancati Barbera, Trebbiano toscano e Vermentino.

Poi Calabrese, Syrah, Fiano, Magliocco, Cabernet Sauvignon e Greco di Bianco. Eppure, uno dei simboli di questa cantina calabrese “al femminile” è il Riesling. Un vitigno in cui credono molto Carla e Laura, figlie di Clara (di origine istriane) e dell’ex avvocato Francesco.

Ottimi i risultati ottenuti con il Metodo classico, da un vigneto dedicato. Ad accogliere i visitatori, lungo la stradina che conduce alla cantina, è infatti il cru di Riesling che prende il nome dall’erede della famiglia, Zoe.

Una realtà, Tenute Pacelli, in fase di profondo ammodernamento e ampliamento, che toccherà il suo apice al termine dei lavori di realizzazione delle nuove “ali” dell’elegante casa coloniale, immersa tra i vigneti, a due passi dalla cantina.

Punta tutto su Magliocco e Greco bianco un’altra cantina al passo coi tempi, nel Cosentino: Tenuta Celimarro, non lontana da Castrovillari (CS). Un’azienda che ha beneficiato dell’impulso del giovane enologo Valerio Cipolla, che nel 2013 ha cambiato le sorti dell’azienda, dando vita a un brand fondato su “Arte, Amor, Vino e Bellezza”.

CIRÒ, EMBLEMA DEL VINO CALABRESE

Gli investimenti sui vitigni internazionali, accostati alla valorizzazione degli autoctoni e alle continue sperimentazioni in vigna, trovano pieno compimento in una realtà divenuta sinonimo di Calabria, che proprio a Cirò Marina ha sede, dagli anni Cinquanta. Si tratta di Cantina Librandi.

La cittadina della costa ionica, nonché la pittoresca Cirò, situata in posizione più elevata rispetto alla “sorella” baciata dal mare,  può essere il punto di arrivo o quello di partenza di un tour del vino calabrese.

Tra le tappe da non perdere, proprio la vinicola dei Librandi, la cui storia ha inizio alla metà dello scorso secolo e continua oggi, con Nicodemo Librandi al timone assieme ai figli Raffaele e Paolo e ai cugini Francesco e Teresa, figli dello scomparso Antonio Librandi, fratello di Nicodemo.

Sono ormai diventate 6 le tenute di proprietà della famiglia, per un totale di circa 350 ettari: 232 vitati, 80 a uliveto e i restanti boschivi. Dal primo imbottigliamento dei vini a base Gaglioppo e Greco Bianco, nel 1953, la piccola cantina di via Tirone si è allargata a macchia d’olio. Con essa la popolarità del vino calabro.

L’acquisto nel 1955 dell’azienda Duca Sanfelice, in località Ponta, all’interno della Doc Cirò, anticipa l’inaugurazione del nuovo stabilimento produttivo in Contrada San Gennaro, nel 1975.

Il Duca Sanfelice Cirò Rosso Riserva fa il suo debutto sul mercato nel 1983, anno in cui si comincia a parlare davvero di vino calabrese nel mondo, grazie proprio a questa etichetta.

Nel 1985 i Librandi inglobano l’azienda Critone, a Strongoli. E nel 1988 escono le prime annate di “Gravello“, “Critone” e “Terre Lontane“: altri tre vini che hanno fatto la storia dell’azienda e della Calabria vitivinicola.

Nel 1997 il portafogli si allarga all’azienda Rosaneti, dove si concretizza la svolta sui vitigni autoctoni, idea da subito condivisa da Donato Lanati, al quale l’anno successivo viene affidata la conduzione tecnica della cantina.

Ma se oggi Cirò è presente sulle carte dei vini dei migliori ristoranti del mondo, lo si deve anche ai vignaioli della Cirò Revolution, autori di una sferzata decisiva alla Doc costituita nel 1969. Il profondo rispetto per il Gaglioppo lega i produttori aderenti a un movimento compatto e tenace, ormai internazionalmente riconosciuto.

In ogni calice della Cirò Revolution – cui ha contribuito in maniera determinante ‘A Vita di Francesco Maria De Franco – c’è l’essenza del vignaiolo che la produce. Si va dai vini coraggiosi e scalpitanti di Mariangela Parrilla (Tenuta del Conte), alle interpretazioni millimetriche di Cataldo Calabretta. Due modi diversi di rappresentare l’anima più vera del Gaglioppo.

Espressioni condensate nei vini di Sergio Arcuri, autore di uno dei rosati migliori d’Italia, “Il Marinetto“. Non a caso c’è tanta Calabria (e tanta Cirò) nella “Top 100” 2019 stilata da WineMag.it.

La Calabria ha tutte le carte in regola per guadagnare ulteriore spazio nella geografia enologica italiana e internazionale, proprio per la capacità di accostare il savoir-faire di grandi e piccoli produttori.

Tra i migliori assaggi nella regione anche quelli di Ippolito 1845, cantina che – come Librandi – ha saputo rimanere al passo coi tempi e interpretare bene, nell’ottica della qualità, i differenti canali di vendita (Gdo e Horeca).

Regina della Grande distribuzione, nell’areale di Cirò, è Caparra & Siciliani, capace di firmare bianchi e rossi dall’invidiabile rapporto qualità prezzo, nel rispetto del vitigno e nel segno della responsabilità sociale. La stessa filosofia che contraddistingue Cantine Zito, a Cirò Marina.

Accanto ai “big”, ecco le nuove leve. Come Francesco Esposito (Esposito Vini) che si districa bene tra vitigni internazionali ed autoctoni e ha dato un’impronta moderna all’azienda di famiglia. Un vero e proprio vulcano di idee, Francesco, che con competenza porterà la cantina a crescere e a posizionarsi meglio sul mercato, nei prossimi anni.

Così come è destinata a imporsi anche un’altra realtà di Cirò Marina: Cantina Enotria, che da 3 anni ha iniziato un nuovo corso della propria storia, con importanti investimenti e l’ingresso nel team dell’enologo Tonino Guzzo.

Interessante la gestione delle linee Igt e Doc. La prima, nel segno della tradizione e dei vitigni autoctoni, esprime appieno il territorio. La seconda guarda all’estero, ma senza snaturare la tipicità del Gaglioppo e del Greco.

IL VINO CALABRESE IN QVEVRI GEORGIANE

Ma la vera e propria ventata di novità nel vino calabrese soffia poco lontano da Cirò, a San Nicola dell’Alto (KR). Qui, Michele, Gianni e Nicola realizzano vino in qvevri della Georgia, ovvero in anfore interrate. Il nome scelto per questo curioso progetto, non a caso, è Menat: “Domani” nella lingua della comunità locale arbëreshë.

Quella del 2019 è stata la seconda vendemmia per il trio di giovani. Solo Gaglioppo e Greco Bianco da vigneti dell’areale di San Nicola dell’Alto, Comune di 800 anime arroccato sopra Cirò e Melissa.

Spettacolare l’ettaro e mezzo in contrada Fragalà, località nota per l’eccidio del 1949. “Qui i contadini si sono guadagnati la terra col sangue”, ricordano i promotori di Menat.

Tanti progetti per il futuro e la convinzione che il vino debba essere “naturale, senza la minima aggiunta di chimica, ma senza difetti e di gran bevibilità”. La prova del calice convince su tutta la linea di questa nuova cantina (tre etichette), che registra una produzione complessiva inferiore alle 2.500 bottiglie.

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***DISCLAIMER*** Si ringraziano le aziende per l’ospitalità assicurata in Calabria a WineMag.it, utile a coprire solo in parte la realizzazione del reportage. I commenti espressi su cantine e vini sono comunque frutto della completa autonomia di giudizio della nostra testata, nel rispetto assoluto dei nostri lettori

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Da Reims a Epernay: viaggio nella storia della Champagne

Il vino più famoso al mondo non ha bisogno di presentazioni: è lo Champagne. Un mondo fatto di storia, strade, persone e, naturalmente, sogni. Posizionata a circa 150 chilometri da Parigi, l’area di produzione si estende per 35 mila ettari di filari e colline che disegnano la regione tra la Montagne de Reims, la Vallee della Marne, la Côte des Blancs e la Côte des Bar. Patrimonio dell’Unesco dal 2015 grazie al suo “paesaggio organicamente evoluto” questa regione ha due importanti e diversi punti di riferimento: Reims ed Epernay.

La prima è il cuore della regione. La seconda, che si trova a 30 km di distanza, è attraversata dalla celebre Avenue de Champagne.  A metà strada si incontra Hautviller, grazioso paesino dove il monaco Dom Pierre Pérignon scoprì e perfezionò lo Champagne e dove oggi riposa, all’interno dell’abbazia.

Reims, con la sua storia – oltre allo Champagne c’è la cattedrale di Notre Dame, in cui sono stati incoronati 33 re di Francia – e le sue “Crayeres” – le incredibili gallerie costruite dai Galli Romani nel V secolo, scavate per estrarre il gesso e utilizzate come rifugio durante la prima guerra mondiale – rappresenta da sola questo incredibile vino spumante prodotto con le sole uve di Pinot Meunier, Pinot Nero e Chardonnay. Ad Epernay i cancelli dorati delle grandi maison, sulla Avenue de Champagne, raccontano la storia – più moderna – di questo grande vino.

I MIGLIORI ASSAGGI


TAITTINGER

L’unica grande Maison la cui proprietà è rimasta in mano ad una sola famiglia, che dal 1° gennaio sarà guidata da Vitalie Taittinger, attuale direttore marketing e comunicazione. Nove etichette, 290 ettari di proprietà distribuiti su 37 cru di Champagne.

Una produzione di 6,5 milioni di bottiglie per una delle più importanti case di Champagne, con i suoi 10 km di gallerie che giungono anche a 18 metri sotto terra, dove gli spumanti vengono lasciati a riposare.

Taittinger Brut Réserve
Chardonnay 40%, Pinot noir 35%, Pinot Meunier 25% e 4 anni sui lieviti per lo spumante più venduto da Taittinger. Colore giallo dorato e bollicina fine con naso floreale, pesca, crosta di pane e minerali. 9 g/l di dosaggio per bilanciare l’acidità lo rendono al palato fresco e vivace.

Taittinger Prélude Grands Crus
Chardonnay 50%, Pinot noir 50% e 6 anni lieviti per questo straordinario champagne per il rapporto qualità e prezzo. Lo stile è classico, l’effervescenza persistente. Giallo paglierino carico alla vista, al naso regala profumi di frutta fresca e grande mineralità. In bocca la freschezza dello Chardonnay anticipa la vinosità del Pinot noir. Il finale è persistente e lungo

Comtes de Champagne Blanc de Blancs 2007
È la bottiglia più famosa della maison in omaggio a Thibaud IV, conte di Champagne dal 1222 al 1253 che dopo una crociata in Palestina portò un uva che poi, grazie ad alcuni incroci, divenne lo Chardonnay che conosciamo oggi.

Prodotta solo nelle migliori annate, questo blanc de blancs riposa per dodici anni sui lieviti e solo una piccola percentuale affina per pochi mesi in barrique di rovere.

Giallo oro con grande luminosità alla vista, si presenta con un bouquet di frutta matura, pasticceria e burro al naso. Al palato è cremoso e fresco con un’infinità mineralità e ricordi di liquirizia.


VEUVE CLICQUOT

Da quel negozio di vino costruito nel 1772 ad oggi la storia corre veloce e accompagna tutti i grandi avvenimenti storici che hanno caratterizzato tempi e luoghi. Veuve Clicquot lascia toccare con mano la storia del primo Champagne millesimato, quello del 1810, ma anche la tavola del remuage ed il perfezionamento di questa tecnica fino all’invenzione degli champagne rosè in cui viene aggiunta una percentuale di vino rosso. Lo stile è unico e sempre uguale, impossibile non riconoscerlo: freschezza, eleganza ed una straordinaria raffinatezza.

Extra Brut Extra Old – Veuve Clicquot
Uno champagne realizzato solamente con i vini di riserva. Potremmo fermarci qui nella descrizione di questo geniale prodotto frutto di un assemblaggio di sei annate diverse: 1988, 1996, 2006, 2008, 2009, 2010.

Sei anni sui lieviti per queste bollicine, tre a parcelle divise e tre unite che grazie a questo doppio invecchiamento regalano complessità ed energia per lo spumante dal dosaggio più basso della maison di solo 3 g/l.

La cremosità è data dalla riduzione delle consuete 6 atmosfere che arrivano a 4 in questo caso. La mineralità al naso è accompagnata da un ingresso alla bocca avvolgente e setoso. Mango e cocco anticipano i sentori tipici del caffè e delle brioches.

Vintage brut 2012
Tra le bottiglie più diffuse della maison si presenta alla vista con un colore giallo brillante e leggeri riflessi dorati. Al naso le mandorle e gli agrumi canditi caratterizzano uno champagne fresco e originale che rispecchia lo stile unico di Veuve Clicquot.

La Grande Dame, 2008
Una leggenda, fedele alla realtà e alla storia. Giallo oro e dotato di una sontuosa luminosità si presenta con un perlage finissimo e persistente (92% Pinot noir, 8 % Chardonnay). Al naso e al palato si apprezza particolarmente se servito ad una temperatura più da bianco che da vino spumante grazie anche ad una bassa acidità. Nocciole, note di pasticceria e mirtilli bianchi gli aromi. Al palato è setoso, elegante ed un finale da oscar.

Vintage Rosé 2012
Una vendemmia importante che esalta il Pinot nero della maison. Questo rosè gode del privilegio dell’aggiunta del 10 % di vino rosso fermo ed in particolare dal Pinot Nero di Bouzy.

Il colore è rosa intenso con sfumature ramate, gli aromi ricordano frutti rossi, fragole e l’immancabile ciliegia. La nobiltà dei tannini è la vera sorpresa di questo spumante targato Veuve Clicquot che regala note pepate e di zafferano.


BOIZEL

Sei generazioni dal 1834, una storia di famiglia. Eccola la maison Boizel: 500 mila bottiglie da uve coltivate su 70 ettari distribuiti su diversi Cru, un kilometro di gallerie dove è custodita la storia della famiglia con le prime bottiglie prodotte fino alle ultime annate, proprio sotto l’Avenue de Champagne.

Il coinvolgimento della famiglia in tutte le fasi della produzione, dalla vite al bicchiere, e le radici profonde della famiglia a Epernay, nel cuore dello Champagne, sono i maggiori punti di forza per questa bella maison.

Champagne Brut “Joyau de France” 2004
Articolato e complesso questo spumante brut composto dal 40 % di Chardonnay e 60 % di Pinot Noir. Tutta l’eleganza e la raffinatezza di questa piccola, si fa per dire, maison di Eperney, è racchiusa in questo champagne. Il colore è oro brillante, al naso è complesso con sentori di brioche, nocciola, noci e pistacchi. Cremoso al palato con una lunga persistenza. Chapeau!

Champagne Brut “Joyau de France Rosè” 2007
Dopo 10 anni di lento invecchiamento nelle cantine, il dosaggio di questo rosè da uve 40 % di Chardonnay e 60 % di Pinot Noir con un 10% di vinificazione in rosso è 4 gr / l.

Sorprende per equilibrio tra complessità e freschezza, l’abito è luminoso e le bolle fini. Al naso si presentano note di fragoline di bosco e mirtilli che lasciano spazio a ribes nero e cannella. I tannini morbidi e piacevoli anticipano note di mandorla e ciliegia al palato.


MERCIER

Questa casa di Champagne è il sogno che diventa realtà. La sfida di Eugène Mercier ha un obiettivo:  trasformare il vino delle élite dell’epoca accessibile a tutti senza mai sacrificare la qualità. In cantina i loro spumanti variano dai 20 ai 26 euro ma la storia va ben oltre.

I 18 km di gallerie posseggono al suo interno una ferrovia che trasportava il vino fino a Parigi e all’ingresso della cantina spunta la più grande botte di vino al mondo costruita per l’Esposizione universale del 1889 vincendo il secondo posto dietro alla Torre Eiffel.

Mercier Réserve Brut Champagne
Pinot Nero, Meunier e Chardonnay per questo Brut Mercier. Il colore è giallo brillante, al naso ricco di agrumi, ananas  e frutta secca. Al palato note fresche di timo contrastano i sapori di mele e pere. La freschezza è il suo forte, l’acidità ben bilanciata lascia spazio ad un finale piacevolmente amaro.


CASTELLANE

Un museo nel museo della Champagne. Una grande storia quella di Castellane iniziata nel 1815 e che oggi, insieme alle altre case Beaumet, Oudinot e Jeanmaire danno vita a circa 5 milioni di bottiglie.

Nel percorrere i 6 km di gallerie sarà possibile visitare un museo dove vengono ricostruiti i metodi di produzione delle bollicine più famose al mondo e al primo piano uno speciale museo con le macchine utilizzate per la creazione di etichette che Castellane produceva, per tanti altri produttori, fino al 1970.

Castellane Brut Millésimé Champagne 2009
Cinque anni sui lieviti per questo millesimato con 9 g /l di dosaggio che alla vista si presenta con un colore è giallo oro brillante e delle bollicine vivaci e persistenti. Naso abbastanza complesso che regala profumi di caramello, vaniglia e meringa. Al palato frutta candita, nespola e salvia. Finale intenso, di media persistenza.

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degustati da noi vini#02

“Verbo” e “Terre di Orazio” 2017 di Cantina di Venosa: i volti dell’Aglianico del Vulture

Due espressioni di Aglianico del Vulture in grado di intercettare palati differenti. Sotto la lente di ingrandimento di WineMag.it “Verbo” e “Terre di Orazio” di Cantina di Venosa, vendemmia 2017. Una degustazione comparativa utile a inquadrare due etichette di punta della cooperativa lucana.

Verbo” è un vino moderno. Un’interpretazione accattivante dell’Aglianico, che guarda oltre i confini della Basilicata, con l’obiettivo di raggiungere anche i consumatori all’estero. “Terre di Orazio” è invece più tradizionale. Un vino che mette a nudo il nobile vitigno del Sud Italia, esaltandolo in tutta la sua tipicità.

LA DEGUSTAZIONE

Aglianico del Vulture Dop 2017 “Verbo”: 90/100
Unghia violacea. Fiori di viola e note fruttate intense, mora, lampone, spezie calde, garbate. In bocca bella pienezza, note frittate corrispondenti, bella persistenza. Tannino elegante di cioccolato, chiusura asciutta e salina, su ritorni di frutta molto precisi.

L’eta dei vigneti – situati a un’altezza media di 500 metri sul livello del mare – varia tra i 10 e i 20 anni, con una produzione per ettaro che si aggira attorno alle 8 tonnellate. Siamo nella parte orientale della Provincia di Potenza, in particolare nel Comune di Venosa.

Le uve vengono raccolte a mano, solitamente tra il 10 e il 30 ottobre. La macerazione pellicolare a temperatura controllata e il completamento della fermentazione alcolica e malolattica avvengono in serbatoi di acciaio inox.

L’affinamento si protrae per 12 mesi, in botti di rovere. “Verbo”, col suo gusto in grado di accontentare tutti, è il classico vino da arrosti, primi piatti tipici della cucina mediterranea, cacciagione e formaggi stagionati.

Aglianico del Vulture Dop 2017 “Terre di Orazio”: 92/100
Rosso rubino intenso, con unghia tendente al granato. Naso tra fiori e spezie, su un letto di frutti di bosco. Gran profondità che sfiora il balsamico, grazie a ricordi di mentuccia e radice di liquirizia.

Un vino che pare evidenziare con orgoglio la sua anima mediterranea, anche quando l’ossigenazione esalta terziari di tabacco, cioccolato e fondo di caffè, mai troppo invadenti. In bocca la parola d’ordine è eleganza, nonostante la gioventù del nettare renda il sorso ancora scalpitante.

Il frutto è di gran precisione. La vena salina è più marcata rispetto a quella di “Verbo” e fa da spina dorsale al nettare, assieme a una buona freschezza e a tannini presenti, ma non invadenti. Ottima la persistenza, su ritorni di frutta.

“Terre di Orazio” nasce da vigneti di età compresa fra i 15 e i 30 anni, situati fra i 450 e i 500 metri sul livello del mare, nel territorio di Venosa (PZ). Le uve vengono vendemmiate dal 15 al 30 ottobre.

Le uve, raccolte a mano previa accurata selezione, vengono riposte in cassette da 12-15 chili. La vinificazione avviene in piccoli fermentini, con macerazione pellicolare a temperatura controllata, tra i da 23 e i 26 gradi per circa 10 giorni. Fermentazione alcolica e malolattica proseguono in serbatoi inox, mentre l’affinamento si svolge in botti da 25 ettolitri per 15 mesi.

Un vino, “Terre di Orazio”, che pare la rappresentazione perfetta del sontuoso castello di Venosa (nella foto, sotto) per la sua capacità di abbinare struttura ed eleganza. A tavola è perfetto con arrosti di carni bianche, primi piatti saporiti e formaggi piccanti e speziati, con temperatura di servizio tra i 18 e i 20 gradi.

*** DISCLAIMER: La recensione di queste etichette è stata richiesta a WineMag.it dall’inserzionista, ma è stata redatta in totale autonomia dalla nostra testata giornalistica, nel rispetto dei lettori e a garanzia dell’imparzialità che caratterizza i nostri giudizi ***

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Corpinnat, pirati del Cava a gonfie vele: 50 assaggi al top nel Penedès

VILAFRANCA DEL PENEDÈS – Neppure il tempo di mettere piede a Barcellona e, puff. Primo impatto col Cava. Esemplificativo. La bottiglia più costosa dello spumante Metodo classico spagnolo, nell’illuminatissimo Duty Free dell’aeroporto El Prat, è quella vestita coi colori – blaugrana – della squadra di Messi: 17,25 euro. A scaffale c’è anche Freixenet, ad appena 8,50 euro. Al supermercato, in Spagna come in Italia, il Cava può costare ancora meno: 3 euro. La partita tra Consejo Regulador e Corpinnat si è decisa anche a colpi bassi come questi. Sul fronte dei prezzi.

La notizia è che c’è una seconda Cataluña in rivolta. Più silenziosa di quella portata agli onori delle cronache da Carles Puigdemont. Ma altrettanto determinata a prendere le distanze dal “nemico”. È la Cataluña delle 9 cantine in lotta con il Consejo regulador del Cava, l’organismo di controllo dello sparkling iberico.

Dopo anni di tentativi di negoziazione, il gruppo di produttori del Penedès – la zona classica del Cava, 50 chilometri a ovest di Barcellona – ha abbandonato il Consorzio per promuovere il marchio indipendente Corpinnat.

Si tratta di Gramona, Llopart, Nadal, Recaredo, Castellroig Sabaté i Coca, Torelló, Huguet Can Feixes, Júlia Bernet e Mas Candí, riunite in una vera e propria Associació de Viticultor i Elaboradors (Avec).

Altri vigneron sarebbero pronti a salire a bordo della nave dei pirati del Cava che, coi loro 2,2 milioni di bottiglie di bollicine, hanno sottratto allo spumante spagnolo una fetta cospicua del “top di gamma”.

Eppure, l’idea iniziale era quella di veder riconosciuto il brand all’interno del Consorzio. All’apice della piramide qualitativa. Oggi il Corpinnat è un European Collective Brand. Un Brand collettivo europeo. Avallato da Bruxelles.

Paesi come Svezia, Finlandia e Norvegia, determinanti per l’export dei vini iberici e molto restrittivi sul fronte delle importazioni di vino e alcolici, in Monopolio di Stato, hanno aperto appositi tender per il Corpinnat.

Ma il brand continua ad essere ripudiato dal board presieduto da Javier Pagés Font, vicepresidente della Federación Española del Vino e Ceo del Grupo Codorníu Raventós, una delle tre aziende che, da sole, producono l’80% dei 244,5 milioni di bottiglie del Cava (1.146 miliardi di euro di giro d’affari, nel 2018).

L’INTERVISTA. TON MATA: “IL CORPINNAT? SCELTA NECESSARIA”

Uscire dal Consejo regulador, a detta di tutti i membri del Corpinnat, è stata “una necessità“. A chiarirlo bene, in un’intervista esclusiva concessa a WineMag.it, è Ton Mata (nella foto sopra) numero uno di Recaredo e co-presidente dell’Avec, assieme a Xavier Gramona.

“Con tutto il rispetto – commenta Mata – la DO Cava presenta gravi svantaggi per chi vuole produrre vini di terroir, ovvero per quei produttori di vino che intendono riflettere il territorio nel modo più semplice e trasparente possibile, nelle loro etichette. Questo obiettivo sembra un sogno irrealizzabile nel contesto di un DO che interessa un’area vasta da Empordà a Almendralejo (1.115 km) e da Logroño a València (480 km)”.

Nell’ambito di questa grande zona abbiamo contato 27 diverse denominazioni di origine. Se ci sono validi motivi per avere 27 diverse denominazioni di origine per i vini fermi, può avere senso avere un solo spumante DO che copre l’intera area?”.

Le ragioni alla base della situazione attuale sono storiche. Legate a doppio filo all’entrata della Spagna nell’Unione Europea. “Ma non esiste una logica tecnica per l’attuale stato delle cose”, attacca Ton Mata.

“Pensiamo che nessun altro approccio fosse possibile – spiega – ma il problema è un altro: la DO Cava non è stata in grado di evolversi su questioni apparentemente semplici, come la zonazione. Non c’è dunque molta connessione tra una bottiglia di Cava e il vigneto da cui proviene”.

Quello dipinto da Ton Mata è il quadro – avvilente – di uno spumante nazionale senza una precisa identità territoriale. Incredibilmente riconosciuto come Denominazione d’origine (quale?), tutelata dall’Unione europea.

Pochissime aziende del Cava – evidenzia il numero uno del Corpinnat – vinificano tutto il loro vino base. La stragrande maggioranza lo acquista interamente, o in alta percentuale, da fornitori. Ancora meno aziende lavorano interamente con i vigneti di loro proprietà”.

“Naturalmente – ammette Mata – il fatto che un enologo abbia i propri vigneti non significa che il suo vino sarà per forza migliore. Ma riteniamo che informazioni di base come queste dovrebbero essere disponibili per i consumatori e per i professionisti. E che dovrebbero servire come mezzo per incoraggiare le aziende a investire verticalmente nella produzione”.

In questi termini, il progetto Corpinnat assume una valenza assoluta per tutta la viticoltura spagnola. Ben oltre, dunque, gli interessi e i confini delle 9 aziende aderenti all’Avec. “Pensiamo che queste opzioni costituiscano anche un modo per portare i giovani in un settore come l’agricoltura, in cui la popolazione sta invecchiando rapidamente e inesorabilmente”, chiosa Ton Mata.

“Nelle migliori regioni vinicole del mondo – prosegue – c’è una forte connessione tra la vigna e il vino, ma questo non esiste nel Cava, secondo la mia modesta opinione. Riteniamo che ciò contribuisca molto a spiegare la mancanza di prestigio del Cava a livello internazionale e spieghi alcuni dei prezzi ridicolmente bassi e persino scandalosi che vediamo in giro”.

IL RICONOSCIMENTO DEL MARCHIO IN EUROPA

Da qui la “necessità” di dar vita all’Associació de Viticultor i Elaboradors e a un brand, il Corpinnat, da far riconoscere all’Unione europea. Un percorso burocratico ben noto a molte aziende italiane. Il Belpaese, infatti, detiene il primato di Stato europeo col maggior numero di “Collective brand” approvati negli ultimi 10 anni.

“Abbiamo collaborato con un consulente in brevetti e marchi – spiega Ton Mata – che ci ha suggerito di adottare questa forma giuridica. È stato necessario redigere un regolamento, un disciplinare con tanto di sanzioni in caso di non conformità e un sistema di audit esterno e un protocollo per l’ammissione delle cantine”.

Una volta redatti, tutti i documenti sono stati inviati a Bruxelles, in particolare all’Euipo, l’Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale. La documentazione del Corpinnat è stata approvata senza alcuna modifica. Nel giro di 6 mesi. L’ufficialità risale al 10 aprile 2018. Ma il percorso dell’Avec è iniziato molto prima.

“Nel 2012 – spiega Ton Mata – le cantine del Corpinnat hanno iniziato a lavorare su un rigido ventaglio di regole comuni, nell’ottica di dar vita a un’associazione famigliare utile a coloro che intendessero produrre un diverso tipo di spumante, capace di mettere al centro l’origine, ancor più del processo di vinificazione”.

“Oggi – continua Mata – il marchio collettivo europeo Corpinnat aiuta i consumatori e i professionisti a identificare i grandi spumanti prodotti nel cuore della regione del Penedès. Un nuovo quadro, utile a distinguere il vino di alta qualità all’interno del mondo del Cava”.

La coesistenza dei marchi Cava e Corpinnat in etichetta è stata possibile fino a quando il Consejo regulador – in netta contrapposizione con l’Avec – ha approvato una modifica al disciplinare. Vento in poppa per le barche dei pirati del Cava, che hanno iniziato così il loro viaggio in solitaria, nel mondo degli spumanti di qualità internazionali.

UN DISCIPLINARE CHE SEGNA LE DISTANZE DAL CAVA

Alla base del Corpinnat (“Cor”: “Cuore”; “Pinna“: diminutivo di “Penedès”; “Nat“: “Nato”, ovvero “Nato nel cuore del Penedès”) c’è un rigido disciplinare di produzione, destinato a diventare ancora più rigoroso quando Pinot Nero e Chardonnay – vitigni internazionali – saranno esclusi dalla base ampelografica, in favore di varietà come Xarel·lo, Macabeo e Parellada, ma anche del meno noto Sumoll, originarie del Penedès.

Le uve, di esclusiva proprietà aziendale, devono essere certificate biologiche e vendemmiate a mano, in cassetta. Vigneti e cantina devono trovarsi nel territorio del Corpinnat. Sono 22.966 gli ettari identificati nella zona classica, che comprende 46 Comuni racchiusi nel canalone tra il Montserrat (a nord ovest), il Massís del Garraf (a sud ovest) e il confine con Tarragona (a est).

La Plana Penededesca, meccanizzabile, continua ad essere appannaggio dei grandi produttori di Cava. Le zone terrazzate e impervie, ricche di calcare, limo e argilla, fino ad oltre 450 metri sul livello del mare, sono il regno dei vignaioli del Corpinnat.

Non è un caso che, al momento della fuoriuscita dal Consejo, la Denominación de Origen dello sparkling spagnolo abbia perso circa l’80% degli spumanti Gran Reserva, divenuti oggi a tutti gli effetti Corpinnat Reserva, col divieto della menzione della DO e del suffisso “Gran”.

La “Cava Revolution” si gioca in vigna, ma anche in cantina. Sono 18 i mesi di affinamento minimi sui lieviti del Corpinnat, contro i 9 del Cava. Un aspetto, quest’ultimo, che avvicina il noto spumante Metodo classico della Spagna al re degli Charmat internazionali – il Prosecco – più che allo Champagne (12 mesi) o al Franciacorta (18 mesi).

Ed è proprio alla più rinomata “bollicina” italiana che guardano i 9 rivoluzionari del Corpinnat, come esempio internazionale da riproporre in Spagna, nel segno della tradizione del Penedès. Un fil-rouge, quello tra i produttori catalani e i bresciani, segnato anche dal recupero di un’antica e preziosa varietà, capace di resistere ai cambiamenti climatici: il Sumoll.

Un lavoro molto simile a quello compiuto in Franciacorta con l’Erbamat, uva autoctona il cui utilizzo è oggi consentito dal disciplinare sino a un massimo del 10%, destinato probabilmente a salire fino al 30% nella nuova tipologia di spumanti che prenderà il nome di “Mordace“, già registrato dal Consorzio franciacortino.

“Grazie al suo elevato apporto di acido malico – rivela a WineMag.it Ramón Jané (nella foto, sopra) titolare con la moglie di una gemme del Corpinnat, Mas Candí – questa uva a bacca rossa ci sarà di grande aiuto in futuro, specie nelle estati torride. Chardonnay e Pinot Nero, infatti, non hanno la sua stessa resistenza alla siccità”.

Ramón conduce con la moglie Mercé Cusco la più piccola delle aziende del Corpinnat: 40 ettari per 60 mila bottiglie. A Les Gunyoles, proprio davanti alla cantina, si trova il vigneto sperimentale di Mas Candí, che col Sumoll produce due Corpinnat. Il bianco si chiama “Indomable”, proprio per le caratteristiche, freschissime, della varietà.


CORPINNAT, TRE GIORNI DI ASSAGGI

Diario di bordo

  • Day 1
    Castellroig Sabaté i Coca
    , Recaredo, Gramona
  • Day 2
    Mas Candí
    , Júlia Bernet, Llopard
  • Day 3
    Nadal
    , Huguet Can Feixes, Torelló

CASTELLROIG SABATÉ I COCA

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Marcel ha una fissa: il terreno. Ha catalogato tutti i suoli dei 50 ettari di vigna di proprietà, che danno vita a 180 mila bottiglie di Corpinnat. La produzione complessiva di Sabaté i Coca è di 250 mila bottiglie, prodotte anche grazie alla linea Castellroig (“Castello rosso”, la traduzione in italiano).

Un’attenzione, quella di Marcel, che ha fatto fare il salto di qualità all’azienda fondata dal nonno. Ben 18 i suoli mappati, ognuno diverso dall’altro, ma con caratteristiche comuni quali la presenza di calcare, argilla e ferro. Il tutto nell’ambito di un progetto di zonazione che ha consentito di suddividere l’azienda in 66 parcelle.

Terroir wines“, li chiama Marcel: l’uomo che più di tutti, all’interno dell’Associació de Viticultor i Elaboradors, sa dove cammina. O, meglio, su che cosa. “Con il Corpinnat – sostiene – abbiamo la grande opportunità di mostrare al mondo le qualità del Penedès, il miglior luogo dove produrre spumanti nell’area del Mediterranea”.

Corpinnat Brut Nature Reserva 2017, Castellroig Sabaté i Coca: 90/100
Il Metodo classico “base” di Marcel, ottenuto dall’assemblaggio delle uve Macabeo, Xarel·lo e Parellada provenienti da 24 differenti appezzamenti. Ventidue mesi sui lieviti, degorgement 10/2019. Naso gentile, su fiori e frutta. Perlage fine e persistente. Al palato una bella verticalità, su note di citriche e di mela verde. Freschezza ed eleganza ben coniugate alla facilità di beva.

Corpinnat Brut Nature 2014 “Mosset”, Sabaté i Coca: 91/100
È il frutto dell’assemblaggio di 6 “terrazze”, le cui uve sono state selezionate accuratamente. Visto l’approccio di Marcel, in questo caso sarebbe meglio parlare di assemblaggio di terreni, più che di uve. Nella cuvèe di “Mosset”, lo Xarel·lo prevale sul Macabeo e su un’elegantissima Parellada: 55 i mesi sui lieviti, degorgement 10/2019.

Dal calice, di un giallo paglierino luminoso, si dipanano richiami minerali netti, note di frutta esotica e ricordi di anice e finocchietto selvatico. L’assaggio si conferma iodico, fruttato, agrumato, con chiusura lunga, leggermente speziata. La struttura corpulenta e il perlage cremoso ne fanno uno spumante di assoluta gastronomicità.

Corpinnat Brut Nature 2012 “Josep Coca”, Sabaté i Coca: 92/100
Xarel·lo (85%) e Macabeo (15%) da vigne vecchie per l’etichetta dedicata al nonno di Marcel, Josep, l’uomo che diede avvio all’azienda di famiglia, piantando i primi vigneti. Degorgement 09/2019, 78 mesi sui lieviti. È il Corpinnat più “Champagne” della gamma di Sabaté i Coca, con le note di lisi ben integrate a quelle del varietale.

Esemplare l’espressione dello Xarel·lo, che qui si esprime su una gran concentrazione degli aromi e su una struttura corpulenta, ben avvolta nelle note di pasticceria. Pregevole l’allungo sulla macchia mediterranea e sullo iodio. Un viaggio, andata ritorno, dalla Francia al Penedès.

Corpinnat Brut Nature 2011 “Reserva Familiar”, Sabaté i Coca: 93/100
Sua maestà lo Xarel·lo, come mamma l’ha fatto: in purezza, nel calice. Degorgement 10/2019, 92 mesi sui lieviti. Si tratta dell’assemblaggio di 3 piccole porzioni del cru Terroja, fermentate per il 30% in botti castagno, con affinamento di 4 mesi.

Ancora una volta Marcel si affida alla vigna vecchia e alle espressioni del terreno per regalare uno dei Metodo classico manifesto del Penedès. Uno Xarel·lo concentrato, pieno, di struttura, eppure di grande eleganza e freschezza. Sorprende soprattutto la “giovinezza” del sorso di questo Corpinnat di straordinaria longevità.


RECAREDO

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Una delle aziende simbolo del Corpinnat, tra le principali promotrici del vento di rivoluzione nel Consejo del Cava. Di certo, una cantina che vale la visita anche dal punto di vista enoturistico. Un’emozione percorrere i cunicoli in cui riposa il prezioso spumante Metodo classico e assistere alla meticolosa sboccatura, effettuata a mano sotto l’occhio vigile dello chef de cave Núria Artiaga e del suo collaboratore Jordi Araujo.

Ma Recaredo, le cui radici affondano nel 1924, è soprattutto degna di nota per l’approccio biodinamico in vigna e in cantina. Varietà autoctone, lieviti indigeni, zero dosaggio e lunghi affinamenti (minimo 40 mesi) sono i quattro pilastri su cui si fonda la filosofia di questa “cantina di famiglia”, con base a Sant Sadurní d’Anoia.

Altra peculiarità: per la seconda fermentazione, Recaredo utilizza tappi di sughero al posto del tappo corona. “Siamo convinti di garantire più longevità ai nostri spumanti con questa scelta, riducendo i rischi di ossidazione e controllando da subito la micro ossigenazione”, spiega il direttore generale Ferran Junoy a WineMag.it.

Corpinnat Rosat Brut Nature 2014 “Intens”, Recaredo: 91/100
Monastrell (86%) e Grenache (14%) sono le varietà individuate da Recaredo per la produzione del “rosé de saignée” in alternativa all’internazionale Pinot Nero: 54 mesi sui lieviti, sboccatura 10/2019. Curiosa (ma azzeccata) la scelta del servizio in un calice da Borgogna. Uno spumante che chiama il piatto, con la sua assoluta gastronomicità.

Al naso fiori freschi, lamponi e fragoline galleggiano su una netta percezione iodica. Una nota amara leggerissima e piacevole gioca, in bocca, con la maturità di un frutto meno invadente del previsto. Riequilibrando e tendendo il sorso come la corda di un arco.

Sorprendente come una freccia, questo rosé che al naso si mostra gentile, quasi femminile. E in bocca ti ribalta dalla sedia, incollandoti al calice per l’estrema piacevolezza, sorretta da una gran freschezza e mineralità.

Corpinnat Brut Nature 2015 “Terrers”, Recaredo: 92/100
Xarel·lo (58%), Macabeo (32%) e un 10% di Monastrell vinificato in bianco: 41 mesi sui lieviti, sboccatura 06/2019. Uno Metodo classico che fa dell’immediatezza la sua carta vincente. Godibilità e bevibilità estreme, rese possibili da un frutto pieno, in perfetta alternanza con la mineralità. In bocca aiuta anche la bollicina, fine e cremosa.

Corpinnat Brut Nature 2013 “Serral del Vell”, Recaredo: 94/100
Ancora una volta Xarel·lo e Macabeo, sboccatura 11/2019. Perlage finissimo e fittissimo. Al naso tutta la tipicità del Penedès, coi ricordi di anice, semi di finocchio, ma anche agrumi. Non manca una nota ammandorlata e un vago tocco fumè, conferito da due mesi di affinamento dello Xarel·lo in barrique. Spumante elegantissimo e gastronomico.

Corpinnat Reserva Particular de Recaredo 2007, Recaredo: 93/100
Le bottiglie complessive prodotte dalla cantina sono 300 mila, ma di fronte ad etichette come questa ci si rende conto di quanto, ogni singolo “pezzo”, possa rappresentare un’opera d’arte a sé stante. Capace di emozionare.

Crema e sale i descrittori di sintesi di questa Riserva 2007, stappata da Junoy e Araujo nel “caveau”, pescandola tra le ultime 150 bottiglie a disposizione della cantina (merci encore). Forma smagliante per la cuvèe di Xarel·lo e Macabeo, che si dividono equamente il “monolocale” di vetro.

Bocca estremamente pulita in chiusura, grazie a una mineralità di razza che ben si coniuga alle note mielate leggere, di un principio ossidativo. I ricordi di camomilla rendono ancora più spessa la cornice di uno spumante unico.

Corpinnat Brut Nature 2006 Turó d’en Mota, Recaredo: 96/100
Xarel·lo in purezza, da singola vigna: 146 mesi sui lieviti, degorgement 7/2019 (bottiglia 3328 di 4864). La punta di diamante della gamma della cantina di Sant Sadurní d’Anoia. Un’etichetta capace di rappresentare ai massimi livelli il Penedès ed esemplificare, da sola, il senso stesso del progetto Corpinnat, fondato su selezione e qualità assoluta.

Il giallo paglierino non racconta l’anno della vendemmia, né i mesi trascorsi dal nettare in bottiglia. Lo stesso fanno naso e palato, che si rivelano ancora giovanissimi. Merito di una mineralità esplosiva, che tiene per le briglie le note di lisi e danza sulle tipiche note di anice e semi di finocchio.

Ottima la corrispondenza gusto olfattiva. Il centro bocca è teso e affilato, su ricordi di agrumi che vanno dal succo alla buccia. Una nota leggermente speziata incanta nel finale, di straordinaria persistenza e salinità. Chapeau.


GRAMONA

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“Artigiani del tempo”. E come dare torto al claim di Gramona, la casa vinicola che più di tutte, nel Penedès, ha saputo reinventarsi sino a risultare oggi moderna, nel segno della sostenibilità e dei principi della biodinamica. Gramona, inoltre, è in grado di dare un tocco unico ai propri Corpinnat, con una liqueur d’expedition da Solera.

Tutto inizia a metà dell’Ottocento. L’enologo Josep Batlle, dopo anni di esperienza, lascia il timone al figlio Pau, che inizia a produrre i primi spumanti Metodo classico della zona, base Xarel·lo.

Determinante il matrimonio dell’erede Pilar con Bartomeu Gramona, figlio di Josep Gramona, presidente della Gilda dei Taverners di Barcellona e fondatore di “La Vid Catalana”, rivista dell’Associazione dei produttori di vino catalani. Dal sodalizio prende vita il marchio di spumanti Gramona.

Oggi la cantina conta 304 ettari certificati Demeter: 85 quelli di proprietà, mentre il resto dei terreni sono di conferitori storici, riuniti nell’Aliances per la Terra. Grandi numeri anche in cantina: 1,2 milioni di bottiglie (60% Corpinnat) in parte destinate alla Grande distribuzione organizzata, senza preconcetti di sorta.

Corpinnat 2014 Imperial, Gramona: 89/100
È l’etichetta base della casa di Sant Sadurní d’Anoia, che fa dei lunghi affinamenti in cantina e dell’assoluta piacevolezza della beva la propria cifra stilistica. Un Brut dosato 6g/l, ottenuto dall’assemblaggio di Xarel·lo (40%), Macabeo (40%), Parellada (5%) e Chardonnay (15%), grande passione del numero uno, Xavier Gramona.

Perlage fine e persistente per questo Metodo classico morbido e avvolgente sin dal naso, con le sue note di mela e frutta a polpa bianca, matura, rinvigorite dai classici ricordi di anice. Palato cremoso e avvolgente, con note di pasticceria che ben si legano alla mineralità e alla freschezza.

Corpinnat Brut Nature 2012 Finca Font de Jui “III Lustros”, Gramona: 91/100
Presenza più cospicua di Xarel·lo (65%) nella cuvèe completata dal Macabeo (35%). Minimo 70 mesi sui lieviti per questo Metodo classico che si presenta più tagliente e affilato del precedente, senza rinunciare alla frutta matura.

La cifra è ancora una volta l’estrema bevibilità, gradevolezza e gastronomicità. Le note avvolgenti di crosta di pane rendono il sorso vengono stuzzicate da una gran freschezza e da una salinità decisa.

Corpinnat Brut 2009 Finca Font de Jui “Celler Batlle”, Gramona: 90/100
Xarel·lo e Macabeu, 65% e 35%. Altro Brut dosato 6g/l che porta dritti in Champagne, per la predominanza delle note di lisi sul corredo varietale, giocato sulla frutta candita. Il colore, giallo dorato, evidenzia che qualche anno è passato. Ma il nettare risponde bene: più che mai viva la freschezza al sorso, in un bel gioco con la pasticceria.

Corpinnat Brut Nature 2002 Paratge Qualificat Font de Jui “Enoteca”, Gramona: 95/100
L’anima del Penedès in questo straordinario Metodo classico di Gramona, ottenuto da un 75% di Xarel·lo e da un 15% di Macabeu. Sedici anni sui lieviti e non sentirli, si potrebbe dire. La verticalità assoluta del sorso parla di una longevità assoluta, non ancora giunta al suo apice.

Eppure il sorso, oltre a risultare affilato come una lama, mostra un ottimo apporto di materia: la consueta frutta matura, che gioca con ritorni (corrispondenti al naso) di frutta secca, polvere di cacao e fondo di caffè. La chiusura è particolarmente rinfrescante: un aspetto reso ancora più sorprendente dagli accenni di pepe bianco.

Buone, di Gramona, anche le prove dei Corpinnat “La cuvèe” Brut 2015 (88/100, perfetto vino quotidiano), “Argent” Brut 2014 (90/100 per questo inconsueto Chardonnay in purezza) e “Argent” Rosé 2014  (92/100, Blanc de Noir da Pinot Nero teso, agrumato, salino e verticale).


MAS CANDÍ

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Che la vita di Ramón Jané e della moglie Mercé Cusco is all about wine – tutta incentrata sul vino – è chiaro sin dal fatto che, al posto del giardino, i due abbiano un vigneto sperimentale. Pochi filari, allevati con le varietà autoctone del Penedès, “da recuperare e valorizzare”. La casa, per di più, è adiacente alla cantina.

Mas Candí, in definitiva, è la realtà più giovane del Corpinnat. E la più sorprendente. Quella in cui si respirano a pieni polmoni le ragioni della rivoluzione in corso in Cataluña. “Il patrimonio più importante della mia cantina è aver conservato le vigne vecchie – dice Ramón – rinunciando agli aiuti dell’Ue per l’espianto e reimpianto, nel 2001″.

Una storia di coraggio, di sacrificio e di professionalità assoluta, che ha portato la coppia, per amore della terra, ad aderire al circuito dei vignaioli naturali catalani “Vinyes Lliures“. Quaranta ettari per 60 mila bottiglie totali. Un grande esempio di artigianalità in un Penedès destinato a imporsi ad altissimi livelli con la sua viticoltura ecologica.

Corpinnat Brut Nature 2016, Mas Candí: 89/100
Xarel·lo (50%), Macabeo (25%), Sumoll (15%), Parellada (10%). Quasi 30 mesi sui lieviti, sboccatura 10/2019. Giallo paglierino e perlage molto fine e persistente. Un Metodo classico molto profumato, floreale, fruttato e minerale già al naso, con rintocchi netti di macchia mediterranea.

In bocca risulta verticale, freschissimo e salino. La bollicina lavora bene sulle durezze, ammorbidendo come seta il sorso. Uno spumante dalla beva instancabile, perfetto a tutto pasto. Semplice, ma tutt’altro che banale.

Corpinnat Brut Nature 2014 “Segunyola”, Mas Candí: 92/100
Il singolo vigneto vecchio di Xarel·lo da cui nasce Segunyola è da visitare: manifesto del credo di Ramón, che ci ricava poca uva, ma di grandissima qualità. Il naso, di fatto, è su un frutto di gran concentrazione ed espressività, nella sua perfetta maturità.

Nuovamente ricordi di macchia mediterranea, di anice e di finocchietto selvatico a solleticare l’olfatto, assieme a un accenno appena percettibile di brace. Leggerissimi anche gli accenni di pasticceria, in un quadro più che mai complesso, che cambia di secondo in secondo, grazie all’ossigeno e alla temperatura che cresce, nel calice.

La malolattica, svolta senza induzione, ha l’effetto di regalare un sorso rotondo e piacevole, sul pentagramma delle note fruttate mature e della lisi già avvertita al naso. Freschezza e salinità non mancano e riescono a reggere il colpo.

Uno spumante che, in definitiva, non rinuncia alla tipicità. Ma che, con un tocco di verticalità e struttura in più sarebbe stata l’apoteosi. Recente la sboccatura della bottiglia degustata: 10/2019.

Corpinnat Brut Nature 2013 “Indomable”, Mas Candí: 91/100
Ha scelto un cavallo, Ramón Jané, per rappresentare la vena selvaggia e “indomabile” – per l’appunto – di una delle varietà autoctone a cui è più affezionato: il Sumoll, che in “Indomable” (vinificato in bianco) si divide la scena con Xarel·lo, altro vitigno di carattere e struttura. La sboccatura, anche in questo caso, è recente: 10/2019.

Il perlage, fine e persistente, di eccezionale vitalità, sembra sottolineare la vena scalmanata delle due varietà. Al naso dominano le note fruttate: lampone, fragolina, piccoli frutti rossi in generale, di buona maturità. Ricorda per certi versi certe prove di spumantizzazione del Nebbiolo. Non mancano, però, tratti vinosi leggeri.

Perfetta la corrispondenza gusto olfattiva, segnata da ritorni di frutti di bosco, in particolare fragolina e lampone, croccanti e perfettamente maturi. Bella pienezza di bocca e lunghezza, con accenni salini ad allungare il sorso.

Corpinnat Brut Nature 2016 “Prohibit”, Mas Candí: 90/100
Rosé carico, ancora una volta in stile saignée. L’idea di Ramón è quella di venderlo giovane, nel pieno dell’espressività del frutto del Sumoll. Diciotto mesi minimo sui lieviti, sboccatura 10/2019. Perché Prohibit?

Si è sempre chiamato così, anche quando era un Cava. E soprattutto quando il Sumoll non era tra le varietà ammesse per la produzione dello sparkling spagnolo. Ramón, sulla scheda per il Consorzio, scriveva Monastrell. Tutti felici.

A comporre la cuvèe, in questo caso, anche un tocco di Xarel·lo (2%). Le note di frutta sono molto simili a quelle del precedente assaggio, ma dotate di maggiore carattere e pienezza. Non mancano, al naso, accenni verdi, di macchia mediterranea.

In bocca, “Prohibit” mostra tutto il nerbo della varietà “indomabile”. Siamo di fronte a un rosato muscolare, capace però di abbinare bene la pulizia del frutto a una salinità piuttosto marcata. Un rosato dissetante e, al contempo, gastronomico.


JÚLIA BERNET

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Si legge così sull’insegna e sulle etichette delle bottiglie. Ma il tempo di Júlia deve ancora arrivare. Si tratta della figlia del titolare di quest’altra cantina gioiello del Penedès, Xavier Bernet: “Sta finendo l’università, poi spero mi darà una mano in azienda. Intanto le abbiamo intitolato la cantina…”.

“Vinyes de Muntanya” è il claim : quasi tutti gli appezzamenti si trovano su terrazzamenti eroici, delimitati da muretti a secco, in una delle zone più alte del Corpinnat (430 metri slm). A giudicare dal sorriso di Xavier, stampato sul viso anche quando si chiude fuori dall’auto, con le chiavi nel quadro, sembrerebbe un gioco da ragazzi.

Xavier sorride pure quando ti mostra i muretti a secco, scaraventati giù dal vento e dalla forza di gravità: “In due, tre giorni, li rimetteremo su”. Sorriso o no, questo vignaiolo tutto cuore in faccia è un altro pirata del Cava. Stanco dei prezzi da fame col quale venivano liquidate le sue uve, vendute negli anni scorsi alla cooperativa locale.

“Entrare nel Corpinnat – ammette Xavier Bernet – è stato come prendere una scossa. Mia moglie ed io siamo sempre stati contro la burocrazia. Oggi forse ne abbiamo più di prima, ma questo gruppo è stata un’aspirina”. Tutti gli assaggi delle etichette di Júlia Bernet sono avvenuti con sboccatura à la volée, in cantina.

Corpinnat Brut Nature 2014 “Exsum Or”, Júlia Bernet: 89/100
Xarel·lo (60%), Chardonnay (40%). Perlage finissimo, gran croccantezza del frutto. Sale, crema, limone e di nuovo sale, in allungo. La varietà locale gioca molto bene con l’internazionale Chardonnay. Il sorso resta tipico.

Corpinnat Brut Nature 2014 “R-130”, Júlia Bernet: 92/100
Xarel·lo in purezza, ma di montagna. L’escursione lo rende ancora più teso e complesso. A una tendenza amara iniziale risponde una nota di liquirizia che arrotonda e rende ancora più profondo il sorso.

Sale, come sempre, in gran evidenza, assieme a ricordi d anice e finocchietto. Il frutto è polposo, materico. La beva instancabile, nonostante l’ottima struttura, ne fanno uno Corpinnat col quale osare negli abbinamenti.

Corpinnat Brut Nature 2015 “60 x 40”, Júlia Bernet: 86/100
Si ribaltano gli equilibri: Chardonnay (60%), Xarel·lo (40%). Naso e sorso paiono lontani dai canoni stilistici del Penedès, ma mineralità e struttura dello Xarel·lo fanno il possibile per tenere questa cuvèe attaccata al territorio. Se l’obiettivo è internazionalizzare, bene. Ma attenzione a non prenderci la mano. Si rischia la standardizzazione.

Corpinnat Brut Nature Xarel·lo Vermell 2017, Júlia Bernet: 91/100
Tipicità estrema per questo Metodo classico prodotto con un biotipo di Xarel·lo recuperato da Xavier, il Vermell. Zero solforosa aggiunta: una prova, non ancora in commercio, del tutto riuscita. Naso sulla brace, oltre che sul frutto, pienissimo e succoso. Palato finissimo, minerale e di struttura corpulenta. Avanti tutta.

Corpinnat Brut Nature 2016 “Ingenius”, Júlia Bernet: 92/100
Xarel·lo al 80%, completato da un 20% di Chardonnay. Un Corpinnat pieno, ricco, verticale, salatissimo, capace di sfoderare – al contempo – un gran frutto, di maturità perfetta. La nota amara fa nuovamente capolino in chiusura, assieme ai ricordi balsamici e di erbe alpine. Uno spumante di montagna, a tutti gli effetti: carattere, salinità, piacevolezza, profondità. Non manca nulla, se non un po’ di riposo in bottiglia. Il prossimo anno sarà una favola.

Corpinnat Brut Nature 2009 “Maria Bernet”, Júlia Bernet: 93/100
Sua maestà lo Xarel·lo, in purezza. Frutta e gran mineralità al naso, che si confermano in un palato di grande consistenza e verità. Altro vino manifesto del Penedès, prodotto dalla singola vigna (di montagna) d’Ordal.


LLOPART

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Basta poco per capire chi hai di fronte. Domanda e risposta. “Mr. Llopart, come si sente oggi, nei panni del rivoluzionario del Corpinnat, dopo aver contribuito con la sua azienda alla nascita e alla crescita stessa del Cava?”.

“Es evolucion”. “È evoluzione”, risponde Pere Llopart Vilarós. Novant’anni, enologo, si trascina lento, con l’aiuto di un bastone per la cantina che ha visto crescere ed evolversi fino ad oggi. Rifiutando (quasi) l’aiuto dei figli. Non tanto per orgoglio. Piuttosto perché le energie non mancano a questo pezzo di storia della cantina di Subirats.

Restiamo in quota, non lontano dalla cantina Júlia Bernet., a 350 metri sul livello del mare. Ma alziamo il tiro e le dimensioni aziendali: Llopart produce 480 mila bottiglie da 95 ettari di vigneti. La vocazione, come suggerisce la prima bottiglia di “Espumos” del 1887, è spumantistica: ben 450 mila i pezzi di Corpinnat sul mercato ogni anno.

Tra le peculiarità della cantina, oggi nella mani di cinque eredi (quinta generazione), la presenza di un percorso di trekking tra i vigneti, per cuori forti. Si arriva in uno splendido vigneto con vista sulla valle del Penedès e sul Montserrat, per poi calarsi tra le pareti calcaree scavate dall’acqua, da cui affiorano conchiglie e fossili.

Corpinnat Rosé Brut Reserva 2017, Llopart: 89/100
Monastrell (60%) e Garnacha (20%), completate da un 20% Pinot Noir. Dosaggio 6 g/l. Si tratta di uno dei best seller della cantina. Rosa salmone alla vista, perlage fine e persistente. Buona finezza e freschezza, chiusura sul frutto. Un rosé garbato, ben fatto, di buona persistenza, perfetto da solo o in occasione dell’aperitivo.

Corpinnat Rosé 2016 “Microcosmos”, Llopart: 91/100
Qui il Pinot nero ha il sopravvento sul Monastrell (80% – 20%) e il risultato è un rosé di assoluta eleganza e gastronomicità, tra i migliori degustati nel Penedès. Buona pienezza al palato, senza rinunciare alla verticalità. L’accenno vinoso in chiusura lo rende più rosso che bianco, con la salinità a fare da spina dorsale.

Corpinnat Brut Nature Reserva 2016, Llopart: 89/100
È appena iniziata la commercializzazione della vendemmia in degustazione (sboccatura 11/2019), elaborata secondo la cuvèe che prevede un 40% di Xarel·lo, un 30% di Macabeo, un 30% di Parellada e un 10% di Chardonnay. Si tratta dell’etichetta d’entrata della cantina, prodotta sin dagli esordi come Cava.

Naso dominato dalle note morbide e ammandorlate dello Chardonnay, bocca tutta sulla struttura dello Xarel·lo, la freschezza del Macabeo e l’eleganza della Parellada. Un assemblaggio davvero ben pensato.

Corpinnat Brut Nature 2016 “Integral”, Llopart: 91/100
Uno dei pochi esempi di cuvèe con prevalenza della Parellada (40%), elemento consentito dall’altezza media dei vigneti della cantina di Subirats. Completano Chardonnay (40%) e Xarel·lo (20%). Gran bella eleganza e freschezza balsamica al naso, coi suoi richiami alla macchia mediterranea e agli aghi di pino.

In bocca, il nettare riflette freschezza e balsamicità, unendo una vena minerale decisa, salina, prima di una chiusura lunghissima, su echi balsamici. Un metodo classico che riflette le peculiarità della zona in cui è prodotto.

Corpinnat Brut Nature 2014 “Imperial Panoramic”, Llopart: 91/100
Xarel·lo (40%), Macabeo (40%) e Parellada (20%), 50 mesi sui lieviti. Naso gentile, su frutta come la pesca. Accenni di macchia mediterranea e pietra focaia, su note di pasticceria. In bocca gran freschezza, sui ritorni di lievito. Chiusura nuovamente sul frutto, pieno, cremoso, rinvigorito da una buona salinità e freschezza.

Corpinnat Brut Nature 2013 “Leopardi”, Llopart: 92/100
Xarel·lo (40%), Macabeo (30%), Parellada (30%) e Chardonnay (10%). Dopo la riduzione iniziale, il nettare si apre su note di lisi ben più accentuate rispetto agli assaggi precedenti. Non mancano la macchia mediterranea, l’anice e il finocchietto: bel connubio Spagna-Francia. In bocca buona pienezza e corrispondenza. Gran gastronomicità.

Corpinnat Brut 2010 “Ex Vite”, Llopart: 93/100
Xarel·lo (60%) e Macabeo (40%) direttamente dal cru di Las Flandes, anfiteatro naturale da cui provengono due delle etichette top di gamma di Llopart. Perlage finissimo e persistente. Naso dominato dallo iodio e da una frutta di gran precisione, con accenni di pasticceria e di brace. La bollicina è cremosa e viva al palato, avvolgente.

Sorso connotato da una freschezza assoluta, seguita da ritorni salini e di pasticceria più evidenti rispetto al naso. Un quadro di assoluta gioventù – nonostante si tratti di una vendemmia 2010 – sostenuta dall’ottima struttura.

Corpinnat Brut Nature 2008 “Espumos”, Llopart: 94/100
Etichetta che rappresenta la storia della famiglia: 60% Xarel·lo e 40% Macabeo. Giallo paglierino che maschera bene l’anno di produzione delle uve. Eleganza assoluta al naso, dove le note di lisi sono evidenti (pasticceria, crosta di pane) ma sovrastate dal varietale.

Ecco dunque la macchia mediterranea e, nuovamente, gli accenni di brace e il fumè tipici del biotipo di Parellada presente nel vigneto storico. Al palato, in un quadro di perfetta corrispondenza, anche la liquirizia. La chiusura, lunga, infinita, vede il ritorno prepotente di un frutto a polpa gialla di gran concentrazione, quasi candito.


HUGUET CAN FEIXES

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Molto più di una semplice cantina. Can Feixes, letteralmente “Casa della famiglia Feixes”, è una visione. Del Penedès, delle sue uve. Ma anche del ruolo dell’uomo nel contesto ambientale. Tutto è preciso e meticoloso. Pensato e dosato. Sia in cantina che in vigneto. Le parole d’ordine? “Preservare” e “restituire”.

Oggi Can Feixes – 300 ettari di terreni di cui 80 vitati, a circa 400 metri sul livello del mare – è nelle mani di Joan, Joseph M. e Xavier Huguet, terza generazione della famiglia che ha acquisito la tenuta dai discendenti del fondatore, Don Jaume Feixes, rimasti senza eredi.

Joan è anche il presidente del Consell Regulador della Denominació d’Origen Penedès. Tutto tranne che un burocrate. Anzi, un uomo che si emoziona ancora, camminando tra le vigne di oltre 90 anni, “che producono poco ma sono estremamente preziose per i vini della nostra cantina”.

Alle varietà autoctone (soprattutto Parellada, ma anche Macabeo e Malvasia de Sitges), Can Feixes affianca a Cabrera d’Anoia Chardonnay, Cabernet Sauvignon, Merlot, Pinot Nero e Petit Verdot, oltre al Tempranillo.

Circa 200 mila le bottiglie complessive, per la maggior parte di vino fermo, bianco e rosso. Il 25% della produzione è destinato agli sparkling Corpinnat. Due le etichette, che riflettono perfettamente la filosofia della cantina. Stessa base per entrambi. A cambiare è solo il dosaggio.

Corpinnat Brut Nature 2010, Huguet Can Feixes: 94/100
Parellada (60%), Macabeo (20%) e Pinot Noir (20%) vinificato in bianco. Perlage fine e persistente. Al naso tutta l’eleganza floreale, agrumata e minerale della Parellada – vitigno sensibilissimo, che dà il meglio di sé dai 350 metri d’altezza, nel Penedès – unita a richiami precisi di pera.

In bocca, questo Brut Nature 2010 si conferma di estrema eleganza ed essenzialità, giocata su una salinità evidente e una freschezza dissetante. Un quadro già perfetto, impreziosito in chiusura da ritorni di frutta matura e dalla cremosità delle note di lisi (pasticceria e limone candito) ben amalgamate al varietale.

Corpinnat Brut Classic 2010, Huguet Can Feixes: 92/100
Giallo paglierino carico e luminoso per questa cuvèe, ottenuta con le medesime percentuali del Brut Nature. In questo caso è però previsto un dosaggio di circa 6 g/l. Al naso il nettare è meno vibrante. Un Corpinnat che sembra iniziare dove finisce la precedente etichetta di Can Feixes: ovvero dalle note di lisi e di frutta matura.

Agrume candito e pasticceria giocano sulle note minerali anche al palato, che rivela così tutta la sua gastronomicità. L’ingresso è fresco e salino, ma si allarga ben presto sulla crosta di pane e sulla frutta matura, sulla spinta di una bollicina avvolgente e setosa.


NADAL

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Una cantina per tre “stili” di Corpinnat, capaci di accontentare non solo palati diversi, ma di rappresentare – nel calice – le peculiarità delle principali varietà del Cava originario: Xarel·lo, Macabeo e Parellada. Questa è Nadal, tra le “big” dell’Avec coi suoi 100 ettari e le sue 450 mila bottiglie prodotte.

Alle redini della cantina di El Pla del Penedès, oggi, c’è Xavier Nadal Penedès, terza generazione della famiglia che deve tutto a Ramon Nadal Giró. Fu lui, nel 1941, a ripiantare i vigneti distrutti dalla fillossera, al termine della Guerra Civile spagnola. Le piante hanno preso il posto di una pista per aerei, costruita appunto a scopi bellici.

Tra le caratteristiche che rendono unica Nadal, la produzione di vini dolci, sfruttando l’umidità che consente la formazione della muffa nobile, la Botrytis Cinerea. Ed è proprio grazie alle mistelle che Nadal è in grado di dare un carattere unico ai propri Corpinnat dosati, attraverso la liqueur d’expedition.

Corpinnat Brut Nature Reserva 2012, Nadal: 89/100
Bello spumante d’entrata di gamma, quello di Nadal. Merito di una cuvèe dominata dall’elegante Parellada (44%), completata da Xarel·lo (32%) e Macabeo (24%). Naso minerale e agrumato, bocca corrispondente: fresca e salina.

Corpinnat Rosé Brut 2014 “Salvatge”, Nadal: 89/100
Pinot noir in purezza, degorgement ad aprile 2019. Rosa salmone carico alla vista. Bella presenza al palato, con i 4,5 g/l di residuo ben integrati nel sorso. Chiusura vinosa dosata, che lo ancora più adatto alla tavola.

Corpinnat Brut Nature 2013 “Salvatge”, Nadal: 91/100
Un Metodo classico molto dritto, verticale, sul sale e sulla percezione iodica, sin dal naso. Non manca la frutta in questa cuvèe di Macabeo (60%), Xarel·lo (29%) e Parellada (5%). Una declinazione che fa pensare a certi Metodo classico dei Monti Lessini Durello, prodotti con l’uva Durella, in Veneto. Chiude leggermente amaricante, ma al contempo su ritorni garbatissimi e setosi, di lievito. Ancora giovane.

Corpinnat Brut 2014 “Salvatge”, Nadal: 92/100
Più Parellada (31%) che Xarel·lo (10%) in questo splendido Brut, base Macabeo (59%). E come al solito il vitigno “di montagna” non delude. Già al naso, l’eleganza è estrema. La finezza della Parellada, combinata con la freschezza diretta del Macabeo e la struttura dello Xarel·lo, tengono perfettamente per le briglie il dosaggio di 8 g/l. Infinita lunghezza e gastronomicità, per quello che risulta tra i migliori Brut del Penedès.

Corpinnat Brut 2014 “Rng”, Nadal: 94/100
“Rng” sta per Ramon Nadal Giró, il fondatore. Sboccatura 23/10/2019 per questa cuvèe di Xarel·lo (53%) e Parellada (47%) che ha davvero tutto: frutto, freschezza, finezza. Alle note floreali e di frutta candita del naso risponde un palato sorprendentemente bilanciato tra verticalità e ampiezza, tra note d’agrumi e di pasticceria. Lunghissimo.

Corpinnat Brut Nature 2004 “Rng10”, Nadal: 93/100
Colore giallo paglierino che fa ben sperare per la tenuta del nettare. Al naso principi ossidativi evidenziati da note di frutta secca, come arachidi e nocciole, che ben si coniugano con le note di “crianza”, ovvero l’affinamento (lungo, in questo caso) sui lieviti (sboccatura 01/2019).

Gran vitalità al sorso, fresco, agrumato, con ritorni di pasticceria. Eleganza e struttura per un altro spumante che mostra le ottime capacità di sfidare il tempo da parte delle “bollicine” dei pirati del Cava.

Corpinnat Brut Reserva “Original”, Nadal: 88/100
Tra gli spumanti più semplici e beverini degustati in Cataluña. Si tratta dell’etichetta “multivintage” di Nadal (in questo caso 2015 e 2016) che assicura così, di anno in anno, una certa uniformità di gusto (dosaggio 5 g/l).

Un’etichetta pensata per i clienti meno esigenti, ma comunque desiderosi di gustare una cuvèe di uve tradizionali del Penedès: 39% Parellada, 39% Macabeo, 22% Xarel·lo, affinati sui lieviti per un periodo minimo di 18 mesi.


TORELLÓ

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C’è da perdersi tra i corridoi stretti e stracolmi di bottiglie del “caveau” di Torelló, nei sotteranei di una splendida residenza – con annessa cantina – immersa nel verde dei boschi e dei vigneti. Siamo lungo la Carretera C-243, a 25 minuti dall’aeroporto El Prat di Barcellona. In quella che potrebbe essere la prima tappa di un tour del Corpinnat, vista l’assoluta vicinanza alla capitale della Cataluña.

La strada maestra, tra gli spumanti che riposano sui lieviti in attesa del degorgement, la indica il direttore, Toni de la Rosa Torelló. La tenuta conta 90 vitati sui 135 di proprietà. Undici le varietà allevate. La prima bottiglia di spumante a marchio risale al 1951. Ma la storia della famiglia di viticoltori Torelló risale al XV Secolo.

Oggi la cantina produce circa 300 mila bottiglie all’anno ed è una delle più attive nell’ambito della promozione del Corpinnat, anche dal punto del vista del marketing e del packaging, sempre moderno e accattivante.

Corpinnat Brut Rosé 2017 “Pàl-Lid”, Torelló: 89/100
Macabeo (75%) e Pinot Nero (25%) per questo rosé fresco, fruttato ed elegante, che si presta alla perfezione a un consumo spensierato e a un abbinamento a tutto pasto. Il dosaggio di 3 g/l è ben calibrato e solletica la croccantezza delle note di piccoli frutti rossi.

Corpinnat Brut Reserva 2014 “Special Edition”, Torelló: 89/100
Uno dei cavalli di battaglia all’estero della cantina. Cuvèe dominata da Xarel·lo (40%) e Macabeo (38%), con la Parellada (22%) a dare il suo tocco di finezza. Su uno sfondo minerale, iodico, si alternano – sia al naso sia al palato – note di frutta matura. Uno spumante preciso e beverino.

Corpinnat Brut Nature 2013 “Traditional”, Torelló: 90/100
Consueta cuvèe con prevalenza di Xarel·lo (50%) sul Macabeo (29%) e sulla Parellada (21%). Cresce la percezione minerale, sin dal naso, rispetto agli altri assaggi. Così come è più evidente il legame col territorio, sottolineato dai ricordi di semi di finocchio ed anice. Bella la chiusura, su ricordi di liquirizia. Un Metodo classico che abbina bene austerità e piacevolezza, freschezza e frutto.

Corpinnat 2011 “Gran Torelló”, Torelló: 91/100
Spalle larghe per questo Corpinnat 2011 che gioca in ampiezza sulle note di lisi, tra la pasticceria e i ricordi di miele e agrumi maturi. Ottima corrispondenza gusto olfattiva per una cuvèe (46% Xarel·lo, 30% Macabeo, 24%Parellada) che chiama il piatto.

Freschezza ed eleganza non mancano, specie in una chiusura dove il sorso trova il suo perfetto equilibrio, grazie a ritorni di iodio ed accenni balsamici. La sboccatura è recente (09/2019) e il nettare non potrà che evolversi bene.

Corpinnat Brut Nature 2015 “225”, Torelló: 92/100
Il nome dipende dall’affinamento dello Xarel·lo (47% della cuvèe) in barrique da 225 litri, per un mese. Solo acciaio per il 33% di Macabeo e per il 20% di Parellada. Perlage finissimo Al naso richiami netti di anice e semi di finocchio, macchia mediterranea (rosmarino), accenni fumè e ricordi di miele.

Il più complesso e intrigante dei “nasi” di Torelló anticipa un ingresso di bocca pieno. La spina dorsale di questo intrigante Corpinnat è costituita più dalla freschezza che dall’attesa vena salina, ammansita dalla rotondità dello Xarel·lo. La gastronomicità assoluta invita ad osare con l’abbinamento.

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degustati da noi vini#02

Usiglian del Vescovo: mille anni di vino sul “mare” di Pisa, da assaggiare a piedi nudi

PALAIA – Se non fosse per quella “a” di troppo in “Palaia” e per un altro paio di dettagli non trascurabili, Usiglian del Vescovo sarebbe lo stabilimento balneare perfetto. Invece è una cantina millenaria. Fra il Mar Tirreno e Firenze.

A richiamare la “plaia” il suolo sabbioso, in cui affondano le radici 25 ettari di ombrelloni mancati, che d’estate si colorano di rosso e di oro: Sangiovese, Merlot, Cabernet Sauvignon, Syrah, Petit Verdot, Chardonnay e Viognier, ormai abituati a convivere, spalla a spalla, con migliaia di conchiglie e fossili di epoca Pliocenica.

La boutique winery di proprietà di Luisa Angelini, esponente della nota famiglia di imprenditori del ramo farmaceutico, nel mare invisibile di Usiglian del Vescovo crede al punto da organizzare tasting in vigna, a piedi nudi.

“È così che facciamo comprendere agli ospiti le caratteristiche dei nostri vini”, chiarisce direttore di produzione Francesco Lomi. Da un terreno così povero, non possono nascere vini potenti e tannici.

Usiglian del Vescovo è il volto leggiadro e sornione di una Toscana fine ed elegante, che non rinuncia tuttavia al carattere e alla verve pisana, ben riconoscibile nei tratti salini dei bianchi e dei rossi della gamma. Calici che trasudano storia, tradizione e rispetto del terroir delle dolci colline della Valdera.

A dominare il borgo agricolo, un castello di cui si hanno notizie sin dal 1078. Fu Matilde di Canossa a donare l’allora Curtes altomedievale al Vescovo di Lucca. Tutt’attorno, 160 ettari di terreni, oggi suddivisi tra vigna, uliveto, prati e boschi. Una zona ancora selvaggia e incontaminata, coltivata secondo i dettami biologici.

“L’obiettivo – spiega ancora Francesco Lomi – è assecondare la finezza della nostra terra, regalando vini che parlino della zona da cui provengono. Un puzzle di vigneti molto frammentato, i cui pezzi si distinguono ancora oggi grazie al nome rinvenuto su una mappa dell’anno 1083″.

Rese bassissime per le uve che crescono nei piccoli “cru”: attorno ai 60 quintali per ettaro. L’esposizione e il microclima aiutano la vendemmia, con piogge regolari ed escursioni termiche che rinvigoriscono gli aromi.

LA DEGUSTAZIONE

Spumante Metodo classico Brut Rosé “Il Bruvé”: 85/100
Un Sangiovese spumantizzato col Metodo classico, non millesimato, che si rivela fresco, beverino, salino. Uno sparkling che ben si adatta all’aperitivo o ai momenti conviviali.

Igt Toscana Bianco 2018 “Il Ginestraio”: 88/100
Chardonnay e Viognier, raccolti assieme e affinati per 4 mesi in barrique. Un bianco tendenzialmente morbido, ma dotato ancora una volta di una beva agilissima e fresca. Il Centro bocca e la chiusura salina compensano i sentori di legno e la componente glicerica, facendo risultare il vino equilibrato e asciutto.

Igt Costa Toscana Bianco 2017 “MilleEsettantotto”: 92/100
Chardonnay e Viognier lavorati in barrique e tonneau, per il 70% nuovi. Il vino viene quindi affinato in giare di coccio pesto. Si tratta della prima annata di questa etichetta, presentata a Vinitaly 2019: un vino che guarda ai bianchi francesi, strizzando l’occhio a mostri sacri come il Cervaro della Sala, a un prezzo più vantaggioso.

Il legno, in evidenza sia al naso sia al palato, rivela la gioventù del nettare. Le uve, vendemmiate tre giorni dopo quelle de “Il Ginestraio”, evidenziano tutta la maturità, oltre alla maggiore concentrazione degli zuccheri.

Gran bella pienezza al palato: la componente fruttata è compensata da un’ottima freschezza, rinvigorita nel finale da accenni di pepe bianco. Un bianco di assoluta gastronomicità, capace di dare grandi soddisfazioni a tavola.

Igt Costa Toscana Rosso 2016 “Il Grullaio”: 90/100
Prodotto sin dal 2009, è uno dei vini simbolo di Usiglian del Vescovo, ottenuto da Merlot e Cabernet Sauvignon. Poco contatto con le bucce e vinificazione in acciaio per questo rosso tutto frutto, freschezza e mineralità, con ricordi di macchia mediterranea e accenni di spezia. Buona la persistenza.

Igt Toscana Rosso 2017 “Mora del Roveto”: 87/100
Sangiovese 60%, Cabernet Sauvignon 20% e Merlot 20%, affinati in barrique di secondo passaggio. Al naso incantano le note floreali di viola e di rosa, sul frutto pieno. In bocca, al netto di una temperatura di servizio non proprio ideale, il nettare si rivela un po’ troppo potente sull’alcol. Il tannino è elegante e ben integrato e gioca bene con la freschezza, al sorso. Ottimo il rapporto qualità prezzo.

Igt Toscana Rosso 2015 “Il Barbiglione”: 89/100
La base è costituita dal Syrah, unito a piccole “dosi” di Merlot e Cabernet Sauvignon. Ancora una volta freschezza ed alcol risultano determinanti al sorso, oltre alla spezia e a una buona componente minerale, salina. Un vino che può tranquillamente affinare ancora in cantina.

Igt Toscana Rosso 2015 “MilleEottantatre”: 93/100
Petit Vedot in purezza, affinato due anni in tonneau nuovi. La migliore espressione dei rossi di casa Usiglian del Vescovo. Naso elegante e complesso, finissimo. Al palato gran pienezza, verticalità e gastronomicità, decisa anche da un tocco di radice di rabarbaro sul frutto, in chiusura.

Vin Santo del Chianti Doc 2011 Occhio di Pernice: 91/100
Vigna del 1984 per il 70% di Sangiovese, unito a un 30% di Malvasia bianca e Trebbiano. Tipico sin dal colore, ambrato. Al naso note di frutta secca, come arachidi e noci, unite ad albicocca disidratata. Buona corrispondenza al palato, in cui la vena aromatica viene sferzata da note di arancia cantina e spezia. Ottima la persistenza.

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***DISCLAIMER*** L’articolo è frutto di un pranzo-degustazione organizzato per la stampa dalla cantina e dal relativo ufficio stampa. I commenti espressi sono comunque frutto della completa autonomia di giudizio della nostra testata, nel rispetto assoluto dei nostri lettori

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degustati da noi news news ed eventi vini#02

BardolinoCru chiama, St. Magdalener risponde: il confronto è di (alta) qualità

BARDOLINO – L’Alto Adige non è una regione: è un’unità di misura. Almeno nel mondo del vino italiano. Lo dimostra il confronto voluto sabato 7 dicembre dal Consorzio di Tutela del Bardolino col St. Magdalener Klassisch, il Santa Maddalena Classico altoatesino, nell’ambito di BardolinoCru 2019.

L’assemblaggio di Corvina veronese, Corvinone, Rondinella e Molinara delle tre neonate sottozone gardesane – i cosiddetti “Cru” di Montebaldo, La Rocca e Sommacampagna, da oggi presenti “in bollino” sulle etichette – ha retto bene l’accostamento con la Denominazione che esalta l’uva Schiava (Vernatsch).

Le due tipologie, oltre che dal colore – un rubino luminoso che, da solo, invita al sorso – sono accomunate da una beva agile e croccante, degna dei migliori vini di pronta beva. Senza disdegnare, però, una grande versatilità in tavola (pesce compreso) e le ottime capacità di affinamento nel tempo, degne dei grandi rossi internazionali.

Percorsi comuni anche quelli dei Consorzi guidati da Franco Cristoforetti e Josephus Mayr, che hanno condotto la degustazione di dodici etichette di Bardolino (due per sottozona, dal 2018 al 2014) e St. Magdalener Classico (dal 2018 al 2006). Al servizio i sommelier della delegazione Ais di Verona.

Coinvolte le cantine Le Tende e Vigneti Villabella per Montebaldo; Giovanna Tantini e Poggio delle Grazie per La Rocca; Albino Piona e Il Pignetto per Sommacampagna. Per l’Alto Adige: Tenuta Hans Rottensteiner, Untermoserhof Georg Ramoser, Cantina Bolzano, Glögglhof Franz Gojer, Ansitz Tenuta Waldgries e Unterganzner Josephus Mayr.

Da segnalare, su tutti, la straordinarietà dell’Alto Adige St. Magdalener classico 2016 “Vigna Rondell” di Glögglhof Franz Gojer. Sul fronte Garda, ottimo il Bardolino 2013 “Sp” di Albino Piona e il Bardolino 2016 della cantina Il Pignetto, entrambi della sottozona Sommacampagna.

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IL “CASO” GUERRIERI RIZZARDI
Più in generale, il percorso di qualità intrapreso dal Consorzio veronese – che si ritrova a operare nell’areale del Lago di Garda occupato anche da Lugana e Custoza – si dimostra concreto, alla prova del calice.

Il segno che quella dei “cru” sia molto più di una trovata di marketing risiede (anche) nella bocciatura dell’etichetta di una storica cantina della zona, come Guerrieri Rizzardi.

Il legno grande è ammesso per l’affinamento dei vini della sottozona, ma a livello organolettico i sentori ‘vanigliati’ non devono sovrastare il corredo: cosa che si verifica nel Bardolino “Tacchetto” della nota winery di Strada Campazzi, che non potrà dunque fregiarsi del “cru” Monte Baldo nell’ultima annata in commercio.

“Il progetto delle tre sottozone – chiarisce il presidente del Consorzio, Franco Cristoforetti – è in netta contrapposizione con quanto avvenuto nel 2001, anno in cui furono introdotti nel veronese vitigni internazionali come Merlot e Cabernet. Il vitigno che deve identificare il Bardolino dei cru è la Corvina, dunque un autoctono”.

“Vogliamo ‘rovinare’ il meno possibile quello che la natura ci offre – aggiunge Cristoforetti – nel segno di una netta discontinuità nei confronti degli ultimi 20 anni, in cui i progressi in ambito tecnologico del comparto vitivinicolo hanno portato diversi produttori a stravolgere il risultati della terra, in cantina”.

Tra gli obiettivi dei prossimi anni, anche il consolidamento di Bardolino e Chiaretto sui mercati internazionali. In particolare è sull’onda “pink” del rosato gardesano che punta il Consorzio, specie negli Usa e in Scandinavia.

Nel 2018 sono state prodotte 26 milioni di bottiglie – 16 di Bardolino – dai 1029 soci: 795 viticoltori, 120 vinificatori e 114 imbottigliatori che gestiscono 2.576 ettari, di cui mille riservati al Chiaretto.

Numeri ben più risicati quelli del St. Magdalener altoatesino. La Doc riconosciuta nel 1971, tre anni dopo la gardesana, produce 2 milioni di bottiglie su un areale di 200 ettari, situati tra i 250 e i 500 metri di altitudine, in provincia di Bolzano.

Può fregiarsi del termine “Classico” solo il vino di Santa Maddalena, Santa Giustina, San Pietro, Rencio e Coste. Oggi il St. Magdalener viene esportato in oltre 30 Paesi e va annoverato tra i vini simbolo dell’Alto Adige.

LA DEGUSTAZIONE

Bardolino Classico 2018, Le Tende (Montebaldo)
Profumatissimo, floreale, fresco. In bocca buona verticalità ed allungo su frutta (fragola e ciliegia) e, ancor più, su spezia (chiodo di garofano). Un vino molto fine ed elegante.

Bardolino Classico 2017 Morlongo, Vigneti Villabella (Montebaldo)
Vino più profondo e complesso, segno di quanto faccia bene il tempo al Bardolino. Al naso, oltre al frutto, una nota netta di finocchietto selvatico, tra ricordi di macchia mediterranea. Bella pienezza al palato, giocato sull’equilibrio tra la componente salina e la frutta matura (fragola, lampone). Il tannino parla di un vino in netta evoluzione.

Bardolino 2015, Giovanna Tantini (La Rocca)
Vino essenziale, dritto, più sale che frutto. Buona pienezza, bel retro olfattivo, largo e lungo. Un’etichetta più che mai godibile, ma che sta cercando la perfetta quadra, in questa precisa fase evolutiva.

Bardolino 2016, Poggio delle Grazie (La Rocca)
Frutto e spezia ben più marcata dei precedenti campioni, specie al palato, in chiusura. Sfodera addirittura un accenno goudron sul tannino. Dall’iniziale chiusura, il nettare vira al naso su ricordi di cera d’api, uniti al lampone e alla cannella. In bocca, l’accenno mielato si amalgama bene con le durezze.

Bardolino 2013 “Sp”, Albino Piona (Sommacampagna)
Eleganza assoluta, grande ampiezza, fiori e frutto di grande precisione.  E, per la prima volta nel panel, ecco l’agrume rosso, l’arancia sanguinella. In bocca si conferma su note eleganti e precise, fruttate. Il tannino parla di un’ottima prospettiva di affinamento. Curiosa la nota di zafferano che accompagna iodio e una fragolina da Pinot Nero, nel retro olfattivo.

Bardolino 2016, Il Pignetto (Sommacampagna)
Al naso fragola e lampone, di nuovo, ma di una maturità più compiuta. Sale e spezia marcata, ma molto ben integrata. Macchia mediterranea, rieccola. Tanto sale e frutto, perfettamente equilibrati. Vino splendido, dalla beva irresistibile.

Alto Adige St. Magdalener Doc Classico 2016 “Vigna Rondell”, Glögglhof Franz Gojer
Il vino della giornata, frutto di un cru di un ettaro che dà vita a 7 mila pezzi unici. Viti di 60 anni, rese sui 70 quintali. Acciaio e botte grande per 7, 8 mesi. Nel calice tutte le peculiarità del terreno di differente natura: dal porfido al calcare, oltre allo gneis. Frutto succoso, goloso, di estrema precisione. Rintocchi salini, speziati, ritorni terziari. Vino giovane, con tanta vita davanti, ma già godibilissimo e di eleganza assoluta. Un manifesto della Schiava.

Alto Adige St. Magdalener Doc Classico 2018 “Vigna Premstallerhof”, Rottensteiner
Rubino, frutto di bosco, gran concentrazione. In bocca sorso agile in ingresso, tendenzialmente morbido, che si irrobustisce in centro e in chiusura, dove sfodera una bella vena salina e un tannino che dimostra la gioventù.

Alto Adige St. Magdalener Doc Doc Klassisch 2017 “Hub”, Untermoserhof Georg Ramoser
Il più austero di tutti, bella batteria, più sulle durezze che sul frutto. Gran prospettiva. Tanto sale. Frutto in chiusura.

Alto Adige St. Magdalener Doc Classico 2016 “Moar”, Cantina Bolzano
Ottima prontezza di beva. Ma il vino mostra anche carattere e polpa, oltre al tannino e al sale. Vino assolutamente completo e ben fatto, equilibrato.

Alto Adige St. Magdalener Doc Classico 2015, Ansitz Tenuta Waldgries
Quattro anni e non sentirli, alla faccia della Schiava che dà vini di pronta beva. Un vino assolutamente ancora vivo, dal frutto pieno ed esplosivo, con ricordi di mora di rovo. Sale e tannino si dividono il sorso, mostrando ampi margini di ulteriore affinamento.

Alto Adige St. Magdalener Doc Classico 2006, Maso Unterganzner Josephus Mayr
Colore che tende al granato. Al naso gran complessità, con note terziarie evidenti e molto ben integrate. Al palato vino pieno: la buona vena glicerica è corroborata e rinvigorita da spezia e tannino, ancora presenti. Allungo salino.

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GoVolcanic 2019: i vini vulcanici italiani convincono Budapest. I migliori assaggi

BUDAPEST – I vini vulcanici italiani sono ormai una categoria ben definita, riconoscibile anche all’estero. Un movimento capace di riunire i produttori di alcune delle aree vitivinicole più vocate del Belpaese, accomunate dal terroir vulcanico. La conferma è arrivata lo scorso weekend a Budapest con GoVolcanic 2019, prima edizione del summit che si candida a diventare uno degli appuntamenti chiave per i vini vulcanici internazionali, in Europa.

Sotto lo stesso tetto i vignaioli di Soave, Monti Lessini, Etna e Vulture, ospitati da 40 produttori ungheresi delle regioni di Mátra, Tokaj, Somló, Bükk, Balaton, Ménes e Szerémség. Presenti anche diversi vigneron di Isole Canarie, Azzorre, Slovenia, Israele, Francia (Auvergne) e Slovacchia (Tekov, Tekovského regiónu).

Abbiamo avviato la valorizzazione dei vini da suolo vulcanico ormai 10 anni fa – commenta Aldo Lorenzoni, direttore del Consorzio Tutela Vini Soave e Recioto di Soave, nonché del Consorzio del Lessini Durello – ed è bello vedere che la nostra idea si sia sviluppata non solo in chiave nazionale, ma anche internazionale”.

“All’evento di Budapest faranno seguito summit in Francia e Germania – annuncia Lorenzoni – ma soprattutto siamo protagonisti come Lessini Durello, assieme al formaggio Monte Veronese e alla cantina Santo Wines di Santorini, del progetto ‘Gli eroi vulcanici d’Europa‘: una misura 1144 dell’Ue che coinvolge 6 Stati, in 3 anni. Momenti, questi, che trasformano i vini vulcanici in una vera e propria categoria”.

Buoni i riscontri in Ungheria, con 738 visitatori registrati in due giorni all’Holdudvar della Margitsziget, l’isola Margherita sul fiume Danubio, tra Buda e Pest. “Siamo entusiasti di aver generato l’interesse internazionale per questo evento – commenta l’organizzatrice Eva Cartwright – e speriamo di aver ispirato il pubblico a visitare di persona gli incredibili paesaggi da cui provengono questi vini vulcanici”.

La macchina organizzativa dell’edizione 2020 è già in moto: “La location sarà più grande – annuncia Cartwright – e accoglierà nello stesso edificio, oltre ai produttori di vino, anche quelli di alcune eccellenze gastronomiche locali. L’intento sarà sempre quello di giocare sul trinomio Vino-Cibo-Esperienza“.

I MIGLIORI ASSAGGI A GOVOLCANIC 2019

SPUMANTI
Lessini Durello spumante Brut “Vulcano”, Zambon: 90/100
La temperatura di servizio non aiuta al momento dell’assaggio, ma l’etichetta in questione è una vecchia conoscenza di WineMag.it. Un Metodo classico che sa abbinare al frutto polposo della Durella la verticalità ed essenzialità tipica dei vini vulcanici.

VINI BIANCHI
Tokaj 2017, Sanzon Rány: 94/100
Furmint, single cru: 6 grammi litro ammortizzati a dovere dall’impronta vulcanica del terreno. Naso che si presenta timido, su note di buccia d’agrumi, per poi esplodere (letteralmente) su frutta esotica, mandarino e macchia mediterranea. Leggera percezione talcata. Spettacolo puro al palato, nel gioco tra larghezza e verticalità, polpa e “vulcano”. Chiusura salina elegantissima, con ritorni leggeri di liquirizia.

Tokaji 2017, Homonna Attila: 93/100
Furmint e Hárslevelű. Minerale da vendere, sia al naso sia la palato. Le note di pietra bagnata si avvicendano col frutto. In bocca una gran verticalità, senza rinunciare ancora al frutto, in un quadro di perfetta corrispondenza gusto olfattiva che si arricchisce di accenni di macchia mediterranea. Splendido.

Soave Doc 2017 “Le Cervare”, Zambon: 92/100
Vino bocciato tre volte dalla commissione di degustazione della Doc, forse per l’utilizzo di lieviti indigeni poco standardizzanti. Eppure “Le Cervare” è uno dei Soave più tipici in circolazione, con le sue note agrumate e l’impronta vulcanica che si manifesta su pietra focaia e polvere da sparo, prima di una chiusura sulla mandorla amara.N

Nagy-Somlói Juhfark 2017, Somlói Apátsági Pince: 92/100

Juhfark è il nome del vitigno che corrisponde al Coda di pecora, autoctono della Campania. Evidente la matrice del terroir, affiancata da note di fiori secchi, agrumi e tè nero. Al palato ricordi di frutta secca e gran sapidità, che accompagna verso un finale lungo e corposo.

Rhine Riesling 2017 “Shop Stop”, Villa Sandahl: 91/100
Un Riesling renano prodotto nella zona del Balaton, in cui i 6 grammi litro di residuo aiutano a riequilibrare la gran verticalità e freschezza del vitigno. Tra i vini più “gastronomici” in degustazione a GoVolcanic 2019.

Olaszrizling Single vineyard 2017, Sabar: 90/100
Naso ampio, talcato, mentolato, agrumato. In bocca verticale, molto salato, in un quadro di apprezzabilissimo equilibrio. Gran bevibilità, tipica del vino semplice ma non banale, e ottima persistenza.

Vinho Branco Verdelho Ig Açores 2017 “Magma”, Adega Cooperativa dos Biscoitos: 90/100
La mano degli enologi Anselmo Mendes e Diogo Lopes è leggerissima in questo vino delle Canarie che rispetta al 100% il terroir vulcanico, senza alcun compromesso “di cantina”. Vino verticale e diretto, dalla gran beva.

VINI ROSSI

Cabernet Sauvignon Red Hills Lake Country 2017, Obsidian Ridge Vineyards: 95/100
Uno dei capolavori della viticoltura americana. Al 96% di Cabernet Sauvignon la cantina accosta un 2% di Petit Verdot e un 2% di Malbec. Il gioco fra terra, frutto e terziari incolla il naso al calice.

Dal muschio al sottobosco bagnato, passando per richiami minerali (la classica pietra bagnata), si passa ai frutti rossi e alla mora, prima di sfociare nella spezia. In bocca pieno, elegantissimo, verticale ma equilibrato, tra frutto, terziari. Il tannino è vivo e di prospettiva, ma non disturba. Il rosso che sbanca l’evento di Budapest.

Etna Doc Rosso 2012 “Millemetri”, Feudo Cavaliere: 93/100
Frutto rosso, agrume, mineralità, pietra bagnata e ricordi goudron. In bocca buona verticalità e gran eleganza. Ritorni di agrumi e frutta rossa anticipano una chiusura salina, lunga e precisa. Da provare anche il rosato di questa nobile cantina siciliana.

Do La Palma Vijariego negro, Viñarda: 92/100
Siamo alle Canarie, per un vino manifesto del terroir. Con questo Vijariego negro metti il naso sul vulcano e inspiri a pieni polmoni il “concetto”. Sintesi per il naso di questa etichetta che gioca su sentori di brace, minerali e di erbe, con buon apporto di polpa. In bocca dritto, stretto, fa salvare la parte minerale. Gran bevibilità.

Etna Rosso 2016 “Scalunera”, Torre Mora: 91/100
Frutto rosso croccante, erbe, liquirizia, radice, bella profondità e pulizia. Corrispondente e lungo. Bella prova sull’Etna quella di Torre Mora, la tenuta etnea del colosso toscano Piccini.

Bükki Zweigelt Mályi – Zúgó – dűló 2018 Organikus Szőlőbirtok és Pincészet, Sándor Zsolt: 89/100
Vino semplice, beverino, tutto frutto e terroir vulcanico. Gran facilità di beva e rispetto della tipicità dello Zweigelt.

VINI DOLCI
Recioto di Soave Docg Classico 2013, El Vegro: 94/100
Naso su goudron ed erbe aromatiche. Bocca dolce e tagliente. Un Recioto di Soave da incorniciare.

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Gamay del Trasimeno Doc 2016 “C’osa”, Madrevite

Ci sono legami profondi rimasti inspiegabilmente nascosti, oscuri. Custoditi nelle pieghe dei libri di storia, più che tra le colonne di inchiostro delle pagine, lasciate in testamento ai posteri. È il caso del Gamay del Trasimeno, vitigno della famiglia dei Grenache, diverso da quello di Borgogna. Se ne ha notizia, in Umbria, dalla metà del XV secolo. Col Colli del Trasimeno Doc Gamay 2016 “C’osa” di Madrevite si fa pace coi libri e con la storia. Un’etichetta manifesto di un movimento in crescita, che va ben oltre il marketing. Nel segno della qualità.

LA DEGUSTAZIONE
Rosso rubino luminoso, trasparente, dall’unghia  che tende al rosato. Ampie lacrime segnano come graffi il petto del calice: unico segnale tangibile dei 15 gradi di percentuale d’alcol in volume, che al naso prima e al palato poi, paiono impercettibili e integrati al corredo.

Avvicinando il naso al calice, col passare dei minuti, si comprende la natura estremamente cangiante del nettare: “C’osa” gioca a regalare nuovi sentori ogni 2, 3 minuti. Fino a che la bottiglia svanisce, senza neppure accorgersene.

Il naso si apre sui fiori e sulla frutta. Percezioni ammalianti di rosa e di violetta, unite a croccanti ricordi di ribes e di lampone maturo, anticipano sbuffi leggeri di pepe nero. Giunge in un secondo momento l’agrume, che porta la mente dritta a certi Beaujolais della Moulin à Vent.

Mentre la spezia si fa sempre più viva, ecco avanzare sentori terziari di vaniglia bourbon e liquirizia dolce, così come note di brace e fondo di caffè. Non manca, nel Gamay del Trasimeno di Madrevite, la macchia mediterranea, concentrata tra l’alloro e il rosmarino.

L’assaggio è carico di aspettative, che non vengono deluse. Si evolve come il naso, dalla frutta ai terziari, fino a guadagnare ricordi vegetali. Dal succo alla leggera percezione tannica, in un quadro di perfetta armonia ed equilibrio. A fare da sottofondo, una venatura salina che da un lato tende il sorso, dall’altro rende irresistibile la beva.

Il Colli del Trasimeno Doc “C’Osa” 2016 di Madrevite è un vino moderno, sincero e unico, perfetto per un consumo a tutto pasto, specie se in abbinamento a pietanze a base di carne. Per la precisione dei sentori e l’intrinseca concettualità, si presta a un consumo in solitaria, prima del pasto, condito da chiacchiere e sorrisi. Un vino spensierato, che fa pensare.

LA VINIFICAZIONE
Si tratta dell’etichetta di punta della cantina umbra Madrevite. “C’Osa” 2016 è stato affinato un anno in barrique francesi di secondo passaggio. La commercializzazione è iniziata a 6 mesi dall’imbottigliamento, per consentire al nettare di stabilizzarsi e iniziare a trovare a il suo equilibrio.

A tre anni dalla vendemmia, ottenuta tramite un’attenta selezione delle uve Gamay del Trasimeno raccolte nei vigneti di proprietà della cantina, nell’areale di Castiglione del Lago (PG), il vino si presenta in una interessante fase di pienezza evolutiva.

Il nome Madrevite riprende quello dell’omonimo strumento che veniva usato dai vignaioli umbri per fissare l’usciolo, la porticina frontale delle botti di legno. Un legame con il passato che guida la famiglia Chiucchiurlotto da tre generazioni, a partire dal 2001.

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Fiano Puglia Igp 2017 “Cicaleccio”, Cantina Giara

Ci sono vini capaci di materializzare paesaggi, coi loro sentori. Il Fiano Puglia IgpCicaleccio” 2017 di Cantina Giara, con quel nome e i profumi che evocano campi d’erba sterminati, fa addirittura da colonna sonora all’assaggio.

Alle note erbacee sottili si affiancano ricordi di arancio, zenzero candito, buccia di pompelmo, frutta esotica. Accenni fumè che si riverberano dal naso al palato, in un bel gioco con la matrice minerale-salina del nettare.

Dopo un ingresso di bocca morbido e fresco, sul frutto tropicale e su precisi ritorni d’agrume, è proprio il sale che chiude il sorso, chiamando inesorabilmente quello successivo. È l’apoteosi di uno dei Fiano di Puglia più buoni di sempre.

Il segno che un’accorta vinificazione “naturale” del bistrattato vitigno pugliese, oltre alla precisa scelta di non optare per i lieviti selezionati, favorisca alcune varietà più di altre. Le uve di “Cicaleccio”, curate come figlie da Giorgio Nicassio, provengono solo dai vigneti di proprietà della cantina, ad Adelfia, in provincia di Bari.

La vendemmia si compie in piccole cassette: bello apprendere questo dettaglio dal collo della bottiglia, dove un adesivo indica “Vendemmia 2017 raccolta a mano“. L’idea di una “vendemmia raccolta a mano” è molto più efficace della mera indicazione “uve raccolte a mano”. Sottigliezze filosofiche che in vini di concetto come il Fiano “Cicaleccio” sono macigni.

Le uve vengono condotte in cantina per la sola fermentazione spontanea, senza inoculo di lieviti selezionati, nonché per l’imbottigliamento. Un Fiano “non filtrato, non chiarificato, non barricato”, precisa il vignaiolo Nicassio, sulla retro etichetta. Inchiostro utile a chiarire da dove viene questo vino, figlio di mamma “Apulia in purezza“.

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I migliori assaggi al Mercato dei Vini dei Vignaioli Fivi di Piacenza 2019

PIACENZA – Tracciare i migliori assaggi al Mercato dei Vini dei Vignaioli Fivi di Piacenza diventa sempre più difficile, di anno in anno. Il livello dei vini in degustazione cresce al pari di un pubblico che, di edizione in edizione, affolla sempre più numeroso i padiglioni dell’Expo. Regola confermata anche nel 2019, con 22.500 ingressi. Il 9° Mercato è quello dei record, in attesa dell’edizione-compleanno del 2020. La prima in doppia cifra.

Al Mercato di Piacenza si beve bene, ci si diverte e si fanno affari. Lo dimostrano, da una parte all’altra dello “scontrino”, i carrelli dei clienti (stracolmi di vino) e la gara estiva dei vignaioli, per accaparrarsi una postazione.

Elementi che non suggeriscono – almeno per ora – ai vertici della Federazione di trovare una nuova location, anche se il continuo riferimento alla sostanziale impeccabilità di Piacenza Expo (ribadita in diversi comunicati stampa ufficiali) fa pensare che il dibattito sia nervosamente sul tavolo degli “stakeholder“.

Nel frattempo, sul calendario del vino, Vinitaly 2020 è già alle porte. Fivi conta di esserci con un numero crescente di rappresentanti. L’obiettivo? Consacrare, dopo Piacenza, anche quello abbiamo ribattezzato Fivitaly, superando la quota di 212 vignaioli presenti a Verona nel 2019 (un terzo del Mercato).

All’inizio del 2020 riprenderanno inoltre le trattative istituzionali della Federazione italiana vignaioli indipendenti. Secondo fonti ben accreditate, tra le priorità ci sarebbe la revisione dei meccanismi di rappresentatività nei Consorzi del vino italiano.

Nel mirino il D.Lgs 61/2010, che al momento determina il sostanziale predominio delle cooperative di primo e secondo grado nei Consorzi, a discapito dei piccoli e medi produttori tutelati da Fivi.

I MIGLIORI ASSAGGI AL MERCATO FIVI DI PIACENZA 2019


SPUMANTI

Metodo Classico Vsq 2016 Extra Brut “I Moschettieri”, Frecciarossa
Una delle aziende simbolo dell’Oltrepò pavese della qualità, portavoce dell’anima più elegante del territorio: il Pinot Nero, in veste spumantizzata con “I Moschettieri”. Avvolgenza assoluta del perlage, a far da contraltare alla bella tensione agrumata tipica del Noir oltrepadano.

Vino Spumante di qualità Vsq Brut millesimato 2012, Piè di Mont
Poco meno di 2 ettari per la cantina goriziana di Martina e Roman Rizzi, interamente vocata alla produzione di spumanti. Ottime le prove con i millesimati 2012 e 2016, base Chardonnay (60%), Pinot Nero (20%) e Ribolla Gialla (20%). Il vigneto di quest’ultima si trova piuttosto all’ombra e consente di giocare con la maturità del frutto apportato al sorso da Noir e Chardonnay.

Franciacorta Docg Brut Nature millesimato 2014, Bosio
Un Franciacorta che chiama il piatto e si rivela particolarmente versatile. A un naso prettamente floreale rispondono note saline, a chiudere un sorso largo e fruttato, connotato da una spuma cremosa e avvolgente. Un Nature in punta di fioretto.

Prosecco Doc Treviso Brut “San Vittore”, Azienda Agricola Crodi
Una cantina che sta recuperando varietà autoctone come Verdiso e Perera. Sette ettari per circa 30 mila bottiglie, tra cui spicca questo Prosecco Doc Treviso di buona profondità e lunghezza, contraddistinto da un “dosaggio” molto ben integrato e da una beva instancabile.

VINI BIANCHI

Verdicchio dei Castelli di Jesi Doc Classico Superiore 2018 “Luzano”, Marotti Campi
Che le Marche regalino vini degni del palcoscenico nazionale è risaputo, ma qui siamo di fronte a un vero fuoriclasse: il miglior bianco in assoluto al Mercato Fivi di Piacenza 2019. Ancora giovanissimo, presenta un naso da scoglio fiorito. Eccezionale verticalità, struttura e pienezza al palato, tra l’agrume, la mela verde e il salino. Chapeau.

Veneto Igt Garganega 2007, Tenuta Maraveja
Colli Berici, terra calda, dove i grandi vitigni bordolesi si sono adatti tanto da poter ormai essere definiti autoctoni. La prova provata che la zona è adatta anche alla Garganega risiede nella longevità di questa etichetta, ancora tutta sul frutto e sulla freschezza. Provare per credere.

Isola dei Nuraghi Igt 2018 Panzale, Berritta Dorgali
Accenni di Riesling, al naso, e di Trebbiano al palato per questo bianco ottenuto da uve Panzale, autoctone della vallata di Oddoene e un tempo usate per farcire i dolci tipici locali. Un progetto di recupero, quello avviato dai coniugi Antonio e Maria Paola e dai figli Serena e Francesco, che darà grandi risultati nel tempo.

Provincia di Pavia Igt Malvasia 2007 “Mia”, Azienda Agricola Martilde
Si chiamerà probabilmente “Mia” la Malvasia 2007 di Martilde in uscita in tiratura limitatissima (500 bottiglie) tra febbraio e marzo 2020. La cantina di Rovescala (PV) non smette mai di sorprendere coi suoi vini fuori dal comune, veraci e sinceri come Antonella Tacci e il marito Raimondo Lombardi.

Questa volta tocca a un bianco da uve Malvasia, frutto dell’assemblaggio di antiche vigne – che sfiorano gli 80 anni – e di impianti del 1975, con rese medie inferiori ai 50 quintali. Al naso il frutto e la mineralità, al palato una vena ossidativa che ammanta le note di frutta secca e miele. Vino che chiama il piatto, o un buon libro. Da prenotare.

Igt Costa Toscana Vermentino 2018 “Un po’ più su del mare”, Mulini di Segalari
Emilio Monechi e la moglie Marina Tinacci curano le vigne come figli. E in una terra di rossi come Bolgheri, anche il Vermentino è, per loro, molto più di un “trovatello”. Sorso sapido ed essenziale, il cui corredo è segnato dalla verticalità offerta da un 15% di Manzoni Bianco. Presto in commercio l’annata 2019, completata invece dal Viognier.

Terre Siciliane Igt Bianco 2017 “Dissidente”, Enò-Trio
Il lavoro eccezionale di Nunzio Puglisi (nella foto) ai piedi del “suo” Etna prende finalmente forme meritevoli di valicare i confini della regione. Lo sa bene chi assaggia da anni le chicche di questa cantina di Randazzo, che si esprime ad altissimi livelli anche con il provocatorio (e “Dissidente”, per l’appunto) Traminer: Nunzio e la figlia Désirée gli hanno messo la cravatta, pur continuando a leggerne l’annata nel calice. Avanti tutta.

Sannio Dop Fiano 2012 “Ver Sacrum”, Fosso degli Angeli
Una delle “cantine certezza” dell’intera Campania e, in generale, del Sud Italia quella condotta a Casalduni (BN) da Marenza Pengue. Alla sempre splendida Falanghina del Sannio, Fosso degli Angeli accosta al Mercato un Fiano 2012 che è solo all’inizio della sua lunga vita. Il breve passaggio in barrique lo proietta fuori dal beneventano, dritto in Europa, per esattezza in Francia: un Fiano con la valigia in mano, ma coi piedi ben saldi nel Sannio.

Mitterberg Igt Grüner Veltliner 2018, Garlider
Scisto e quarzite nel terreno regalano al calice note di fumé nette, che giocano sul frutto maturo di questo Grüner Veltliner. Vino che fa pensare ad abbinamenti gastronomici intriganti, dalla cucina locale a quella orientale.

Sillaro Igt bianco “8000”, Azienda Agricola Giovannini (magnum)
Jacopo e Maddalena Giovannini hanno scelto la bottiglia da 1,5 litri per la loro “8000”: solo 150 pezzi per questa Albana vinificata in anfora, alla georgiana. Frutto, sapidità, materia, spezia dolce. Ricorda, per certi versi, i Chinuri del Kakheti. Bella prova, ben al di là del marketing e delle mode legate agli “orange wine”. Da provare.

Passerina del Frusinate Igp 2017 “Maddalena”, Alberto Giacobbe
Davvero ben congegnata la macerazione di 7 giorni sulle bucce, che va ben al di là del colore splendido conferito al calice. Il tannino solletica i richiami esotici e di zenzero candito. L’affinamento di 6 mesi in tonneau fa da legante tra durezze e morbidezze, per uno dei sorsi più sorprendenti del Mercato Fivi 2019. La morte sua? ‘Na cacio e pepe.

Umbria Igt Grechetto 2018 “Grek”, Il Palazzone
Il bianco che vorresti (anzi, dovresti) avere sempre a disposizione in cantina, capace di abbinare frutto, freschezza, struttura e agilità nella beva. Persistenza di rara lunghezza.

Friuli Colli Orientali Doc Pinot Grigio 2017, Castello Sant’Anna
Pinot Grigio giocato sull’equilibrio perfetto tra struttura e polpa, su cui danza un accenno di tannino dettato dalla macerazione. Ottima la persistenza.

Terre Siciliane Igp 2018 “Ballerina”
L’Inzolia per la freschezza e la struttura, il Catarratto Lucido per il frutto esotico. Vino quotidiano di pregevole fattura, preciso e beverino. Pensato bene e realizzato ancor meglio.

Trentino Doc Chardonnay 2018 “Terre Bianche”, De Vigili
Sale a manciate, a sorreggere la polpa. Uno Chardonnay che esce dagli schemi trentini, ottenuto da un vigneto ricco di scheletro a Sorni. Caratteristiche tanto uniche da aver convinto Francesco De Vigili – giovanissimo, ma con le idee più che mai chiare nella sua Mezzolombardo (TN) – a usarlo come base per uno spumante in uscita tra almeno 50 mesi.

Langhe Doc Arneis, Cascina Rabaglio
Note mielose ed esotiche abbinate a un’ottima freschezza: vino intrigante, in equilibrio tra morbidezze e verticalità.

Vino bianco in anfora 2018 “Prometheus”, Azienda Agricola Bajaj
“Mi ispiro a Gravner”, ammette il giovane Adriano Bajaj Moretti, che nel Roero prova a imitare il maestro mettendo in anfore di terracotta l’Arneis. Quaranta giorni di macerazione conferiscono per materia e sostanza. Ma il focus resta sui primari, letteralmente esplosi e resi ancor più “grassi” dalla vendemmia tardiva.

A sorreggere il sorso una bella spinta sapida. Prova più che mai sensata e meritevole di attenzione, soprattutto per la pulizia e la precisione della beva, in grado di restituire (ancora integre) le caratteristiche del vitigno. Solo 700 bottiglie ne fanno una tra le chicche meritevoli di essere segnalate al Mercato Fivi di Piacenza 2019.

VINI ROSATI

Terre Siciliane Igt Rosato 2018 “Petalo”, Tenuta Enza La Fauci
Fiori e frutto. Perfetta corrispondenza tra naso e palato per un rosato più “rosso” che “bianco”: vino di carattere, minerale, con accenni speziati delicati. Sorprende soprattutto per l’estrema lunghezza e persistenza. Interessantissima la cantina produttrice: 2,5 ettari per 20 mila bottiglie complessive. Una boutique messinese.

VINI ROSSI

Cilento Dop Aglianico 2015 “Primalaterra”, Salvatore Magnoni
Sua maestà l’Aglianico, come mamma l’ha fatto (in Cilento). Pied de cuve e lieviti indigeni la formula prescelta da Salvatore Magnoni per la sua cantina di Rutino (SA), oltre a zero solforosa aggiunta (inferiore a 10 la totale).

Il vino offre un naso e un sorso di gran pulizia: fil rouge sulla frutta, sulla liquirizia e su ritorni balsamici e terrosi. Il tannino lavora benissimo sulla polpa e rivela le grandi prospettive di questo Aglianico cilentano.

Venezie Igt 2005 “Mezzocampo”, Canevin Maraveja
Splendida prova col Merlot sui Colli Berici, terra vocata dome poche al mondo per le varietà bordolesi. Vino che si regge su una struttura possente, eppure in grado di regalare un sorso di gran eleganza. Molto da dare, ancora, nel tempo.

Toscana Igt “Le Benducce”, Tornesi
Un Sangiovese di razza, pur succoso e beverino, coi suoi ricordi di ribes e fragoline di bosco mature, ma anche di agrumi. Chiude su una leggera percezione ferrosa e salina, che chiama il sorso successivo.

Rosso di Montalcino Doc 2018, Tornesi
Frutto meno esplosivo rispetto al Sangiovese che lo precede nell’assaggio al banco Fivi, ma la precisione delle note è la medesima. Il tannino, in fase di integrazione, lavora elegantemente sul frutto di un vino giovane e di prospettiva.

Brunello di Montalcino Docg Riserva 2012, Tornesi
Mentre il Brunello 2015 inizia il suo lungo percorso di vita con prospettive a dir poco eccellenti, oggi non resta che godersi a grandi sorsi la Riserva 2012 di Tornesi. Gran beva giocata sull’equilibrio tra frutto, terziari e rinfrescanti sferzate di rabarbaro e liquirizia.

Igt Toscana Sangiovese 2017 “Soloterra”, Mulini di Segalari
Un vero e proprio “Sangiovese di mare”, frutto della grande attenzione in vigna da parte di Emilio Monechi e della moglie Marina Tinacci. Vino di gran beva, dal frutto pieno abbinato a una bella profondità balsamica. Fa venir voglia d’estate e di merenda, all’aperto, servito fresco. Davvero una chicca per la zona di Bolgheri.

Cesanese di Olevano Romano Superiore Doc 2018, Alberto Giacobbe
Vino essenziale ed elegante giocato sul frutto croccante, rinvigorito dalla spezia (pepe bianco netto). Uno di quei rossi da avere sempre in cantina, semplici ma capaci di lasciare il segno e di farsi ricordare.

Cirò Doc Riserva 2013 “Dalla Terra”, Tenuta del Conte
Mariangela Parrilla (nella foto, al centro) ha il potere di materializzare Cirò nel calice, ovunque si stappi una sua bottiglia. Sole, cuore e amore: la formula più scontata e banale per semplificare un lavoro che, dalla vigna alla cantina, è certosino per arrivare a questo risultato.

L’anima del Gaglioppo anche in “Dalla Terra”, una Riserva che parla di frutto e balsamicità, di succosità della polpa e di tensione ferrosa, su cui scivola il tipico tannino. Vino bandiera.

Pinot Nero dell’Oltrepò pavese Doc 2014 “Giorgio Odero”, Frecciarossa
Stoffa da vendere per quello che, di anno in anno, si conferma uno dei migliori Pinot Nero oltrepadani, oltre che del Mercato Fivi. L’annata conta fino a un certo punto se ti chiami Frecciarossa: frutto, materia, succo, verticalità e freschezza. C’è tutto, pure per un confronto con altri territori noti per la produzione di Noir.

Verticale 2004 – 2012 Nizza Barbera “Ru”, Eredi di Chiappone Armando
Ad ogni annata le sue sfumature, tanto per chiarire il tipo di lavoro condotto da Daniele Chiappone a Nizza Monferrato (AT). Giovanissima e di ottime prospettive la 2012. Strepitosa la 2004, superiore alla 2005. Vegetale e balsamica la 2010, che supera la 2011 in termini di struttura.

Nebbiolo d’Alba 2016, Cascina Rabaglio
Un Barolo in miniatura, se non altro per il fatto che la vigna – nei pressi dell’Acino dei Ceretto – guarda l’area della nobile Docg, in località Santa Rosalia, ad Alba. Prendere oggi e dimenticare in cantina. Darà grandi soddisfazioni.

Pinot Nero dell’Oltrepò pavese Doc 2015 “Campo Castagna”, Castello di Stefanago
Pare di salire sulla barca dei pirati dell’Oltrepò pavese, avvicinandosi al banco di Castello di Stefanago. Gente che, modestamente, se ne frega di tutto quello che gli accade attorno e cammina su una via ormai tracciata, ben oltre le mode del “vino naturale”. Il Pinot Nero 2015 “Campo Castagna” è il manifesto di uno stile solo in apparenza scontroso.

Terribilmente tipico, gioca su un frutto pieno, tra la succosità e la croccantezza, sferzato da un accenno selvatico che è un timbro di fabbrica, marchiato a fuoco. Ancora giovane (lo dice il tannino) sarà in grado nei prossimi mesi (anni) di integrare ancor più la nota agrumata, sanguigna, ferrosa, per raggiungere l’apoteosi dell’equilibrio.

Sangiovese Rubicone Igp bio 2017 “Gigiò”, Azienda Agricola Giovannini
Vigna vecchia e sorso giovane per questo Sangiovese romagnolo (da clone ad acino grosso, dunque toscano) di gran polposità, freschezza e balsamicità.

Etna Rosso Doc Nerello Mascalese 2017 “Pussenti”, Enò-Trio
Stesse considerazioni riservate al Traminer di Enò-Trio, risultato tra i migliori bianchi del Mercato Fivi 2019: anche il Nerello Mascalese conferma le impressioni di una realtà in netta crescita qualitativa.

Il Nerello Mascalese Pussenti, in commercio da gennaio 2020, sta lì a tracciare una linea di demarcazione tra il passato e le prospettive di questa splendida realtà della Contrada Calderara, a Randazzo: una delle cantine da conoscere a tutti i costi, per capire l’anima dell’Etna.

Aglianico Beneventano Igt 2013, Azienda Agricola “I Pentri” di Falato Lia
Frutto rosso di gran precisione su un tannino elegante, ancora in fase di distensione. Gran beva per un Aglianico goloso come pochi.

Umbria Sangiovese Igt 2016 “Il Roccafiore”, Cantina Roccafiore
Eleganza da vendere per questo Sangiovese umbro, che con un ossimoro si potrebbe definire di semplice complessità: una beva sorprendente fa da contraltare a una struttura che suggerisce l’ottima gastronomicità.

Montepulciano d’Abruzzo Doc 2017 “Marcuzzo”, Azienda Agricola Luigi Di Ubaldo
È stampata su stoffa, così come tutte le altre della cantina Di Ubaldo, l’etichetta di questo Montepulciano che si esprime su note fruttate croccanti e su una buona struttura. Leggera salinità che chiama il sorso e regala una beva instancabile, oltre ad aggiungere opzioni per l’abbinamento in cucina.

Sicilia Igt Nero d’Avola 2011 “Curma”, Società Agricola Armosa
“Faccio i vini come piacciono a me”, dice l’enologo trentino Michele Molgg, che ha impiantato il suo primo vigneto in Sicilia nel 2003. Oggi gestisce 6 ettari sparsi, nelle aree identificate come le più vocate, nell’areale di Ragusa.

Il Nero d’Avola “Curma” è figlio di un appezzamento che sfiora il mare, lambendolo a una distanza di appena 20 metri. Una chicca da provare, frutto di lunghe macerazioni sulle bucce e di un approccio “naturale” alla produzione.

Colli Tortonesi Doc Monleale 2016, Canevaro Luca
Sulle orme di Walter Massa, una gran bella prova con la Barbera nell’alessandrino. Siamo nella vocatissima area di Monleale, sottozona della Doc Colli Tortonesi, resa nota dal Timorasso (oggi Derthona). Frutto e freschezza a sorreggere un sorso di gran prospettiva. La migliore etichetta di un vignaiolo giovane e coraggioso, da tenere d’occhio.

Cannonau 2017 (senza nome), Berritta Dorgali
Strepitosa prova con l’uva più nota della Sardegna per la famiglia Berritta nella zona di Dorgali. Il nome di questo vino – declinato in dialetto sardo – sarà svelato il prossimo anno, al momento della presentazione di quella che si rivela già essere una vera e propria chicca. Un Cannonau ottenuto da suolo basaltico che abbina un frutto strepitoso a una struttura invidiabile.

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Oltrepò pavese: Castello di Cigognola riparte dal Metodo Classico base Pinot Nero

Se il petrolio avesse le bolle (fini) sarebbe Pinot Nero. E l’Oltrepò pavese l’Arabia Saudita del Metodo classico italiano, coi suoi 3 mila ettari da trivellare. Lo sa bene Gabriele Moratti, figlio di Gian Marco e Letizia, a capo della holding Stella Wines. È grazie al rampollo della Saras che la cantina boutique Castello di Cigognola – dal nome del maniero acquistato dai Moratti nel 1982, con annessi 36 ettari di terreni, di cui 28 vitati – vuol tornare oggi a dire la sua, nel mondo degli Champenoise italiani.

“L’aspirazione – chiarisce il Ceo di Stella Wines, Gian Matteo Baldi – è competere a livello internazionale nel mondo del Metodo classico, partendo dalla consapevolezza di trovarci in un territorio particolarmente vocato, come l’Oltrepò pavese. Del resto, il dominio assoluto dello Champagne è un retaggio del passato. E, a nostro avviso, l’Italia non si è ancora espressa al massimo del suo potenziale”. È di poche parole, invece, Gabriele Moratti.

“Quasi astemio” ma col senso del buono, ammette di aver fatto sua quella massima di Confucio che dice: “Se sei la persona più intelligente della stanza, sei nella stanza sbagliata”. Per questo, per il rilancio di Cigognola, ha voluto al suo fianco Gian Matteo Baldi, ex Terra Moretti. Nessun bisogno di traslocare dalla stanza con vista Oltrepò, per lanciare la sfida di Cigognola al Metodo classico internazionale.

Tre le etichette presentate all’ora di pranzo, in centro a Milano, allo Spazio Niko Romito di Galleria Vittorio Emanuele II, vista Duomo. Si tratta della Moratti Cuvée dell’Angelo Pas Dosé 2012, della Moratti Cuvée ‘More Pas Dosé S.A. e della Moratti Cuvée ‘More Brut S.A.

Un triangolo di Oltrepò pavese Docg Metodo classico Blanc de Noirs – dunque Pinot nero vinificato in bianco – messi a confronto alla cieca con due Champagne (L’Ouverture di Frederic Savart e L’Audace di Pierre Garbais) e uno Sparkling Wine inglese (la Classic Cuvée di Nyetimber).

Una batteria da 6 nella quale gli spumanti di Castello di Cigognola hanno fatto un’ottima figura. Su tutti spicca la performance della Cuvée dell’Angelo 2012: sboccata di recente, ancora un po’ spigolosa, ma nettamente in grado di far comprendere le straordinarie potenzialità del Pinot Nero dell’Oltrepò.

“Rispetto a territori come la Champagne, che stanno pagando pegno dal punto di vista dei cambiamenti climatici – commenta Gian Matteo Baldi – nel pavese abbiamo il vantaggio di una arrivare a una perfetta maturazione fenolica, fondamentale per un Metodo classico di qualità”. Le scelte, in cantina, sono state drastiche.

“L’enologo Riccardo Cotarella – spiega Baldi a WineMag.it – ha seguito per qualche anno l’azienda ma ha preferito non far parte di un progetto dove le responsabilità fossero condivise fra tante persone, come deciso da Gabriele Moratti quando ha preso il timone di Castello di Cigognola”.

Una vera e propria “svolta generazionale” – per dirla con Baldi – che non ha però coinvolto l’enologo storico della maison oltrepadana, Emilio De Filippi, rimasto di fatto al suo posto.

E che, anzi, ha portato in Oltrepò un personaggio di grande rilievo per il Pinot Nero italiano: Federico Staderini, primo direttore di Ornellaia e deus ex machina di Podere Santa Felicita, cantina incentrata proprio sul Noir, sulle colline di Arezzo (“Cuna” è l’etichetta da assaggiare).

“Il concetto nuovo, nell’ambito della gestione delle risorse del personale – spiega ancora Gian Matteo Baldi – è quello di unire figure di grande esperienza ad altre più giovani, che cresceranno in azienda, senza più parlare di un enologo che rappresenti totalmente lo stile”.

Staderini, non a caso, segue solo il progetto di Castello di Cigognola legato al Pinot Nero vinificato in rosso. “Una persona di grande esperienza – commenta il Ceo di Stella Wines – che può essere di grande supporto ai nostri ragazzi. Troveremo magari anche qualcuno che possa affiancare De Filippi nel progetto legato al Metodo Classico. Abbiamo abbandonato l’idea di un enologo totalizzante“.

Altro nodo da sciogliere, in un territorio frammentato come l’Oltrepò pavese, è quello dell’adesione al Consorzio di Tutela. “Preferirei un no comment – risponde Baldi, interrogato sull’argomento da WineMag.it – ma se devo dire la mia, l’idea è che per tirare il fuori il talento, in questo territorio, ci sia bisogno di un grande lavoro”.

“La mia impressione è che in Italia l’individualismo sia ancora un elemento trainante – continua il Ceo di Cigognola – ma se ognuno si impegna a ottenere grandi risultati, con grande determinazione, ritrovandosi con quattro o cinque che condividono gli stessi obiettivi, le stesse spese e le stesse opportunità, è anche più facile”.

Castello di Cigognola verso un Club modello Corpinnat nell’area del Cava, accanto ad aziende come Monsupello o Conte Vistarino? Ipotesi che, al momento, pur senza conferme ufficiali, pare convincere la dirigenza.

“Con le due aziende citate abbiamo certamente parlato – conferma Baldi a WineMag.it – trovandoci molto allineati. Del resto, un Consorzio deve inglobare gli interessi di tante parti. Tra produttori simili è più facile trovare una comunità d’intenti”. Quel che è certo è che l’Oltrepò della qualità, da oggi, ha una nuova cantina protagonista.

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Reboro e Graticciaia, icone a confronto: i vignaioli del Trentino incontrano il Salento

Mille chilometri di distanza. L’acqua dolce dei laghi incastonati tra i monti, da una parte. Il mare salato e le spiagge infinite, all’altro estremo della linea immaginaria. Eppure, nel solco spazio-temporale di un calice di vino rosso, sembrano così vicini Reboro e Graticciaia. L’ultima idea dei Vignaioli del Trentino, promossa per rendere più fascinosa un’uva dai toni mascolini, nata dall’incrocio fra Merlot e Teroldego: il Rebo. E il frutto dell’intuizione di un genio scomparso troppo presto: Severino Garofano, l’uomo che dava del “tu” al Negroamaro, dandone prova alle Agricole Vallone.

Ben più di vini, insomma. Opere d’arte di vignaioli coraggiosi. Capaci di innovare la tradizione, rimanendo conficcati nella terra. Un matrimonio, quello tra Reboro e Graticciaia, che si è celebrato sabato 16 novembre alla Cantina Pisoni di Pergolese di Lasino (TN). A fare gli onori di casa Marco Pisoni, che ha accolto Francesco Vallone.

Fil rouge dell’evento, la medesima tecnica di produzione di Reboro e Graticciaia: l’appassimento delle uve sui graticci. Pressoché identici i risultati, in Valle dei Laghi e in Salento: le uve, stese dopo la raccolta, si disidratano e concentrano zuccheri e aromi. Una volta spremute, danno vita a vini speciali. Diversi ma fedeli alle caratteristiche del Rebo e del Negroamaro. Di certo, degli unicum.

“Per i Vignaioli del Trentino – ha spiegato Marco Pisoni – il Reboro è un’opportunità di promozione della Valle dei Laghi, nata sulla scorta del Vino Santo, altra eccellenza prodotta con l’uva locale Nosiola, appassita su graticci. Ci siamo dati un rigido disciplinare e intendiamo continuare a promuovere il Reboro nel mondo, nonostante in Trentino le istituzioni continuino a puntare su varietà meno ‘autoctone’, come il Müller Thurgau”.

“Il Graticciaia è il vino a cui la mia famiglia è più legata – ha aggiunto Francesco Vallone – e lo dimostra la nostra intenzione di aumentare nei prossimi anni le quantità prodotte. Il Negroamaro è l’uva più nobile del Salento e la tecnica di produzione suggeritaci da Severino Garofano e oggi portata avanti da Graziana Grassini rende ancora più speciale il frutto delle nostre viti ad alberello”.

LA DEGUSTAZIONE

– Reboro 2015, Maxentia (campione di botte): 91/100
Un’anteprima del Reboro di Enzo Poli, fresco d’elezione a presidente dei Vignaioli del Trentino, alla sua prima prova con la tipologia (con un totale di 1000 bottiglie). Colore rosso rubino impenetrabile.

Primo naso balsamico, concentrato, con ricordi netti di liquirizia e spezia. Al palato scalpita ancora, ma dimostra di essere sulla retta via, evidenziando una buona corrispondenza e lunghezza. Esordio da incorniciare.

– Reboro 2015, Cantina Pisoni: 92/100
Colore rosso rubino impenetrabile. Legno piuttosto evidente al naso in questa etichetta che ha solo 5 mesi di bottiglia, al momento: fondo di caffè e vaniglia. In bocca risulta fresco, di buona verticalità ed equilibrio: frutto rosso avvolto da ritorni terziari e chiusura salina. che chiama il sorso successivo. Gran bella beva, nonostante la possenza.

– Reboro 2014, Cantina Pisoni: 91/100
Colore rosso rubino impenetrabile. Primo naso meno ampio e meno profondo del procedente. Sorprende quando, grazie a un minimo d’ossigenazione, vira netto sugli agrumi. Poi la spezia, il tabacco, l’incenso. La macchia mediterranea. Di nuovo il fondo di caffè. In bocca è fresco ed elegante.

Precisione e finezza compensano bene il minor apporto di polpa e grassezza al palato, orfane dell’annata. Gran verticalità in chiusura, su ritorni agrumati e un accenno salino. Campione esemplare per un confronto con il Meridione tratteggiato da Graticciaia.

– Reboro 2013, Giovanni Poli: 95/100
Graziano Poli e il suo capolavoro, prodotto in circa 25 mila bottiglie. Colore ancor più concentrato e impenetrabile rispetto ai precedenti calici. Frutto rosso intenso e tanta macchia mediterranea al naso. Rosmarino, alloro, timo, disegnano un naso balsamico, che allargandosi abbraccia tinte di resina.

Qui l’agrume è leggero. Ben più netta, sempre al naso, la radice di liquirizia, il rabarbaro, la terra bagnata. Al palato ci si aspetta un vino altrettanto “scuro”. E invece è il tripudio della polpa e della frutta rossa matura, ben bilanciata dalla freschezza. Il tannino in chiusura suona la campanella dell’asilo: campione che ha gioventù da vendere.

Eppure aiuta, anche al momento, ad asciugare il frutto goloso e a tendere la beva come un elastico, per far canestro in gola. Vino da 15% vol. con 55 punti di estratto secco: un Reboro che vale il viaggio in Trentino ed è un viaggio in Trentino. Per la sua capacità di disegnare coi suoi sentori le quattro stagioni, nella Valle dei Laghi.

– Reboro 2012, Francesco Poli: 89/100
Colore rosso rubino impenetrabile. Al naso, oltre al frutto, una componente vegetale che si dipana tra ricordi di radice di liquirizia e rabarbaro. Bel frutto rosso al palato, scalfito da una leggera nota ossidativa. Ritorni vegetali in chiusura, che rivelano forse in maniera troppo marcata i tratti bordolesi del Rebo.

– Graticciaia 2001, Agricole Vallone: 94/100
Il colore granato, tipico del Negroamaro “invecchiato”, vale come il mantello del vincitore: siamo di fronte a un vino che ha fatto a pugni col tempo e ha vinto tutti e tre i round. La pulizia al naso è commovente: note d’agrumi tra la polpa e la buccia e tratti ematici, ferrosi, ma anche di terra bagnata.

In bocca ancora una bella freschezza, rimpolpata dall’ottima corrispondenza gusto olfattiva. Vino vivo ed elegante, si fa bere con agilità. Chiudendo su un tono per certi versi mieloso, condito da ribes e fragolina di bosco. Annata all’apice della sua fase evolutiva.

– Graticciaia 2005, Agricole Vallone: 93/100
Ci mette un po’ a mostrarsi per quello che è davvero, ben più timido del 2001. Alla ritrovata nota d’agrume, abbina un floreale di rosa, netto. Al palato è succoso ed elegante. Chiude su un tannino morbido, setoso.

– Graticciaia 2011, Agricole Vallone: 91/100
Si avverte un cambio di mano, già al naso. Vino che risulta più “grasso” dei precedenti e, per certi, acquista tratti di apprezzabilità internazionale. Rosso rubino intenso, al naso chiama la confettura di mora e di ribes, oltre alla spezia. Palato su note corrispondenti, riequilibrate da una buona freschezza. Chiusura su tannini di seta, salino leggero.

– Graticciaia 2013, Agricole Vallone: 92/100
Rosso rubino intenso. Al naso è complesso: arancia sanguinella, mora, dattero, terra bagnata. Terziari di liquirizia, vaniglia. L’ingresso al palato è potente, ma su tannini presenti ma eleganti, che giocano ad asciugare la polpa. Un equilibrio di cui giova la beva.

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Colli Tortonesi Timorasso: è l’ora della Val Borbera e di Terre di Libarna

DERNICE (AL) – Fossimo su un campo di calcio, saremmo già a metà dell’opera. In panchina Walter Massa. Allenatore d’esperienza. A Ezio Poggio la fascia da capitano. Sinonimo di fedeltà pioneristica ai colori. Col numero 10 Maurizio Carucci. L’artista e uomo immagine. Dopo aver conquistato il mondo col Timorasso, il Basso Piemonte si prepara a sfornare un nuovo fenomeno, chiamato Val Borbera. La cantera è sempre la stessa. Sulle carte ufficiali figura come Terre di Libarna, dal 2011 sottozona della Doc Colli Tortonesi, assieme alla più nota Monleale, caput mundi del movimento tornato alle origini col nome Derthona (antico nome di Tortona).

Il “feudo” del vignaiolo Walter Massa è pronto a raccontarsi in una veste più ampia e con nuovi attori, molti dei quali giovani. Ne è un esempio Carucci, front man degli Ex-Otago “ma ancor prima agricoltore, tornato alle origini per fare vino” con Cascina Barbàn. O ancora Nebraie, la cantina di Andrea Tacchella.

All’appuntamento con lo spin-off dei Colli Tortonesi non vuole mancare la cooperativa Vallenostra, resa nota da Roberto Grattone più per il formaggio Montebore che per il vino. Altra realtà consolidata della valle è l’Azienda agricola di Gianluigi Mignacco, oltre alla cantina simbolo del territorio, la Vinicola Ezio Poggio.

Del resto, la sottozona ha tipicità del tutto esclusive, consegnate al calice da una valle selvaggia, che deve il nome al torrente Borbera, affluente dello Scrivia. Siamo nella parte meridionale della Denominazione. Sempre in provincia di Alessandria. Ma al confine estremo con la Liguria. In piena area appenninica.

Venerdì 15 novembre 2019 il primo ritrovo ufficiale del gruppo di vignaioli, a Dernice (AL). Tutti in un luogo simbolo: la Foresteria La Merlina, ristorante tipico e albergo cult gestito dai coniugi Luciana e Marco Pietranera, da cui si gode di una vista mozzafiato, immersi nella natura, tra daini, cerbiatti e lupi.

“I vini qui sentono il mare, ma ancor più la montagna – commenta Ezio Poggio, primo a credere nella Val Borbera con la sua cantina -. Il valore aggiunto della sottozona sono le condizioni microclimatiche, perfette per produrre spumanti, ma anche vini longevi, in linea col resto dei Colli Tortonesi”.

La differenza – continua Poggio, che a dicembre presenterà il suo primo Metodo Classico da uve Timorasso – risiede nei ph più bassi, condizione ottima per la spumantizzazione. I vigneti si trovano dai 400 ai 600 metri. La vendemmia in Val Borbera inizia circa un mese dopo rispetto al resto della Doc”.

Ci sono venti chilometri, in linea d’aria, tra la cantina di Walter Massa, a Monleale, e quella di Ezio Poggio, a Vignole Borbera. A dividerle, appunto, l’Appennino su cui insistono le Terre di Libarna. Qui i vini risultano meno alcolici. Nella maggior parte dei casi, meno strutturati. Ma eleganti e dalla beva più agile e profonda, balsamica.

“Con i cambiamenti climatici in corso – sottolinea Poggio – la Val Borbera si è dimostrata meno soggetta ai condizionamento delle estati torride. Inoltre beneficiamo delle piogge, che qui cadono con la giusta copiosità”.

Oltre a Vignole Borbera, i Comuni interessati sono Borghetto di Borbera, Rocchetta Ligure, Cantalupo Ligure, Roccaforte Ligure, Cabella Ligure, Albera Ligure, Mongiardino Ligure, Grondona, Stazzano, Carrega Ligure, Dernice e la sponda destra dello Scrivia, ad Arquata Scrivia.

“Per fortuna – commenta Walter Massa – in Val Borbera c’è un bel movimento e non posso che complimentarmi con chi sta contribuendo a far sentire la Val Borbera nel vino. Questa, secondo me, è la valle più bella che c’è in provincia di Alessandria. Ci appartiene ed è giusto che dica in maniera forte che c’è”.

“Oggi – aggiunge Massa – il sistema migliore per fare promozione del turismo è prendere una bottiglia, metterci sopra un’etichetta e farle fare il giro del mondo. Se nella bottiglia c’è un grande prodotto, ottenuto secondo natura e, come nel caso della Val Borbera, grazie a un’uva locale come il Timorasso, le persone arrivano”.

Oggi l’Italia non è più Chianti, Valpolicella, Collio e Langhe, ma va dalla Valtellina fino a Pantelleria e dalla Sardegna fino al Carso. In questo territorio non ci manca niente, né sotto il profilo gastronomico, né paesaggistico, né ambientale. Abbiamo queste uve che parlano in dialetto: ascoltiamole”.

Secondo Massa, la Val Bolbera ha tutte le chance per farsi conoscere – e riconoscere – per i suoi spumanti: “Finché campo, non farò mai una bollicina a Tortona: non ho il mesoclima per fare spumante. I grandi vignaioli di Borgogna, che coltivano Chardonnay e Pinot Nero, non si sognano di imitare i colleghi che fanno Champagne”.

Da Beaune a Eppernay ci sono circa 120 chilometri. Da Monleale a Vergagni c’è solo una cosa: una galleria nell’Appennino: ma vale i 120 chilometri che dividono la Borgogna classica dalla Champagne”.

“La sottozona Terre di Libarna – conclude Massa – se la può giocare su due fronti: quello degli spumanti e quello del Timorasso. Noi, al di là della galleria, andremo avanti con un grande bianco, sempre da uve Timorasso, e un grande rosso, da uve Barbera”.

Eppure non rinuncia ai rossi, la Val Borbera. Lo dimostra il Mostarino di Cascina Barbàn, vero e proprio asso nella manica di Maurizio Carucci. Stefano Raimondi, ricercatore del Cnr intervenuto alla Foresteria La Merlina, ne tratteggia il (raro) profilo ampelografico: “Si tratta della varietà principe della valle, assieme al Timorasso”.

“È presente anche nel Bobbiese, in Val Trebbia – continua Raimondi – ed è citata storicamente nelle zone alte dell’Oltrepò pavese. Si trovava inoltre a Novi, prima che sparisse la viticoltura. È una varietà strana, che invaia molto tardi e, una volta invaiata, matura presto. In questa zona la maturazione è più regolare, proprio per via del microclima più fresco. E forse, proprio qui, potrà dare risultati più interessanti”.

A credere nelle potenzialità della Val Borbera è anche il Consorzio Tutela Vini Colli Tortonesi. “La sottozona Terre di Libarna – sottolinea il presidente Gian Paolo Repetto (nella foto) – è stata per tanti anni piuttosto ferma, ma ora c’è gran fermento, con nuove realtà che si affacciano alla produzione”.

“Siamo qui per fare squadra e continuare a promuovere tutta la zona, in tutte le particolarità che la arricchiscono ulteriormente”, aggiunge Repetto. Nel frattempo, nel futuro del Consorzio c’è un progetto ambizioso, volto a blindare la Denominazione dal punto di vista qualitativo.

“Con l’approvazione del nome Derthona, ormai in dirittura d’arrivo – annuncia Repetto a WineMag.it – distingueremo l’alta valle dalla basse valle e a dirci che questa è la strada giusta è la stessa Val Borbera, dove sussistono differenze sostanziali tra le due aree”.

“Ogni comune – precisa ancora il presidente del Consorzio Vini Colli Tortonesi – avrà un’altitudine minima in cui si potrà impiantare il Timorasso. L’obiettivo è escludere tutte le zone non vocate, che impattano sull’uva sia per la quantità di acqua che drena verso il fondo, sia per l’umidità mattutina e le gelate. Un lavoro certosino, che ci porterà a definire come altitudine minima dai dai 150 ai 450 metri sul livello del mare per la Doc”.

Pronto anche un piano per governare gli ettari vitati. “I 150 attuali – spiega Repetto – potranno arrivare a un massimo di 350 ettari nel 2030, attraverso bandi d’impianto sostenibili. Avremmo corso un po’ troppo se ci fossimo lasciati condizionare dal grande interesse che c’è in zona. Ci fa piacere, ma dobbiamo essere capaci di non rompere il giocattolo”.

I VINI DELLA SOTTOZONA TERRE DI LIBARNA (VAL BORBERA)

– Mostarino 2018, Cascina Barbàn: 89/100
Il nome della varietà è dovuto alla generosità dell’uva in pressa, tale da regalare tanto “mosto”. La macerazione con le bucce per 40 giorni è l’intervento più “invasivo” (si fa per dire) che i quattro giovani di Barbàn (Maurizio Carucci, la compagna Martina Panarese e gli amici Pietro Ravazzolo e Maria Luz Principe) operano nelle cantine di Figino, recuperate per dar vita al progetto enologico.

“Nessun additivo e zero solforosa aggiunta – spiega il cantautore venuto alla ribalta a Sanremo 2019, con gli Ex-Otago – per noi il vino deve rispecchiare il territorio e non vogliamo aggiungerci nulla”. Mostarino si comporta piuttosto bene nel calice, specie dopo qualche minuto di ossigeno. Belle notte di frutto rosso maturo, al palato e grandissima bevibilità. Una bottiglia che rischia di finire in fretta, senza neppure accorgersene.

– Vino bianco “Bolle in Valle”, Nebraie: 87/100
Si tratta del Timorasso rifermentato dell’Azienda agricola condotta da Andrea Tacchella. Anche in questo caso la lavorazione avviene secondo canoni naturali, senza aggiunta di additivi e solforosa. Il vino, non filtrato, si presenta torbido.

Profuma di fiori freschi, agrumi, pesca e albicocca matura. Al palato gran beva, su note corrispondenti. Altra bottiglia che finisce in fretta, ma per il futuro c’è da aspettarsi una maggiore caratterizzazione del vitigno, al momento “coperto” dalla rifermentazione e dai marcatori dei lieviti.

– Colli Tortonesi Doc Spumante Brut Terre di Libarna 2018 “Lüsarein”, Ezio Poggio: 91/100
È il Martinotti (Charmat) di Ezio Poggio. Non un’etichetta a caso, bensì quella che ha dato avvio alla spumantizzazione in Val Borbera, che si evolverà nel Metodo Classico a partire da dicembre 2019. La vigna si trova a 600 metri sul livello del mare, in una posizione spettacolare dal punto di vista paesaggistico.

Nel calice, fa capire subito di che pasta è fatto, con un perlage fine e persistente. Al naso richiami netti di agrumi, tra la polpa e la buccia d’arancia, impreziositi da sbuffi minerali che ricordano la pietra bagnata.

In bocca gran eleganza: la bollicina si fa piuttosto cremosa e avvolgente: serve ad ammansire una freschezza e una sapidità dirette, tanto da riequilibrare alla perfezione il sorso. Finale di buona persistenza, molto asciutto.

– Vino bianco 2018 “Costa di Cesco”, Vallenostra: 84/100
Uve Timorasso completate da un Cortese che tende a fagocitare la scena. Un vino che tende più a Gavi che a Tortona.

– Colli Tortonesi Doc Timorasso Terre di Libarna 2015 “Archetipo”, Ezio Poggio: 95/100
Giallo paglierino di grande intensità, con riflessi dorati. Naso ampissimo, che tende all’infinito col passare dei minuti. Fa tutto tranne che scomporsi col passare dei minuti, quando qualche grado in più nel calice consente al nettare di esprimersi ancora meglio sul palco, proiettandolo (in senso assoluto) tra i migliori vini bianchi italiani.

Un concerto di agrumi, macchia mediterranea, menta, con rintocchi di idrocarburo netti che portano alla mente il Riesling. Non mancano le spezie, che conferiscono ulteriore balsamicità. Al palato sale e freschezza assoluta. Infinita persistenza. Il campione della serata. Al momento, il pezzo da novanta della Val Borbera e della sottozona Libarna.

– Timorasso 2018 “Pian del tè”, Cascina Barban: 89/100
Ricorda per stile, ovvero la lunga macerazione sulle bucce (ancora una volta 40 giorni), il Timorasso di un altro grande dei Colli Tortonesi, Daniele Ricci. Qui però c’è più frutto e materia e meno ricerca della finezza ossidativa. Ottima freschezza, che disegna i contorni del vitigno e dalla Val Borbera.

Scaldandosi, il vino esprime un sentore netto di liquirizia, che ben si coniuga ai ricordi esotici. Palato corrispondente, largo sul frutto e al contempo tagliente, con bella persistenza su una mineralità iodica e un accenno di idrocarburo.

– Colli Tortonesi Doc Timorasso Terre di Libarna 2018 “Battilana”, Gianluigi Mignacco: 91/100
Vigna a Cantalupo per questo Timorasso che racconta in maniera perfetta, didattica, la Val Borber dei vini fini ed eleganti, con grandissime prospettive di evoluzione. Migliacco, del resto, in un gruppo di giovani può essere considerato a pieno titolo tra i veterani della sottozona Terre di Libarna.

Il nonno era maestro bottaio, tradizione andata perduta in zona, assieme al decadimento della viticoltura. Giallo paglierino alla vista. Agrumi e menta a connotare un naso dritto, diretto, minerale, nonostante la buona presenza di frutto maturo. Un vino che potrebbe definirsi “alpino”, montano, destinato a migliorare ancora in profondità e balsamicità, più che in ampiezza.

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Tullum Docg: 5 nuove anime dell’Abruzzo firmate Feudo Antico (Cantina Tollo)

Si scrive Tullum Docg, si legge Cantina Tollo. La cooperativa della provincia di Chieti, attraverso la Srl gioiello Feudo Antico, fa la parte del leone nella Denominazione di origine controllata e garantita istituita in Abruzzo il 4 luglio 2019. Ieri l’esordio dei teatini a Milano. A contribuire al parco vigneti, appena 18 ettari, sono (solo) altre tre cantine. Con ruoli del tutto marginali nella produzione delle circa 130 mila bottiglie complessive.

Si tratta dell’altra cooperativa locale, la Coltivatori Diretti Tollo (che non ha neppure un sito web definibile come tale, ma rivendica circa 7 ettari a Docg), della Di Pillo (società del segretario del Consorzio, Domenico Di Pillo, che opera solo come conferitore) e dell’Azienda Agricola Giacomo Radica – nota come Vigneti Radica.

Una cantina, quest’ultima, che investe molto nel marketing ed imbottiglia circa 10 mila “pezzi”. Ma con meno di un ettaro rivendicato nella Docg Tullum (0,6 per l’esattezza), non può che avere “interessi locali”. Il capostipite della cantina, Rocco Radica (per tutti, a Tollo, “Zì Rock”) è tra l’altro uno dei fondatori della stessa Coltivatori Diretti.

Non a caso, dunque, al ristorante vista Duomo dello chef abruzzese Niko Romito, è stato possibile degustare solo 4 etichette Dop, ormai prossime ad essere etichettate come Docg. Tutte prodotte dalla sola Cantina Tollo, che le presenterà nella nuova veste, “controllata e garantita”, a Vinitaly 2020.

“Le spese per la promozione della nuova Denominazione – si è affrettato a precisare Andrea Di Fabio, Direttore commerciale e Marketing di Feudo Antico (nella foto)- sono di fatto affidate all’iniziativa privata delle singole cantine aderenti, in autofinanziamento. Non contiamo molto sui contributi esterni”. Excusatio non petita. Ma tant’è.

Un viaggio, quello nel capoluogo lombardo della piccola Docg abruzzese, segnato peraltro dalla (pesante, ma evidentemente improrogabile) assenza del presidente del Consorzio di Tutela della neonata Denominazione di origine controllata e garantita Tullum, nonché di Cantina Tollo, Tonino Verna. A farne le veci, proprio il segretario (e produttore) Domenico Di Pillo.

“Oltre al prerequisito della qualità – ha spiegato Andrea Di Fabio – per dare avvio al procedimento utile all’ottenimento di una Docg che valorizzasse il territorio è stato necessario dimostrare la storicità della produzione e della commercializzazione del vino a Tollo, unico Comune ricompreso nella Denominazione”.

In età romana, nelle terre racchiuse nel triangolo fra le attuali città di Pescara, Chieti e Ortona, con Tollo al centro, la coltivazione della vite si è sviluppata in maniera florida. Lo dimostra il rinvenimento di “dolia” da vino e celle vinarie. Alcuni reperti sono oggi conservati al Museo Archeologico Nazionale di Chieti.

“A consentirci l’upgrade dalla Doc/Dop alla Docg – precisa Di Fabio – è stata insomma una cultura di produzione e di vendita profonda e radicata nel tempo. Non si tratta dunque di un’operazione autoreferenziale, anzi auspichiamo la nascita di nuove realtà nei 300 ettari potenziali della Denominazione”.

LE 5 TIPOLOGIE DELLA DOCG TULLUM

Cinque le tipologie di vino previste dalla Docg Tullum. Passerina, Pecorino, Montepulciano per dar vita a “Rosso” e “Rosso Riserva” e, infine, Chardonnay per lo Spumante Metodo Classico (minimo 36 mesi sui lieviti, esclusivamente nella tipologia Brut).

I vini bianchi Docg saranno sul mercato da gennaio 2020. Ancor più drastica la scelta sui rossi: la prima annata in commercio sarà la 2015, nonostante sia possibile venderli dall’anno successivo alla vendemmia. Tutti i vini saranno disponibili da aprile 2020, quando faranno il loro esordio ufficiale alla kermesse di Verona Fiere.

“In termini di rese – sottolinea a WineMag.it Andrea Di Fabio – il passaggio dalla Dop alla Docg non ha segnato grandi differenze, essendo già molto selettive nell’ambito della Dop nata nel 2008. Sui bianchi, Pecorino e Passerina, siamo sui 90 quintali per ettaro, contro i 140 quintali della Dop Abruzzo e i 220 quintali dell’Igp Abruzzo”.

Sul Montepulciano, che non potrà essere nominato come tale nella Docg (essendo già una Dop regionale) le rese saranno di 110 quintali per ettaro, contro i circa 150 quintali della Dop. Nel passaggio alla Docg è stato escluso l’uso del Trebbiano e stralciata la tipologia ‘passito’.

Le etichette saranno destinate al solo segmento Horeca (ristorazione e hotel), escludendo la Grande distribuzione organizzata (Gdo), ovvero il mondo dei supermercati (canale moderno). “Il posizionamento – annuncia Di Fabio – sarà quello premium e super premium“.

Sul fronte dei prezzi franco cantina, ad oggi Passerina, Pecorino e Rosso Tullum Docg escono da Tollo (o meglio da Feudo Antico) a 8,50 euro. Più costoso lo spumante Docg, che risulta a listino a circa 12 euro a bottiglia. Il mercato di riferimento è l’estero, con particolare attenzione ai Paesi emergenti, sul fronte orientale.

LA DEGUSTAZIONE

– Tullum Dop Spumante Metodo classico Brut 2014: 90/100
Buona prova con lo Champenoise per Cantina Tollo (Feudo Antico) in una terra non certo conosciuta per la produzione di “bollicine”. Valutazione ancor più positiva se si tiene conto del millesimo 2014. Alla vista, bel giallo paglierino accesso e brillante. Il perlage risulta mediamente fine e mediamente persistente.

Buona presenza di questo Blanc de Blancs al palato, su note cremose tipiche dello Chardonnay. Sorso burroso, giocato sulla pasticceria e sull’esotico. Finale asciutto, fruttato di pesca, come il centro bocca. Persistenza sufficiente e finale asciutto.

Chardonnay 100% da vigneti coltivati in collinare nel comune di Tollo, a 130 metri sul livello del mare. Terreno sciolto, sabbioso e lievemente calcareo. Vendemmia manuale, in piccole cassette, a metà agosto.

Fermentazione in serbatoi di acciaio inox, a temperatura controllata. Permanenza sui lieviti in vasche di vetrocemento e acciaio, per almeno 6 mesi. Rifermentazione in bottiglia, secondo i canoni del Metodo Classico. Sosta minima di 30 mesi.

– Tullum Dop Passerina 2018: 92/100
Giallo paglierino, naso floreale fresco, frutta esotica e agrume come arancia e pompelmo rosa. Una Passerina di rara precisione, capace di sfoderare oltre all’attesa frutta anche accenni minerali, marini e di spazia bianca.

Al palato si fa ricordare per un’ottima freschezza. Centro bocca giocato sulla frutta e chiusura salina. Discrete potenzialità di ulteriore affinamento in bottiglia. Si tratta di una Passerina in purezza, ottenuta da vigneti in collina nel comune di Tollo, in località Santa Lucia e Pedìne, a 230 metri sul livello del mare.

Terreno sciolto, sabbioso, tendenzialmente calcareo. Vendemmia  a metà ottobre, macerazione a freddo a contatto con le bucce e fermentazione in serbatoi di acciaio inox a temperatura controllata. Affinamento sui lieviti, in vasche di vetrocemento per 6 mesi.

– Tullum Dop Pecorino biologico 2018: 89/100
Primo approccio non ottimale. Il vino rivela una netta riduzione e un marcatore selvatico, che tende a non svanire mai del tutto. Con l’ossigenazione si fanno largo, al naso, agrumi e fiori freschi. In bocca il vino rivela una bella consistenza, dettata dal gioioso gioco tra agrumi e sale.

Allungo sulla frutta matura, esotica, sostenuta da una buona freschezza. Scaldandosi, il nettare guadagna una nota netta di liquirizia, corrispondente tra naso e palato. I vigneti di Pecorino si trovano a Tollo, in località San Pietro, San Biagio, Piane Mozzone, Sabatiniello e Macchie, tra i 120 e i 200 metri sul livello del mare.

Vendemmia nella prima decade di settembre, starter fermentativo spontaneo ad opera dei lieviti non selezionati e successiva fermentazione e affinamento in vasche di cemento. Il vino viene imbottigliato senza essere filtrato né stabilizzato.

– Rosso Tullum Dop 2014: 90/100
Rosso rubino pieno, impenetrabile. Naso gioioso, dominato da frutta rossa come ribes e lampone maturo, tendenti alla confettura. Leggeri sbuffi di spezia. In bocca il vino mostra un corpo medio e una buona freschezza, tale da rispondere alla rotondità e morbidezza delle note fruttate.

Il tannino, di cacao, allunga il sorso, contribuendo a complessità e persistenza. Montepulciano 100% da vigneti coltivati in collinare, a Tollo, in località Sterpari, Piane Mozzone, Colle Cavalieri, Vaccareccia, San Biagio, Macchie e Colle Secco, da 190 a 250 metri sul livello del mare.

Vendemmia nella seconda decade di ottobre, macerazione delle bucce a temperatura controllata in serbatoi di acciaio inox e affinamento in vasche di cemento vetrificato, per 14 mesi. Leggero appassimento in cella per un 10-15% delle uve.

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Puglia Top Wines Road Show: i 10 migliori assaggi a Milano

MILANO – Si è aperto ieri, con il banco di degustazione di 60 etichette al The Westin Palace e una buona risposta del pubblico, il Puglia Top Wines Road Show. Il “tour metropolitano” dei vini pugliesi a Milano, organizzato dal Movimento Turismo del Vino Puglia, prosegue fino al 17 novembre (qui il calendario), per promuovere le etichette dei soci di Mtv Puglia. Tra i 10 migliori assaggi di WineMag.it qualche conferma e qualche novità assoluta.

I MIGLIORI ASSAGGI DEL PUGLIA TOP WINES ROAD SHOW


VINI BIANCHI
– Salento Igt Verdeca 2018 “Askos”, Masseria Li Veli (Cellino San Marco, BR)
È della cantina rivelazione del Puglia Top Wines Road Show a Milano il vino bianco che convince maggiormente al The Westin Palace. Giallo paglierino con riflessi verdognoli, si mostra generosa al naso, su ricordi esotici, agrumati e leggermente speziati. Alla cieca, potrebbe essere scambiato per un altoatesino.

In bocca una Verdeca che mostra di avere molte più carte da giocarsi della semplice freschezza. A convincere è tutta la linea di questa realtà brindisina, che ha avviato un progetto di ricerca, selezione e valorizzazione dei vitigni autoctoni pugliesi.

– Gravina Dop Bianco 2017 “Poggio al Bosco”, Cantine Botromagno (Gravina di Puglia, BA)
Una dama. Greco Mascolino, Greco e Malvasia per un vino riconoscibile tra mille nel panorama dei bianchi pugliesi. A un naso di mare e di frutta esotica polposa, abbina un palato di buona struttura, gran freschezza e sensazionale gastronomicità.

Una vera e propria chicca, frutto di un cru situato a 600 metri sul livello del mare; una zona incontaminata, al confine con il più importante polmone verde della Puglia Centrale, il Bosco Difesa Grande. Un vigneto impiantato nel 1991 con uve selezionate in collaborazione con l’Università di Agraria della Basilicata.

VINI ROSATI

– Salento Rosato Igp 2016 “Diciotto Fanali”, Apollonio (Monteroni di Lecce, LE)
Una vecchia conoscenza dei lettori di WineMag.it: la vendemmia 2015 è infatti tra i migliori 100 vini 2018 della nostra testata. La casa di Monteroni di Lecce si conferma ad altissimi livelli anche con la vendemmia 2016. Un Negramaro in purezza, vinificato in rosa, ottenuto da vecchie vigne ad alberello. Frutto, consistenza, struttura.

– Nero di Troia Igp Murgia Rosato 2018, Azienda Agricola Mazzone (Ruvo di Puglia, BA)
Altra nostra vecchia conoscenza, il “Dandy” di Mazzone. Fa parte della linea “Trendy”, con “Trousse”. Anche la vendemmia 2018 dimostra che, oltre al marketing, c’è la sostanza. Un rosato materico, che a una freschezza esemplare abbina il frutto croccante del vitigno (ciliegia, ribes) e un’ottima persistenza.

VINI ROSSI

– Castel del Monte Rosso Riserva Docg 2013 “Il Falcone”, Azienda Vinicola Rivera (Andria, BT)
Fuori di metafora, vino che annata dopo annata si conferma al top della produzione di vini rossi della Puglia, in termini di finezza, eleganza e tipicità. Ottenuta da una base di Nero di Troia, la Riserva di Rivera si rivela suadente al naso, su ricordi di viola e ciliegia. Corrispondente al palato, dove dà il meglio di sé in un quadro di ottima corrispondenza. Tannini finissimi, struttura importante ma non prepotente, ha una lunga vita davanti.

– Primitivo Salento Igt 2017 “Askos”, Masseria Li Veli (Cellino San Marco, BR)
Delicatezza, eleganza, potenza. Può un vino coniugarle? La riposta è nel calice di “Askos”, Primitivo giocato sulla sottigliezza dei sentori, più che sulla classica grassezza e polposità del frutto. Dopo un naso preciso e giocoso, tra ciliegie, mirtilli e cannella, il palato regala un sorso mutevole: l’ingresso è una spremuta, un frullato. Ma già in centro bocca, freschezza e tannino, uniti a ricordi di pepe, riportano la beva su canoni seriosi. Il finale è lungo ed elegante.

– Negroamaro Salento Igp 2015 Collezione Privata Cosimo Varvaglione, Varvaglione (Leporano, TA)
Eleganza e potenza per questo Negroamaro che fa parte della collezione privata di casa Varvaglione. Pregevole, al naso, la pulizia delle note fruttate spiccatamente mature, sferzata da richiami pepati, di spezie dolci e di liquirizia. Al palato il vino si conferma “importante” e strutturato. La freschezza compensa le note fruttate mature e la vena balsamica regala una beva corposa ma agile. Vino di assoluta gastronomicità.

– Salento Igt 2017 “Mlv”, Masseria Li Veli (Cellino San Marco, BR)
Il “taglio” con percentuale di vitigni internazionali più centrato del Puglia Top Wines Road Show di Milano. In questo caso Cabernet Sauvignon al 30%, completato da Primitivo (40%) e Negroamaro (30%).

Naso intenso e profondo, sui frutti di bosco e sulla spezia. Al palato rivela una struttura potente ma elegante. Il tannino tiene a bada la grassezza del frutto e la chiusura risulta così asciutta, giocata su pregevoli ritorni terziari, tra la liquirizia e il fondo di caffé.

– Castel del Monte Doc Nero di Troia 2017 “Violante”, Azienda Vinicola Rivera (Andria, BT)
Frutto abbinato a una struttura non banale per uno dei rossi di Rivera che conduce verso il top di gamma, costituito da “Il Falcone”. La base vitigno, del resto, è sempre il Nero di Troia. L’affinamento in cemento, dopo un naso floreale, fruttato e leggermente speziato, regala freschezza e piacevolezza al sorso.

– Nero di Troia Puglia Igp 2016 “Sico”, Cantine Le Grotte di Pasquale dell’Erba (Apricena, FG)
Giovane cantina fondata nel 2014 nella provincia foggiana. Mora netta al naso per il Nero di Troia “Sico”, con spolverate di spezia nera. Buona corrispondenza al palato, morbido e goloso, ma senza risultare banale. Buona anche la persistenza, su ricordi di erbe e macchia mediterranea.

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Cantina Lodali a Treiso: una storia d’amore lunga 80 vendemmie

TREISO – Gli sguardi della gente. Penetranti come coltellate. Giudicanti, indignati o compassionevoli. Eppure tutti tremendamente uguali. Vestiti di quell’ironia beffarda che i bempensanti riservano ai temerari, cercando di convincersi che siano mezzi matti, che prima o poi falliranno. Per arrivare a festeggiare nel 2019 le 80 vendemmie di Cantina Lodali a Treiso (CN), la signora Maria Margherita Ghione ha dovuto costruirsi attorno almeno due corazze. La prima per proteggere il cuore. La seconda gli occhi.

Oggi, Rita – in paese la conoscono tutti con questo nome – è una donna del vino senza spillette da mostrare né slogan ritriti da snocciolare sui palchi. Un’eroina con una storia di vita e d’amore da raccontare, all’insegna del Nebbiolo e delle sue sfaccettature più alte, che in Piemonte significano Barbaresco e Barolo.

Rita, classe 1941, faceva la parrucchiera quando Lorenzo Lodali, figlio di Giovanni Lodali, fondatore nel 1939 di una grande cantina a Treiso, le chiese di sposarlo: “Ma devi lasciare il lavoro”, le disse. Lei non esitò un attimo.

Appese forbice e pettine al chiodo. Chiuse il negozio. E il 15 agosto 1976 diventò la moglie di uno dei vignaioli più in vista di Treiso. Erano gli anni in cui Lorenzo lanciava sul mercato i primi cru di Barolo e Barbaresco.

Ma la soddisfazione più grande della coppia fu Walter: il figlio tanto desiderato, nato nove mesi dopo il matrimonio, nel 1977. Proprio nella città dell’amore, Venezia, qualcosa ruppe l’idillio. All’improvviso.

“Era notte fonda – racconta la signora Rita – e Lorenzo continuava a tossire. Uscì a farsi un giro, per prendere un po’ d’aria. Ma non servì a nulla. Dovemmo tornare a casa, a Treiso, interrompendo il tour al quale eravamo stati invitati per ritirare cinque premi“. La diagnosi del medico, un amico fidato di Milano, fu terribile.

Con il figlio ancora piccolo, la signora Rita capì che aveva poco tempo per imparare il mestiere. “Senza dirlo chiaramente – racconta – mi mettevo accanto a Lorenzo, mentre lavorava. Con la scusa di stargli vicino, annotavo come compilava le carte e come si muoveva in cantina. Facevo domande per capirne di più, insomma. Ho imparato così anche a scrivere a macchina, perché non ero mica una ‘studiata’ come lui”.

Il marito di Rita scompare nel 1982, a pochi giri di lancette da quel “sì” sull’altare e quando Walter aveva solo 4 anni e mezzo. “La gente del paese e la banca si aspettava che vendessi tutto – commenta decisa la signora Rita – ma feci di testa mia. Ricordo ancora gli sguardi e le chiacchiere, attorno alla mia decisione di non mollare l’azienda”.

Qualcuno, di certo, pensava fossi matta. Ma oggi posso dire che tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per mio marito: la cantina non poteva chiudere o essere venduta. Al posto di vendere io e mio figlio abbiamo investito. E oggi siamo qui a festeggiare le 80 vendemmie di Lodali”.

La grande festa, in compagnia dei dipendenti, dei clienti e della stampa, si è svolta lo scorso 29 ottobre a Treiso. L’aperitivo e la cena curata dagli chef di Florian Maison e de La Ciau del Tornavento, Umberto De Martino e Maurilio Garola, hanno fatto da contorno a momenti di sentita commozione, a coronamento del grande legame tra mamma Rita e il figlio Walter.

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“Abbiamo tenuto duro con un consulente enologo – sottolinea la regina di casa Lodali – fino a quando Walter si è iscritto alla scuola enologica. Il professore mi diceva che non aveva voglia di studiare, ma ho saputo convincerlo! La mia soddisfazione più grande è stata quando il docente è venuto in cantina a dirmi che adesso è lui che deve imparare da Walter!”.

“Fin da piccolo, a 7, 8 anni – conferma Walter Lodali, un omone dallo sguardo gentile – andavo in cantina a mettere le bottiglie vuote sulla macchina imbottigliatrice. Mia mamma mi ha insegnato a fare le fatture, a scrivere a macchina. Le devo tutto. Di donne del vino, oggi, ce ne sono tante. Ma negli anni Ottanta, c’era lei. E forse altre due”.

Andava da sola al mercato del vino di Alba, in mezzo a soli uomini, tra cui Gaja. Tutti le dicevano che si sarebbe ‘mangiata’ tutto, che avrebbe venduto tutto. Erano sicuri che non ce l’avrebbe fatta.

Adesso, essere qua a festeggiare le 80 vendemmie, per me è la conferma di aver scelto la strada giusta: quella di continuare sui passi segnati da mio padre e mia madre e, ancor prima, da mio nonno”.

“Ottanta vendemmie sono un piccolo traguardo, ma un grande stimolo ad andare avanti con la consapevolezza di vivere la vita più bella del mondo: semplicemente quella dei contadini, che coltivano la vite riuscendo a dare un’emozione, trasformando con serietà e pazienza l’uva in vino”, chiosa Walter Lodali.

Ed è il Barbaresco, ancor più del Barolo, la migliore espressione dei vini dell’ormai storica cantina di Treiso. Rocche dei Sette Fratelli (Giacone) più del Bricco Ambrogio, dunque, il cru che il figlio di Giovanni Lodali è riuscito a valorizzare e rilanciare.

Gli investimenti dell’azienda continuano nella Denominazione, con il nuovo impianto nell’area ricompresa nel cru Bricco di Treiso, che darà i suoi primi frutti tra circa cinque anni.

La produzione di Barbaresco passerà così da 15 a 28 mila bottiglie, staccando ulteriormente il Barolo (per il quale Lodali ha l’autorizzazione all’imbottigliamento fuori territorio, come cantina storica) fermo a 18 mila.

“Mi sento più barbareschista che barolista – ammette Walter Lodali – perché sono di Treiso, l’azienda è di Treiso e nel cuore e nel sangue ho il Barbaresco. Senza dimenticare il Nebbiolo, che è il più grande vitigno del mondo!”.

LA DEGUSTAZIONE

Nebbiolo d’Alba Doc 2018 “Sant’Ambrogio” (Magnum): 91/100
Annata in commercio dall’inizio del mese novembre. Si presenta nel calice di un rubino intenso, luminoso, con riflessi granati. Il naso è suadente e disegna note di frutta a bacca rossa e nera molto precise, giustamente mature, croccanti.

Spiccano ribes e fragolina di bosco, sulla mora. Note accese di spezia stuzzicano le narici, avvolte in un soffice velo di rosa, viola e cipria. In bocca è un tripudio di gioventù assoluta, su note corrispondenti al naso. Con l’ossigenazione, il vino guadagna in complessità e freschezza.

Le uve provengono dai vigneti del Comune di Pocapaglia (CN). La vendemmia avviene a mano, in cassette. Alla pigia-diraspatura e alla macerazione a temperatura controllata per circa 12 giorni, fa seguito un affinamento di 12 mesi in botti da 26 ettolitri di rovere di Slavonia. Tre mesi in bottiglia precedono la commercializzazione.

Barbaresco Docg 2016 “Lorens” (Magnum): 94/100
Un Barbaresco che, in una parola, si può definire “profondo”. Le note balsamiche giocano su una vena di agrumi e frutti rossi di gran precisione, ammantate dal fiore di viola. Dopo un approccio iniziale prepotente, anche l’alcol si integra e lascia spazio al bel bouquet. Il frutto, pieno e croccante, risulta corrispondente al palato.

Spazio anche a liquirizia e mentuccia, in un sorso fresco e di grandissima prospettiva. Elegante il tannino: ruvido al punto giusto, asciuga ma non tronca il sorso, pur rilevandosi (giustamente) in fase giovanile. Ottima la persistenza. Vino destinato ad avere un’ottima evoluzione in bottiglia.

Le uve provengono esclusivamente da Treiso. Il Nebbiolo viene diradato all’invaiatura e raccolto a mano in cassette, al momento della piena maturazione. Seguono pigia-diraspatura, macerazione a temperatura controllata per circa 25 giorni e affinamento per 24 mesi in barrique e tonneau. Dodici i mesi di bottiglia prima della commercializzazione.

Barolo Docg 2015 “Lorens” (Magnum): 92/100
Vino che tinge il calice di un rubino intenso e luminoso, con riflessi granati. Colpisce per la maturità del frutto, più piena di quella del Barbaresco. L’impressione, al netto di un tannino vivo, è che ci si trovi di fronte a un Barolo gustoso e goloso, giocato su prontezza, freschezza e facilità di beva. Un Barolo che ha comunque molta vita davanti.

Le uve provengono da vigneti di proprietà di Lodali, nel comune di Roddi (Bricco Ambrogio). Come per il Barbaresco, il Nebbiolo viene diradato all’invaiatura e la vendemmia avviene in maniera manuale, in cassette.

La tecnica di vinificazione prevede pigia-diraspatura, macerazione a temperatura controllata per circa 25 giorni e 30 mesi di affinamento in barriques e tonneaux. Dodici i mesi di bottiglia che anticipano la commercializzazione.

Moscato d’Asti Dop 2019: 89/100
Gran freschezza e beva instancabile per questo Moscato d’Asti che accompagna alla perfezione la pasticceria e il fine pasto. Giallo paglierino acceso, profuma di fiori freschi e ha un sapore armonico, dettato dall’aromaticità dell’uva.

La zona di produzione è quella di Treiso. Anche per il Moscato, la vendemmia di cantina Lodali avviene in maniera manuale, con selezione dei migliori grappoli. La fermentazione avviene in autoclave e si protrae per circa un mese. Sono tre i mesi che precedono la commercializzazione.

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Terre Siciliane Igp Nero d’Avola Syrah 2014 Sikane, Baronia della Pietra

Non serviva l’ennesima prova per dimostrare che esistono eccezioni nelle annate generalmente giudicate “sfortunate” per il vino. Il Terre Siciliane Igp Nero d’Avola Syrah 2014 Sikane dell’Azienda agricola Baronia della Pietra sta lì come un obelisco. A confermare la regola, in Sicilia.

A pochi giorni dal Mercato Fivi 2019, ecco un’etichetta da non perdere, assieme al resto della produzione della cantina di Alessandria della Rocca (AG), guidata dalla famiglia di Salvatore Barbiera.

LA DEGUSTAZIONE
A quasi 6 anni dalla vendemmia, il vino veste il calice di un rosso rubino pieno, con lievi riflessi granata. Al naso Sikane 2014 è ammaliante. Alle note di piccoli frutti di bosco (ribes e lamponi, ma anche mirtilli e more mature) si affiancano ricordi netti di una succosa arancia sanguinella.

Splendida la vena balsamica esaltata dall’ossigenazione: mentuccia, una resina di pino leggera. Richiami alla macchia mediterranea, nelle sue espressioni più fresche del timo e del rosmarino. Non poteva mancare il tocco del Syrah, con la sua spezia nera addomesticata dal legno, utilizzato in maniera enciclopedica in fase di vinificazione.

Si arriva all’assaggio con molte aspettative e il sorso non delude. Anzi. L’ingresso di bocca evidenzia la buona struttura del vino, che ha retto alla perfezione i “colpi” dell’annata 2014 e del tempo trascorso in bottiglia.

Freschi richiami di menta, scaldati da accenni di vaniglia dolce, giocano con un tannino finissimo. I frutti di bosco anticipano un finale lunghissimo, connotato da una vena salina corroborante e da ritorni di macchia mediterranea.

La beva è instancabile: precisa, asciutta, senza rinunciare alla polposità. I 14 gradi di alcol risultano ben integrati. Perfetto l’abbinamento di Sikane con le bontà gastronomiche della tradizione locale, come il pecorino stagionato dei Monti Sicani, l’agnello al forno con patate, carne e salsiccia alla brace e pasta alla Norma con melanzane fritte.

LA VINIFICAZIONE

La zona di produzione del blend di Nero d’Avola e Syrah di Baronia della Pietra è la contrada Chinesi, nel Comune di Alessandria della Rocca, piccolo borgo della provincia di Agrigento. Siamo a un’altitudine di 400 metri sul livello del mare. Il suolo è di matrice calcarea ed alcalina ed è ricco di calcio.

La vendemmia inizia generalmente nella seconda settimana di settembre. La fermentazione viene condotta in acciaio, a una temperatura controllata che si aggira attorno ai 28 gradi. Salvatore Barbiera ricorre a recipienti di acciaio anche per l’affinamento del vino atto a divenire Sikane.

Dopo cinque mesi di riposo, il nettare viene trasferito in barrique usate, dove resta ad affinare per circa 10 mesi. Seguono tre mesi di ulteriore affinamento in bottiglia, prima della commercializzazione.

L’Azienda agricola Baronia della Pietra è arriva nello splendido territorio delle Terre Sicane – nuovo eldorado della viticoltura siciliana – sin dal 1860. Domenico Barbiera ha piantato gli ulivi, mentre Salvatore ha implementato la vigna, in contrada Chinesi.

Una terra un tempo abitata dai Sicani, coltivata dagli arabi, poi appartenuta alla Chiesa di Agrigento, su concessione dei Normanni. Infine acquistata dalla nobile famiglia dei Barresi, anch’essa di origine Normanna.

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Rosso Barbera 2019: i migliori 10 (+20) assaggi al Castello di Costigliole d’Asti

COSTIGLIOLE D’ASTI – Grande successo per Rosso Barbera 2019. Oltre mille gli accessi alla tre giorni andata in scena dal 2 al 4 novembre, al Castello di Costigliole d’Asti (AT). Una location degna della crescente attenzione dei produttori piemontesi nei confronti della Barbera.

È recente, infatti, il riconoscimento in Piemonte della terza Docg dedicata al noto vitigno a bacca rossa. Si tratta del Nizza Docg, che è andato ad affiancarsi alla Barbera d’Asti Docg e alla Barbera del Monferrato Superiore Docg.

Per l’esordio di Rosso Barbera, evento che nasce dalle ceneri di “Barbera – Il gusto del territorio”, sono stati coinvolti i sommelier Ais della delegazione di Asti. “Grazie alla concessione del castello da parte del Comune e alla nostra collaborazione tecnica – commenta Paolo Poncino (nella foto, sotto) delegato locale dell’Associazione italiana sommelier – l’evento è finalmente decollato”.

“Siamo molto soddisfatti – aggiunge Poncino – soprattutto per i numeri. Lo scorso anno la manifestazione ha coinvolto 80 produttori, quest’anno 150. La copertura geografica è stata dunque molto più capillare e utile, ai nostri ospiti, per comprendere le differenze tra le varie espressioni di questo vitigno, importantissimo per il Piemonte”.

“La Barbera – sottolinea il delegato Ais di Asti – è buonissima vinificata in acciaio, nella sua versione più fresca. Ma si presta ottimamente anche ad essere affinata in legno, con diversi tempistiche e tipologie di botte. Un vino, dunque, molto versatile e gastronomico“.

Diverse le zone rappresentate ai banchi d’assaggio. Corposo il numero di Barbera proveniente dall’Astigiano. Buona la rappresentanza di altri territori piemontesi, come Alba (Cuneo), le Colline Novaresi (Novara) e i Colli Tortonesi (Alessandria).

Non sono mancati rappresentanti dal vicino Oltrepò pavese, con quattro etichette provenienti da San Damiano al Colle, Rovescala, Canneto Pavese e Montecalvo Versiggia, tutti Comuni in provincia di Pavia. Ecco dunque i migliori assaggi di WineMag.it a Rosso Barbera 2019.

TOP 10

1) La Montagnetta – Roatto (AT): Barbera d’Asti Docg Superiore 2016 “Piovà”
2) Mossio – Rodello (CN): Barbera d’Alba Doc 2017
3) Accornero e Figli – Vignale Monferrato (AL): Barbera Del Monferrato Doc 2016 “Giulin”
4) Pomodolce – Montemarzino (AL): Colli Tortonesi Doc Monleale 2011 “Marsen”
5) Gatto Pierfrancesco – Castagnole Monferrato (AT): Barbera d’Asti Docg Superiore 2017 “Vigna Serra”

6) Michele Chiarlo – Calamandrana (AT): Nizza Docg Riserva 2016 “La Court”
7) Dacasto Duilio – Agliano Terme (AT): Nizza Docg 2017 “Moncucco”
8) Tenuta Il Falchetto – Santo Stefano Belbo (CN): Barbera d’Asti Docg Superiore 2017 “Lurei”
9) Cascina Delle Rocche Di Moncucco – Santo Stefano Belbo (CN): Barbera d’Asti Docg 2017 “Vigne Erte”
10) Gianni Doglia – Castagnole Delle Lanze (AT): Barbera d’Asti Docg 2018 “Bosco Donne”

MENZIONI

11) Cascina Fiore – Costigliole d’Asti (AT): Barbera d’Asti Docg 2016
12) Baldi Pierfranco – Costigliole d’Asti (AT): Barbera d’Asti Docg Superiore 2015 “Castelburio”
13) Sant’Anna Dei Brichetti – Costigliole d’Asti (AT): Barbera d’Asti Docg Superiore 2015 “Vigna Dei Brichetti”
14) Bianco Marco – Costigliole d’Asti (AT): Barbera d’Asti Docg Superiore 2015 “Vigna Del Mor”
15) Montalbera – Castagnole Monferrato (AT): Barbera d’Asti Docg 2018

16) Bava – Cocconato (AT): Barbera d’Asti Docg 2018 “Libera Pianoalto”
17) Cantina Sant’Evasio – Nizza Monferrato (AT): Barbera d’Asti Docg 2018
18) Dacasto Duilio – Agliano Terme (AT): Barbera d’Asti Docg 2018 “La Maestra”
19) Gaudio Bricco Mondalino – Vignale Monferrato (AL): Barbera d’Asti Docg 2018 “Zerolegno”
20) Coppo – Canelli (AT): Barbera d’Asti Docg 2018 “L’avvocata”

21) Sei Castelli – Agliano Terme (AT): Barbera d’Asti Docg 2018 “Ventiforti”
22) Cascina La Barbatella – Nizza Monferrato (AT): Barbera d’Asti Docg 2017 “La Barbatella”
23) Cascina Valle Asinari – San Marzano Oliveto (AT): Barbera d’Asti Docg 2017
24) Scarpa – Nizza Monferrato (AT): Barbera d’Asti Docg 2016 “Casa Scarpa”
25) Bava – Cocconato (AT): Piemonte Doc Barbera 2018 “Viva In Bottiglia Gura” (metodo ancestrale)

26) Malabaila Di Canale – Canale (CN): Barbera d’Alba Doc Superiore 2016 “Mezzavilla”
27) Olim Bauda – Incisa Scapaccino (AT): Nizza Docg 2016 “Cru Bauda”
28) La Gironda – Nizza Monferrato (AT): Nizza Docg 2016 “Le Nicchie”
29) Franco Roero – Montegrosso D’Asti (AT): Barbera d’Asti Docg Superiore 2017 “Mappale 213”
30) Prasso Piero – Mongardino (AT): Barbera d’Asti Docg Superiore 2016 “Colli Astiani”

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I vini di Garbole: apostrofi rossi tra il punto G e il fattore H

Capelli lunghi avvolti nel codino. Barba e pizzetto sistemati per l’occasione. Camicia nera con qualche bottone slacciato, a fare il paio con le maniche arrotolate sull’avambraccio. È un Ettore Finetto in versione “balera” quello che ha presentato la scorsa settimana i vini di Garbole alla stampa, al ristorante Tre Cristi di Milano.

Un impatto deflagrante quello del vignaiolo veneto sul capoluogo lombardo. Un po’ come avere di fronte un uomo senza spazio e senza tempo. Un alieno che non vola, per dirla con Battiato. Qualcuno venuto dalle stelle, al posto che dalla Valpolicella. Ma niente paura.

Alla cena coi piatti (deliziosi) dello chef Franco Aliberti in abbinamento, fila tutto liscio che manco in Romagna. Ma hai bisogno di qualche giorno per riprenderti, dopo l’incontro con uno che fa vini di musica. E te li sbatte in faccia – o meglio sotto il naso e in bocca – tutti assieme. Fermando il tempo tra l’entrée e il dessert.

Un concerto in quattro atti degno del Teatro alla Scala. Senza intermezzi. Solo apostrofi. Rossi. Tra il punto G di Garbole. E il fattore H che identifica, anzi codifica, le etichette: “Heletto” 2012, “Hatteso” 2011, “Hurlo” 2011 ed “Hestremo” 2011. Non serve Saw – L’enigmista, per decifrarli. Solo sensibilità, silenzio. E orecchio.

Ci vuole il cuore, invece, per leggere tra le righe di certe affermazioni di Ettore Finetto. Un minimo di fatica, insomma, per non scambiarlo per megalomane o egocentrico. Ché tutti gli artisti lo sono un po’, figurarsi quelli in grado di comporre musica liquida (25 mila bottiglie da 20 ettari di terreno). Una questione di pura sensibilità, all’ennesima potenza.

Non sono appassionato del mondo del vino, sono appassionato del mio mondo del vino. Non vado dove c’è gente che parla di vino. Ma ho poche certezze. Una di queste è che ogni produttore della Valpolicella dovrebbe avere il santino di Romano Dal Forno sul comodino. Non tanto per i vini: su quelli ognuno può avere la sua idea. Ma per la sua intelligenza e finezza”.

LA DEGUSTAZIONE

Rosso Veneto Igp 2012 “Heletto”, Garbole: 94/100
Vino che risulta ancora un po’ spigoloso, di primo acchito. Con l’ossigenazione tutto cambia, verso l’equilibrio. Del resto, è un vino vivo, quello di Garbole. In mutamento. Ma il punto è che tutto cambia come d’improvviso.

Il legno risulta via, via sembra più integrato, grazie al corredo offerto dall’appassimento delle uve su graticci, che si protrae fino a 40 giorni nell’unico ambiente non climatizzato della cantina. L’ossigenazione porta tanta profondità, tanta spezia, tanto calore. Si avverte l’amarena, così come il fico fresco. La mora, il mirtillo. Il tabacco.

E ancora: la corteccia di pino, la resina. Ma anche la macchia mediterranea, il rosmarino, il cioccolato bianco. Un naso che fa salivare. Al primo assaggio, il vino sembra scontroso e duro. Poi il sorso sembra asciugarsi, virando dalla marmellata al frutto pieno. Come in una macchina del tempo azionata al contrario.

Un quadro di corrispondenza assoluta, in cui gusto e olfatto si incontrano e si odiano, per poi amarsi all’improvviso. Alla follia. Anzi, all’unisono. Per chi assiste, la sensazione è quella di una strana pace e armonia musicale dei sensi, in cui si inizia a bere Heletto col naso. Magia.

Amarone della Valpolicella Dop 2011 “Hatteso”, Garbole: 95/100
“Uno degli Amaroni più centrati che abbiamo messo in bottiglia”, sostiene Ettore Finetto. Per dargli ragione, occorre seguire la trama già nota. Il solito refrain. Il vino appare scontroso al naso, all’inizio. Comunica calore e pienezza, ma anche un animo selvatico e permaloso. Tanto alcol, forse. Il retro della bottiglia conferma l’impressione (16.5% vol.).

Poi, clic. Succede qualcosa. Ecco, ancora una volta, cioccolato e frutto molto maturo. Iniziano a materializzarsi anche rabarbaro e radice di liquirizia. I vini di Garbole sono così: vanno in sottrazione nell’aggiunta.

Si schiariscono nel tempo, una volta versati nel calice. Sono debuttanti sul palco, col microfono che fischia e il pubblico che rumoreggia, senza aver ascoltato neppure una nota. Ma quando iniziano a cantare, cala il silenzio.

Si distingue tutto, adesso. Ogni singolo accordo. Prende spazio una vena mentolata, che conferisce gran balsamicità sia al naso sia al sorso: ricco, pieno, ruggente. Dagli esordi in sordina, il nettare vira su una gran verticalità, dettata da una freschezza che tiene a bada la concentrazione assoluta data dall’appassimento.

Se “Heletto” diventa grande in sottrazione, “Hatteso” migliora nell’approfondimento dei sentori: dall’etereo glicerico al sotteso del muschio, del fungo, della terra bagnata. Un vino che diventa grande nascondendosi, al posto di esplodere. Un vino che prende tempo per le strofe. Per raccontare meglio ritornello e finale.

Rosso Veneto Igp 2008 “Hurlo”, Garbole: 96/100
Il nome, nemmeno a farlo apposta, è nato dal commento di un ristoratore che lo ha assaggiato alla cieca, in una batteria di vini da tutto il mondo: “Questo è un vino da urlo”. Nel blend, oltre alle tradizionali uve della Valpolicella, si celano i frutti di vitigni autoctoni sconosciuti come Saccola, Pontedarola, Spigamonti, Segreta.

È un vino che è dentro e fuori. Sotto e sopra. Pare la sintesi dei precedenti. E, al contempo, la loro somma. Somma più sottrazione uguale “Hurlo”: calcolo da annotare sui libri di scuola, tra la proprietà transitiva e il teorema di Pitagora.

Vino grasso ed essenziale. Vino dell’ossimoro. Profondo e alto. Fiore e (sotto)terra. Alcol e radice. “Questa è la massima espressione del vino mai ottenuta da Garbole”, commenta Ettore Finetto. Difficile dargli torto. Basta osservare quanto “Hurlo” riesca davvero a condensare il meglio di “Heletto” e di “Hatteso”.

Recioto della Valpolicella Dop Riserva 2011 “Hestremo”: 96/100
Un vino che Ettore e il fratello Filippo producono “per rispetto della storia, perché l’Amarone è qualcosa che è stato ‘inventato’ più di recente, in Valpolicella”. La base ampelografica è quella tradizionale, sin dalla prima bottiglia, prodotta nel 2008.

Se “Hurlo” è per i Finetto la “massima espressione” del vino, “Hestremo” è la “massima espressione dell’uva”. “E scordatevi che si tratti per forza di un vino da dessert – ammonisce il vignaiolo – perché questo è un vino da panino in su”.

Si tratta dell’etichetta di Garbole più lineare e corrispondente alle aspettative, visto soprattutto il profondo legame con la tradizione e col metodo di produzione. È il vino migliore con cui concludere l’assaggio dei vini della cantina, per quanto sia rassicurante e moderno.

Convince sin dal naso, profondissimo nonostante i richiami alla confettura. Prugna, fico, amarene, fichi, datteri. In bocca, la corrispondenza dei sentori è perfetta. Il sorso di “Hestremo”, tuttavia, sfodera gran verticalità e il tannino perfetto per tenere a bada l’imponente (e sensuale) residuo.

Mentre a ogni sorso sembra suonare sempre più forte “Killing me softly” dei Fugees – ma è solo un’impressione – Ettore Finetto annuncia l’ultimo progetto: “Dar vita a un nuovo vino, ovvero ‘Hurlo’ bianco. Stesse uve della versione rossa, con vinificazione in bianco”. Silenzio. È già iniziato il countdown per la nuova creatura di Garbole.

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Gallo Nero is back: i migliori dieci Chianti Classico a Milano

MILANO – Tutto tranne che una questione di piume. Il Gallo Nero è tornato a Milano per alzare la cresta: tra gli appassionati, sì. Ma soprattutto al cospetto della ristorazione, nella città che più di tutte, in Italia, esprime l’internazionalità. Il Consorzio Vino Chianti Classico mancava nel capoluogo lombardo da 13 anni . Lunedì 28 il gran ritorno, grazie alla collaborazione con l’Associazione italiana sommelier (Ais).

Sessantaquattro i produttori presenti banco di assaggio al The Westin Palace. Ad assaggiare i Chianti Classico oltre 700 persone in 5 ore. Tutti operatori del settore Food and Beverage.

“Siamo tornati a Milano dopo un’assenza un po’ ingiustificata – ha commentato a caldo Carlotta Gori, direttore del Consorzio, intervistata da WineMag.it – e l’accoglienza è stata davvero straordinaria”.

Con il 2019 riportiamo al centro del nostro trade l’Italia – ha precisato Gori – e Milano è la vetrina da dover ritrovare, riscoprire e con cui dover riallacciare una duratura relazione, soprattutto sul fronte della grande ristorazione milanese, la più internazionale del nostro Paese”.

Come anticipato ieri da WineMag.it, il presidente del Consorzio, Giovanni Manetti, ha consegnato al sindaco di Milano, Giuseppe Sala, una bottiglia di Chianti Classico 1946 della collezione storica di Badia a Coltibuono. In quell’anno furono terminati i lavori di ricostruzione del Teatro alla Scala, dopo un restauro post bellico effettuato in tempi record.

“Milano all’epoca divenne simbolo, attraverso il suo teatro principale, di una speranza per tutto il Paese – ha evidenziato Manetti – e il suo spirito di rinascita si coglie ancora oggi nello slancio verso il futuro e nel suo dinamismo.

Questo la rende lo scenario ideale per presentare i nostri vini, ed è nostra volontà mettere nell’agenda di questa città un grande evento di Denominazione ogni anno”.

I MIGLIORI DIECI CHIANTI CLASSICO A MILANO

1) Chianti Classico Docg Riserva 2015, Setriolo
Un gigante. Frutto croccante e succoso, in un sorso capace di abbinare una gran profondità, raccontata da spezie, note balsamiche e ricordi di rabarbaro. Il capolavoro, a Castellina in Chianti (SI), di Susanna Soderi.

2) Chianti Classico Docg 2015, Setriolo
Vino sulla scorta del fratello maggiore, la Riserva della stessa annata. Succosità e una beva più snella e “pronta”, ma tutt’altro che banale. Bello ritrovare anche in questo calice le note profonde della Riserva, in una veste più gentile.

3) Chianti Classico Docg Gran Selezione 2016 “Vigna Contessa Luisa”, Villa Calcinaia Conti Capponi
Ci spostiamo nella zona di Greve in Chianti (FI) per la chicca dei Conti Capponi, che si dedicano con estrema passione a 20 ettari di vigneto sugli 80 di proprietà. Un vino giocato sull’essenzialità e su una beva asciutta, connotata da un tannino elegante e di prospettiva. Un vero Signore.

4) Chianti Classico Docg Riserva 2015, Villa Calcinaia Conti Capponi
Vino che marca in maniera netta le differenze con la Riserva, sfoderando un frutto ben più maturo e godurioso. Tra le Riserve in degustazione a Milano, forse la più gustosa e beverina.

5) Chianti Classico Docg Gran Selezione 2015 “San Marcellino”, Rocca di Montegrossi
Altro vino dotato di un frutto pieno, in un gioco divertentissimo col tannino. Colpisce per la freschezza e la verticalità ossuta, che reggono un alcol sostenuto ma per nulla percettibile: serve guardare l’etichetta per accorgersi dei 15% vol.

6) Chianti Classico Docg 2017, Castello di Ama
L’etichetta dal frutto più preciso, nonostante la maturità piena e la “succosità” evidenziata nel sorso. La beva è instancabile, perché retta da una freschezza riequilibrante. Un Sangiovese in purezza che chiama il piatto, ma che sarebbe ottimo anche da solo, per annaffiare momenti di totale spensieratezza.

7) Chianti Classico Docg 2017, Tenuta di Arceno
Altro Sangiovese connotato da un frutto delizioso, minuzioso, pieno e pulito. Gran beva e consistenza.

8) Chianti Classico Docg Riserva 2016, Rocca delle Macìe
Di nuovo a Castellina in Chianti (SI) per una Riserva di grandissimo carattere e struttura possente, nonostante la gran eleganza e il frutto pieno. Vino da acquistare oggi e dimenticare in cantina.

9) Chianti Classico Docg 2017 “Ora”, Savignola
Vino d’entrata della casa di Greve in Chianti (FI). Scalpita ancora e dopo l’assaggio arriva la conferma: è in bottiglia da appena 3 mesi e sarà sul mercato dal 2012. L’anteprima promette benissimo.

10) Chianti Classico Docg 2016, Caparsa
Spazio a una cantina di Radda (SI) vicina, con grande cognizione di causa, ai canoni “naturali”. Nel calice un “vino quotidiano”, capace di sfoderare un frutto di piena maturità e una struttura agile, ma presente. Abbastanza per finirne una bottiglia a tavola, senza neppure accorgersene.

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Cantine degustati da noi news news ed eventi vini#02

Tenuta Ridolfi e il “brand” Montalcino: l’avventura di Valter Peretti in Toscana

MONTALCINO – Poteva fare il dandy col Prosecco, mettendo il piede fuori di casa. Ma voleva “un territorio puro”. Lontano dalle mode, dai disciplinari dettati dal mercato. Un “brand del vino italiano ancora spendibile”. Con queste premesse non potevano che incontrarsi Giuseppe Valter Peretti e Montalcino. Tenuta Ridolfi, acquistata nel 2011 dal noto imprenditore veneto, titolare della “Conceria Cristina” di Montebello vicentino (VI), è per lui “molto più di una questione di business”.

È il sogno che ha voluto cucirsi addosso. Iniziando a ritagliarne i contorni da più lontano. Proprio come farebbe un sarto. Nel 1992 Peretti sbarca a Larciano, in provincia di Pistoia. Ulivi e qualche ettaro di vigna da Chianti servono a prendere le misure al Brunello. Di lì a 20 anni, “zac”. Il percorso si compie.

A Montalcino, Peretti conosce Gianni Maccari (nella foto sopra) attuale factotum di Tenuta Ridolfi. Uno a cui dare in mano le chiavi del sogno, viste le precedenti collaborazioni con aziende del calibro di Poggio di Sotto, uno dei gioielli di ColleMassari Wine Estates.

Ingenti investimenti sul fronte della tecnologia, sia in vigneto sia in cantina, consentono a Ridolfi di entrare nell’olimpo dei grandi di Montalcino. Oggi la tenuta di Località Mercatali conta 21 ettari, tutti certificati biologici: 13,4 a Brunello di Montalcino, 1 ettaro a Rosso di Montalcino e il resto a Chianti, per ora non prodotto.

Tra le novità introdotte in seguito all’acquisizione dei terreni, un’attenzione green per la produzione, grazie al solo utilizzo di rame e zolfo e di tecniche come la confusione sessuale per contrastare la tignola e il sovescio per riequilibrare la fertilità del terreno.

Pratiche imitate in seguito dalle aziende circostanti Tenuta Ridolfi, tanto da creare un polmone verde nell’areale nord est di Montalcino. L’ottima materia prima, vendemmiata a mano, viene condotta in cantina e selezionata acino per acino, grazie a sofisticati macchinari dotati di selettori ottici.

Diverse le tipologie di legno presenti nella bottaia, che presto sarà ampliata per far spazio a numerose barrique. Una parte integrante della visione del Brunello di Giuseppe Valter Peretti e necessarie, in particolare, per la produzione del “Donna Rebecca”, l’unicum della cantina.

LA DEGUSTAZIONE

Vino Spumante Rosé Brut, Tenuta Ridolfi: 90/100
Numeri in crescita di anno in anno per il Metodo Martinotti (Charmat) di casa Ridolfi. Quest’anno saranno 12 mila le bottiglie, duemila in più della vendemmia 2018, in degustazione. Aumentano anche i mesi di autoclave, da una base iniziale di tre, nel 2016, fino ai 6 dello spumante 2019, in commercio dal prossimo anno.

Uno sparkling ottenuto da uve Sangiovese in purezza, raccolte tramite diradamento delle vigne del Brunello e del Rosso. Molto profumato al naso, tra fiori freschi e frutta rossa, convince ancor più al palato con le sue note precise ed invitanti di ciliegia, lamponi e fragoline.

Non manca una leggera vena minerale, che racconta la presenza di calcare e fossili nei terreni della tenuta. Un Brut da 10 grammi litri di residuo, perfettamente integrati nel sorso. La prova provata che il Sangiovese si può spumantizzare con ottimi risultati (in questo caso in un’azienda di Ravenna, la CPS), come stanno facendo ormai diverse aziende toscane.

Rosso di Montalcino Doc 2016, Tenuta Ridolfi: 93/100
Vino in stato di grazia, specie in una batteria di Brunelli da annata certamente non semplice, come la 2014. Un vino giocato su finezza ed eleganza, col vitigno in prima linea. Rosso rubino di buona luminosità e trasparenza, alla vista.

Al naso molto tipico e fragrante. Ha bisogno di qualche minuto per liberare completamente tutto il ventaglio di profumi: alle note nette di ciliegia e lampone si accostano ricordi di macchia mediterranea, balsamicità, liquirizia e una leggera vena speziata.

Anche in bocca questo Rosso guadagna consistenza e carattere col passare dei minuti. I precisi e croccanti sentori di frutta rossa si legano a una gran freschezza che rende il sorso dinamico, piacevole e di ottima lunghezza.

Brunello di Montalcino Docg 2014, Tenuta Ridolfi: 92/100
Trentasei mesi in botti di rovere di Slavonia da 25 a 35 ettolitri, più un 3% della massa che affina in barrique. Prima della commercializzazione, minimo 12 mesi di riposo in bottiglia. Vino importante e corposo, come nelle attese.

Le lunghe macerazioni e i continui rimontaggi del mosto in acciaio regalano un’estrazione esemplare dei primari del Sangiovese. La leggera ma presente nota vanigliata, specie in chiusura, imbriglia croccantezza del frutto e mineralità, regalando un sorso incentrato su equilibrio e piacevolezza.

Brunello di Montalcuno Docg 2014 “Donna Rebecca”, Tenuta Ridolfi: 91/100
Vino tecnicamente ineccepibile, nel solco dello stile chiesto da Giuseppe Valter Peretti al winemaker Gianni Maccari. Si tratta della “chicca” di Tenuta Ridolfi, prodotta nel 2014 in sole 1.800 bottiglie, in pieno stile borgognone. Un vino pensato per elevare, all’ennesima potenza, l’internazionalità del Sangiovese toscano.

La vinificazione avviene interamente in barrique della Tonnellerie Baron, con fermentazione e macerazione della durata di 90 giorni a temperatura controllata di 26 gradi. Fondamentali i batonnage giornalieri, tramite rotazione dei piccoli contenitori di legno, come vuole la tradizione borgognotta.

Ne risulta un Brunello fuori dagli schemi della Denominazione. Morbidezza e note conferite dal legno dominano un sorso che mostra comunque una buona spalla acida, capace di garantire freschezza ed equilibrio alla beva. Il sorso è suadente, setoso e spiccatamente femminile.

Brunello di Montalcino Docg Riserva 2016, Tenuta Ridolfi: 95/100
Assaggio da botte e non può che essere così, dal momento che il vino sarà in commercio non prima di gennaio 2021, per via del disciplinare di produzione che impone cinque anni di affinamento per la Riserva, uno in più del tradizionale Brunello.

Strepitose le attese: frutto, materia, tannino estremamente elegante e legame col territorio all’ennesima potenza. Il vino che, al momento, sembra esprimere più di tutti le potenzialità di Tenuta Ridolfi a Montalcino.

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