wine news e guida top 100 migliori vini italiani, notizie e articoli esclusivi su vino, birra, distillati e food
Autore:Davide Bortone
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell'informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la "Guida Top 100 Migliori vini italiani" e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell'Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Buttare il cuore oltre all’ostacolo. E scrivere la storia nuova di uno dei vini più antichi d’Italia. Con questo spirito potrebbe nascere l’Orvieto Doc Riserva. Una nuova tipologia, al momento non prevista dal disciplinare, con un minimo di 3 anni di affinamento e una quota percentuale preponderante di Procanico e Grechetto, nell’uvaggio. A parlarne con winemag.it è Vincenzo Cecci, presidente del Consorzio Tutela Vini di Orvieto. «La discussione sul tema “Orvieto Doc Riserva” è aperta da qualche tempo fra i produttori – dichiara l’esponente di Cantine Monrubio – e abbiamo intenzione di iniziare a muovere i primi passi fin da subito, inserendo il tema all’ordine del giorno delle prossime assemblee consortili. Avremo bisogno di tempo per renderlo concreto, ma abbiamo la ferma volontà di portarlo a compimento entro brevissimo».
A dare ulteriore slancio al progetto sono i risultati della masterclass dedicata alla longevità dell’Orvieto Doc, andata in scena questa mattina nei locali della chiesa di San Giovenale, nel cuore della cittadina dell’Umbria. «Si è trattato di una degustazione storica per la nostra denominazione – sottolinea Vincenzo Cecci – in quanto mai prima avevamo raccolto 13 annate, andando indietro sino alla 2010. I riscontri ci portano ad avere ancora più convinzione e certezza di procedere nella direzione dell’Orvieto Doc Riserva». Favorevole all’ipotesi anche Riccardo Cotarella, moderatore della degustazione e tra i relatori del programma di iniziative inserite nell’ambito della manifestazione Orvieto Divino 2023. «Puntare sulla Riserva è un dovere morale per Orvieto», ha commentato il presidente di Assoenologi.
«GIOVANI E CONSAPEVOLEZZA» PER L’ORVIETO DOC RISERVA
Stiamo vivendo un momento particolarmente positivo in Consorzio – ammette Vincenzo Cecci (nella foto, sopra) – con la consapevolezza che sia giunta l’ora di fare cambiamenti importanti. Ci sono molti giovani che vogliono creare una massa critica pesante e condividere questi progetti di rinnovamento. Sono fiducioso che, a breve, riusciremo a superare gli ultimi ostacoli, iniziando il purtroppo lungo percorso burocratico che ci attende».
Indubbi i riflessi (positivi) che la nuova tipologia potrebbe apportare all’intero tessuto produttivo orvietano. Una denominazione che produce circa 11 milioni di bottiglie all’anno, su un totale di 1.200 ettari rivendicati Doc (su 2 mila potenziali). L’Orvieto è ben noto in tutta Italia grazie alla sua capillare distribuzione nei supermercati e nei discount, dove è spesso oggetto di promozioni piuttosto aggressive. L’istituzione di una Riserva potrebbe alzare l’asticella di tutta la piramide qualitativa orvietana e costituire un nuovo elemento d’appeal per l’export, che al momento assorbe il 65% della produzione. Il mercato principale d’esportazione sono gli Usa, seguiti da Canada, Germania e Uk.
UVE E PERCENTUALI DELLA NUOVA TIPOLOGIA
Più delicato il tema della base ampelografica della nuova tipologia Orvieto Doc Riserva. «Sono convinto – spiega il presidente Cecci – che i territori caratterizzino i vitigni. Noi ormai abbiamo l’esperienza per capire quali siano i vitigni non considerati locali che si adattano in maniera particolare al nostro territorio e sono ben affrancabili ai nostri Procanico e Grechetto, in modo tale da migliorare questa importante base. L’Orvieto Doc prevede un minimo del 60% dei due vitigni locali. Con la Riserva potremmo certamente aumentare questa quota, sulla base di uno studio dei vari suoli e della necessità di raggiungere un equilibrio dei singoli vitigni nel vino finale».
Quanto ai prezzi, ammonisce il presidente del Consorzio, «un buon Orvieto non dovrebbe mai costare sotto i 5 euro in cantina». Il prezzo delle uve si aggira attorno ai 60-65 euro al quintale. In calo il valore dei terreni rispetto agli anni, scesi da 60 mila ai 38-40 mila euro all’ettaro degli ultimi anni, sempre secondo i dati forniti dal Consorzio Tutela Vini. «Questo – chiosa Cecci – è un altro elemento sul quale dobbiamo lavorare, dando nuova linfa soprattutto sul fronte della comunicazione. Lo sforzo che dobbiamo fare è quello di raccontare le punte di qualità che possono raggiungere i nostri vini, ma anche la bellezza di tutto il patrimonio storico-culturale della nostra zona. Siamo fiduciosi».
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
I tetti delle case disegnano il profilo delle colline, tutt’attorno all’aeroporto di Cluj-Napoca. La seconda città per numero di abitanti della Romania accoglie i viaggiatori mescolando colori e forme. Confondendo terra e cielo. Un goloso antipasto della meta: quella Transilvania che è villaggi appoggiati di schiena a boschi selvaggi e distese di prati verdi su cui galleggiano cavalli, greggi di pecore, bovini e cicogne, planate a terra dai nidi arroccati sui pali della rete elettrica. Per finire risucchiati dal fascino della natura incontaminata transilvana basta superare i sobborghi che abbracciano il secondo aeroporto nazionale rumeno, indimenticabili per l’ostinata spavalderia delle architetture civili: case trifamiliari che paiono riproduzioni miniaturizzate del castello di Dracula, tra merletti, torrette e piani poggiati uno sull’altro come strati croccanti di una torta millefoglie, a segnare il passo delle nuove generazioni. Ad appena due ore di distanza da Cluj, tutto cambia. E a fare rumore è il silenzio dei vigneti battuti da una brezza fresca, instancabile.
Mentre il sole chiude gli occhi sul mondo, colorando di rosa le chiome degli alberi, Miron Radićsvela i segreti di una terra che chiede spazio sulla cartina geografica del vino internazionale. «La nostra etichetta più esportata – spiega il general manager della cantina Liliac di Batoş – è un ice wine (a commercializzarlo è l’italiana Gaja Distribuzione, ndr) ma è con il rosato che stiamo conquistando sempre più fette di mercato, anno dopo anno. C’è una larga parte di consumatori che si approccia al vino scegliendo questo colore; e non mi riferisco solo alle donne, ma anche agli uomini. In Romania, il rosato è diventato la prima scelta di chi ha voglia di avvicinarsi al vino». In un Paese in cui quattro cantine detengono l’80% della produzione, le boutique wineries come Liliac viaggiano al ritmo di 450 mila bottiglie annuali. Formiche tra elefanti. Operose e con le idee piuttosto chiare.
Nell’ottica di incrementare l’export e conquistare nuove fette di mercato nazionali, gran parte delle “piccole” cantine della Transilvania (in romeno “cantina” si dice “crama“) stanno virando dalla produzione di vini con residui zuccherini medio-alti – facili da reperire a basso costo nell’intera Romania – a vini con una maggiore espressione territoriale e varietale. Una ricetta che passa dalla cura agronomica ottimale del vigneto, dalla raccolta manuale e dalla cernita dei grappoli e dall’innalzamento qualitativo della tecnologia in cantina, grazie ai cospicui sussidi europei. «Vogliamo portare nel calice le specificità della nostra terra – afferma Paula Alexandra Bota, enologa di Liliac – e la voce più autentica delle varietà autoctone e internazionali che si possono trovare anche in altre regioni, ma che in Transilvania hanno espressioni diverse, particolari».
FETEASCĂ NEAGRĂ E PINOT NERO, IL NUOVO VOLTO ROSSISTA DELLA ROMANIA
Emblematico il caso del Fetească neagră, vitigno autoctono romeno a bacca rossa che ha chance incredibili di trasformarsi nel cavallo di Troia dei produttori della Transilvania, sui mercati internazionali. A differenza di altre zone della Romania, qui il vitigno esprime tratti di croccantezza unici che lo avvicinano al gusto dei consumatori moderni, a caccia di rossi agili, freschi, di gran beva e che non presentino eccessive concentrazioni. Il merito è del clima temperato, con escursioni termiche importanti e notti fresche, che contribuiscono ad elevare il quadro aromatico delle uve. Alla vista, la Fetească neagră di Liliac si presenta di un rubino splendido. Al naso abbina frutti rossi perfettamente maturi a una speziatura corroborante. Uno stile simile a quello del Piedirosso, nuovo asso nella manica dei produttori della Campania nei mercati globali. Per certi versi, la “Fanciulla nera” (questa la traduzione letterale del nome della varietà) ricorda anche i succosi Cabernet Franc della Loira, in particolare i “vinléger” di Saumur.
Ancora più elegante Titan, altro vino di Liliac ottenuto da Fetească neagră in purezza, questa volta però con un passaggio di 24 mesi in botti di rovere della Transilvania (usate in maniera ineccepibile). Il vino, di maggiore concentrazione ma raffinatissimo, presenta note di piccoli frutti a bacca nera, oltre che rossi, ed è nato da un’intuizione di Miron Radić. Bottiglia pesante (unica pecca), packaging che non passa inosservato (ogni bottiglia bordolese ha un’etichetta in vera pelle realizzata a mano da un legatore austriaco e lettere forgiate in platino) e prezzo non alla portata di tutti: 130 euro. Titan, prodotto solo nelle migliori annate, in edizione limitata, è da segnalare fra i vini romeni da assaggiare almeno una volta nella vita. Almeno per due ragioni: comprendere le punte di qualità della Fetească neagră; e toccare con mano gli ormai elevatissimi standard raggiunti da alcuni winemaker romeni.
Ovidiu Maxim è un altro fulgido membro di questo gotha di professionisti. A lui è affidata la direzione enologica di Crama La Salina Winery. Siamo a Turda, 40 chilometri a sud di Cluj-Napoca. Una località nota a livello internazionale per la presenza della Salina Turda, una tra le più grandi miniere di sale al mondo, visitata da circa 600 mila persone all’anno. La cantina e i suoi vigneti si trovano a pochi passi dall’ingresso del groviglio di cunicoli sotterranei della miniera, su ampi terrazzamenti che sovrastano impianti a corpo unico. Ancora una volta a convincere più di tutti è un vino rosso, ottenuto – nel caso di Crama La Salina – da una varietà internazionale. Si tratta del Pinot Noir “Issa”, edizione limitata della vendemmia 2020. Un nettare che ha tutto per competere con le migliori espressioni del vitigno a livello internazionale, senza scomodare per forza la Borgogna.
CLIMA ED ENOTURISMO: COME CAMBIA LA TRANSILVANIA DEL VINO
Fetească neagră e Pinot noir invitano a riflettere su come i cambiamenti climatici stiano trasformando la Transilvania da “terra di vini bianchi” a nuova frontiera dei vini rossi della Romania. Una regione vinicola in cui trovare nettari freschi, dai toni tipicamente varietali, di grande eleganza e dal carattere non indifferente, nonché di gran longevità. Vini che riflettono clima, suolo e parcelle, proprio come nel caso del Pinot Noir “Issa”, frutto di una porzione di vigneto a 470 metri sul livello del mare. Ma la Transilvania è in rampa di lancio anche sul fronte dell’enoturismo.
Lo dimostra il progetto a tutto tondo di Crama La Salina Winery, che può contare anche su un ristorante da 250 coperti, “Sarea-n bucate“, su un albergo foresteria con 13 bungalow molto ben attrezzati, un’area esterna con due piscine e una palazzina ancora in fase di costruzione, che ospiterà altre stanze. Fondi europei investiti in maniera ben oculata anche a 150 chilometri di distanza da Turda, per l’esattezza a Satu Nou, da parte di Crama Jelna Resort & Spa.
Anche in questo caso la cantina è affiancata da un moderno hotel-pensione con Spa, oltre al ristorante che serve piatti della tradizione rumena rivisitati in chiave moderna. Tra i vini di Jelna, curati dall’enologo Darius Pripon, interessante – dal punto di vista del packaging innovativo – il Blanc perlant, ovvero il bianco frizzante in bottiglia da 33 cl. «Un’alternativa alla birra», disponibile anche in versione rosé. L’ennesima riprova di quanto sia moderna e scoppiettante la scena enologica rumena. Al passo coi tempi e pronta a conquistare anche i mercati più evoluti, con vini di qualità assoluta e intuizioni di marketing futuristiche. Prosit.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Sono le province di Salerno e Avellino a regalare i migliori vini bianchi dell’annata 2022 a Campania Stories 2023. Dalla degustazione alla cieca emergono in particolare due vini della cantina Colli di Lapio, oltre a Ettore Sammarco, San Salvatore 1988 e Borgodangelo. Questi i cinque vini degustati alla cieca che superano la valutazione di 90/100.
Leggere note vanigliate sul frutto e sui ricordi di erbe della macchia mediterranea. Un utilizzo ben bilanciato del legno, che esalta il varietale. Ottima persistenza. 95/100
Paestum Fiano Igp Pian di Stio Bio 2022, San Salvatore 1988
Vino molto godibile, pronto e di prospettiva, nonché gastronomico. 92/100
Fiano di Avellino Dop 2022 Borgodangelo
Vino all’inizio di una vita che si preannuncia promettente. 90/100
Fiano di Avellino Dop 2022, Colli di Lapio
Un gran lavoro sui primari. Ottima la persistenza. 93/100
Greco di Tufo Dop Alexandros 2022, Colli di Lapio
Vino che interpreta stilisticamente in maniera moderna il vitigno. 91/100
I BIANCHI DELLA CAMPANIA VENDEMMIA 2022
Brillano in maniera particolare i cinque campioni elencati, ma gli assaggi alla cieca effettuati a Campania Stories 2023 consentono di tirare le somme sull’intera vendemmia 2022 dei vini bianchi campani. Un’annata in cui i viticoltori hanno dovuto fronteggiare la siccità, col rischio di ottenere vini agli antipodi: troppo alcolici, oppure troppo magri; sbilanciati sull’opulenza del frutto, oppure connotati da caratteri verdi, fenolici. In generale, l’obiettivo dell’equilibrio è stato centrato da gran parte dei produttori, a riprova del buon momento del vino campano sulla scena nazionale.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Giornata da incorniciare per la sesta tappa della Tournée des Terroirs che, ieri, ha visto protagonista Sigolsheim e la Nécropole Nationale, uno dei panorami mozzafiato tra i vigneti eroici dell’Alsazia. Più di mille persone si sono radunate all’incrocio tra i Grands Crus Mambourg e Marckrain per assaggiare i vini di 7 vignerons della vallata. L’iniziativa del Conseil Interprofessionnel des Vins d’Alsace, voluta per «aprire al pubblico e democratizzare» i grandi vini alsaziani, partendo proprio dai luoghi in prendono vita, torna il 4 giugno a Molsheim. In agenda, poi, altre 8 tappe lungo i 170 chilometri della Strada del vino dell’Alsazia, fino al 30 luglio (qui il programma completo). Una scusa in più per trascorrere un weekend in Alsazia, immersi tra i vigneti più green della Francia.
Nella regione vinicola situata sulla sponda occidentale del Reno, al confine con Svizzera e Germania – ben collegata con autostrade, aeroporti e trasporto ferroviario, con la bellissima cittadina di Colmar distante 5 ore e mezza da Milano – il 25% delle superfici sono certificate in biologico. Un 50% è in via di certificazione Haute Valeur Environnementale (HVE – livello 3) e si registra una tra le più alte concentrazioni al mondo di produttori biodinamici, certificati Demeter.
«La Tournée des Terroirs – spiega a winemag.it Philippe Bouvet, direttore marketing Conseil interprofessionnel des Vins d’Alsace (nella foto, sopra) – è un’iniziativa unica nel suo genere, la prima ad essere organizzata in Francia. A renderla particolare non è solo la location, ovvero i Grands Crus dell’Alsazia, ma anche il target, che si rivolge a un pubblico trasversale, che va dai professionisti del settore a chi si vuole avvicinare per la prima volta al mondo del vino, insieme alla propria famiglia».
Oltre a tasting e momenti di approfondimento sui singoli Cru, il Conseil Interprofessionnel des Vins d’Alsace organizza in ogni tappa una serie di attività accessibili a tutti, che permettono di (ri)scoprire i vini locali. In mezzo ai vigneti simbolo dell’Alsazia si possono così degustare oltre 400 vini dei produttori che operano nei 51 Grands Crus alsaziani. Sul posto anche spazio per food, animazione per bambini, workshop e dj set, frutto della collaborazione con professionisti “a Km 0”.
L’ALSAZIA E IL SUO VIGNETO “GREEN”: LA SVOLTA DEL CONSEIL INTERPROFESSIONNEL
Tutto ciò – precisa ancora Philippe Bouvet – con un occhio particolare alla sostenibilità, mediante l’utilizzo di pannelli fotovoltaici mobili e riciclo dei materiali già utilizzati in occasioni di grandi fiere come Wine Paris & Vinexpo Paris o Prowine».
Di tutto rispetto il parterre di vignaioli alsaziani che ha aderito all’iniziativa del CIVA. Ieri, a Sigolsheim, erano presenti le cantine Bestheim, Domaine Etienne Simonis, Domaine Maurice Schoech, Domaine Michel Fonne, Domaine Weinbach, Vignoble des 5 sens e Domaine Paul Blanck, con quest’ultimo che si è reso protagonista dell’eccezionale assaggio di una vecchia annata del Grand Cru Mambourg. Un Gewurztraminer classe 1999 in splendida forma, a dimostrazione del grande carattere, anche in termini di longevità, dei Terroirs dell’Alsazia. La prova “provata” che il claim scelto dal CIVA è più che mai azzeccato: “Alsace Rocks!”, ovvero l’Alsazia (e i suoi suoli) “spaccano”. Ed è proprio il caso di dirlo.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Ha subito una battuta d’arresto il “sigillo antifrode” sui vini Igp del Sannio. Dopo i dubbi mossi da Federdoc, che lo considera un potenziale doppione della “fascetta” o “contrassegno di Stato”, riservata sin ora in Italia ai soli vini Dop e Docg, il presidente del Consorzio Vini del Sannio, Libero Rillo, promotore dell’iniziativa, ha predisposto «ulteriori controlli sulla fattibilità legale del provvedimento» pur avendo «già ricevuto l’avallo a procedere da parte del Ministero». Rispondendo a winemag.it dal Vietnam, dove si trova per un viaggio di lavoro, Rillo precisa tuttavia che «il progetto relativo all’Igp Beneventano non è affatto congelato».
«Ci siamo presi ulteriore tempo – spiega – per non danneggiare nessuno e approfondire ulteriormente la questione, ma potremmo partire quando vogliamo». Libero Rillo, ostacolato dalla presa di posizione di Federdoc, rincara la dose: «Dovrebbero farci tutti un plauso, perché siamo stati capaci di rimettere in moto una questione ferma da 7 anni. L’apposizione di un sigillo di garanzia sui vini Igp del Sannio non danneggia nessuno. Anzi, tutela il consumatore. Non mi faccio una ragione dell’accanimento dimostrato da qualcuno dei nostri confronti».
«Le cronache raccontano che ci sono truffe e imbrogli enormi sui vini Igt. Un sigillo di garanzia, così come da noi proposto, avrebbe risultati effettivi contro la contraffazione dei vini a indicazione geografica. Il Beneventano e la Campania potrebbero ergersi a testa d’ariete, come capofila di un’iniziativa imitabile, poi, anche in altre regioni e denominazioni italiane. Una cosa del genere andrebbe lodata, non contrastata». Sono circa 13 i milioni di bottiglie Igp del Sannio potenzialmente interessate, con la Falanghina a farla da padrona.
RILLO SUL SIGILLO ANTIFRODE: BASTONI TRA LE RUOTE AI FURBETTI DELL’IGP
Forse non è chiaro che non si tratta di un provvedimento facile da prendere in un territorio come il nostro – aggiunge il presidente del Consorzio Vini del Sannio – ma siamo stati confortati, sin dalle fasi preliminari, dai positivi riscontri ricevuti dagli altri Consorzi del vino della Campania e da molte grandi aziende, che ci hanno fatto i complimenti. Grazie al sigillo, andremmo a rompere le uova nel paniere a un sacco di aziende poco chiare e lineari sul fronte dell’Igp. Sono tuttora basito dall’avversione di qualcuno nei confronti di un sigillo antifrode, che eviterebbe la moltiplicazione dei pani e dei pesci».
Il sigillo sui vini Igp Beneventano ha tuttavia causato anche problemi interni al Consorzio e nei rapporti politici con le associazioni di categoria, tra cui Confagricoltura Benevento. Sul banco degli imputati, le modalità con le quali Libero Rillo avrebbe scelto di portare avanti l’iniziativa con Coldiretti e Istituto Poligrafico – Zecca dello Stato, senza coinvolgere altre sigle sindacali. Una polemica che ha toccato il suo punto più aspro con la richiesta di dimissioni del presidente del Consorzio, ritirata dopo le rassicurazioni di Rillo. Dopo poche settimane è arrivata la presa di posizione di Federdoc, che sta tuttora sparigliando le carte in tavola.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Doveva essere l’edizione delle certezze ritrovate, in quell’Irpinia dove tutto ha preso vita. Invece, il programma di Campania Stories 2023, all’insegna della parola «sinergia», si è già rivelato ricco di sorprese nella giornata d’esordio, ieri pomeriggio al Castello di Gesualdo, Comune inserito tra i Borghi più belli d’Italia. Tanta commozione tra gli organizzatori e qualche accenno al grande progetto di una Doc Campania che potrebbe costituire la ciliegina sulla torta dello stesso percorso di Campania Stories, format ideato dall’agenzia di comunicazione Miriade & Partners che giunge quest’anno all’ottava edizione, come evoluzione di “Anteprima Taurasi”, “Taurasi Vendemmia”, “BianchIrpinia” e “Terra Mia”.
DOC CAMPANIA SULLO SFONDO
La Doc non viene mai menzionata, ma i rimandi sono molteplici, tra le righe dei vari interventi. Secondo quanto riferito alla stampa italiana e internazionale accorsa in Irpinia, i tempi sarebbero maturi in Campania per un progetto corale, che vedrebbe i produttori riuniti – non è ancora chiaro in che forma e con quali, eventuali rinunce – sotto il medesimo “cappello” di una Denominazione di origine controllata Campania, sul modello del Piemonte o, ancor meglio, della Sicilia. «Consorzi e produttori non hanno mai collaborato come invece fanno oggi», ha sottolineato Miriade & Partners, nell’annunciare peraltro che «Campania Stories 2024 si svolgerà nel Sannio».
Solo un accenno all’argomento anche da parte di uno dei principali promotori della Doc Campania, ovvero l’assessore regionale all’Agricoltura Nicola Caputo. «È un momento magico per il vino campano – ha sottolineato l’esponente della giunta De Luca nel suo video intervento da Bruxelles, dove si trova per impegni istituzionali – e stiamo facendo grandissimi sforzi per avere un maggiore riconoscimento e una maggiore percezione sui mercati». «Riconoscimento» e «percezione» che, come apertamente dichiarato più volte, potrebbero arrivare proprio grazie a una Doc regionale.
CAMPANIA CHIAMA BASILICATA: ECCO “GENERAZIONE VULTURE”
Certo, in un’ottica di potenziali “anteprime regionali”, dovrà forse essere rivisto lo stesso format di Campania Stories, che al momento prevede costi che variano da 500 a 850 euro + Iva (da 1 a 8 etichette) per l’iscrizione dei campioni ai tasting riservati alla stampa di settore nazionale e internazionale (elemento che scoraggia una più ampia partecipazione di cantine campane). Il programma di Campania Stories 2023 entra infatti nel vivo oggi, con gli assaggi delle nuove annate di spumanti e vini bianchi prodotti nelle principali denominazioni campane.
Domani sarà poi il turno dei vini rossi, sempre all’Hotel Villa Calvo – Ristorante La locandina di Aiello del Sabato (Avellino). Oltre 90 le adesioni da tutta la regione alla rassegna organizzata da Miriade & Partners con le aziende partecipanti. Un modo per «celebrare la sinergia tra tutte le componenti del mondo del vino: le cantine campane, Associazione italiana sommelier Ais Campania e Regione Campania». Ma non solo.
Tra le soprese della giornata di esordio di Campania Stories 2023, ancora una volta in un’ottica di espansione del progetto iniziale, si è registrata la presenza di due produttori del progetto “Generazione Vulture” (nella foto, sopra), Elena Fucci e Andrea Piccin (Grifalco). Per la prima volta in 8 edizioni, l’evento targato Miriade & Partners ha dunque aperto le porte a esperienze che superano i confini regionali, per mostrare come «confrontarsi e fare gruppo non può che arricchire».
Campania Dop, ricerca shock: «Un consumatore di vino su due non conosce i vini campani»
Campania Dop, ricerca shock: «Un consumatore di vino su due non conosce i vini campani». Intervento assessore Nicola Caputo a Vinitaly 2023
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
È una crescita qualitativa generalizzata quella dei vini siciliani. A dimostrarlo, con una certa evidenza, sono gli assaggi alla cieca compiuti a Sicilia en Primeur 2023, annuale rassegna organizzata da Assovini Sicilia che raccoglie la quasi totalità delle eccellenze isolane. L’edizione andata in scena dal 9 al 13 maggio tra Taormina e Radicepura ha saputo rendere onore al claim voluto quest’anno dall’entourage del presidente Laurent Bernard de la Gatinais, “Ambasciatori e Custodi di Cultura e Territorio”. Chi più, chi meno, tutte le denominazioni siciliane rivelano l’ottimo lavoro dei produttori al cospetto di un’annata sfidante, dal punto di vista delle insidie climatiche. Oltre alla qualità in netta ascesa, quel che emerge è l’impulso dato dall’istituzione della Doc Sicilia a diversi territori.
Sull’isola, in maniera capillare, da Est a Ovest, da Nord a Sud, sono rinate denominazioni dimenticate (emblematico il caso del Mamertino) e altre stanno man, mano (ri)prendendo forma (su tutte, le maggiori attese si concentrano sull’eterna promessa Marsala). È una sorta di moto d’orgoglio “localista” quello scaturito dalla formalizzazione della Doc regionale, avvenuta il 22 novembre 2011. Undici anni in cui la viticoltura siciliana è cambiata radicalmente. Perdendo ettari (e non pochi: 40 mila, solo dal 2008 al 2018). Puntando su comunicazione e biologico (42 mila ettari “sostenibili” su 110 mila non sono pochi, anche se il “bio” è un dovere in regioni baciate da Dio come la Sicilia).
Riposizionandosi sui mercati, ben al di là degli sforzi compiuti “privatamente” dalle tante cantine-brand presenti sull’isola (Planeta, Donnafugata, Tasca d’Almerita, Florio e Pellegrino per citarne solo alcune). Partendo dai territori e dai terroir (il sempre più trainante Etna, su tutti). E, non ultimo, proponendosi con rinnovato orgoglio come meta per gli enoturisti nazionali e internazionali, senza il timore reverenziale di dichiarare – apertamente, come ha fatto il presidente Assovini Laurent Bernard de la Gatinais – che «il modello è la California», per le vincenti strategie di marketing dell’accoglienza adottate dallo stato Usa», da coniugare e rimodellare «sull’unicità e sulla ricchezza del patrimonio storico, culturale, archeologico e produttivo siciliano».
SICILIA EN PRIMEUR 2023: BENE GRILLO, NERO D’AVOLA, ZIBIBBO E INSOLIA
Quanto ai calici, con la vendemmia 2022, la Sicilia si conferma isola-continente del vino per tutte le stagioni. Grillo e Nero d’Avola risultano in grande spolvero in tutti gli angoli della regione. Stessa sorte per Carricante, Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio, i vitigni principali dell’Etna Doc. Sempre più chiara – ed è un’altra gran bella notizia – la profilazione dell’Insolia / Inzolia che perde – nella maggior parte dei casi – i tratti verdi e duri che ne caratterizzavano il profilo, nelle annate precedenti.
Una varietà che ha ottime chance di potersi ritagliare spazi di mercato in qualità di “Sauvignon siciliano“, per i suoi tratti aromatici ed erbacei. Nuova vita anche per lo Zibibbo. Nella sua terra d’origine, l’isola di Pantelleria, si registra una crescita esponenziale degli spumanti e dei vini fermi, rispettivamente del 68 e del 25% rispetto al 2018. Il tutto, senza che il Passito di Pantelleria ne risenta più di tanto. Cresce, anzi, anche lui, del 10% rispetto a 5 anni fa, secondo i dati forniti a winemag.it dal presidente del Consorzio, Benedetto Renda.
ANTEPRIMA VINI SICILIANI: LA SCOMMESSA PERRICONE
La vera sorpresa è però il Perricone, vitigno autoctono che, dagli assaggi in anteprima a Sicilia en Primeur 2023, risulta quello maggiormente cresciuto dal punto di vista qualitativo. La riscoperta del vitigno da parte di diverse cantine sta dando nuovo lustro alla varietà originaria della Sicilia occidentale, tanto da aprirgli nuove strade e opportunità anche sui mercati internazionali. Ottima e poliedrica l’interpretazione di Assuli, anche se il suo perfetto compimento è nell’interpretazione magistrale della cantina Feudo Montoni, capace di dare del tu a un vitigno burbero, ribelle, spigoloso, per certi versi selvatico, solo apparentemente da addomesticare, in vigna.
Grappolo grosso, buccia spessa. Il Perricone non ha paura delle malattie fungine e sembra voler quasi sfidare la grandine, con la sua attitudine alla maturazione tardiva. Nel calice ha tutte le carte in regola per diventare la “storia nuova” della viticoltura siciliana, capace di farsi amare per i tratti giovanili, fruttati; tanto quanto per il fascino nell’invecchiamento, al pari dei grandi vini rossi. Certo, aiutano vigneti come quello di Fabio Sireci (nella foto con Melissa Muller), a 800 metri sul livello del mare, vero orgoglio del titolare di Feudo Montoni, che è tra i viticoltori siciliani più disposti a scommettere sulle potenzialità ancora nascoste (ai più) del Perricone.
L’ETNA SI RIPOSIZIONA SUI BIANCHI DEL VERSANTE EST
Per una novità, una certezza in trasformazione, senza perdere identità: l’Etna. Sul vulcano siciliano stanno tuttavia cambiando i rapporti di forza tra i versanti. Se fino a ieri era il versante Nord quello più in vista e blasonato, i nuovi trend di consumo – che privilegiano vini bianchi e spumanti rispetto ai vini rossi – stanno dando grande visibilità al versante Est, in cui si trova in particolare il piccolo comune di Milo. I vigneti, che si estendono dai 700 metri sul livello del mare, svettano tutto attorno a piazza Belvedere, punto panoramico del paese di 1.072 abitanti da cui è possibile ammirare Taormina e, addirittura, scorgere il golfo di Catania e la Calabria.
La crescita dell’Etna Bianco Superiore di Milo sta assorbendo, per certi versi, il calo dell’Etna Rosso Riserva (-26,30% nel 2022, rispetto al 2021). Un exploit che ha il volto di Carla Maugeri (nella foto), vignaiola che insieme alle sorelle Paola e Michela ha ridato nuova vita all’azienda di famiglia, proprio a Milo. Al loro fianco, sin dagli esordi nel 2015, l’enologo Emiliano Falsini e l’agronomo Stefano Dini. Due le interpretazioni di “Contrada Volpare” 2021 degustate in anteprima durante il programma di Sicilia en Primeur 2023. Entrambe risultano capaci di abbinare note di erbe montane a una sapidità iodica, marina, unite a ricordi di agrumi come il bergamotto e di frutta a polpa bianca croccante (mela, susina bianca).
“Contrada Volpare Frontebosco” 2021 affina più a lungo in legno grande ed è un vino che esalata il grande potenziale dell’Etna nella produzione di vini bianchi tesi ed elettrici che, con il giusto apporto di terziari, possono diventare ancora più gastronomici e golosi, di gran persistenza aromatica. Vini che nascono da un vero e proprio museo a cielo aperto, frutto di un lavoro che Carla Maugeri definisce di «ristrutturazione conservativa». Il riferimento è al colpo d’occhio offerto dagli 83 terrazzamenti che circondano il caseggiato, a Milo, donando colore ai 2,8 chilometri di muretti a secco in pietra lavica nera che si snodano nei 7 ettari di proprietà.
ETNA DOC: LA CRESCITA DEGLI SPUMANTI E LA SCELTA DI BENANTI
Una terra, l’Etna, che invita oggi a investire (e a scommettere) sulla crescita internazionale di bianchi e spumanti da uve autoctone. Lo dimostra anche l’ultimo progetto di Mario Piccini, patron della «famiglia del vino toscano» che sul vulcano detiene la tenuta Torre Mora. È da poco sul mercato lo Spumante Metodo Classico Rosé 2018 “Chiuse”, prime 3 mila bottiglie di Nerello Mascalese in purezza vinificato in rosa, dosaggio zero. Quarantotto mesi sui lieviti e sboccatura a febbraio 2023 per una bollicina destinata a raccontare il vulcano siciliano in giro per il mondo, accanto ad altri fulgidi esempi.
Il riferimento è al “Sosta Tre Santi” di Cantine Nicosia, o a “Noblesse” e “Lamorémio” di Benanti, cantina che tuttavia ha scelto di non rivendicare la Denominazione di origine controllata (Doc) per i suoi spumanti, riservata invece ai suoi grandi bianchi e rossi. «L’Etna Doc è piccola – spiega Salvino Benanti (nella foto) a winemag.it – contando solo 1.200 ettari. Il mio timore è che la crescita della categoria “spumanti” finisca per mangiarsi “quote uva” utili alla produzione di vini fermi di qualità. Peraltro, l’Etna non ha storicità o reputazione nella produzione di sparkling. Fosse stato per me, avrei lasciato fuori gli spumanti dalla Denominazione, sperimentando su vigneti di quota non inclusi nel territorio della Doc».
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
EDITORIALE – Mentre i fondi europei stanno dando una nuova centralità enologica (non del tutto ancora meritata) a Paesi dei Balcani e dell’ex blocco sovietico, in buona parte spesi dalle organizzazioni locali per foraggiare la stampa internazionale di settore e incoraggiarla a scrivere di “quanto siano meravigliosi” i vini oggi prodotti in quelle zone (non saranno sfuggiti ai più informati alcuni “titoloni” di pubbliredazionali apparsi, per esempio, su Decanter, oppure lo spazio crescente conquistato a Prowein da queste nazioni, con la Germania e i suoi scrupolosi intermediari a proporsi come mercato chiave dell’export Ue) è bene che gli amanti del nettare di Bacco non perdano di vista una regione vinicola su tutte in Europa. Una tra le più note, che continua a produrre vini di assoluta qualità, mai abbastanza glorificati in Italia e nel panorama mondiale e oggi da (ri)scoprire: la Loira.
Gli importatori italiani di Borgogna e Bordeaux, per non parlare di Champagne, abbondano ma non sempre riescono a convincere in termini di profondità dell’assortimento. Il motivo è che la richiesta è alta e c’è un po’ di spazio per tutti, anche per gli improvvisati. Trovare invece vini della Loira in Italia, specie nelle carte dei ristoranti, è cosa ben più complicata. Eppure questa regione andrebbe collocata, a mio avviso, almeno tra le prime tre da scoprire (o approfondire) dentro e fuori dal calice, a partire da questo 2023.
Il motivo risiede nella moderna raffinatezza della produzione dei Vignerons della Loira, capaci di sfornare vini rossi leggeri (nuovo, vero trend internazionale che sta man, mano seppellendo l’abbondare delle sovra-concentrazioni, nonché l’uso smodato delle barrique di primo passaggio, vere e proprie serial killer di primari e varietali) tanto quanto vini bianchi freschi, minerali, verticali (altro trend) e spumanti – i Crémant – di ottima levatura (valide alternative ai più costosi Champagne).
LOIRE MILLÉSIME 2023: L’ANALISI DELL’ANTERPIMA
A Loire Millésime 2023, l’anteprima vini organizzata da InterLoire – Interprofession des Vins du Val de Loire che ha visto protagonista la stampa internazionale tra il 25 e il 29 aprile scorso, la Loira ha confermato che per essere tra i migliori basta, a volte, rimanere se stessi. Soprattutto se a cambiare sono gli altri. Un cambiamento dettato principalmente dalle novità del clima. Le alte temperature stanno letteralmente “cuocendo a puntino” diverse denominazioni internazionali, in cui si assiste – tra gli altri fenomeni negativi – a un’impennata dei valori dell’alcol che contribuisce ad allontanare i consumatori da determinate tipologie, se non a costringerli a puntare su bevande diverse dal vino.
Il climate change sta invece – per molti versi – avvantaggiando la Loira, regione connotata per lo più da un clima fresco e che del “Cool Climate” – formula ormai divenuta vera e propria leva di marketing internazionale da parte di cantine e territori più avveduti e all’avanguardia – fa e farà sempre più un cavallo di battaglia. Basti pensare che InterLoire ha messo “l’acqua” al centro della sua campagna di promozione negli Usa e nei mercati target europei (tra cui non figura, per ora, l’Italia) nella duplice presenza “rinfrescante” dell’Oceano – soprattutto a ovest di Nantes, patria degli straordinari Cru del Muscadet – e dello stesso fiume Loira, che attraversa la regione contribuendo al 25% delle risorse idriche dell’intera Francia. Condizioni ideali, insomma, per reggere – anche in futuro – all’urto di stagioni calde, secche e siccitose, senza che i viticoltori locali debbano rivoluzionare di molto le pratiche agronomiche o di cantina.
CABERNET FRANC FAVORITO DAI CAMBIAMENTI CLIMATICI IN LOIRA
Dell’aumento delle temperature medie si avvantaggia soprattutto il Cabernet Franc, varietà simbolo della Loira che, in occasione della vendemmia 2021 proposta in anteprima dai produttori a Loire Millésime 2023, si presenta succoso più che mai, sapido (a volte addirittura bilanciatamente “salato”), golosissimo nelle migliori espressioni primarie del frutto.
Si passa dalla polpa rossa croccante tipica dei “leggerissimi” Saint-Nicolas-de-Bourgueil – vini tendenzialmente longilinei e slanciati nell’espressione del millesimo, seppur mai banali – alle più strutturate versioni “complesse” di Saumur-Champigny, l’Aoc che più di tutte concentra in 1.500 ettari di vigneto l’impressionante versatilità del Cabernet Franc della Loira. Non è raro trovare nella stessa gamma di una cantina vinslégers e vinscomplexes, tipologie accomunate da un’immensa “approcciabilità“, garantita dall’immancabile agilità di beva.
GLI CHENIN DI SAVENNIÈRES: UNA GARANZIA
Un motivo in più per (ri)scoprire la Loira è la versatilità della produzione. Se le modernissime interpretazioni del Cabernet Franc potrebbero rivelarsi una scoperta per il mercato italiano – incentivando così i produttori a piantare Cabernet Franc nelle aree più adatte, scommettendo su vini “croccanti”, in pieno stile francese, segmento purtroppo poco presidiato al momento nel Bel Paese – di una maggiore notorietà godono Chenin e Sauvignon Blanc. Soprattutto per quest’ultimo, la notizia è che non bisogna per forza addentrarsi negli ormai noti Sancerre o Pouilly-Fumé per trovare assoluto appagamento dei sensi, in zona. Ma andiamo con ordine.
Lo Chenin è la terza varietà più piantata in Loira, diffusa soprattutto ad Angers e Touraine. I vini più verticali e minerali, specchio fedele dei suoli, trovano casa nella Savennières Aoc, a sud di Angers, sulle rive del fiume. Solo 150 gli ettari complessivi, per lo più arroccati su speroni rocciosi a picco sul fiume. Rese molto basse e terreni composti da scisti di arenaria e rioliti vulcaniche donano caratteristiche uniche allo Chenin. E per chi è a caccia di una longevità maggiore, ci sono i Savennières Roche aux Moines (veri mattatori a Loire Millésime 2023) e i Coulée de Serrant.
TOURAINE OISLY E CHENONCEAUX: L’EVOLUZIONE DEL SAUVIGNON BLANC
Anche sul Sauvignon Blanc della Loira si potrebbero scrivere pagine e pagine, ma è sul nuovo capitolo della varietà che è giusto concentrare la massima attenzione. La nuova “frontiera” si chiama Touraine Oisly, considerata “The cradle of Sauvignon Blanc“, ovvero la “Culla” del vitigno. Siamo a ovest di Montrichard, nella parte più orientale dell’Aoc Touraine, su un areale di soli 35 ettari allevati ad oggi da 7 viticoltori. In soli 12 anni (l’Aoc Oisly è stata istituita nel 2011 e riguarda solo le migliori parcelle della Sologne Viticole) il Sauvignon qui ha trovato un profilo unico, che mette al centro finezza ed eleganza, giusta concentrazione del frutto e sapidità, costituendo ormai una validissima alternativa ad Aoc più note (e costose).
Stesso discorso vale per un’altra denominazione in crescita, istituita nel 2011 all’interno della Aoc Touraine, proprio come quella di Oisly. Al centro, ancora una volta, il Sauvignon Blanc: si tratta della della Touraine-Chenonceaux, dal nome che richiama lo splendido Château della foto di copertina. I suoli, ricchi di calcare e argilla silicea, assicurano centralità e croccantezza al frutto. Nonostante la buona concentrazione aromatica, i vini base Sauvignon qui prodotti risultano sempre freschi, connotati da un’ottima agilità di beva e gastronomicità. Nelle prossime settimane, come per le altre denominazioni, i migliori assaggi a Loire Millésime 2023.
SEMPRE PIÙ PROFILATI I CRU DEL MUSCADET
Una lunga tavolata, con i produttori e i loro vini schierati in bell’ordine. Alle loro spalle, un roll-up che mostra il nome e il suolo di ogni cru. Si sono presentati così alla stampa i Vigneron di Nantes, per dare ulteriore (meritatissimo) risalto ai loro Crus Communaux, i Cru del Muscadet. Più passano gli anni e più i produttori di questo areale francese riescono a dare un senso a quello che, solo apparentemente, potrebbe sembrare un “abuso di zonazione”.
I vini provenienti dai differenti crus communaux del Muscadet hanno un’identità singolare precisa, al netto di qualche somiglianza che potrebbe avvicinare l’espressione di un cru a quella di un altro. Dieci quelli identificati, così riassumibili grazie alle impressioni degli assaggi. Per le versioni più piene, stratificate e “potenti”: Clisson, Gorges, Mouzzillon-Tillières, Monnières-Saint Fiacre e Vallet. Per i crus del Muscadet di maggiore equilibrio e rotondità: Le Pallet, La Haye-Fouassière, Goulaine, Champtoceaux, La Haye-Fouassière e Château-Thébaud.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
EDITORIALE – Ho sempre pensato che quando una parola è troppa e due sono poche, la miglior scelta è il silenzio, perché le parole devono essere sempre utili. Viva il Collio (Bianco), dunque, purché non se ne parli. A convincermi sono stati gli ultimi quattro giorni trascorsi in Friuli Venezia Giulia, per un press tour dal sapore poco italiano e molto internazionale (per merito del nuovo ufficio stampa guidato dalla sempre ottima Federica Schir). Si è trattato di una di quelle quelle rare occasioni in cui i giornalisti invitati si sono sentiti liberi di esprimere opinioni sincere al cospetto dei produttori (anzi, sono stati invitati a farlo) in un settore che va in tutt’altra direzione (se non lodi e imbrodi Consorzi e aziende ospitanti non vieni più invitato e tanti, tra cui non figura ovviamente il sottoscritto, si sono piegati a questa perversa logica che ha ormai reso acritica la critica italiana di settore).
Certo, la premessa è che bisogna avere qualcosa da dire (garbatamente, si sottintende). E che quel “qualcosa” debba essere presumibilmente sensato. Il mio invito al silenzio sul Collio Bianco, indirizzato ai produttori locali, è dettato dalla tormentata storia di questa “tipologia”, che riguarda aspetti a mio avviso secondari all’interno di una denominazione ormai ben nota a livello nazionale e internazionale, come quella friulana. Esperti e meno esperti collocano, a buona ragione, il Friuli Venezia Giulia tra i migliori produttori nazionali di vini bianchi (spesso ci si dimentica dei grandissimi rossi friulani, ma questa è un’altra storia!).
I più “studiati” sanno poi che il “Collio” (o “Collio Bianco”) è, da disciplinare, la tipologia «riservata ai vini bianchi ottenuti da uve provenienti dai vigneti composti, in ambito aziendale, da una o più varietà del corrispondente colore tra i vitigni Chardonnay, Malvasia istriana, Picolit, Pinot bianco, Pinot grigio, Ribolla gialla, Riesling renano, Riesling italico, Sauvignon e Friulano / Tocai friulano, Müller Thurgau e Traminer aromatico», con gli ultimi due che, tuttavia, «non possono superare il 15% del totale».
“UVE” E “COLLIO (BIANCO)”: UN ERRORE
Quanto all’etichettatura, scrivere “Bianco” accanto alla parola “Collio” è facoltativo, mentre è obbligatorio scrivere “Rosso” nella versione che interessa uvaggi di varietà a bacca rossa. Un elemento non secondario, quest’ultimo, nel mio ragionamento sull’opportunità di promuovere il Collio (Bianco) in maniera unitaria, indipendentemente dalle scelte aziendali (alla base del mio “invito al silenzio”). Sul territorio, di fatto, si è riaperta da ormai due anni l’infinita querelle sull’opportunità di utilizzare solo uve autoctone per la produzione del Collio Bianco, considerato a buona ragione il vino bandiera del territorio (caduto in disgrazia, negli anni – va detto – per la scelta di troppi di utilizzare “uve di scarto” per dare vita al blend).
Quattro produttori, a partire dal 2021 (oggi sono 7) hanno infatti deciso di iniziare a pubblicizzare il loro progetto che vede protagoniste le varietà autoctone, anche sull’etichetta: “Vino da uve autoctone“, si legge sotto la scritta “Collio“. A mio avviso, un errore. Dagli assaggi effettuati in passato, nonché dai nuovi, numerosi calici degustati in occasione dell’ultimo press tour (la maggior parte dei quali alla cieca), il Collio si è confermato una delle regioni vinicole italiane dalla più marcata identità intrinseca. Una di quelle regioni in cui il territorio vince sempre sulla varietà, per certi versi plasmandola a propria immagine somiglianza.
Mineralità, sapidità, tensione acido-fresca e una certa struttura “rocciosa” di fondo, fanno dei vini bianchi del Collio dei veri e propri cecchini, anche al cospetto di rinomatissime denominazioni internazionali. I vini del Collio, oggi, hanno tutte le carte in regola per sfondare, con la giusta promozione e posizionamento, in tutti i principali mercati internazionali (dove, tra l’altro, qualche scandalo ne ha offuscato l’immagine). Dotati di una bottiglia consortile unica, la “Collio Collio”, non sono generalmente economici; ma costituiscono esattamente quello che cerca il consumatore più accorto al giorno d’oggi: vini autentici, specchio di terroir e territori unici. Non di “uve uniche”.
COLLIO DA UVE AUTOCTONE? PRIMA DECIDA, UNITO, IL TERRITORIO
Quel terroir è il Collio, al quale si sono ormai “inchinate” tutte le varietà previste dalla base ampelografica del disciplinare. Vince sempre lui, il suolo, che emerge sempre più, col trascorrere degli affinamenti, dando tratti unici e riconoscibili, tanto ai vini varietali quanto agli uvaggi. Nominare la parola “uva” su un’etichetta di “Collio” / “Collio Bianco” significa fare un sgambetto a un suolo che domina intrinsecamente la varietà. Vuol dire fare 10 passi indietro sul fronte del marketing territoriale, costringendo il consumatore a interrogarsi su quale “Collio” / “Collio Bianco” sia migliore (o peggiore) e non – come da obiettivi dei promotori del “Collio – Vino da uve autoctone” – sia “più territoriale”. Perché entrambi lo sono!
Intendiamoci, però. Quella dei 6 vignaioli del “progetto autoctoni” (Cantina Produttori Cormòns, Edi Keber, Terre del Faet, Muzic, Fabian Korsic e Maurizio Buzzinelli) è una campagna buona e giusta, mossa (voglio sperare e credere) dal solo desiderio di tornare al “Collio” originario, frutto dell’assemblaggio delle 3 uve locali Ribolla Gialla, Tocai Friulano e Malvasia istrianapresenti nello stesso vigneto, come da disciplinare antecedente le modifiche degli anni Novanta, che hanno dato il via libera al congiunto utilizzo delle varietà internazionali.
Per tornare a parlarne, magari incontrando a tal proposito la stampa nazionale e internazionale – ma solo a cose fatte – sarebbe buono e giusto trovare prima la quadra sul territorio. Decidere, cioè, una volta per tutte, se il “Collio” va bene così com’è, o se il “Collio” (Bianco) debba essere solo un “Vino da uve autoctone”. Parlarne, oggi, così, è inutile. Controproducente. Sbagliato. Confusionario. A maggior ragione se, persino nella gamma dei proponenti, sono presenti entrambe le “versioni”. Viva il Collio (Bianco), dunque. Purché non se ne parli, prima di aver deciso – tutti insieme, in Collio – cos’è. Prosit.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
È pace tra il Consorzio Vini Valpolicella e Famiglie Storiche (un tempo “dell’Amarone”). Attraverso un comunicato stampa congiunto anticipato a winemag.it, Christian Marchesini e Pierangelo Tommasi annunciano di «avere definito ogni contenzioso tra loro pendente avente ad oggetto l’utilizzo della Docg Amarone della Valpolicella». I presidenti del Consorzio Vini della Valpolicella e delle Famiglie Storiche «condividono l’obiettivo di agire, ciascuno per quanto di propria competenza, per lo sviluppo della Docg “Amarone della Valpolicella” e delle altre denominazioni della Valpolicella – si legge nella nota inviata anticipata a winemag.it – favorendo un clima di equa competizione tra produttori, rispetto reciproco, collaborazione e dialogo».
Non solo. I due organismi «ribadiscono l’importanza della difesa della Docg Amarone della Valpolicella e delle altre denominazioni del territorio e della loro promozione in Italia e all’estero, con l’obiettivo di favorire la loro conoscenza e di consolidarne il successo, nell’interesse di tutta la collettività». L’ultima operazione di promozione non congiunta risale alle scorse settimane, con il Consorzio impegnato principalmente in Italia e Asia e le Famiglie Storiche negli Stati Uniti, tra New York, Houston e Miami.
«Sono molto contento della positiva soluzione di una querelle legale che andava avanti dal 2015 – commenta in esclusiva a winemag.it Christian Marchesini – che ha visto due sentenze favorevoli al Consorzio. Devo ringraziare, in particolare, le aziende socie che hanno dato un contributo determinante alla fine del contenzioso, rinunciando a proseguire la causa nei confronti delle Famiglie Storiche con la possibilità di chiedere un risarcimento per la riconosciuta “concorrenza sleale“. Queste aziende sono Cantina Soave, Cantina Sociale Colognola ai Colli, Sartori Vini, Roccolo Grassi, Corte Figaretto, Corte Rugolin e Zýmē».
LA FRATTURA TRA FAMIGLIE STORICHE E CONSORZIO VALPOLICELLA
Si ricompone così una spaccatura nata nel 2009, con la costituzione di un associazione di 10 produttori di Amarone della Valpolicella, il cui numero è poi salito a 13. Si tratta di Allegrini, Begali, Brigaldara, Guerrieri Rizzardi, Masi, Musella, Speri, Tedeschi, Tenuta Sant’Antonio, Tommasi, Torre D’Orti, Venturini e Zenato. L’auspicio del Consorzio è ora quello che le aziende tornino sotto l’egida dell’ente, «unica istituzione riconosciuta per la promozione delle eccellenze territoriali», ricorda ancora il presidente Christian Marchesini.
Tornerebbero così nel coro consortile 800 ettari di superficie vitata atta a produrre Amarone, capaci di generare un fatturato aggregato di 81 milioni di euro, pari al 23% del fatturato totale del vino Amarone Docg. Il tutto grazie a una produzione di 2,3 milioni di bottiglie, pari al 15% dell’Amarone venduto annualmente. Il prezzo medio delle bottiglie di Amarone delle Famiglie Storiche è di 35,20 euro.
Il Consorzio Vini Valpolicella agisce per conto di oltre 2400 aziende tra viticoltori, vinificatori e imbottigliatori su un territorio di produzione che si estende in 19 comuni della provincia di Verona, dalla Valpolicella fino alla città scaligera che detiene il primato del vigneto urbano più grande dello Stivale. Con oltre l’80% di rappresentatività, il Consorzio presieduto da Christian Marchesini tutela e promuove la denominazione (Amarone della Valpolicella Docg, Recioto della Valpolicella Docg, Valpolicella Ripasso Doc e Valpolicella Doc) in Italia e nel mondo.
«Siamo soddisfatti di questo risultato per cui lavoravamo da tempo – commenta Pierangelo Tommasi – e che sarebbe potuto arrivare prima ma che a causa della burocrazia si è fatto attendere più del previsto. Un percorso di dialogo con il Consorzio che ho ereditato dall’amico Alberto Zenato, che ha svolto un grande lavoro prima di me, e che ho avuto il piacere di portare a termine. Oggi si apre una nuova pagina e la volontà sia per il Consorzio che per Famiglie Storiche è quella di lavorare con rispetto reciproco e per il bene della denominazione. L’associazione Famiglie Storiche continuerà a esistere perché ormai da 14 anni condivide valori e idee, oltre ad avere la proprietà della storica Antica Bottega del Vino».
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Qual è il Paese che importa più vino biologico italiano? A rispondere è un approfondimento di Nomisma per Ice Agenzia e FederBio, secondo il quale è in assoluto la Germania il mercato di destinazione principale per il vino bio Made in Italy. Il 67% delle cantine interessate dalla survey – 110 in totale – lo indica come primo mercato di riferimento, seguito dai Paesi Scandinavi (61%). Al di fuori dei confini comunitari la fanno da padrone Svizzera, Stati Uniti e Regno Unito, seguiti da Canada e, sorprendentemente, da un Giappone che si trova dietro la pole position.
Se si va poi a vedere l’interesse da parte dei consumatori per i vini a marchio biologico, si nota come la domanda potenziale sia enorme e coinvolga tutti i principali mercati mondiali. A testimoniarlo sono i risultati di due ulteriori indagini che Nomisma ha condotto negli ultimi tre mesi sui consumatori scandinavi e giapponesi. Lo scopo è stato quello di mappare i comportamenti di consumo di vino e le potenzialità del bio e del binomio bio/Made in Italy su ciascun mercato.
IL VINO BIOLOGICO ITALIANO IN SVEZIA (E DANIMARCA)
Sulla base dei dati forniti dal Systembolaget, il monopolio svedese che gestisce le vendite di bevande alcoliche, un quarto delle vendite di vino è appannaggio di quelli a marchio bio, per un valore di 600 milioni di euro nel 2021 e un tasso di crescita medio annuo del +15% dal 2014 al 2021. In tale scenario, l’Italia è leader assoluto con un peso sul totale delle vendite di vino bio del 42% sia a valore che a volume.
Un successo da ricondurre in primis all’ottimo posizionamento di alcuni territori: Veneto (grazie al Prosecco in particolare, che rappresenta la denominazione a marchio bio più venduta in Svezia), Sicilia e Puglia, regioni che nel complesso intercettano ben il 24% delle vendite di vino a marchio biologico in Svezia. Il vino italiano infatti gode di un’ottima reputazione sul mercato scandinavo e l’Italia figura al primo posto tra i Paesi che producono i vini di maggiore qualità secondo il consumatore.
Il forte apprezzamento nei confronti del vino Made in Italy trova riscontro anche con riferimento al biologico. Dall’indagine condotta da Nomisma tra gennaio e febbraio 2023 su un campione rappresentativo di consumatori in Svezia e Danimarca (18-65 anni), è emerso come ben il 38% degli acquirenti scandinavi beva vino a marchio bio di origine italiana e più del 20% lo fa con cadenza settimanale. La propensione al consumo di vino bio Made in Italy cresce tra le famiglie benestanti (tra chi ha redditi medio-alti la quota di user di vino bio italiano cresce fino al 55%) e tra quelle in cui vi sono componenti con età compresa tra i 30 e i 44 anni.
Alla luce di queste rilevazioni, le opportunità per le aziende vitivinicole italiane sul mercato scandinavo sono ampie: a conferma di ciò, il 46% dei consumatori sarebbe difatti interessato a provare un nuovo vino italiano a marchio bio mentre il 35% sarebbe disposto a spendere un differenziale di prezzo superiore al 5% rispetto a un vino italiano non bio. Gli indecisi (34%) sarebbero attratti, oltre che da promozioni e prezzi bassi, anche da brand famosi, da informazioni sul basso impatto ambientale e dalla presenza di confezioni eco-sostenibili.
IL VINO BIO ITALIANO IN GIAPPONE
Il Giappone è il secondo mercato in Asia per consumo di vino (3,4 mln di ettolitri nel 2022) e rappresenta un mercato indubbiamente interessante per i produttori italiani visto che è il quinto importatore mondiale di vino – dopo Stati Uniti, UK, Germania e Canada – con un valore degli acquisti dall’estero pari a 1,7 miliardi di euro. Tra i vini stranieri i consumatori giapponesi mettono al primo posto quelli francesi, lasciando all’Italia la seconda posizione quando devono indicare i Paesi che producono vini di maggiore qualità.
Dalla survey condotta da Nomisma tra febbraio e Marzo 2023 sui consumatori giapponesi (18-65 anni), emerge comunque un forte potenziale per il nostro vino bio: se è vero, infatti, che ad oggi quasi un consumatore di vino su due (il 45% del totale, per la precisione) ha acquistato o ordinato un vino italiano almeno in un’occasione nell’ultimo anno, la quota di chi ha avuto modo di sperimentare il binomio biologico/Made in Italy per il vino è stata solo del 10%. Grossi spazi di crescita, dunque, per il vino bio italiano, che dal 1° ottobre 2022 può contare sulla certificazione biologica “Jas”, già conosciuta dal 41% dei consumatori giapponesi di vino.
Complessivamente il settore del vino biologico in Giappone, pur essendo ancora di nicchia, presenta secondo Nomisma «ampi margini di crescita e potenziali opportunità». Più di un terzo dei consumatori giapponesi sarebbe infatti disposto ad acquistare un nuovo vino bio made in Italy se lo trovasse nei punti vendita in cui effettua abitualmente la spesa alimentare mentre gli indecisi (41% del totale) sarebbero attratti oltre che da prezzi più accessibili, anche da una maggiore comunicazione sui canali tradizionali come radio/tv. Infatti, tra i principali fattori che oggi frenano l’acquisto di vino biologico Made in Italy vi sono la scarsa informazione sulle caratteristiche distintive dei prodotti biologici italiani ma anche la carenza di referenze sugli scaffali della grande distribuzione.
IL VINO BIOLOGICO ITALIANO
Le superfici bio vitate risultano in continua crescita tra i principali produttori europei. Il peso del biologico sul totale è triplicato in 10 anni. Il dato emerge dalla piattaforma online di dati e informazioni per l’internazionalizzazione del vino biologico Made in Italy curata da Nomisma e promossa da ICE Agenzia e FederBio. Il vino biologico è un fenomeno tutto europeo, almeno sul fronte produttivo. In questo scenario, con 126 mila ettari di vite con metodo biologico nel 2021, l’Italia detiene il primato per incidenza di superficie vitata biologica (21% del totale).
La concorrenza europea è però agguerrita, tanto che nel giro di un decennio le superfici bio in Italia sono cresciute del +141% (2020 vs 2010) contro il +148% degli spagnoli e ben il +218% della Francia. Rilevante anche il ruolo del vino bio italiano sui mercati internazionali: 626 milioni di euro il valore dell’export di vino biologico italiano nel 2022 secondo le stime Nomisma (+18% rispetto al 2021) e un peso sul totale dell’export vitivinicolo italiano (bio + convenzionale) pari all’8%.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Riflettori puntati sulla qualità dell’annata 2022 a Sicilia en primeur 2023, l’anteprima vini siciliani organizzata da Assovini. In attesa di pubblicare i migliori assaggi di winemag.it effettuati alla cieca, ecco il focus sulle caratteristiche dei vini ottenuti dall’ultima vendemmia. «L’annata 2022 – ha spiegato Mattia Filippi, enologo e fondatore della società di consulenza agronomica ed enologica Uva Sapiens – è stata una delle più eterogenee degli ultimi anni, qualitativamente molto ricca e diversificata, come si può riscontrare dall’eleganza, dalla maturità fenolica e fragranza dei vini prodotti».
I territori viticoli siciliani, estremamente diversi per peculiarità orografiche, ampelografiche e microclimatiche – ha aggiunto Filippi – hanno vissuto una buona annata produttiva, nella media degli ultimi anni, con un incremento nella ricchezza delle diverse espressioni qualitative per le diverse varietà».
Antonio Rallo, presidente del Consorzio di Tutela Vini Doc Sicilia, ha poi ripercorso la storia del Consorzio Doc Sicilia sin dal 2012, anno della sua fondazione. «La ricchezza dell’isola è data da un clima invidiabile ma anche da un territorio che presenta più di 70 varietà autoctone e 42 mila ettari di viticoltura sostenibile. Tra i nostri impegni prioritari c’è quello di dedicarci alla conservazione della biodiversità generata da 3 mila anni di viticoltura nell’isola».
LA VENDEMMIA 2022 IN SICILIA
La vendemmia 2022 ha avuto una produzione inferiore dell’8,9% rispetto alla media degli ultimi 13 anni. La minore produzione è in parte legata alla diminuzione degli ettari vitati. Secondo le informazioni fornite da Assovini, l’isola ha perso tra il 2008 e il 2018 circa 40 mila ettari vitati, arrivando oggi a un’estensione totale del vigneto di circa 110 mila ettari. La Sicilia si è comunque confermata nel 2022 tra le regioni vitivinicole più produttive in Italia, in linea con i livelli degli ultimi 10 anni, con una resa media di 67 q.li/ha. Fa eccezione la zona Sud Est, in cui si è registrato un calo della produzione del 29,2% rispetto alla media.
Sul fronte delle temperature e della somma termica, la primavera è stata leggermente più fredda in Sicilia e ha determinato un ritardo medio di 2 giorni sul germogliamento. L’inizio dell’estate si è rivelato più caldo della media, ma con una fase di fioritura e maturazione ottimale. Nel 2022, sempre secondo il report presentato da Mattia Filippi durante il convegno conclusivo di Sicilia en Primeur 2023, le piogge del periodo vegetativo hanno rappresentato il 37% delle piogge annuali. Buone notizie dall’indice SPI riferito al rischio siccità, che evidenzia «una situazione stabile». Le ottime piogge autunno/primaverili hanno anzi garantito «una situazione idrica molto buona, grazie alle risorse di acqua accumulate nei suoli».
BASI SPUMANTI SICILIA: 5 GIORNI DI ANTICIPO NELLA RACCOLTA
La stagione primaverile leggermente più fredda ha generato un ritardo nella ripresa vegetativa di 3-7 giorni nelle diverse zone del trapanese. Maggio, giugno e luglio sono stati caratterizzati da temperature massime più alte della media, ma anche da una fase vegetativa contenuta che ha permesso di affrontare le anomali climatiche, soprattutto l’assenza di precipitazioni a giugno, luglio e agosto.
La vendemmia è iniziata i primi di agosto, con lo Chardonnay per le basi spumante, in media 5 giorni in anticipo rispetto al 2021. La vendemmia del Grillo è stata nella media storica, mentre il Catarratto è stato raccolto in ritardo di 6 giorni. La vendemmia delle uve rosse è iniziata a fine agosto con il Nero d’Avola e si è conclusa con il Perricone, a fine Settembre nelle aree collinari del palermitano.
«Le uve nere precoci, così come quelle derivanti da viti giovani – ha sottolineato Filippi – hanno avuto leggeri sintomi di blocco della maturità fenolica, con estrazione degli antociani più limitata durante le fasi di macerazione fermentativa. Le uve nere e bianche raccolte dalla prima decade di settembre in poi hanno goduto, al contrario, di condizioni ideali, con escursioni termiche nettamente sopra la media e precipitazioni che hanno permesso alle viti di produrre uve toniche, con grande maturità fenolica e spiccata aromaticità».
SICILIA OCCIDENTALE: TRAPANI E PALERMO
Il Lucido – nome adottato nel 2018 per il Catarratto – è la varietà che ha resistito meglio alle anomalie climatiche, segnando una settimana di ritardo alla raccolta. Un’ottima annata, con una buona acidità e un’impronta varietale elegante e di tono internazionale.
Il periodo vegetativo del Grillo è stato regolare e ha portato ad un’ottima maturazione, con produzioni medie inferiori anche del 15%, un buon equilibrio acido e un ottimo profilo aromatico molto interessante. Tempestività di raccolta fondamentale.
Capitolo Perricone. Il lungo periodo vegetativo ha permesso di avere una perfetta evoluzione aromatica e fenolica. L’enologo Mattia Filippi lo ha definito «Slow vine». Syrah incasellato invece tra le «garanzie» della viticoltura siciliana. La varietà ha «un’ottima capacità di adattabilità all’annata» e ha raggiunto in occasione dell’annata 2022 «un’ottima complessità fenolica ed aromatica, con più frutta che spezia».
SICILIA CENTRO-SUD: AGRIGENTO E CALTANISSETTA
L’area della Sicilia centro-meridionale è stata caratterizzata da una stagione primaverile mite, con pochi fenomeni piovosi e sotto la media. Andamento vegetativo regolare e contenuto durante tutta la stagione: estate con temperature più alte della media, ma le buone escursioni termiche e l’ottima umidità notturna ha favorito la maturazione delle uve. La vendemmia è iniziata i primi di agosto, con la raccolta dello Chardonnay. La vendemmia delle uve nere è iniziata a inizio settembre con il Nero d’Avola e il Syrah.
Chardonnay «sempre molto performante e plastico», in questa macro zona. L’equilibrio vegetativo durante la stagione ha contribuito a produrre vini molto equilibrati con ottime espressioni varietali. Fondamentale, anche in questo caso, la tempestività alla raccolta. Il Viognier, raccolto da inizio settembre, ha avuto una maturazione ottimale, con profili aromatici tipici della varietà: «Didattico».
Ecco poi il Nero d’Avola: nei territori più vocati grande maturazione delle uve, con un buon risultato di struttura e di profilo aromatico nei vini: «Identitario», lo ha definito Filippi. Infine il Syrah: maturità fenolica e buona espressione varietale raggiunta soprattutto nelle zone con raccolta più tardiva. Le leggere piogge di agosto hanno salvato l’annata. «Una riconferma».
SICILIA SUD ORIENTALE: RAGUSA E SIRACUSA
L’annata 2022 è stata caratterizzata da precipitazioni sotto la media della zona. Una primavera mite ed un’estate con buone escursioni termiche, sono state le condizioni ottimali per un buon sviluppo vegetativo. Maggio, giugno e luglio sono stati caratterizzati da temperature massime più alte della media, limitando la crescita vegetativa. Ma le forme di allevamento tipiche della zona sono state un ottimo alleato.
La vendemmia è iniziata ad sgosto con le varietà bianche a partire dal Moscato bianco, ed è proseguita a Settembre con la vendemmia delle uve Frappato e Nero d’Avola. Quanto al profilo delle singole varietà, il Moscato Bianco nel 2022 ha avuto «una buona produzione e ottima qualità, caratterizzata da una buona maturità aromatica». Ma questa fetta di Sicilia è uno dei territorio più vocati per il Nero d’Avola.
La buona stagione vegetativa ha permesso di avere una buona maturazione fenolica ed aromatica, mantenendo un buon corredo acidulo, con colori leggermente meno intensi. Per il Frappato «caratteristiche varietali tipiche», sempre nella descrizione di Uva Sapiens, grazie al lungo periodo vegetativo che ha garantito un’«aromaticità fragrante» ai vini. La maturazione delle uve è stata ottimale con tannini setosi.
SICILIA NORD ORIENTALE: CATANIA, MESSINA ED ENNA
La stagione vegetativa nell’area nord orientale è stata caratterizzata da una primavera mite e poco piovosa, con un’estate più secca della media, condizioni ottimali per la maturazione delle uve sull’Etna. La vendemmia è iniziata a metà agosto con l’internazionale varietà vicino al mare, è proseguita a metà settembre sull’Etna con l’inizio della vendemmia di Carricante e Nerello Mascalese per i vini rosati.
Il periodo vendemmiale delle uve rosse è stato probabilmente uno dei più lunghi, partito in anticipo e conclusosi nell’ultima decade di ottobre con il Nerello Mascalese dell’Etna, grazie a -75% di pioggia a settembre e ottobre rispetto alla media. Il focus sulla vendemmia 2022 in quest’angolo di Sicilia vede un Carricante raccolto con qualche giorno di anticipo rispetto alla media. L’annata leggermente più secca ha influito su un anticipo di maturazione, rallentata da qualche precipitazione ad agosto, che ha favorito «un’ottima dotazione aromatica e un grande equilibrio acidico delle uve», capace di dare «vini di spessore».
Grande annata per il Nerello Mascalese sull’Etna. Le poche piogge durante la fase di maturazione hanno permesso una maturazione lunga e regolare, come nelle migliori annate. Il Nerello Mascalese ha raggiunto la maturazione fenologica ottimale. Vini, in sostanza, da acquistare en primeur. Per il Nocera, varietà siciliana tipica del messinese, una stagione vegetativa lunga, con una perfetta evoluzione aromatica e grande struttura e complessità. Chi ha saputo attendere ha ottenuto vini di grande spessore.
LA VENDEMMIA SULLE ISOLE DELLA SICILIA: PANTELLERIA ED EOLIE
Focus anche sulle caratteristiche della vendemmia 2022 sulle isole siciliane in occasione del convegno finale di Sicilia en Primeur 2023. La stagione primaverile leggermente più fredda ha generato un ritardo nella ripresa vegetativa di 4 giorni rispetto alla media a Pantelleria. Tutto il periodo vegetativo ad esclusione di marzo e aprile è stato caratterizzato da temperature massime più alte della media, ma con una fase vegetativa equilibrata e non sofferente.
Nel periodo di sviluppo e accumulo della componente aromatica ci sono state escursioni termiche ben oltre la media che ne hanno favorito una ricca dotazione di aromi, soprattutto per lo Zibibbo. La vendemmia dello Zibibbo, varietà ormai divenuta sinonimo di Pantelleria senza neppure la necessità di nominarla, è iniziata nella terza decade di agosto per la produzione di vini secchi. Si è atteso inizio settembre per lo Zibibbo destinato all’appassimento e alla produzione del passito di Pantelleria. Dotazione acida nella norma e un ottimo profilo aromatico, tipico del varietale.
Le Eolie hanno avuto una stagione vegetativa caratterizzata da una primavera mite e tendenzialmente più secca della media stagionale e con gran parte dell’estate senza pioggia. Il vero marker dell’annata è stato il mese di agosto. Precipitazioni triplicate, sommatorie termiche del 22% sotto la media ed escursioni tra notte e giorno da record. Tutte condizioni perfette per ottenere grandi uve. Le varie fasi vegetative sono state regolari, ma con un leggero anticipo rispetto alla media degli anni scorsi.
Regina delle Eolie (Lipari e Salina) è la Malvasia, raccolta in occasione della vendemmia 2022 a partire dall’inizio di settembre. La varietà ha avuto una maturazione ottimale, con profili qualitativi tipici della varietà. Estremamente fine nella sua delicata aromaticità. Il Corinto, altra varietà tipica delle Eolie, ha avuto una stagione vegetativa regolare, con una perfetta evoluzione aromatica e fenolica. Ha goduto appieno delle condizioni di agosto e settembre.
Enoturismo, Sicilia tra le top destination italiane: «Modello California»
Enoturismo, Sicilia tra le top destination italiane: «Modello California». La scommessa delle cantine aderenti ad Assovini
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
«Lo Zibibbo è un vitigno antico, presente in provincia di Trapani da secoli, con due piccolissime eccezioni poco significative in termini di superfici coltivate e questa è l’unica provincia in cui per legge ne è ammessa la coltivazione». Benedetto Renda, presidente del Consorzio per la tutela e la valorizzazione dei Vini Doc dell’Isola di Pantelleria, replica ai contenuti controversi del convegno organizzato dall’amministrazione comunale pantesca, lo scorso weekend.
A dimostrare che non è in atto una «sicilianizzazione» del vitigno – ovvero, nell’idea dei promotori dell’iniziativa, uno scippo dell’isola “madre” nei confronti della terra d’origine del vitigno – è l’elenco delle varietà idonee dell’Irvo, che stabilisce come lo Zibibbo sia coltivabile esclusivamente nella provincia di Trapani e – dal 13/09/2007 – anche nell’isola di Ustica, nonché nelle isole Pelagie (D.A. 30/06/2015 anche). «Crediamo fermamente che l’elemento più importante, unico e distintivo, sul quale concentrare la tutela e promozione sia in ogni caso quello dell’origine “Pantelleria” più che il vitigno».
Basti pensare – aggiunge Benedetto Renda – che ci sono produttori australiani che vinificano Nero d’Avola o Glera, imbottigliando quest’ultima come Prosecco. Il Consorzio è fortemente impegnato nel racconto e nella valorizzazione della viticoltura eroica e dell’Isola di Pantelleria: un unicum con un grande primattore, lo Zibibbo.
Dai progetti destinati alla formazione agli operatori della ristorazione e della ricettività, i primi “ambasciatori” dell’Isola, all’ organizzazione di educational dedicati alla stampa fino al lancio campagne di comunicazione sui media nazionali».
CRESCE LA PRODUZIONE DI BIANCO FERMO, SPUMANTE E PASSITO A PANTELLERIA
«Coltivare la terra qui è un atto d’amore – continua il presidente del Consorzio pantesco – che chiama tutti noi a un sempre maggiore impegno, ma ci sono dati che confermano come la Doc Pantelleria sia viva ed in evoluzione. Se paragoniamo i dati di imbottigliamento del 2018 con quelli del 2022, si registra un +25% per la denominazione doc Pantelleria bianco, un +68% per la denominazione Pantelleria Moscato spumante e un +10% per il Passito».
Sul banco degli imputati, anche la modifica del disciplinare della Doc Sicilia, contestata in quanto consente di menzionare in etichetta il vitigno “Zibibbo”, anche se presente in maniera inferiore, nell’uvaggio, rispetto ad altri vitigni. «Teniamo presente – replica a winemag.it il Consorzio presieduto da Antonio Rallo – che si tratta solo del caso dei bivarietali e, ad oggi, nella Doc Sicilia i bivarietali con lo Zibibbo non sono mai stati prodotti».
Le repliche dei due Consorzi confermano, dati alla mano, come l’attacco dell’amministrazione comunale di Pantelleria non trovi conferme nei numeri. Una mossa, quella dalla giunta guidata dal sindaco Vincenzo Campo, arrivata peraltro a pochi giorni dalle elezioni comunali, che vedono il primo cittadino ricandidarsi in una lista sostenuta dal Movimento 5 Stelle. Per organizzare la tre giorni di convegni utile a lanciare l’attacco alla Doc Pantelleria e alla Doc Sicilia, Campo ha avallato uno stanziamento di 25 mila euro. Soldi pubblici in cambio di un pizzico di visibilità?
Pantelleria, lo Zibibbo, il sindaco 5 Stelle e gli esperti mondiali di Consorzi e Denominazioni
Pantelleria, lo Zibibbo, un sindaco 5 Stelle e gli esperti mondiali di Consorzi e Denominazioni. Cronache dall’isola siciliana, sotto elezioni
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
L’Alta Langa cresce nei numeri e nella testa. Il millesimo 2019, presentato in anteprima alla stampa e agli addetti del settore alla Reggia di Venaria lunedì 8 maggio in occasione della Prima dell’Alta Langa 2023 conferma l’attitudine alla qualità dei padri fondatori del Consorzio e dei loro “discepoli”. Altra costante della denominazione piemontese è la lettura fedele dell’annata nel calice. L’ultima annata si dimostra generalmente più verticale e tesa rispetto alla 2018 e perfetta per i lunghi affinamenti, con qualche (rara) eccezione dovuta alla scelta del dosaggio. Da poco sul mercato anche gli Alta Langa Riserva 2016, tra i quali spicca la doppietta di gran classe firmata Ettore Germano: un Blanc de Blancs e un Blanc de Noirs assolutamente da non perdere.
Tutti elementi che contribuiscono a disegnare in maniera sempre più netta i contorni di una Denominazione che non punta alla massa, ma al consumatore attento, formato, esperto. Molte aziende che negli ultimi anni hanno investito nell’Alta Langa hanno una reputazione consolidata nella produzione di vini fermi di pregio, come Barolo e Barbaresco. Cantine per le quali il Metodo classico non potrà mai essere un semplice “accessorio”, bensì la ciliegina sulla torta del puzzle di vini d’eccellenza, targati Piemonte.
Tra gli esordienti, a convincere su tutti è Anna Maria Abbona con il suo “San Bartomé” Extra Brut 2019 (4000 bottiglie per l’annata 2019, che diventeranno già 15 mila col millesimo 2021). «Per noi – spiega il cantiniere Lorenzo Schellino – l’Alta Langa, ad oggi, rappresenta un vino fatto in vigna. Sfruttando le zone a disposizione e i nostri suoli, otteniamo vini base predisposti per la spumantizzazione, senza grandi ritocchi in cantina. Vini di vigna, competitivi sul mercato anche a confronto con Champagne e altre grandi denominazioni».
Grandi conferme dell’intera gamma di Enrico Serafino che, con il direttore commerciale Lino Lanfrancone, analizza ancora più a fondo il fenomeno: «L’Alta Langa è prima di tutto una riappropriazione dei piemontesi delle origini del Metodo classico italiano, dato che siamo stati i primi in Italia a produrlo. I terreni sono di qualità indiscutibile: siamo in Langa, dove vengono prodotti Baroli e Barbareschi, al di sopra dei 250 metri. Il disciplinare è l’unico che dà un minimo di altitudine. Il Franciacorta, per esempio, dà un massimo di altitudine.
C’è voglia di rimettersi in gioco, di riproporre il grande Metodo classico italiano con vitigni internazionali come Pinot Nero e Chardonnay e di lavorare con vigneti di altissimo pregio per ottenere cuvée rappresentative di una parte del territorio e del vitigno.
Noi lavoriamo all’85% con il Pinot Nero perché reputiamo lo Chardonnay un vitigno adattivo, capace di adattarsi a dove lo si pianta: è un orgoglio avere grandi vigne di Pinot Nero, qui capace di dare grande longevità, piacevolezza, durezza, grinta, carattere. Non abbiamo timore di aspettare, anzi: oggi abbiamo portato uno Zero millesimo 2014 sboccato tre anni fa, quando in vendita abbiamo un 2017».
Eppure, tra i recenti ingressi nel mondo Alta Langa, non mancano interpretazioni “timide” del vigneto e del varietale, con dosaggi zuccherini volti a rendere – per ammissione stessa di alcuni produttori – più «commerciale» e «vendibile» la novità dell’assortimento. «A chi si approccio alla Denominazione – è il messaggio di Lino Lanfrancone – posso solo dire che l’esperienza fa la differenza. La Fiat ha sempre cercato di accontentare tutti, ma non è mai diventata leader. Puntando solo sulla qualità, Audi è arrivata in alto. Questo vale per auto, orologi, borse e vino. L’idea di base è distinguersi: dieci anni fa bevevano tutti roba tendenzialmente dolce, ma da quando i Pas Dosé hanno iniziato ad essere buoni, la gente si è spostata su questa tipologia».
Della stessa idea Sergio Germano (Ettore Germano): «Ho scelto di presentare alla Prima dell’Alta Langa 2023 le due riserve 2016, sboccate a novembre 2022. Per il Blanc de Blancs è la seconda annata, dopo la 2015. Per il Blanc de Noir si tratta invece della terza annata. Dopo un esperimento con meno di 2 mila bottiglie nel 2014 sono seguite 3.500 bottiglie per entrambe le tipologie nel 2015, sino ad arrivare alle 6 mila bottiglie per ciascuna delle Riserve 2016. I clienti hanno apprezzato queste nuove selezioni, abbiamo esaurito tutte le bottiglie delle annate precedenti. L’idea è quella di dare un messaggio alla tipologia riserva dell’Alta Langa, con uno spumante che permane sui lieviti 65 mesi, 5 in più dell’obiettivo minimo che si porrà il nuovo disciplinare, per la tipologia Riserva».
Secondo la mia esperienza, ed è un’opinione condivisa con altri colleghi – commenta ancora Sergio Germano – la differenza nell’Alta Langa di qualità la fa l’attenzione nella pressatura, la scelta delle frazioni, per non avere amari e acidità aggressive, partendo ovviamente da uve di qualità, con l’idea di fare un Pas Dosé. Esce così questo territorio che regala vini sapidi, minerali, freschi, connotati al contempo da un’estrema piacevolezza, nonché dalla tipica gastronomicità dei vini piemontesi. Il tutto con l’annata sull’etichetta, ovvero il millesimo. Sono poi convinto che il tempo è galantuomo con l’Alta Langa: bisogna lasciarlo sui lieviti, e con il tappo dopo la sboccatura»
E sul successo della denominazione: «È fisiologico – aggiunge il patron della Ettore Germano – che l’Alta Langa abbia iniziato a destare l’interesse di molti. Qualcuno più motivato, qualcuno più aggressivo e volenteroso di saltare su un treno che adesso viaggia veloce. Dobbiamo andare avanti così, senza abbassare l’asticella, convincendo i nuovi arrivati a condividere con noi gli obiettivi originari. Il fatto che l’Alta Langa sia veicolata dal Piemonte e dai suoi produttori è una garanzia di qualità anche per il futuro: un biglietto da visita pesante, in linea con la personalità e identità molto definita di questa denominazione, in un periodo in cui l’interesse internazionale cresce nei confronti delle bollicine».
Sabrina Perrone parla a nome di un’altra azienda che si affaccia per il secondo anno a un Alta Langa Pas Dosé, l’Azienda Agricola Fabio Perrone di Valdivilla, frazione di Santo Stefano Belbo (CN): «Il nostro Brut Nature 2019, 80% Pinot Nero e 20% Chardonnay, 2 mila bottiglie complessive, proviene da un vigneto a 650 metri sul livello del mare. Il vigneto può arrivare a produrre 6.500 bottiglie e le raggiungeremo, perché crediamo molto in questo vino e nella scelta di un dosaggio zero dettata dal nostro approccio: non aggiungere zucchero o liqueur ci consente di non “conciare” il vino, presentandolo in tutto il suo carattere e “pulizia”. Con il nostro ingresso nell’Alta Langa vogliamo puntare sul mercato italiano di nicchia».
Simone Allario Piazzo di Piazzo Comm. Armando di Alba (CN), è tra i sostenitori di una linea più “moderata”. «Siamo all’esordio nell’Alta Langa con le prime 3.600 bottiglie – spiega – e abbiamo dunque pensato a di partire tenendo conto innanzitutto dei risvolti commerciali. Siamo produttori di Barberesco e di Barolo e, anche in questo caso, con alcune etichette, ci stiamo concentrando sul concetto di bevibilità, propendendo per un Brut. In gamma, del resto, abbiamo anche un Nebbiolo in purezza Metodo classico Vsq non dosato, più incline al nostro gusto personale certamente non per tutti. L’idea, senza alcuna fretta, è quella di produrre in futuro anche un Alta Langa Pas Dosé, magari Riserva».
Daniele Cusumano, classe 1983 titolare ed enologo di Tenute Rade – Poderi in Calamandrina (AT) ha invece percorso una terza via. «Per il nostro Alta Langa Riserva preferiamo lavorare bene sulla cuvée ed evitare di intervenire con la liqueur d’expedition. Per questo abbiamo scelto la fermentazione malolattica al posto del dosaggio, ottenendo così un bilanciamento degli acidi. Non è una ricetta: in occasione del millesimo 2015 è stata svolta al 30%, in altre annate potrà essere diverso».
Sylla Sebaste, figlia di Mauro Sebaste che deve il nome alla nonna, fondatrice dell’azienda agricola di frazione Gallo, ad Alba (CN), presenta la seconda annata della cantina, la 2019, ancora una volta Pas Dosé. «Siamo voluti entrare in questo mondo per volontà di mio padre, che crede moltissimo in questa denominazione e siamo sicuri che si svilupperà ulteriormente nel prossimo futuro. Per arrivare alla nostra idea di Alta Langa ne abbiamo assaggiati molti alla cieca, traendone ispirazione. Crediamo che debba essere un vino molto rappresentativo del territorio e siamo entrati a gamba tesa in questo segmento, con un Alta Langa distinguibile». Molto particolare l’approccio della cantina Mauro Sebaste, che può contare su una cuvée frutto di 4 cloni di Pinot Nero e altrettanti di Chardonnay, selezionati appositamente in Champagne.
Un’altra donna al timone è Sara Vezza, dell’omonima azienda agricola che può contare anche sul brand Josetta Saffirio per il Barolo, a Monforte d’Alba. Si tratta di una delle aziende che sta investendo maggiormente nell’Alta Langa, con 3.500 bottiglie nel 2018 che arriveranno a 11 mila col millesimo 2022. Circa 4 mila le bottiglie del 2019 in assaggio alla Prima dell’Alta Langa 2023, frutto di uve acquistate a Perletto e Clavesana, poi interamente lavorate e confezionate. «Abbiamo investito in un progetto di vigneto molto ambizioso, a 680 metri di altitudine, a Murazzano (CN), non ancora entrato in produzione, per arrivare a una superficie complessiva di 8 ettari. L’Alta Langa risponde a requisiti di grande qualità ed è un brand che vuole focalizzarsi sulle bollicine di alto livello.
Speriamo che il Consorzio lasci spazio ai piccoli produttori artigianali presenti nella base sociale, consentendo loro di costruire una rete di sostegno alla denominazione. L’esempio da seguire è quello del Consorzio del Barolo e Barbaresco, vera e propria costellazione di vignaioli custodi e interpreti del territorio, con il minimo comun denominatore della qualità.
Forse sarebbe il caso di rivedere lo statuto, riflettendo sull’opportunità di rimodulare la rappresentatività dei soci tenendo maggiormente in considerazione vignaioli e piccoli produttori e non solo il numero di bottiglie prodotte. Se non ci si sente coinvolti in un progetto comune è difficile condividere gli obiettivi: al contrario, se si fa parte di una visione comune, ci si sente molto più motivati. Accentrare è un peccato».
Invita alla massima fiducia la presidente del Consorzio Alta Langa Mariacristina Castelletta (Tosti 1820). «Abbiamo scelto questa location non solo perché la Reggia di Venaria è strepitosa, ma perché dispone di questa sala, con dimensioni particolari: è lunga 80 metri, larga 12 e alta 15. Dai 18 produttori dell’edizione 2018 siamo diventati 60 e ci tenevo che ci presentassimo tutti insieme, uniti, al cospetto del pubblico qualificato di operatori che ha risposto con grande entusiasmo alla Prima dell’Alta Langa 2023, quinta edizione della kermesse. La crescita, del resto, è avvenuta sotto tutti i profili».
«Credo che il segreto sia l’unicità dell’Alta Langa – aggiunge Castelletta – uno spumante diverso da qualsiasi altro Metodo classico italiano e internazionale e per questo ricercato. Registriamo nel 2022 un +67% di bottiglie sul mercato rispetto al 2021: 1,7 milioni di bottiglie già vendute rispetto ai 3 milioni di bottiglie prodotte, grazie ai 377 ettari attuali. Visto l’interesse, che si respira anche qui, abbiamo programmato nuovi impianti per ulteriori 220 ettari nel triennio 2023-2025, nel segno della grande fiducia che muove tutti noi produttori». Il futuro è solo da scrivere.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
EDITORIALE – Non è passata in sordina, nel settore, l’iniziativa di cinque produttori di vino uniti per promuovere insieme la “cultura” del tappo a vite. L’iniziativa di Franz Haas, Graziano Prà, Jermann, Pojer e Sandri e Walter Massa, alias “Gli Svitati“, non ha tuttavia smosso di un centimetro le coscienze dei consumatori. Tantomeno lo ha fatto con quelle dei colleghi vignaioli del quintetto, tra cui già non mancavano diversi convinti sostenitori del tappo a vite (al pari di qualche detrattore). La mia idea è che – su temi come questo – non serva a nulla “parlarsi addosso”, tra addetti ai lavori. Il futuro dello Stelvin in Italia (Stelvin è il nome del brand più noto a livello internazionale, divenuto negli anni sinonimo di “tappo a vite”), a differenza di altre battaglie, non è in mano ai vignaiolima ai grandi gruppi del mondo del vino, come le cooperative. Il “canale” per cambiare i connotati dei consumatori e dare l’auspicata dignità al tappo a vite non è l’Horeca, ma la Gdo: il mondo dei supermercati.
Per capirlo basta entrare in uno dei punti vendita delle tante insegne presenti in Paesi come l’Inghilterra (da Tesco a Lidl, passando per Aldi e Waitrose) invase da decine di vini tappati con lo Stelvin che i clienti acquistano senza alcun timore. Si tratta principalmente di etichette provenienti dalla Nuova Zelanda e dall’Australia, base Sauvignon Blanc e Syrah / Shiraz, segnale di quanto i due Paesi oceanici abbiano iniziato ormai da decenni a dare importanza al tappo a vite. Vini prodotti principalmente da grandi gruppi e adatti a tutte le tasche, in molti casi addirittura con un rapporto qualità prezzo invidiabilissimo (il che non significa costino necessariamente poco!). Tutto tranne che “vini spazzatura”, insomma.
I COSTI DEI MACCHINARI PER LA TAPPATURA A VITE
L’investimento sui macchinari per la tappatura Stelvin, di fatto, non è alla portata dei vignaioli e delle piccole cantine. A confermare come siano pochi i colleghi degli “Svitati” Franz Haas, Graziano Prà, Jermann, Pojer e Sandri e Walter Massa a potersi permettere un tale investimento sono le aziende produttrici di questi macchinari, interpellate su suggerimento di alcuni vignaioli italiani. Esemplificativo l’intervento di Mirella Simonati, business growth manager di PMR System Group di Bovisio Masciago (MB). «Gli impianti che progettiamo e realizziamo – spiega – partono da soluzioni semi-automatiche da banco per basse produzioni (500/600 pz./h.) ad un costo intorno ai 4 mila euro, fino ad arrivare a soluzioni completamente automatiche, installate in linea, con caricatore automatico dei tappi e una produttività anche superiore ai 4000 pz/h. Si tratta di sistemi che vanno oltre i 100 mila euro».
Walter D’Ippolito di Alfatek Bottling Plants Srl, azienda di Albano Laziale (RM) precisa come esistano «varie tipologie di tappo a vite per il vino, dal tappo vite basso, al tappo Stelvin, fino ad arrivare al tappo Stelvin Lux, soluzione più elegante e moderna. Le macchine automatiche raggiungono una produttività di 2500/2800 bottiglie per ora e il loro costo può variare dai 30 ai 45 mila euro». Conferme sui costi ingenti dei macchinari per la tappatura a vite arrivano anche da Paolo Lucchetti, tra i massimi sostenitori dello Stelvin tra i vignaioli italiani. «Una macchina semplice, con tappo raso, 12 rubinetti, è introvabile al giorno d’oggi a meno di 60, 70 mila euro. Con la doppia chiusura si arriva ad almeno 80 mila euro. Un investimento che non è alla portata di tutti, ma nel prossimo futuro, se questa chiusura prenderà sempre più piede sul mercato nazionale, i costi potrebbero abbattersi».
LE COOPERATIVE VITIVINICOLE E IL FUTURO DEL TAPPO A VITE
E il conto terzi? Anche questa soluzione, secondo diversi vignaioli interpellati, non è praticabile dalle piccole cantine. Le aziende che offrono il servizio di imbottigliamento “a domicilio” offrono questo servizio a partire da 20 mila bottiglie, quantità che inizia ad essere impegnativa per una singola cantina artigianale. «Per quantità inferiori alle 20 mila bottiglie ma superiori alle 10 mila – riferisce un piccolo produttore del Sud Italia – chiedono il doppio del prezzo. Sarebbe utile, come è stato fatto in Piemonte, prendere un macchinario in condivisione, ma mettere d’accordo le varie anime di un territorio non è semplice, così come portare avanti politiche di marketing comuni».
Diventa così ancora più fondamentale l’apertura al tappo Stelvin da parte dei grandi gruppi del settore vitivinicolo italiano. «Siamo favorevoli – commenta Luca Rigotti, Coordinatore Settore Vino di Alleanza Cooperative Agroalimentari – alla possibilità di differenziare e adeguare l’offerta con chiusure e materiali alternativi come il tappo a vite. Un’opzione, quest’ultima, che consente alle imprese vitivinicole di dare risposta alle crescenti richieste del mercato che, in particolare all’estero, come nei paesi del Nord Europa, compresa la Germania e il Regno Unito, è particolarmente apprezzata dai consumatori».
Si tratta di un approccio che deve tenere conto delle esigenze dei mercati e, specie nell’attuale congiuntura, delle voci di costo delle materie prime e degli imballaggi, e che quindi dovrebbe riguardare, oltre alle chiusure, anche i contenitori di capacità inferiore ai 2 litri, per i quali attendiamo un’apertura rispetto all’utilizzabilità, anche per i vini Doc, di materiali alternativi al vetro. Un’apertura comunque ragionata, tenendo conto che, come per altri requisiti, spetterebbe ai disciplinari l’ultima parola e la possibilità di poter prevedere, rispetto alla regola generale, regole più restrittive».
IL TAPPO STELVIN IN GRANDE DISTRUBUZIONE
Della stessa idea Benedetto Marescotti, direttore Marketing di Caviro. «Il tappo a vite o “Stelvin” registra consensi sempre maggiori tra i consumatori dei mercati che frequentiamo, specie in quelli internazionali. Siamo una filiera, impegnata la massimo nel preservare la qualità del prodotto, dalla vite all’imbottigliamento, per cui non abbiamo certo remore nei confronti di qualsivoglia contenitore o sistema di chiusura, purché di garanzia per mantenere la qualità dei nostri vini, che siano bottiglie classiche nella forma e chiusura col sughero, o con chiusure a vite, sebbene considerate da alcuni meno “tradizionali”».
Ne imbottigliamo già decine di milioni con questa chiusura, pratica e qualitativa al contempo, molto richiesta, se non necessaria, nei mercati anglosassoni in primis. Del resto, se non fossimo “laici” sul confezionamento noi, che abbiamo inventato il vino in brick (Tavernello, ndr), ci sarebbe da stupirsi. Il must è valorizzare i vini delle nostre cantine socie e garantirli fino alla tavola, una sorta di filiera lunga, per la quale anche il tappo in questione ha le carte in regola».
Eppure, la strada è ancora in salita. Dai dati riportati da Stelvin e Guala Closures, oggi quattro bottiglie su dieci sono imbottigliate con tappo a vite, con una percentuale che in Europa Occidentale, storicamente più tradizionalista, è passata dal 29% nel 2015 al 34% nel 2021. L’Italia, ferma al 22%, può contare solo su cooperative – e buyer Gdo – per crescere.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
EDITORIALE – Una conca, scavata attorno ad ogni singola pianta. Abbastanza profonda da proteggerla dalle raffiche di vento e dalla luce del sole, raccogliendo come in una piccola diga la poca pioggia concessa dal cielo, convogliandola alle radici della vite. Ha il sapore di un abbraccio materno, la viticoltura a Pantelleria. Una terra del vino che galleggia tra Sicilia e Tunisia. Come un vascello sopravvissuto, intatto, alla furia del mare. Un miracolo, anzi una casualità. Un’isola tanto bella da sembrare impossibile. Cinematografica. Le cammini sopra sprofondando in campi di sabbie mobili scure, che si sciolgono sotto ai piedi come burro. E riemergi pochi centimetri dopo su solide, rassicuranti colate nere, di pietra vulcanica.
Pantelleria è l’ossimoro, la contraddizione. È quella voglia di non svegliarsi da un bel sogno se non per riviverlo, più forte. Coltivare la vite, da queste parti, è ormai divenuto un atto di fede. Una preghiera ripetuta all’infinito, in ogni gesto utile a tenere in vita ogni singola pianta. Ci sono i ceppi, a Pantelleria. Non i “vigneti”. Così si dice sul posto, sintetizzando in un concetto, una filosofia. Il ceppo, a Pantelleria, è l’entità che rende onore al termine “vite” e alla sua accezione singolare, “vita”.
Pantelleria, il trait d’union tra la botanica e la poesia. Passando per l’archeo-viticoltura. Non produttori di vino ma custodi, coloro che – oggi, ancora – se ne occupano quotidianamente, in un mix di follia e passione sempre più raro, appannaggio di uomini e donne che sembrano provenire da altre epoche. Da un altro mondo, da un altro pianeta. Gente nata e cresciuti nella terra dell’impossibile che diventa vero. Dell’onirico che diventa tangibile.
A PANTELLERIA UNA TRE GIORNI IN DIFESA DEL VITIGNO ZIBIBBO. ANZI NO
Ecco perché si fatica a comprendere la battaglia intrapresa – piuttosto goffamente – dall’amministrazione comunale di Pantelleria guidata dal sindaco Vincenzo Campo. Con una previsione di spesa di 25 mila euro approvata dalla giunta, l’esponente del Movimento 5S ha chiamato a Pantelleria per tre giorni (da venerdì 5 a domenica 7 maggio) giornalisti (tra cui il sottoscritto), ricercatori e commentatori del settore vitivinicolo e agricolo, con lo scopo di «difendere il vitigno Zibibbo dallo scippo perpetrato dalla Doc Sicilia», ritenuta colpevole di averne approvato la produzione sull’isola madre, a dispetto della terra (pantesca) d’origine.
La (dispendiosa) tre giorni organizzata dal sindaco Campo è risultata non solo poco partecipata dai produttori di uve e di vino della Doc Pantelleria (per contare quelli presenti al dibattito bastavano meno delle dita di due mani) ma ha avuto anche aspetti fortemente contraddittori. Su tutti, lo stravolgimento del cardine su cui si basava la stessa tre giorni, intitolata “Pantelleria è Zibibbo“. La tesi iniziale di uno dei relatori, Giampietro Comolli, che nel comunicato stampa di lancio dell’evento si autopresentava come «uno dei più grandi esperti negli anni di Consorzi e vini DO, allievo di Fregoni e Scienza», è passata da «delocalizzare lo Zibibbo vuol dire incentivare un lento declino produttivo economico vitale a vantaggio di pochi imprenditori non panteschi» a, sintetizzando, «la battaglia sul vitigno Zibibbo è persa, occorre puntare su “Pantelleria”, promuovendo piuttosto un Pantelleria Docg “Zibibbo Classico”, solo Naturale Passito Dolce». Altra proposta stravagante dell’esperto di Consorzi e Denominazioni: Salvatore Murana, piccolo e appassionato produttore locale che nella sua gamma ha anche una tiratura limitatissima di Metodo classico base Zibibbo, dovrebbe puntare a vendere le sue poche bottiglie sugli scaffali di Autogrill: «C’è Ferrari, perché non dovrebbe esserci Murana?», si chiede (per davvero, non per scherzo) il relatore del convegno.
Alla base della preoccupazione del sindaco 5S di Pantelleria e della sua giunta, che così scaldano i motori in vista delle elezioni del prossimo 28 e 29 maggio 2023, ci sarebbero i numeri «drammatici» della viticoltura di Pantelleria, con gli ettari vitati che risulterebbero in picchiata. In altre parole, sempre più vigne rischierebbero l’abbandono. «Il Comune di Pantelleria – spiega Campo – ha lanciato l’evento “Zibibbo è Pantelleria” partendo dallo status precario, difficile, vulnerabile dello Zibibbo di Pantelleria. La vite di Zibibbo, altrove denominato Moscato di Alessandria, è il vino principe di Pantelleria da secoli. Nessuno può e deve portarcelo via. Penso al Barolo, al Picolit, al Prosecco. Lo ho visto io: modelli come quelli fanno sì che la bottiglia di Barolo possa uscire anche a 85 euro a bottiglia e il Nebbiolo di fianco 10, 12 euro, quando va bene».
L’ATTACCO AL CONSORZIO DOC SICILIA
«Recenti decisioni del Consorzio di tutela, con la modifica e rimodifica del disciplinare Doc del 1971 – continua l’esponente del M5S – fanno intravedere e temere un abbandono e una clonazione dello Zibibbo nella Doc Sicilia e Igt Terre Siciliane. Queste decisione hanno allarmato gli ultimi 360 viticoltori puri rimasti (erano 3700, 60 anni fa), unici titolari dell’Albo Doc Pantelleria e hanno sollecitato il Comune di Pantelleria a (nel comunicato questa “a” era preceduta da una “h”, ndr) difenderli: 2500/3000 gli ettari di vigne di Zibibbo impiantate negli ultimi 10 anni sull’isola Sicilia, sono una prova».
Riecco la Pantelleria che è l’ossimoro, anche lontana dalla vigna, anzi dai ceppi. Riecco la Pantelleria che è contraddizione intrinseca tra evoluzione e commiserazione. La bellezza contrapposta alla propaganda. Le potenzialità, che solo una parte dell’isola sembra intravedere e vivere. E la freddezza dell’interpretazione di massimi sistemi e numeri, ancora più gelidi sotto elezioni, anche quando a Pantelleria non tira vento. Ma ecco soprattutto la distanza abissale che c’è tra chi, ancora, in Italia, difende il nome di un vitigno, peraltro inserito come tale nel Registro nazionale delle varietà di vite del Ministero dell’Agricoltura. E chi, invece, si rende conto che una “Docg dello Zibibbo”, fondamentalmente, già esiste e non ha tantomeno bisogno di essere definita “Classica”: Pantelleria (Doc), col suo passito, solo da raccontare (meglio) e vivere (di più). Prosit.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Tokaj Gin. Non si tratta di un falso, è tutto legale. A produrlo è Seven Hills Distillery, riaprendo così – in qualche modo, seppur indirettamente – la ferita con il Friuli Venezia Giulia, a cui l’Ue ha impedito di poter chiamare “Tocai” l’uva rinominata obbligatoriamente “Friulano” dal 2007, così come il vino da essa ottenuto. Il nome della municipalità a cui deve il nome la nota regione vinicola ungherese (“Tokaj”, senza la “i” finale) campeggia in bella vista sull’etichetta del distillato.
«Tokaj Gin – si legge peraltro nella descrizione del prodotto – crea una perfetta armonia tra i profumi legnosi e floreali delle foreste e dei campi dei monti Zemplén utilizzando 21 spezie speciali, integrando agrumi e uno degli ingredienti fondamentali del Tokaji Aszú: l’uva Hárslevelű». L’avallo delle autorità ungheresi all’utilizzo del nome “Tokaj” sul Gin di Seven Hills Distillery è dunque generalizzato. Alla casa produttrice viene addirittura concessa la possibilità di menzione il “Tokaji Aszú” – vino dolce di punta della regione vinicola magiara – nella descrizione del prodotto, come evidente dal sito ufficiale della distilleria.
Oltre a fare a pugni con la decisione Ue relativa al “Tocai” friulano, il Tokaj Gin conferma le difficoltà della regione vinicola ungherese. Tokaji sta infatti attraversando quello che è forse il periodo più complicato della sua gloriosissima storia. La crisi internazionale dei consumi dei vini dolci ha investito in pieno i produttori locali e sta convincendo sempre più cantine a dedicarsi alla produzione di vini secchi (peraltro con ottimi risultati). Meno deciso, ma comunque da segnalare fra i trend della regione, il lancio di nuovi spumanti, ottenuti dalle varietà Furmint e Hárslevelű, le stesse uve alla base della produzione degli prestigiosi Aszú.
IL TOKAJ GIN DOPO LE LATTINE “MAD”
Ecco infine un Gin, a mescolare ulteriormente le carte in una regione vinicola dotata – già di per sé – di una piramide qualitativa di difficile comprensione all’estero, oltre che tra gli stessi consumatori magiari. Quello del Tokaj Gin è peraltro il secondo caso di menzione in etichetta di uno dei toponimi di quest’angolo di Ungheria. Nel periodo della pandemia, una cantina locale ha infatti lanciato sul mercato degli spritzer con la scritta “Mad“, senza colpo ferire da parte del Consorzio vini di Tokaji (Mad è appunto il nome di una delle sottozone della nota regione vinicola ungherese).
«Sul mercato – sottolinea a winemag.it Tobias Gorn, cofondatore di International Drinks Specialists, società di consulenza del settore Spirits con sede in Inghilterra – è presente qualche gin proveniente da regioni vinicole che utilizza il nome di un loro vino d’origine. Un esempio è il Bordeaux Distillers Rivington Gin. Alcuni potrebbero trovare ambigui o addirittura fuorvianti prodotti come questo o il Seven Hills Tokaj Gin. È bello vedere questi esempi, che non ritengo personalmente fuorvianti, ma sarebbe altrettanto importante distinguere questi prodotti dalla denominazione originale del vino».
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Circa 39 milioni di bottiglie vendute per un fatturato totale di 489 milioni di euro. Sono i numeri del 2022 delle 200 cantine riunite nell’associazione tedesca VDP – Verband Deutscher Prädikatsweingüter, il più antico gruppo di aziende vitivinicole al mondo. Un anno complicato dagli strascichi della pandemia e dalle nuove sfide del conflitto Russia-Ucraina, oltre che dagli aumenti generalizzati dei costi di produzione (gas, energia, vetro). Buona comunque la tenuta sui mercati delle aziende dell’Aquila, che in media hanno fatturato 2,45 milioni di euro a testa.
I dati diffusi dalle VDP Prädikatsweingüter in seguito all’appuntamento con la VDP.Weinbörse 2023 di Mainz (23-24 aprile) dimostrano la «buona sopravvivenza» del gruppo di cantine al periodo ostile. Nel 2022 tengono prezzi e quota percentuale rispetto al totale della produzione dei quattro livelli di classificazione: Vdp.Gutswein a 11,00 euro (63%), Vdp.Ortswein a 14,00 euro (20%), Vdp.Erste Lage® a 20,00 euro (12%) e Vdp.Grosse Lage® a 37,00 euro (5%). Il prezzo medio di una bottiglia di vino tedesco è infatti pari a 3,71 euro al litro (2,84 in Italia e 5 euro in Francia, secondo un recente studio Unicredit-Nomisma).
EXPORT IN CRESCITA PER LE CANTINE VDP
Le vendite si sono concentrate per il 73% sul mercato interno, con un calo rispetto al 79% del 2021. Sale infatti al 27% l’export, in crescita rispetto al 21% del 2021. La classifica dei principali Paesi di esportazione dei vini Vdp vede in testa la Scandinavia (Danimarca e Norvegia), seguita da Stati Uniti e dal duo Paesi Bassi – Belgio. L’analisi del vigneto 2022 mette in evidenza la diminuzione delle rese, passate dai 71 hl/ha del 2018 ai 62 hl/ha della vendemmia 2022.
Un trend comunque in crescita, come dimostrano le raccolte intermedie del quinquennio (52 hl/ha nel 2019, 55 hl/ha nel 2020 e 53 hl/ha dell’annata 2021. Circa 5.588 gli ettari complessivi a disposizione delle 200 cantine del Vdp (circa 28 ettari a testa) pari a circa il 5,5% della superficie viticola tedesca. Mentre il gruppo dell’Aquila lavora all’obiettivo 2025 della certificazione sostenibile per il 100% degli associati – la risoluzione risale al 2021 – al momento sono 76 le tenute VDP che lavorano con metodo biologico o sono in fase di conversione.
VDP VERSO IL 100% DI CANTINE CERTIFICATE SOSTENIBILI ENTRO IL 2025
Il che significa che poco meno del 40% della superficie viticola VDP è coltivata con metodo biologico, contro il 12,5% del vigneto tedesco. Il 16% della superficie viticola biologica tedesca è coltivata dalla VDP. Sono 17 le tenute che optano per la viticoltura biodinamica, mentre il numero sale a 43 per la certificazione di sostenibilità (1.881 ettari complessivi, pari al 34% della superficie viticola VDP).
Siamo grati che il nostro approccio artigianale sia apprezzato anche in tempi difficili – commenta Steffen Christmann, presidente della VDP – e che i nostri vini orientati al territorio siano molto richiesti. Le restrizioni, ma anche la chiara profilazione degli ultimi anni, stanno dando i loro frutti. Tuttavia, siamo preoccupati per la situazione economica generale, soprattutto per la viticoltura tedesca nel suo complesso».
«Il fatto è che l’enorme aumento dei costi, così come le normative sempre più severe, si scontrano con mercati in cui il potere d’acquisto della popolazione nel suo complesso sta sprofondando. Siamo ancora più convinti – conclude Christmann – che i vini di alta qualità provenienti dai nostri paesaggi vitivinicoli siano un grande successo e non siano intercambiabili con altri».
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
EDITORIALE – Contrariamente a quanto affermato dai politici italiani e, a ruota, dall’industria del vino italiano, non è ancora detta l’ultima parola sulla querelle che vede contrapposto il Prosecco al vino dolce croato Prošek, prodotto dalla notte dei tempi in Dalmazia in quantità limitatissime. Una guerra che l’Italia sta combattendo con grande veemenza, ma al suono della vigliacca menzogna che vorrebbe ridurre il Prošek a un’imitazione del Prosecco: una presunta «minaccia al Made in Italy» che, in realtà, non esiste. Così come sono di cartapesta i tanti paladini dell’Italia scesi in campo negli ultimi anni, su questo fronte.
In particolare, a scagliarsi contro i proclami arrivati nei giorni scorsi da Strasburgo, è l’europarlamentare croato Tonino Picula. L’esponente del Socijaldemokratska partija Hrvatske invita l’Italia alla cautela, attraverso un commento inviato in esclusiva a winemag.it, da Zagabria. «È sempre deplorevole – attacca Tonino Picula – quando le interpretazioni dei testi giuridici vengono distorte da velleità politiche. Mi rattrista che i miei colleghi italiani, in particolare il signor Paolo De Castro, rifiutino continuamente di impegnarsi in discussioni concrete e significative con argomenti basati sulla realtà. Al contrario, sacrificano le nostre buone relazioni per presentarsi come combattenti per la “causa nazionale”. Trovo che questo approccio sia vuoto e non colga nel segno».
DIFESA DEL MADE IN ITALY? UN PRETESTO
Il presunto affossamento dello storico vino dolce croato Prošek, tacciato di essere un’imitazione del Prosecco, è dunque frutto dell’interpretazione (politica) di De Castro. «Attendo con ansia il nuovo regolamento – continua l’europarlamentare croato Tonino Picula – e sostengo pienamente l’emendamento che ribadisce che le omonimie (nomi con ortografia o pronuncia uguale o simile) possono essere registrate se, nella pratica, c’è una sufficiente distinzione tra le condizioni dell’uso locale e tradizionale e la presentazione delle due indicazioni omonime. Ribadisco che il Prošek e il Prosecco sono due prodotti grandi e innegabilmente diversi: diversi i vitigni, diverso il metodo di produzione, diversi la consistenza, il colore, il gusto, l’odore e il tipo di vino, diverso l’imbottigliamento, diversa la collocazione nei menu e sugli scaffali dei negozi, e infine diversi i prezzi».
«Metterei in dubbio la conoscenza di base del vino di chiunque confondesse un vino da dessert scuro e sciropposo con un aperitivo leggero e frizzante. Ancora una volta, comprendo e sostengo gli sforzi italiani per prevenire l’uso improprio del nome Prosecco, che è tra i vini europei più contraffatti. Tuttavia – conclude Tonino Picula – ciò non può giustificare questi attacchi ciechi ai piccoli produttori tradizionalicroati che applicano il nome Prošek come termine tradizionale e non come Dop». Curioso sottolineare come i due politici facciano parte dello stesso schieramento, ovvero il Gruppo dell’Alleanza progressista di Socialisti e Democratici al Parlamento Europeo (S&D), nonostante le posizioni (e i toni) siano diametralmente contrapposti.
La brutta figura dell’Italia tra Prosecco e Prosek croato
La brutta figura dell’Italia tra Prosecco e Prosekar croato. Siamo deboli in Europa e “distratti” nel Bel paese
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
La definizione delle competenze turistiche dei Consorzi di Tutela è una delle novità più importanti giunte ieri con l’approvazione della bozza di Regolamento delle Indicazioni Geografiche dell’Unione europea da parte della Commissione Agricoltura e Sviluppo Rurale del Parlamento Ue. L’attribuzione di un ruolo istituzionale nella promozione del “Turismo Dop”, ossia del turismo enogastronomico legato a progettualità autentiche sui prodotti a Indicazione Geografica, segna un cambio di passo nelle politiche comunitarie. Un aspetto passato in secondo piano, di fronte ai proclami legati affossamento del vino croato Prošek, che continua – in maniera paradossale – ad essere considerato dalla politica e dall’industria il nemico internazionale numero uno del cosiddetto “sistema Prosecco”.
Un dettaglio, quello dei nuovi “poteri” assegnati ai Consorzi di Tutela, che non è sfuggito però a Mauro Rosati, direttore generale di Fondazione Qualivita, che plaude a una «novità in grado di produrre sviluppo per tutti i prodotti agroalimentari e vitivinicoli europei ed italiani Dop, Igp e per le bevande spiritose a indicazione geografica». Nella mission della Fondazione che ha sede a Siena c’è proprio la valorizzazione del settore dei prodotti Dop Igp Stg agroalimentari e vitivinicoli.
«Qualivita ha sostenuto con forza l’introduzione nel nuovo regolamento negli aspetti legati alla promozione dell’enoturismo e delle funzioni di coordinamento dei Consorzi di tutela – afferma Rosati – dopo aver sostenuto negli anni le numerose esperienze delle filiere Dop Igp italiane, sempre più al centro dell’offerta turistica nazionale. Lo testimoniano numerosi esempi, dai Caseifici Aperti del Parmigiano Reggiano Dop all’emergente esperienza del Cioccolato di Modica, cresciuta fortemente con il riconoscimento Igp».
PIÙ COLLABORAZIONE TRA CONSORZI E MINISTERO DELL’AGRICOLTURA
Siamo convinti che il ‘Turismo Dop’ in questa forma possa rivelarsi, anche per le piccole filiere a Indicazione Geografica, un vero volano per lo sviluppo delle produzioni e soprattutto dei territori, incentivando quelle attività turistiche a agrituristiche intimamente legate con la produzione agricola e agroalimentare italiana».
Il nuovo ruolo dei Consorzi di tutela permetterà loro di «collaborare concretamente» con il Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste, di concerto con le istituzioni di settore come Ministero del turismo ed Enit, «per prendere parte a iniziative di promozione internazionale che possono essere ulteriore leva di crescita molto importante». Un’iniziativa che, sempre secondo Fondazione Qualivita, può dare «già nel breve periodo dei riscontri tangibili alle DOP IGP italiane, in particolare alle filiere di piccole dimensioni».
Da anni – evidenzia ancora Mauro Rosati – il “Rapporto sul Turismo Enogastronomico” realizzato dalla professoressa Roberta Garibaldi evidenzia una crescita di questo fenomeno, con numeri impressionanti frutto del costante lavoro delle imprese e delle numerose organizzazioni di promozione come Le strade dei Sapori e del Vino, Città dell’Olio, Le Città del Vino, Movimento Turismo del Vino eccetera».
Per quanto riguarda il settore specifico DOP IGP, l’Osservatorio Qualivita, solo nel 2022, ha contato oltre 230 eventi organizzati dai Consorzi di tutela fra degustazioni, visite outdoor, festival e iniziative che hanno risposto alla richiesta dei cittadini di esperienze vere nei territori del cibo e del vino. E in molti casi proprio le piccole filiere, che più di altre hanno subito gli effetti legati alla pandemia e alla contrazione di alcuni canali distributivi, sono riuscite a dare «una riposta concreta attraverso iniziative di vendita diretta e incoming turistico offrendo esperienze enogastronomiche qualificate».
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
La riforma delle Ig europee condannerebbe un vino storico della Croazia, il Prošek, nome ritenuto «evocativo del Prosecco». È quanto emerge oggi dalle parole di Paolo De Castro, relatore dell’Europarlamento per il nuovo regolamento Ue sui prodotti Dop e Igp. Nel commentare l’approvazione all’unanimità del testo in commissione Agricoltura, l’europarlamentare Pd ha citato proprio il vino dolce tipico della Dalmazia, tra gli esempi di «sfruttamento indebito della reputazione delle nostre Indicazioni geografiche».
«Il Parlamento europeo – evidenzia De Castro – continua a far evolvere un sistema senza eguali nel mondo, capace di generare valore senza bisogno di investire alcun fondo pubblico, rafforzando il ruolo dei consorzi, la protezione di Dop e Igp, e la trasparenza verso i consumatori». Ora l’iter prevede, prima dell’estate, la discussione in sede plenaria del Parlamento europeo e infine, entro l’anno, gli incontri del trilogo Parlamento, Commissione e Consiglio per approvare definitivamente il nuovo testo unico europeo sulle produzioni di qualità.
IL PROSEK NON PUÒ ESSERE REGISTRATO
Nel testo adottato – rivendica De Castro – abbiamo introdotto l’obbligo di indicare sull’etichetta di qualsiasi prodotto Dop e Igp il nome del produttore e, per i prodotti Igp, l’origine della materia prima principale. Non solo, su spinta dei nostri produttori di qualità, abbiamo potuto eliminare quelle falle del sistema che consentono di sfruttare indebitamente la reputazione delle nostre indicazioni geografiche, come nel caso dell’aceto balsamico sloveno e cipriota, o addirittura del Prosek made in Croazia».
«In particolare – continua De Castro – è stato chiarito come menzioni tradizionali come Proseknon possano essere registrate, in quanto identiche o evocative di nomi di Dop o Igp. I prodotti Dop e Igp beneficeranno di protezione ex-officio anche online. Nel caso in cui vengano utilizzati come ingredienti, sarà invece necessaria un’autorizzazione scritta da parte dei rispettivi consorzi di tutela, a beneficio dei quali proponiamo anche di semplificare le norme per la registrazione e la modifica dei disciplinari di produzione”.
IL NODO DELL’UFFICIO BREVETTI EUIPO
L’Europarlamento ha preso una posizione anche su uno dei punti più discussi del regolamento, e cioè il ruolo dell’Ufficio europeo dei brevetti, l’Euipo: «Con il testo adottato oggi, con cui andremo al negoziato con i ministri già prima dell’estate – dichiara De Castro – chiariamo che l’Euipo dovrà avere un ruolo puramente consultivo e su questioni tecniche, mentre l’interlocutore principale dei produttori resterà la Direzione Generale agricoltura della Commissione Ue, consolidando il legame tra i marchi della qualità europea e lo sviluppo delle aree rurali».
«La Dop Economy – conclude l’europarlamentare Paolo De Castro – vale, a livello europeo, quasi 80 miliardi di euro. Non si tratta più di una semplice questione culturale di qualche Stato membro, ma di un vero patrimonio economico, sociale e politico europeo. Con questo regolamento creeremo un vero testo unico europeo sulle produzioni di qualità, che rafforzerà la protezione, la promozione e la sostenibilità delle nostre Indicazioni geografiche, conosciute in tutto il modo come sinonimo di qualità ed eccellenza, grazie alla passione e alla competenza dei nostri agricoltori e produttori».
Prošek-Prosecco, la Croazia alza la voce a Bruxelles: parole di fuoco sui politici italiani
Prošek-Prosecco, la Croazia alza la voce a Bruxelles: parole di fuoco sui politici italiani. Intervista esclusiva a Tonino Picula
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
È la città dell’amore, ma anche delle cantine a portata di bicicletta. Il vigneto urbano di Verona, con i suoi 1.300 ettari, non è solo il più vasto d’Italia ma anche tra i più fruibili per enoturisti, amanti delle due ruote e delle passeggiate nel verde. Le cantine raggiungibili in pochi minuti dal centro storico di Verona sono moltissime, a sottolineare quel legame inscindibile tra la città capoluogo di provincia del Veneto e la Valpolicella, casa dell’Amarone, del Recioto, del Ripasso e degli altri vini rossi tra i più amati e riconosciuti a livello internazionale.
«Il vigneto urbano di Verona – commenta il presidente Christian Marchesini – è una scoperta fatta in Consorzio 7, 8 anni fa, analizzando la suddivisione degli ettari vitati della Valpolicella. Il Comune di Verona è l’unico in Italia a poter contare su questo numero di ettari, pari al 15% della denominazione. Un altro motivo di orgoglio è che molti giovani si sono messi in gioco ultimamente per valorizzare il vigneto urbano veronese, portando alla nascita di nuove cantine che hanno tra i loro punti forti quello del recupero di vigne abbandonate, promuovendo sostenibilità e biologico».
VERONA E LA VALPOLICELLA “A PORTATA DI MANO” DAL LAGO DI GARDA
Verona è l’«hub della denominazione» e punta a un ruolo sempre più centrale, anche in vista del riconoscimento Unesco della tecnica della messa a riposo delle uve. «Un premio al nostro vigneto urbano e non solo – sottolinea Marchesini – che ci consentirà di dare ulteriore spinta all’enoturismo. Verona viene visitata da circa 2 milioni di turisti all’anno e dobbiamo fare in modo che una fetta sempre più importante di questi visitatori sia invogliata a spingersi anche nelle nostre cantine».
Nel mirino, oltre agli italiani, ci sono i tanti turisti stranieri che popolano il Lago di Garda. Oltre 27 milioni le presenze registrate nel 2022 tra i comuni gardesani delle tre province Verona, Brescia e Trento. «Molti dei quali – ricorda Christian Marchesini – provengono da Paesi target per l’export dei vini della Valpolicella come Germania, Olanda, Danimarca, Belgio. In 15 minuti dal centro città si arriva in diverse cantine: dobbiamo renderlo sempre più chiaro a chi vista Verona, città che per noi ha centralità assoluta, come dimostrato anche dal nuovo format Amarone Opera Prima».
IL VIGNETO URBANO DI VERONA: LE CANTINE E I VINI DA NON PERDERE (Distanze medie calcolate da piazza delle Erbe, nel centro Verona)
🚲 14 minuti
🦶 52 minuti
🚌 18 minuti (di cui 7 a piedi) 🚗 12 minuti
A un quarto d’ora circa dall’Arena ecco Cantine Giacomo Montresor, condensato di 130 anni di storia in città. Una realtà che ha da poco inaugurato un nuovo wine-shop e un Museo del vino utile a ripercorrere le tappe della propria storia, proprio nel segno del legame con la città di Verona e con la Valpolicella.
🚲 24 minuti
🦶 1,25 ore 🚌 32 minuti (di cui 16 a piedi) 🚗 15 minuti
Parola d’ordine “biodiversità” per questa cantina di 30 ettari totali, di cui solo 10 vitati. Ogni etichetta rappresenta un elemento naturalistico, a sottolineare la forte connessione con la terra di questa giovane cantina. I vini di Roccolo Callisto, la cui prima vendemmia risale solamente al 2019, sono un condensato del terroir della Valpolicella.
PICCOLI (strada dei Monti 21/B, Parona di Valpolicella – Verona) info@piccoliwine.it
🚲 34 minuti
🦶 1,38 ore 🚌 52 minuti (di cui 36 a piedi) 🚗 17 minuti
Le sorelle Veronica e Alice portano avanti oggi l’azienda di famiglia suddividendosi i compiti tra vigna, cantina e commercializzazione. Al loro fianco i genitori Daniela e Tiziano, eredi dei vigneti avviati dalla nonna. Una piccola realtà famigliare molto ben organizzata in termini di ospitalità, con visite in cantina e degustazioni che sono alla base della “Piccoli Wine Experience”.
🚲 32 minuti 🦶 1,21 ore 🚌 47 minuti (di cui 28 a piedi) 🚗 18 minuti
Molto più di una visita in cantina: fare tappa da Pietro Zanoni significherà immergersi in un concentrato di nozioni di viticoltura ed enologia, nel segno della meticolosa attenzione che questo appassionato vignaiolo della Valpolicella ripone in ogni singola bottiglia.
🚲 25 minuti
🦶 55 minuti 🚌 23 minuti (di cui 7 a piedi) 🚗 16 minuti
Vista mozzafiato sulla città di Verona dall’Agriturismo San Mattia, cuore pulsante dell’attività di Giovanni Ederle. Il vignaiolo classe 1987 ha fatto della “diversificazione” (in ottica green) il cavallo di battaglia della propria attività, mescolando con sapienza ospitalità, ristorazione e produzione di vini biologici. Da non perdere la piscina in fase di inaugurazione, prossima sede di alcuni tra gli aperitivi più sensazionali di tutta la città (e non solo).
🚲 25 minuti 🦶 1,29 ore
🚌 26 minuti (di cui 5 a piedi)
🚗 17 minuti
Mauro, Patrizia, Sofia ed Elia: in una parola, Corte Figaretto. Nel cuore del vigneto urbano di Verona si trova una della cantine familiari che meglio stanno interpretando il cambio di passo dell’Amarone e dei vini della Valpolicella. Alla base del lavoro della famiglia Bustaggi c’è una grande attenzione in vigna, capace di regalare vini originali e genuini, fedeli interpreti del territorio della Valpantena.
CANTINE MENEGOLLI WINES (via Ponte Florio, 47, 37141 Verona) info@menegolli.net 🚲 24 minuti
🦶 1,19 ore 🚌 34 minuti (di cui 17 a piedi) 🚗 15 minuti
Cantine Menegolli val bene la visita per il Guinness World Record detenuto «per la più grande botte di vino del mondo». Un capolavoro che si erge al centro della barricaia, a 12 metri di profondità, capace di contenere 42.909 litri di vino. È il grande tesoro di Luigi Menegolli, della moglie Flavia e dei figli Dario ed Elsa. Una famiglia pronta a mostrare, inoltre, alcune tra le bottiglie più “glamour” della Valpolicella, brandizzate da noti marchi internazionali.
🚲 44 minuti 🦶 2,16 ore 🚌 46 minuti (di cui 21 a piedi)
🚗 21 minuti
Cambia – e di parecchio – il colpo d’occhio ad Antiche Terre Venete, cantina che potrebbe fare della viticoltura eroica un cavallo di battaglia. Pendenze mozzafiato dall’alto dei vigneti che sovrastano la modernissima cantina, con terrazza in grado di ospitare feste ed eventi. Il progetto comune di Luciano Sancassani e Roberto Degani e il loro progetto di «archeologica industriale» procede spedito sia sul fronte della produzione che dell’ospitalità in cantina.
🚲 24 minuti
🦶 1,19 ore 🚌 28 minuti (di cui 10 a piedi) 🚗 15 minuti
Risponde al nome di “Tezza Experience” la proposta di degustazione e visita della cantina Tezza Wines, in Valpantena. I cugini Vanio, Flavio e Federico, terza generazione di vignaioli, portano avanti un progetto che si fonda sul “Km Zero”, ovvero è la famiglia ad occuparsi interamente delle fasi di produzione, nel segno di una “filiera corta” volta a garantire la qualità assoluta del prodotto. Ciliegina sulla torta è la comoda pista ciclabile che lambisce i vigneti di Tezza, alle spalle della cantina.
🚲 24 minuti
🦶 1,24 ore 🚌 30 minuti (di cui 5 a piedi) 🚗 19 minuti
Molto più di una degustazione di vini della Valpolicella è quello che può offrire Villa San Carlo. Dall’alto del Monte Martinelli, la dimora che dà il nome alla Tenuta domina il caratteristico paese di Montorio. Siamo a pochi chilometri ad est di Verona, in un borgo di origine preromana che ha fatto dell’acqua un valore assoluto: risorgive e piccoli canali sono uno spettacolo ancora attuale. In questo contesto naturalistico, i titolari di Villa San Carlo hanno voluto recuperare una parte degli edifici dell’area “Ex Sapel” (via della Segheria, 1/H), convertendoli a wine-shop e uffici, nel cuore del paese. L’ennesima location da non perdere, a pochi passi dal centro di Verona, è dunque quella con le numerose “Experiences” offerte dalla cantina ai visitatori.
🚲 40 minuti 🦶 2,17 ore 🚌 55 minuti (di cui 27 a piedi) 🚗 25 minuti
Tra le ultime cantine nate in Valpolicella c’è Lavagnoli, interprete dello splendido micro terroir della Val Squaranto. Vero, ci si allontana dal centro della città. Ma la visita, per gli enoturisti più sportivi, saprà ripagare le fatiche del viaggio. Appena 15 mila le bottiglie prodotte da questa realtà artigianale, capace di assicurare un’ospitalità tipica delle “Rame”, le abitazioni dove un tempo era possibile entrare e chiedere un fiasco di vino. Un’occasione, per dirla con le parole di Andrea Lavagnoli, «per respirare più lentamente all’ombra delle vigne». Prima di ripartire.
TORRE DI TERZOLAN (via Trezzolano 4, 37141 Mizzole) hospitality@torrediterzolan.it 🚲 1 ora 🦶 2,46 ore 🚌 34 minuti (di cui 8 a piedi) 🚗 25 minuti
Per giungere a Torre di Terzolan ci si “arrampica” tra le curve costellate da vigneti e oliveti tipiche della Val Squaranto. Un altro viaggio che vale la fatica. Ad attendere i visitatori, sul posto, l’antica dimora del cardinale Ridolfi, famiglia patrizia di origine veneziana. Gli attuali proprietari hanno messo a disposizione degli ospiti quattro lussuose suite, disponibili insieme all’intera villa per eventi business. I vini di Torre di Terzolan rispecchiano fedelmente l’involucro in cui prendono vita: volti eleganti e sinceri della Val Squaranto, una delle zone in cui la Valpolicella è destinata a produrre i suoi migliori vini.
🚲 28 minuti
🦶 1,36 minuti 🚌 32 minuti (di cui 9 a piedi) 🚗 19 minuti
Altro giro, altra azienda giovanissima che si affaccia alla viticoltura in Valpolicella. I vigneti di Massimo Bronzato e della sua famiglia sono situati nell’alta Val Squaranto, ma la cantina si trova a Montorio, ben collegata con il centro di Verona e raggiungibile piuttosto agilmente sia in bicicletta sia con i mezzi pubblici. L’interpretazione della Valpolicella di Bronzato è legata alle espressioni dei differenti suoli a disposizione, connotati da basalto, biancone della Lessinia e selce. La piccola cantina, tuttora in fase di organizzazione, offre degustazioni in un ambiente sincero e famigliare.
🚲 1,28 minuti 🦶 3,22 ore
🚌 59 minuti (di cui 25 a piedi)
🚗 31 minuti
Contrada Palui è un’altra giovanissima realtà della Valpolicella che, sin dalla prima vendemmia, sta mettendo in luce il grande potenziale dell’Alta Val Squaranto. Deus ex machina di Contrada Palui è Hannes (Hans Karl) Pichler, imprenditore altoatesino del settore delle energie rinnovabili da sempre affascinato dal mondo del vino. Qui, nella selvaggia vallata a nord di Verona, Pichler ha trovato la sua dimensione ideale, tra la piccola vigna impiantata su terre vergini e una minuscola cantina in cui sperimenta (anche) con le anfore. Il risultato? È di quelli che valgono la visita, per l’approccio essenziale e modernissimo al vino della Valpolicella e alla viticoltura. Una cantina che farà parlare molto di sé.
DOVE MANGIARE A VERONA: PRANZO O CENA NEL VIGNETO URBANO
SIGNORVINO VALPOLICELLA
(via Preare, 15, 37124 Verona)
🚲 15 minuti
🦶 57 minuti
🚌 24 minuti (di cui 11 a piedi) 🚗 12 minuti
Piatti della tradizione italiana e un assortimento di oltre 1500 etichette Made in Italy al prezzo di cantina, servite in un ambiente informale. Cambia l’indirizzo ma non cambia la formula di Signorvino, anche nel ristorante-enoteca immerso tra i vigneti della Valpolicella, peraltro a pochi metri dal nuovo Museo del Vino di Cantine Montresor.
BAR THE BROTHERS – BIGOLERIA (Viale Olimpia, 1, 37023 Grezzana) emy4.sal@gmail.com
🚲 41 minuti 🦶 2,27 ore
🚌 33 minuti (di cui 3 a piedi)
🚗 22 minuti
Bar, Bigoleria, Birreria, Enoteca e Musica Live. Offre tutto questo Bar The Brother, a Grezzana. Uno dei luoghi più caratteristici della città di Verona, da non perdere durante la visita delle cantine della Valpolicella. La cucina completa un’offerta a 360 gradi, capace di spaziare dalla colazione al dopo cena. Ma il piatto forte sono i bigoli, pasta tipica veronese che da The Brothers è possibile gustare in accompagnamento a una decina di sughi diversi. Altro focus della cucina è la carne, tra cui molti tagli a “Km 0”.
TRATTORIA IL FEUDO (Piazza G. Marconi, 1, 37030 Mezzane di Sotto – Castagné) info@trattoriailfeudo.com
🚲 1,16 ore
🦶 3,13 ore
🚌 36 minuti (di cui 3 a piedi) 🚗 39 minuti
Parola d’ordine “gnocchi” da Trattoria Il Feudo, da scegliere in particolar modo durante la visita delle cantine della zona di Montorio. Poco più di 20 posti a sedere, per garantire pranzi e cene in relax e tranquillità. La cucina, al di là degli gnocchi, propone taglieri di salumi e piatti regionali.
TRATTORIA AL POMPIERE (vicolo Regina D’Ungheria, 5, 37121 Verona) info@alpompiere.com
🚲 2 minuti 🦶 9 minuti 🚌 9 minuti
Semplice ma di classe. Tra i ristoranti da non perdere a Verona c’è sicuramente Trattoria Al Pompiere, al civico 5 del centralissimo vicolo Regina d’Ungheria. La cucina, aperta dalla metà dello scorso secolo, serve piatti di carne e pasta in una sala da pranzo accogliente e dallo stile rustico, costellata da foto in bianco e nero e a colori che ripercorrono la storia del locale e di Verona. Grande attenzione nella selezione dei vini, con ampia scelta di etichette della Valpolicella e del Veneto.
🚲 2 minuti
🦶 4 minuti “4 cuochi” come i quattro soci – di cui due allievi di Giancarlo Perbellini – che nel 2012 hanno scelto di proporre, nel cuore storico di Verona, la cucina italiana di qualità, abbinata a una carta vini preziosa che valorizza alcune delle “chicche” della produzione della Valpolicella. Quattro matite e tanta carta a disposizione su ogni tavolo per lasciare il proprio segno con un doodle, un ritratto, un pensiero scritto. Tra una portata e l’altra (e un calice e l’altro), s’intende.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
“Le litrò de Gi.Gi.“. Si chiama così l’ultimo vino in bottiglia da 1 litro firmato dal “Camerlengo” Antonio Cascarano, custode di antichi vitigni riportati alla luce e salvati dall’oblio, in Basilicata. Siamo a Rapolla, nel Vulture, per una novità che non arriva a caso dopo il periodo di pandemia, in cui si è assistito alla riscoperta dei “grandi formati”.
Non sono casuali neppure gli accenti sul nome di fantasia scelto per il nuovo vino. «Con il nome “Le litrò de Gi.Gi.” mi diverto un po’ a scimmiottare i francesi – spiega a winemag.it Antonio Cascarano – giocando col loro accento e scegliendo, per di più, il formato da 1 litro, tipico della cultura contadina italiana. Ma soprattutto è il primo vino che dedico a me stesso, dopo averne dedicati altri a persone a me care e al mio cane».
Fuori da Rapolla mi conoscono tutti come Antonio, nome che ho ereditato dal nonno paterno. Ma all’anagrafe ho anche altri due nomi: Luigi, perché sono nato il 21 giugno, giorno di San Luigi; e Giovanni, come il nonno materno. In paese mi hanno sempre chiamato “Luigino” o “Gigino”: da qui l’idea di “Gi.Gi.”. Il punto dopo la “G” sta a indicare… Beh, è facile da capire: ha a che fare con le donne!».
IL VINO NATURALE E LA RISCOPERTA DEI GRANDI FORMATI
L’ultima annata, generosa, ha consentito a Cascarano di produrre 1000 bottiglie di “Le litrò de Gi.Gi.”. Un numero destinato a ridursi ben presto, in vista della presentazione ufficiale della nuova etichetta in programma proprio il 12 giugno 2023. «Sarà una festa – anticipa il patron dell’Azienda agricola Camerlengo – con i piatti di Riccardo Barbera all’Agriturismo Masseria Barbera di Minervino Murge. La nuova etichetta sarà poi commercializzata su assegnazione, perché voglio assicurarmi che ce l’abbiano un po’ tutti, dall’importatore americano ai distributori italiani».
“Le litrò de Gi.Gi.” è un vino macerato ottenuto dalle rare uve Santa Sofia e Cinguli, che si dividono in maniera esatta l’uvaggio (la prima è nota anche come “Fiano del Cilento”; la seconda è molto simile al Trebbiano toscano). «Un vino da tutti i giorni – spiega Antonio Cascarano – da bere in totale spensieratezza. Un vino contadino, che mi rappresenta e che invoglia all’assaggio di altri vini in bottiglia da 1 litro. Uno su tutti il “Litrò Rosso” da uve Ciliegiolo e Sangiovese prodotto a Montemelino, in Umbria, dalla cantina Conestabile della Staffa». Un altro vino con l’accento e un altro vino contadino. Pardon, “contadinò”. Prosit.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Chi può “sfidare” il Sangiovese della Toscana? Ci hanno provato addirittura in Ungheria, con un vino chiamato “Tabunello” (no, non c’è scritto Brunello). A produrlo (tuttora) è un vignaiolo ungherese, Csaba Török, che coltiva poco più di due ettari a nord del Lago Balaton, poco lontano da Budapest. Convincere il Consorzio Vini di Montalcino che si trattasse di una «scelta d’amore per il Sangiovese Grosso» è stata un’impresa fallimentare. Anche perché il sito web della cantina, denominata 2HA, era “brunello.hu”, ed è stato eliminato dopo una causa legale avviata dal Consorzio. Non si è arrivati neppure in Tribunale.
Come documentato qui da winemag.it, l’impressionante lista di avvocati internazionali messa in campo dall’ente toscano ha spento ogni velleità dell’appassionato vignaiolo Csaba Török. Che resta comunque, tutt’oggi, un grande fan del Brunello di Montalcino. Ma la battaglia per la “next generation Sangiovese“, capace di stare al passo della qualità di quelli toscani, non è finita. La nuova sfida per i produttori tradizionali non è più in Ungheria, ma si trova esattamente dall’altra parte della collina, in una sorta di revival delle guerre tra città e città che hanno costellato la storia della Toscana.
LA “NUOVA” ROMAGNA DEL SANGIOVESE
A sfidare il Sangiovese più famoso del mondo – quello toscano, per l’appunto – ci pensano i vicini di casa dell’Emilia Romagna. Il salto di qualità della regione del centro Italia è stato impressionante negli ultimi anni. E sta iniziando a dare i suoi primi frutti, in particolare, a Predappio. Il Comune di 6.200 abitanti della provincia di Forlì-Cesena è tra i più promettenti delle 16 Sottozone del Romagna Sangiovese Doc, create nel 2011 dal Consorzio Vini di Romagna.
Un’opportunità che Predappio – famosa per ospitare la casa natale di Benito Mussolini, oltre alla cripta di famiglia e a un numero ingente di edifici di grande pregio architettonico, alcuni dei quali ancora da riqualificare – sta cogliendo appieno, grazie alle ultime generazioni di viticoltori.
All’interno della sottozona, che si allunga longitudinalmente da nord-ovest a sud-est, dall’areale pianeggiante di Forlì al tortuoso entroterra di Galeata e Strada San Zeno, racchiusa tra le altre tre sottozone di Castrocaro, Bertinoro e Meldola, si producono vini molto diversi tra loro. Ma tutti in grado di mostrare le peculiarità di un’areale che ha le carte in regola per competere con la Toscana.
SANTANDREA: «PREDAPPIO TRA I PRIMI A CREDERE NELLE SOTTOZONE DEL SANGIOVESE»
«Predappio – sottolinea Ruenza Santandrea, presidente del Consorzio Vini di Romagna – è una delle zone che per prima ha manifestato interesse allo status di “sottozona” ed è tuttora una delle più vivaci. Nel futuro della regione c’è il racconto delle peculiarità del Sangiovese dell’entroterra, una zona poco raccontata e ancora poco conosciuta, che vogliamo rendere sempre più nota a turisti e a amanti del vino italiani ed internazionali. Il rigido disciplinare, con il 95% minimo di Sangiovese, aiuta a legare ancor più questa uva al territorio, sottolineando come in Romagna, da sempre, il Sangiovese venga vinificato in purezza, a differenza dei blend più comuni in Toscana».
I Romagna Doc Sangiovese di Predappio, promossi dall’Associazione Terre di Predappio (nella foto sopra i produttori aderenti) risultano più corpulenti e larghi nella zona nord-orientale, per poi tendersi sempre più come la corda di un arco man, mano che ci si avvicina alla dorsale dei monti Appennini. Qui, esattamente “al di là della Toscana”, nascono caratterizzati da venature ancora più minerali e speziate. Cambiano i vini perché cambiano i suoli. E il Sangiovese di Romagna si dimostra, come tutti i più grandi vitigni del mondo, capace di leggere all’ennesima potenza le peculiarità microclimatiche e pedologiche, in una parola del “terroir”.
ROMAGNA DOC SANGIOVESE: I SUOLI DELLA SOTTOZONA PREDAPPIO
All’interno della stessa Predappio possono essere infatti identificati almeno quattro differenti conformazioni di suolo, che tagliano la sottozona da nord a sud, in maniera piuttosto verticale. Spostandosi dalla zona costiera verso gli Appennini, si trovano i Terrazzi di Fondovalle composti da sabbie, ghiaie e argille alluvionali (Olocene) al caratteristico “Spungone“, nome con il quale in Romagna si definiscono le sabbie cementate con vene di calcare arenaceo poroso (Pliocene medio). Il cuore di Predappio è costituito da arenarie tenere, ovvero marne arenacee (Tortoniano).
Di grande interesse, sempre in quest’area, la formazione gessoso-solfifera dei sedimenti evaporitici (Messiniano). Infine, appena al di là della Toscana – o appena al di qua della Romagna, a seconda dei punti di vista – ecco le arenarie a strati che danno vita a una sorta di effetto torta millefoglie (epoca del Tortoniano e del Serralunghiano).
Una geografia, quella delle 16 “Sottozone del Romagna Sangiovese Doc” che stravolge l’immaginario collettivo della Romagna, considerata da molti una terra “piatta”, contraddistinta da forme di coltivazione intensiva, a un passo dalla costiera del mare Adriatico. Nulla di più sbagliato. Il territorio di Predappio è un crocevia di curve che si aprono su paesaggi collinari incantati, in cui regna la biodiversità. Spesso i vigneti, che si spingono fin oltre i 400 metri di altitudine, sono affiancati da oliveti e boschi.
ROMAGNA DOC SANGIOVESE PREDAPPIO: I VINI DA NON PERDERE
E se c’è una cantina su tutte che può mostrare quanto variegato sia il territorio di questa fetta di Italia, quella è l’Azienda agricola Pandolfa, che destina i vigneti “di quota” alla produzione dei vini della linea Noelia Ricci. Il nome rende onore alla donna che, tra le prime, diede impulso alla viticoltura a Predappio, costruendo negli anni Settanta una cantina nei sotterranei della Pandolfa, villa del Settecento situata a Fiumana (FC), nella zona nord-orientale della sottozona. Oggi l’azienda si è dotata di un polo produttivo a sé stante, ai piedi della collina dominata da Villa Pandolfa, ed gestita da Marco Cirese e dalla moglie Alice Gargiullo.
Si raggiunge la vetta, a circa 350 metri sul livello del mare, solo a bordo di un fuoristrada. Qui il territorio pianeggiante lascia spazio a ripidi vigneti e a un pianoro di Sangiovese ad alberello, fortemente voluto da Marco Cirese. L’uva giova di un’escursione termica importante e i vini Noelia Ricci si riconoscono a vista, dal colore meno scuro e dalle note che delineano un Sangiovese d’Appennino. Lo stesso stile che contraddistingue i due vini prodotti dalla giovane Chiara Condello, tra le viticoltrici italiane più dinamiche oggi presenti nel variegato mondo del Sangiovese. Una star emergente, capace di regalare un Predappio 2020 che abbina pienezza del succo e verticalità minerale, con la delicatezza del petalo di viola e di un tannino fitto ma finissimo.
LA SVOLTA GIOVANE DEL SANGIOVESE DI ROMAGNA
Altro giovane da non perdere, in zona, è Pietro Piccolo-Brunelli, che con il suo “Cesco” 2020 da Sangiovese allevato a 350-400 metri sul livello del mare, suggerisce accostamenti concettuali con la stilistica dei grandi Pinot Nero internazionali: eleganza è la parola d’ordine assoluta. Per trovare una mineralità quasi vulcanica, certamente sulfurea, il riferimento è Fattoria Nicolucci: il “Tre Rocche” 2020 di Alessandro Nicolucci fa da degno contraltare alla Riserva “Vigna del Generale”, con ricordi umami a giocare attorno a un succo polposo e ai ricordi di erbe aromatiche.
Tra le cantine da non perdere nell’annata della svolta (la 2020, per l’appunto) utili a comprendere quanto reali siano le chance di Predappio nella “Next generation Sangiovese”, ci sono poi Drei Donà di Ida ed Enrico Drei Donà, con il loro caldo e polposo “Notturno”; Stefano Berti, con l’intrigante e slanciato “Ravaldo”; Rocca Le Caminate di Antonio Fabbri, con il suo “Sbargoleto”, sapido e goloso.
E ancora: Cantina La Fornace delle famiglie Pazzi e Valentini, con il saporito e ben estratto “Cassiano”; Francesco Zanetti Protonotari Campi di Villa i Raggi, col suo “Colmano di Predappio”, che nel suo essere ancora contratto mostra tutta la longevità del Sangiovese di Predappio. E Filippo Sabbatini con “Mezzacosta”, tutto frutto rosso e fiori. La Toscana è avvisata.
LOCANDA APPENNINO: OVVERO DOVE MANGIARE (E DORMIRE) A PREDAPPIO
Locanda Appennino (via Strada Nuova, 48) è la location da scegliere ad occhi chiusi come base per la scoperta del territorio di Predappio e del Romagna Doc Sangiovese. Un immobile del 1958 completamente ristrutturato dal titolare, Jacopo Valli, imprenditore che vanta numerosi locali di successo anche all’estero. Locanda Appennino è il frutto della passione per la ristorazione e l’ospitalità di un gruppo di professionisti del settore, che lavorano in grande sinergia per regalare agli ospiti un’esperienza a 360 gradi.
Alla base del progetto c’è il ristorante, che sotto la direzione dello chef Alan Bravaccini offre – ça va sans dire – una cucina tradizionale romagnola con prodotti stagionali e selezionati del territorio. Gettonatissimo anche il “reparto” pizzeria, con forno a legna. La cantina della Locanda, curata dal sommelier Roberto Celli, è il vero cuore pulsante del locale, con ampia scelta di vini delle migliori realtà locali (e non solo).
La panoramica sul Sangiovese romagnolo, in primis su quello di Predappio, è davvero profonda. Non mancano ovviamente le denominazioni italiane ed estere più ricercate, tra cui lo Champagne. Cinque le camere di Locanda Appenino, ognuna pensata per far rivivere un «angolo di casa».
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
EDITORIALE – Un territorio, un vitigno, un vino. Suona più o meno così il mantra del successo internazionale delle regioni vinicole francesi, che in questo modo si rendono più “comprensibili” agli occhi dei consumatori internazionali, valorizzando meglio i loro gioielli enologici.
Eppure, mentre l’Italia sembra fare sempre più suo questo concetto – nonostante le numerosissime resistenze che zavorrano diverse regioni vinicole, sprovviste persino di una vera e propria “piramide della qualità” a livello consortile – le ultime mosse in tema di comunicazione dei cugini d’Oltralpe fanno pensare a una svolta della Francia verso una certa… “italianizzazione“.
L’IGP PAYS D’OC, PATRIA DEI ROSATI FRANCESI
Due le regioni che stanno propendendo per un allargamento dei propri confini concettuali e comunicativi. La prima è Languedoc-Roussillon che con l’Igp Pays d’Oc, al suono dello slogan Liberté de style, “Libertà di stile”, punta ora ad andare ben oltre il ruolo di regione numero uno dei rosé francesi (272,9 milioni di bottiglie e 34% del market share della tipologia, contro i 139,5 milioni della Provenza).
Il 50% dei vigneti della regione (120 mila ettari su 240 mila totali) sono dedicati alla produzione di vini varietali – non solo rosé – ottenuti da uve come Merlot, Chardonnay e Grenache Noir, ma anche Cabernet Sauvignon, Sauvignon Blanc, Cinsault e Viognier.
Ed è questa gran varietà di scelta che sta puntando tutto il Syndicat des Producteurs de Vin de Pays d’OcIgp e la locale Interprofession. Il tutto, insieme – e non è un aspetto secondario – all’ottimo rapporto qualità prezzo dei vini, che ne sta favorendo la notorietà sui mercati internazionali, in momenti in cui altre regioni francesi hanno raggiunto picchi inarrivabili.
LA SVOLTA IN BIANCO DEL MÉDOC
La seconda regione francese alla svolta della comunicazione è il Médoc. Nella nota Aoc dell’areale di Bordeaux è in atto un forte polemica per la proposta di inclusione di vitigni come Chardonnay, Chenin blanc, Viognier e Gros Manseng nella versione bianca del Médoc. Un’iniziativa che sta creando non pochi conflitti con le regioni vinicole francesi in cui queste varietà sono maggiormente rappresentative, come Borgogna e Loira.
A proporre la modifica del disciplinare e la svolta “in bianco” è niente meno del Consorzio vini Médoc, Haut-Médoc e Listrac-Médoc, che fa notare come i suoli di matrice ghiaiosa e argillo-calcarea della regione siano perfetti per la produzione di grandi vini bianchi, al pari dei rossi già noti internazionalmente (e forse meno bevuti d’un tempo, aggiungiamo noi).
Un cambio di passo connesso ai nuovi trend di consumo, che avvicina sempre più la Francia a una sorta di italianizzazione delle proprie denominazioni. D’altro canto, per la regione si tratterebbe di un ritorno al passato entro il 2025, ovvero a quell’Aoc Médoc Blanc per il quale diversi produttori nutrono nostalgia, pur potendo imbottigliare i loro bianchi come Aoc Bordeaux. Giusto o sbagliato, lo dirà solo il tempo. E allora Santé. Anzi, alla salute.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Mentre il governo dà il via libera al Decreto siccità, con l’istituzione di una Cabina di regia e la nomina di un Commissario straordinario nazionale per l’adozione di interventi urgenti connessi all’emergenza idrica, i viticoltori italiani accendono fuochi in diverse zone, per difendere i vigneti dalle gelate. Il rischio è quello di perdere gemme preziose, dopo un inverno caldo e secco caratterizzato dal 30% in meno di piogge e una temperatura di 1,38 gradi in più, nel Nord Italia. Primo fra tutti a muoversi in questo senso, come documentato qui da winemag.it, è il Consorzio di Tutela del Prosecco superiore di Conegliano Valdobbiadene, che ha già trovato l’accordo per lo studio di fattibilità di un “piano invasi” in 15 comuni della Docg.
Siccità e gelo si “incontrano” così in un aprile, quello 2023, che porta comunque buone n0tizie, almeno sul fronte istituzionale. Il crollo delle temperature notturne sotto zero che sta colpendo il Paese alla vigilia di Pasqua, si verifica durante l’ennesima situazione di piena emergenza siccità. Con il Po mai così basso, neve dimezzata sulle montagne e livelli dei laghi ai minimi. I numeri parlano da soli. Il Po è a -3,6 metri sotto lo zero idrometrico, con le sponde ridotte a spiagge di sabbia al Ponte della Becca, in provincia di Pavia. La neve, fra Lombardia e Piemonte, è calata di oltre il 50%, tagliando le riserve idriche per l’estate. I laghi boccheggiano, con il Garda che è ai minimi storici del periodo. Ampiamente sotto la media i livelli di Lago di Como e Lago Maggiore.
TRA GELATE E SICCITÀ: VITICOLTORI ITALIANI NELLA MORSA DEL CLIMA
Una tenaglia climatica tra freddo e siccità che, come sottolinea la Coldiretti, «si abbatte su una natura in tilt, con le coltivazioni che si erano risvegliate prima del solito ingannate dalle temperature anomale, con il rischio adesso di perdere i raccolti di un anno di lavoro». In funzione i ventilatori antigelo, che mescolando gli strati più caldi dell’aria a 14 – 15 metri sopra il terreno con quella più fredda che circonda gli alberi, permettono di creare una “barriera protettiva” in grado di salvare i piccoli frutti in maturazione.
Ma dall’assalto del gelo gli agricoltori si difendono anche usando il freddo stesso, con dei vaporizzatori d’acqua che creano una patina su rami e frutticini, utile a ghiacciare senza soffocare o bruciare la pianta, proteggendola al tempo stesso dal crollo eccessivo delle temperature. Con i raccolti sempre più esposti alle conseguenze dei cambiamenti climatici – sono stimati in oltre 6 miliardi di euro i danni all0agricoltura italiana, solo nell’ultimo anno – le associazioni di categoria accolgono con grande favore il Decreto Siccità a cui a dato il via libera il Consiglio dei Ministri, nelle scorse ore.
«È importante intervenire per fronteggiare il grave problema della siccità che sta interessando l’intero Paese – evidenzia il presidente di Coldiretti, Ettore Prandini – con circa 300 mila aziende agricole che si trovano nelle aree più colpite dall’emergenza. La situazione più drammatica è nel bacino della Pianura Padana, dove nasce quasi un terzo dell’agroalimentare Made in Italy e la metà dell’allevamento».
COLDIRETTI E CONFAGRICOLTURA PLAUDONO AL DECRETO SICCITÀ
L’Italia perde ogni anno l’89% dell’acqua piovana. Sempre secondo Coldiretti, «è dunque necessario intervenire sulla manutenzione e realizzare una rete di piccoli invasi diffusi sul territorio, per conservare l’acqua e distribuirla quando è necessario ai cittadini, all’industria e all’agricoltura». Ad esprimere soddisfazione per l’approvazione del Decreto Siccità appena varato dal Governo è anche Confagricoltura. Convincono l’istituzione della Cabina di regia e l’identificazione della figura del Commissario straordinario. Particolare apprezzamento anche per la misura volta al riutilizzo delle acque reflue depurate ad uso irriguo, attraverso il rilascio di un provvedimento autorizzativo unico, «un intervento fortemente auspicato da Confagricoltura».
«Le procedure semplificate per la realizzazione di infrastrutture idriche, tra cui i progetti di desalinizzazione, e per la realizzazione di invasi aziendali – evidenzia la confederazione – sono per gli imprenditori agricoli concreti manifesti di un iniziale impegno da parte del Governo in carica di cercare di risolvere le future carenze di approvvigionamento della “risorsa blu”. Un segno di ulteriore sensibilità del Governo emerge altresì dall’istituzione degli Osservatori distrettuali permanenti sugli utilizzi idrici e per il contrasto dei fenomeni di scarsità idrica presso ciascuna Autorità di bacino distrettuale. Questi organismi saranno determinanti per la raccolta, l’aggiornamento e la diffusione dei dati relativi alla disponibilità e all’utilizzo della risorsa idrica nel distretto idrografico di riferimento».
FEDERVINI SUL DECRETO SICCITÀ: «BENE CABINA DI REGIA E COMMISSARIO»
Come di consueto, non usa giri di parole neppure Federvini. «Finalmente qualcosa si muove», è il commento della presidente Micaela Pallini all’iniziativa del Governo di varare il Decreto siccità. Anche per l’organizzazione italiana di riferimento dei principali produttori e importatori di vini, liquori, acquaviti e aceti, aderente a Federalimentare e Confindustria, è positiva «la nascita della Cabina di regia incardinata presso la presidenza del Consiglio dei ministri e presieduta dal Ministro delle Infrastrutture, nonché la nomina di un Commissario straordinario nazionale per l’adozione di interventi urgenti connessi al fenomeno della scarsità idrica».
«Abbiamo raccolto da tanti associati le grida di aiuto – aggiunge Pallini -perché per mesi non ha piovuto anche in regioni tradizionalmente senza problemi. E non sono stati previsti strumenti compensativi. In molte zone c’è quindi rischio serio di compromettere il raccolto. Dopo un 2022 caratterizzato da scarse precipitazioni e un inverno povero di neve, il 2023 si annuncia complicato anche per il settore vitivinicolo, che da solo vale 13 miliardi di fatturato, di cui 8 miliardi da export. Abbiamo rappresentato la gravità della situazione ai molti esponenti del Governo in occasione del Vinitaly e ricevuto rassicurazioni di un pronto intervento, di cui abbiamo avuto il primo positivo riscontro con il via libera al Decreto Siccità».
«Vengono finalmente adottate – ha proseguito Pallini – misure capaci di rendere più efficace l’azione del Governo e delle Regioni, dando la priorità alla realizzazione degli interventi più urgenti e di rapida attuazione. Anche le semplificazioni per la costruzione di invasi per trattenere le acque piovane, le attività di riutilizzo delle acque reflue depurate e per la realizzazione di impianti di desalinizzazione sono salutate dal nostro mondo come utili se non addirittura indispensabili. Inoltre – conclude la numero uno di Federvini – la nomina di un Commissario straordinario, dotato di poteri sostitutivi consentirà interventi qualora si verificassero ritardi nella realizzazione. I nostri vigneti non possono attendere i tempi lunghi, o a volte addirittura i tempi morti, della burocrazia».
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
EDITORIALE – Basso tenore alcolico, ottimi livelli di acidità, discreta resistenza alle malattie e, udite bene, alla siccità. È più facile elencare i pregi della Nosiola che i suoi difetti, unico tra i quali sembra essere l’incomprensibile gap tra i pregi stessi e la scarsa considerazione di cui gode il vitigno. Nosiola e Rebo, varietà a bacca rossa ottenuta a fine anni Quaranta dall’incrocio di Merlot e Teroldego da parte dell’agronomo Rebo Rigotti, sono fratello e sorella in Valle dei Laghi, a una ventina di minuti da Trento. Gli Hänsel e Gretel della viticoltura trentina, distratta dal successo dei vitigni internazionali, anche nelle carte dei vini dei ristoranti locali.
A denunciarlo, per l’ennesimo anno consecutivo, è l’Associazione Vignaioli del Vino Santo Trentino Doc, protagonista lo scorso weekend di “DivinNosiola – quando il Vino si fa Santo” 2023, culminata con il tradizionale “Rito della spremitura” a Santa Massenza (sotto il video). Il passaggio di consegne alla presidenza da Enzo Poli (Maxentia) al subentrante Alessandro Poli (Az. Agr. Francesco Poli) si è svolto nel solito clima di incredulità rispetto alle sorti della Nosiola e del Vino Santo. Un sentimento condiviso anche da Roberto Anesi, sommelier Ais che ha condotto una masterclass dal sapore nuovo.
DALLA NOSIOLA SECCA AL VINO SANTO DEL TRENTINO
Per la prima volta, accanto a quattro etichette di Vino Santo delle annate 2008 (Pravis), 2003 (Gino Pedrotti), 1998 (Francesco Poli) e 1983 (Fratelli Pisoni) sono state presentate due Nosiola secche. I vini, prodotti da Giovanni Poli e Maxentia, entrambi dell’annata 2022, hanno mostrato la grande versatilità del vitigno, capace di regalare vini freschi e tesi, con potenziale assoluto di affinamento. Vini che entrano perfettamente nelle corde del consumatore moderno, a caccia di etichette dal basso tenore alcolico, immediate ma non banali, fresche e che privilegino la facilità di beva.
Un contraltare perfetto per i più ricchi e complessi Vino Santo, che nell’orizzontale hanno confermato l’attesa longevità, nonché sottolineato – ancora una volta – l’incredibile occasione persa dai ristoratori locali (e nazionali), che indugiano a presentarli in mescita nelle loro carte vini. E non è una questione di prezzo, considerando che il Vino Santo “d’annata”, in cantina (dunque tasse incluse), si aggira attorno ai 34 euro. «Vini – ha sottolineato Roberto Anesi – che si conservano a lungo una volta aperti, il che non fa altro che sottolineare l’occasione persa da molti ristoranti».
LA NOSIOLA NELLA SFIDA DEI CAMBIAMENTI CLIMATICI
Con la giusta comunicazione a livello internazionale, la Nosiola potrebbe diventare la “New thing” del Trentino del vino. Anche perché, come dimostrano alcune versioni – da provare, su tutte, quella dell’Azienda agricola Francesco Poli di Santa Massenza – il vitigno si presta pure in versione “bollicina”, in particolare come rifermentato in bottiglia. Quanti altri vitigni possono contare su una trasversalità tale, dalle versioni “frizzanti” ai vini fermi, chiudendo con vini dolci di gran pregio? Su tutti, il paragone della Nosiola con il Furmint di Tokaji è immediato, nonostante il secondo sia molto più noto, ricercato e ben considerato su scala globale.
Diverso è anche il “peso” del vigneto di Nosiola, che conta poco più di 70 ettari, meno dell’0,1% degli ettari vitati complessivi del Trentino (la varietà più allevata, con 2.550 ettari, è il Pinot Grigio). «Eppure – commenta Erika Pedrini (nella foto, sopra) dell’Azienda agricola Pravis – è un’uva incredibile. Ha il grande vantaggio di mantenere una bella acidità, anche in annate molto calde e siccitose come queste ultime, ed è dunque una varietà a cui i cambiamenti climatici fanno meno paura. Ed è proprio grazie a questa bella freschezza che si presta bene all’appassimento e a lunghi affinamenti».
DAL REBO AL REBORO
E il Rebo? Come detto, è il “fratello” trentino della Nosiola, con cui non condivide il patrimonio genetico, bensì le sorti di “vitigno-vino di nicchia“. In Valle dei Laghi, l’associazione locale lo propone soprattutto nella sua versione “Reboro“, marchio registrato che indica i vini rossi ottenuti da leggero appassimento del Rebo sfruttando, per l’appassimento naturale su graticci, lo stesso vento che favorisce la produzione del Vino Santo: l’Ora del Garda. Il Reboro trascorre un lungo periodo di permanenza sulle bucce e passa in rovere, prima di essere imbottigliato. Ne nasce un vino piuttosto corpulento, che necessita di abbinamenti importanti a tavola.
Eppure, a sorprendere ancor più del Reboro, sempre in ottica di modernità e capacità (potenziale) di catturare il gusto dei consumatori internazionali del giorno d’oggi, sono le versioni più semplici e beverine del Rebo, che non subiscono alcun appassimento, con vinificazione in acciaio. Vini dal colore mai troppo carico, capaci di mostrare appieno le caratteristiche dei due vitigni originari, Merlot e Teroldego. Varrebbe la pena parlarne di più, anche a livello locale. Perché se il “vino dolce” e il “passito” non sono (più) per tutti, un buon rosso “da piscina” è quello che il consumatore chiede, al giorno d’oggi. Specie se, alle spalle, ha una bella storia da raccontare. Anche attraverso i volti dei vignaioli del Trentino.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
La crescita generalizzata del Metodo classico in Italia non spaventa, anzi: «Avvantaggia». La sfida da vincere, piuttosto, è quella della «desiderabilità». Lo Champagne conquista sempre più il Bel Paese e cresce nel gradimento dei consumatori italiani attraverso una formula che dà per acclarata la qualità, ormai internazionalmente riconosciuta. E punta tutto sulla sfera del «desiderio», da solleticare giocando sull’unicità del prodotto, pilastro fondante dello storytelling. Lascia sul tavolo molto più della fredda matematica la visita a Milano dei vertici del Comité Champagne, che mercoledì 29 marzo hanno presentato in un noto hotel del centro i numeri di un 2022 che vede l’Italia grande protagonista.
In termini di importazioni si tratta di un doppio record storico, sia a volume che a valore, grazie a 10,6 milioni di bottiglie di Champagne spedite nel Bel Paese (+11,5%) e un giro d’affari di 247,9 milioni di euro (valore franco cantina e tasse escluse), in crescita del 19,1%. L’Italia rappresenta oggi il quarto mercato dell’export mondiale dello Champagne a valore, davanti a Germania e Australia. Dati che dimostrano che, da Trento a Ragusa, chi sceglie le bollicine francesi per antonomasia è generalmente «esperto, curioso». E, soprattutto, «orientato alle cuvée di alta gamma».
Presenti a Milano David Chatillon, presidente dell’Union des Maisons de Champagne e co-presidente del Comité Champagne; Maxime Toubart, presidente del Syndicat général des vignerons e co-presidente del Comité Champagne; e Charles Goemaere, direttore generale del Comité Champagne. L’ente che rappresenta Maison e Vigneron della regione non ha dubbi: «I consumatori italiani si confermano grandi conoscitori di Champagne, amano scegliere e sanno muoversi all’interno della profondità di gamma offerta dai marchi».
I millesimati, le cuvée speciali e i rosé nel 2022 hanno rappresentato quasi un terzo delle bottiglie di Champagne giunte in Italia, raggiungendo complessivamente il 31% delle importazioni a valore, con performance per queste categorie superiori a quelle di mercati quali il Regno Unito e la Germania».
IN ITALIA CRESCONO GLI CHAMPAGNE A BASSO DOSAGGIO
Da segnalare per l’Italia la crescita degli Champagne a basso dosaggio, che costituiscono oggi il 5,1% a valore delle importazioni. E confermano, sempre secondo l’analisi del Comité, «l’evoluzione dei gusti degli italiani». I dosaggi inferiori al Brut, infatti, rappresentavano 15 anni fa lo 0,1% del totale delle spedizioni. «I gusti degli italiani – ha dichiarato Charles Goemaere – si distinguono da sempre nel panorama mondiale del consumo di Champagne per la particolare domanda di bottiglie di pregio».
«In questo scenario – ha aggiunto – il settore Horeca ci appare particolarmente dinamico. Dopo la crisi legata alla pandemia, nel 2022, i consumi in bar, hotel e ristoranti fanno presumere una netta ripresa, confermando che il fuori casa rappresenta ormai un’abitudine consolidata per i consumatori italiani di Champagne. I positivi dati delle spedizioni confermano inoltre che l’offerta è riuscita a soddisfare la domanda».
«Il dinamismo a cui stiamo assistendo – ha spiegato David Chatillon – è dovuto essenzialmente allo sviluppo di nuovi mercati e di nuovi momenti di consumo. Lo Champagne resta il vino delle celebrazioni, ma prende sempre più piede un consumo che potremmo definire informale, in cui lo Champagne è sempre più il vino che riesce a rendere straordinario un momento ordinario. È questa la sfida della desiderabilità che dobbiamo continuare a vincere. E da questo punto di vista l’Italia è senza dubbio un osservatorio privilegiato sugli stili di consumo».
I DATI GLOBALI DELLO CHAMPAGNE NEL 2022
A livello globale, nel 2022 le spedizioni totali di Champagne hanno raggiunto i 325,5 milioni di bottiglie, in crescita dell’1,5% rispetto al 2021 e del 9,5% rispetto al 2019. Si tratta del miglior risultato a volume, secondo solo al picco del 2007. L’export rappresenta il 57% delle spedizioni, con 187,5 milioni di bottiglie, in crescita del 4,3%. Il 2022 segna un nuovo record a valore, con un giro d’affari che supera complessivamente per tutti i mercati i 6,3 miliardi di euro.
La classifica a valore dei principali mercati all’export per lo Champagne, vede al primo posto gli Stati Uniti con 946,9 milioni di euro e 33,7 milioni di bottiglie. Seguono il Regno Unito (548,9 milioni di euro e 28 milioni di bottiglie) e il Giappone (432,1 milioni di euro e 16,5 milioni di bottiglie).
L’Italia, al quarto posto, precede la Germania (245,1 milioni di euro e 12,2 milioni di bottiglie), Australia (188,3 milioni di euro e 10,5 milioni di bottiglie), Belgio (179,7 milioni di euro e 10,2 milioni di bottiglie), Svizzera (145,3 milioni di euro e 6,3 milioni di bottiglie) e Spagna (115,4 milioni di euro e 4,9 milioni di bottiglie). Chiude la classifica dei primi 10 mercati a valore il Canada, con un giro d’affari di 97,6 milioni e 3,5 milioni di bottiglie.
«La nostra ambizione – ha precisato Maxime Toubart – non è di cercare di fare di più, ma di fare ancora meglio, a beneficio delle generazioni future. Nei prossimi 10 anni, rafforzeremo notevolmente le nostre risorse con l’obiettivo che lo Champagne sia sempre disponibile, desiderabile e un punto di riferimento per i consumatori».
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Committente della ricerca: Regione Campania. Esecutore: Nomisma Wine Monitor. Risultato: «Un consumatore di vino su due non conosce i vini campani». Ha del clamoroso l’esito dell’indagine utile alla «comprensione delle dinamiche di mercato dei vini della Campania». Il tutto mentre l’assessore regionale all’Agricoltura Nicola Caputo sta portando avanti la proposta di istituzione di una Dop Campania per il vino regionale, al momento “frammentato” in diverse Denominazioni di origine. Queste ultime, secondo l’assessore, avrebbero una «scarsa notorietà fuori dai confini regionali».
Un problema risolvibile con il passaggio «delle piccole denominazioni territoriali attuali» alla «creazione di una Doc regionale che possa attivare sinergie collettive in materia di comunicazione e promozione all’estero». Secondo l’assessore Nicola Caputo, lo studio Nomisma Wine Monitor è «destinato ad essere decisivo per il futuro delle produzioni vitivinicole regionali». L’obiettivo? «Migliorare il posizionamento della nostra produzione enologica attraverso l’introduzione di un brand Campania Dop».
L’indagine viene definita una «prima tappa di un percorso che proseguirà nei prossimi mesi», non senza numerose resistenze a cui sta andando incontro la proposta. Ad opporsi sono numerosi produttori, tra cui i massimi rappresentanti regionali della Federazione italiana vignaioli indipendenti. Ma ad esprimere dubbi sulla proposta di una Dop Campania che fagociti le cosiddette «piccole denominazioni territoriali attuali», sono anche organizzazioni di categoria, come Confagricoltura. Posizioni riportate nel dettaglio da winemag.it, nell’articolo qui di seguito, datato 10 febbraio 2023.
Verso una Doc Campania da 100 milioni di bottiglie? Il dibattito è aperto
Verso una Doc Campania da 100 milioni di bottiglie? Dibattito e posizioni contrastanti: Regione, Sannio, Confagricoltura, Fivi e Slow Food
Leggi l'articolo
LA STRATEGIA PER IL FUTURO DEL VINO DELLA CAMPANIA
Ma l’assessore di Regione Campania Nicola Caputo tira dritto. «I risultati emersi dall’indagine sui consumatori oggi ci consentono già di fornire a produttori e Consorzi una valutazione complessiva del livello di awareness legato alle proprie Dop e Igp – sottolinea l’esponente ex Pd, oggi con Renzi in Italia Viva – ma soprattutto di definire una strategia per costruire una mappa valoriale collegata al brand e alle singole denominazioni territoriali.
Tanto è stato già fatto, grazie alla vitalità degli imprenditori e al dialogo con i Consorzi – come dimostra la costante crescita dell’export in valore – ma restano ancora dati sui quali riflettere: un consumatore di vino italiano su due, non conosce i vini campani; il 54% degli italiani dichiara di non aver consumato vini campani negli ultimi 12 mesi perché non li riconosce, pur avendoli già acquistati e degustati».
Un intervento avvenuto nel corso della presentazione a Vinitaly 2023, in anteprima nazionale, del progetto di ricerca realizzato da Nomisma sul posizionamento dei vini campani a denominazione sul mercato nazionale e internazionale. «Abbiamo il dovere di rendere più riconoscibili i vini campani – ha concluso Nicola Caputo – soprattutto fuori dai confini regionali. Dobbiamo avere più ambizione e individuare nuovi mercati per essere maggiormente competitivi». Per realizzare la survey sui comportamenti di acquisto dei consumatori, Nomisma Wine Monitor ha coinvolto «1500 consumatori di vino rappresentativi della popolazione italiana, di cui 300 consumatori di vino residenti in Campania».
Campania Stories 2022 da record ai Campi Flegrei. Regione verso taglio Doc del vino?
Campania Stories 2022 da record nei Campi Flegrei. E la Regione “taglia” le Doc del vino. Oggi la degustazione per la stampa di settore
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
Angelo Gaja ha espiantato circa 1,14 dei 4,34 ettari di vecchie piante di Nebbiolo del suo vigneto Sorì San Lorenzo. Si tratta della parcella dalla quale nasce l’omonimo Barbaresco, tra i vini simbolo della cantina, nonché icona della regione vinicola piemontese. Un vino ricercato da collezionisti di tutto il mondo, entrato nel mito per il suo legame viscerale con il noto produttore. Forse anche per questo, Gaja è restio a commentare la decisione.
«La mia cantina non ha un sito web, figurarsi se voglio comunicare i dettagli sui lavori in corso al vigneto», sono le pochissime parole che l’imprenditore classe 1940 concede al telefono prima di riagganciare, salutando con la fretta di chi non vuole rilasciare alcuna dichiarazione. Un invito (indiretto) ad approfondire ancora più da vicino la notizia. Sul posto, di fatto, il (nuovo) colpo d’occhio del vigneto parla da sé.
Gli 1,14 ettari estirpati di Sorì San Lorenzo, nel cru Secondine, si presentano come la tavola spoglia di un ristorante stellato. Una macchia di colore marrone chiaro, con venature biancastre, tra le verdi file delle piante risparmiate dall’estirpo, e il bosco che scivola a valle. Il suolo si trova da giorni sotto l’assedio di pesanti cingolati. Sono almeno due gli operai intenti a livellare il vigneto, molto ripido, in attesa del probabile reimpianto.
Un cumulo di vecchie viti strappate dalla terra fa mostra di sé prima della fine della strada, a pochi passi dal cartello che indica il Cru Secondine. Una seconda catasta si trova sotto un albero, ai piedi del vigneto. È l’immagine perfetta di un pezzo di storia che se ne va. Un po’ per vecchiaia. Un po’, forse, per via una scelta imprenditoriale che sta facendo certamente discutere in tutta la zona. Senza spiegazioni ufficiali, è solo possibile ipotizzare quali siano le ragioni che hanno portato Angelo Gaja a sradicare un terzo del suo iconico vigneto di Nebbiolo.
GAJA E L’ICONICO BARBARESCO SORÌ SAN LORENZO
Siamo sul versante occidentale della denominazione, a pochi passi dalle sponde del fiume Tanaro, che divide Langhe e Roero. Una zona mitigata dalla presenza del corso d’acqua, in cui le piante di Nebbiolo, con età media di 75 anni, maturavano prima rispetto a molte altre zone di Barbaresco. Qualche vicino racconta come Gaja fosse tra i primi a raccogliere le sue uve in zona, raggiungendo ottimali gradi di maturazione senza il rischio di compromettere la qualità, a causa delle piogge. Quello che anni fa poteva essere un vantaggio, potrebbe poi essere diventato un ostacolo a fronte dei cambiamenti climatici.
Ecco perché è possibile ipotizzare che l’estirpo degli 1,14 ettari di Sorì San Lorenzo possano essere dettati, oltre che dall’anzianità delle piante, anche dalla scelta di impiantare un diverso clone di Nebbiolo, a maturazione tardiva: del resto sono 95 quelli ammessi all’interno della Denominazione. Da escludere, in merito al prossimo colpo d’occhio del vigneto, l’ipotesi del cosiddetto “ritocchino”, non più praticabile nelle Langhe divenute patrimonio Unesco.
Questa tecnica, infatti, prevede sì la disposizione dei filari nel verso della massima pendenza (nel caso specifico si raggiunge almeno il 30%) ma causa tuttavia problemi di erosione. Gli stessi che sono già ben visibili nella parte alta della porzione di vigneto espiantata, di proprietà di proprietà di altri vignaioli, dove è presente una scarpata piuttosto ripida.
GLI ALTRI PRODUTTORI DEL CRU SECONDINE
Di fatto, Angelo Gaja non è il solo a possedere vigneti all’interno del cru Secondine. Oltre a lui, capace di dare notorietà alla zona proprio grazie al suo vino Sorì San Lorenzo, ci sono La Spinona, i Produttori di Barbaresco e, da qualche anno, Stefano Sarotto, che alleva il vigneto di proprietà della moglie, Nora Negri (il primo Barbaresco, secondo indiscrezioni, porterà l’annata 2020 in etichetta).
Piccolissime porzioni sono poi di proprietà di altri privati. Non c’è solo Nebbiolo nel Cru Secondine, situato tra i 170 e i 245 metri sul livello del mare. Del 76% attualmente piantato a vigna, solo il 70% è da iscrivere al vitigno principe delle Langhe del Barolo e del Barbaresco. Il 15% è Barbera, l’8 a Langhe rosso 8% (Freisa, per esempio).
La parte restante è a Langhe Bianco, dunque a varietà di uve a bacca bianca (per esempio Chardonnay). I ben informati sanno che è lo stesso Gaja ad aver prodotto nella storia, in alcune annate, il suo Sorì San Lorenzo come Langhe Nebbiolo, al posto di Barbaresco. Il tutto giustificato con l’aggiunta di un 5% di Barbera al Nebbiolo. Una scelta che, almeno potenzialmente, avrebbe consentito un cospicuo surplus di produzione, calcolabile in media attorno al 25% in più.
Il tutto senza cambiare il prezzo, essendo Sorì San Lorenzo un vino icona, entrato nella storia dei grandi vini rossi italiani capaci di conquistare il mondo. E se è vero che “Sorì”, in piemontese, indica la porzione di vigneto più calda, perché ben esposta al sole, il futuro non potrà che essere luminoso. Anche in seguito all’estirpo.
Cronista di nera convertito al nettare di Bacco, nel mondo dell’informazione da oltre 15 anni, tra carta stampata e online, dirigo winemag.it. Collaboro inoltre come corrispondente per una delle testate internazionali più autorevoli del settore, in lingua inglese. Edito con cadenza annuale la “Guida Top 100 Migliori vini italiani” e partecipo come giurato ai più importanti concorsi enologici internazionali. Oltre alle piazze tradizionali, studio con grande curiosità i mercati emergenti, seguendone dinamiche, trend ed evoluzioni. Negli anni ho maturato una particolare esperienza nei vini dei Balcani e dei Paesi dell’Est Europa, tanto da aver curato la selezione vini per un importatore leader in Italia. Nel 2024 mi è stato assegnato un premio nazionale di giornalismo enogastronomico.
We use cookies on our website to give you the most relevant experience by remembering your preferences and repeat visits. By clicking “Accept”, you consent to the use of ALL the cookies.
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.
ACQUISTA LA GUIDA e/o SOSTIENI il nostro progetto editoriale
La redazione provvederà a inviarti il Pdf all’indirizzo email indicato entro 48 ore dalla ricezione del pagamento